Prefazione Attorno alla curatela
Nel tentativo di utilizzare un linguaggio che sia il più inclusivo possibile per identificare la professione ampiamente discussa in questa pubblicazione, si è scelto di utilizzare la formula curator*, ogni volta che viene fatto esplicito riferimento al ruolo professionale in termini generali. Sappiamo essere questa una correzione parziale e imperfetta di un tema linguistico più complesso, ma considerato l’uso ricorrente del termine e la sua importanza cardine nella pubblicazione, si è deciso non utilizzare la formula binaria di maschile/femminile, né quella del maschile sovraesteso. * * *
Questa conversazione, nata come un’intervista con una traccia eminentemente biografica, ha sin da subito compiuto quello che forse si potrebbe definire uno slittamento semantico. Nel porre domande e nel discutere di esperienze notevoli e temi ricorrenti nella carriera di Luca Molinari come critico e curatore, il dialogo è diventato rapidamente uno strumento di confronto su temi cari e condivisi.
Il rapporto professionale di collaborazione che ci lega, ha fatto sì che questa intervista diventasse terreno di indagine, una radiografia su elementi fondanti il nostro lavoro, quello di curator*. Un processo di ricerca condivisa di termini per descrivere e raccontare un ruolo che si snoda attraverso esperienze apparentemente
contraddittorie e si nasconde dietro definizioni spesso sibilline.
Ripercorrendo quindi alcune delle tappe fondamentali nella carriera di Molinari, dalla curatela del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia del 2010, fino al ruolo di direttore del Museo del ’900 – M9 di Mestre, ci siamo intesi nel definire la curatela come appartenente all’ambito del racconto e della narrazione, come un modo di progettare racconti coerenti, utilizzando di volta in volta elementi diversi e attraversando contesti variabili.
Da qui anche il titolo che rievoca, traslitterandolo, I racconti del progetto di Vittorio Gregotti, testo nel quale si interrogava sul processo narrativo intorno al progetto di architettura. Nel dialogo che qui segue, abbiamo provato a ribaltare la prospettiva: oggetto di indagine non è il fatto architettonico, ma il progetto sta nella costruzione di una narrazione, per una mostra, per un libro o per i più diversi supporti.
Immaginando che in un’ottica del tutto soggettiva e personale la curatela appartenga alle discipline del design e alla sfera della progettazione:
“il progetto del racconto” è apparso come il titolo naturale di questa conversazione.
Il punto di partenza è stato quindi lessicale, che cosa inquadra oggi la parola curator*? di cosa
si occupa la curatela? c’è stata un’evoluzione disciplinare che nel corso del tempo ha cambiato il senso profondo di questo termine?
La sensazione è che intorno a questa parola e ancora di più intorno a questa professione, siano associate una complessa e nebulosa matassa di attività interconnesse, che gravitano però intorno ad una specifica persona, non sembra immediato rintracciare nel termine una corrispondenza univoca e inequivocabile per tutti o una formazione necessaria alla pratica professionale.
Appare difficile ingabbiare il termine in una vera e propria “job description”, ma allora quello su cui ci interroghiamo è: curator* è ancora una definizione utile nel dibattito attuale? Come sono cambiate le mostre e i musei nella loro capacità narrativa e aggregatrice?
La complessità di definire oggi cosa rappresenta il cuore pulsante del lavoro di curatela, si accompagna nel corso del dialogo alla ricerca di un vocabolario comune, mentre tradizionalmente associamo il ruolo di curator* all’ambito della conservazione museale, negli ultimi decenni si è imposto un confine più libero e ampio che abbraccia la definizione.
Lo slittamento di senso sembra essere avvenuto in particolare su un piano, il passaggio da un
mestiere in larga parte legato a tecnicismi e prassi consolidate all’interno delle istituzioni culturali, verso una professione in cui l’apporto intellettuale e creativo, in particolare nello sviluppo di una narrazione, diventano fondanti per la costruzione di un progetto espositivo.
Da attento catalogatore e conservatore di opere all’interno dei musei, chi si occupa di curatela sembra essere diventato un aggregatore di idee e persone, motore propulsivo prima ancora che studioso attento e parsimonioso, varcando così la soglia e i confini disciplinari tradizionali, per affermarsi come figura indipendente e trasversale.
L’esponenziale crescita di riconoscibilità del ruolo si è accompagnata alla libera definizione di un modo estremamente individuale di interpretare sia la professione che la sua definizione lessicale.
In un’intervista del 2020 per il New York Times il curatore Hans Ulrich Olbrist dichiara:
«The ’cur’ in curating can obviously be freely associated to curiosity. I believe curiosity is why I am a curator. It is a desire to want to know and to connect what we know ».
«Il “cur” in curare può essere ovviamente liberamente associato alla curiosità. Io credo che
la curiosità sia il motivo per cui sono un curatore. Rappresenta il desiderio di conoscenza e di connettere quello che sappiamo».
Catherine Ince Chief Curator del V&A East, nella pubblicazione The New Curator di Fleur Watson, racconta della sua personale esperienza nell’articolazione del ruolo di curatrice per l’istituzione londinese e del tentativo di mettere in discussione l’idea sottesa alla sua definizione tradizionale:
«I used to say “Exhibition Maker” because at the time the exhibition was the primary form of my work, and in the museum world the curator is defined as the custodian of a collection or a specific subject specialist and I wanted to resist that constraint in favor of a more expansive idea of curating».
«Ero solita dire “Exhibition Maker ” perché allora la mostra era il principale esito del mio lavoro, e nel mondo museale curator* è definito come il custode della collezione o uno specialista di un tema specifico e volevo resistere a questo limite in favore di un’idea più allargata di curatela».
Nel corso del dialogo che segue, Molinari si riconosce nella definizione di curatore,
sottolineando che al suo interno sono già contenute le informazioni necessarie a descriverne il compito principale, quindi attingendo direttamente alla radice etimologica della definizione, dal latino cūrare: «Fare il/la curator* è una presa in cura, oltre che un’attenzione particolare, che porta a una strategia progettuale definita dall’obiettivo di strutturare la chiara narrazione della mostra. Quindi per me curator* è ancora un termine adatto per come interpreto oggi questa figura professionale».
L’indagine delle modalità narrative e espressive, attraverso cui trasmettere contenuti e competenze specifiche, scorre diagonalmente lungo tutto il dialogo. In conclusione abbiamo traguardato verso un altro canale, dalle mostre siamo passati alle pubblicazioni. I libri sono trattati come terreno di libertà espressiva massima da Molinari, un luogo in cui lavorare di cesello sulla costruzione di un racconto non mediato, una modalità svincolata di rivolgersi direttamente all’interlocutore. L’obiettivo ultimo sotteso alla produzione di tutti questi racconti e narrazioni è sempre la necessità di offrire strumenti utili per l’interpretazione dei temi urgenti della contemporaneità, comunicare strutture di pensiero, metodi di ragionamento oltre che innescare associazioni inattese di pensiero.
In questa conversazione confrontarsi sulle modalità narrative è diventato un pretesto per indagare uno dei tanti modi che abbiamo per decifrare il mondo che ci sta attorno, scomporlo in temi e guardare con curiosità al flusso libero di conoscenze che viaggiano nella società dell’informazione, nel tentativo di capire come riordinare, metabolizzare e afferrare almeno una parte di questa complessità, attraverso gli strumenti propri della curatela.
Federica Rasenti intervista
Luca Molinari
LA CURATELA COME PROGETTO ___
Federica: Partiamo dal vocabolario delle definizioni, spesso nei profili biografici sei descritto come architetto, critico, professore, altre volte come direttore scientifico, in riferimento a M9 – Museo del ’900 di Mestre. In sostanza quando ti presenti tendi ad essere più “istituzionale”, rare volte ho sentito che ti auto-definissi con il titolo di curatore, cosa racchiude per te questo termine e di conseguenza mi chiedo se ti identifichi o meno nel ruolo?
Luca: Hai ragione, pensandoci credo sia una sorta di riflesso rispetto a quello che mi arriva dall’esterno, nel senso che ogni volta che ricevo le note biografiche su di me, partono sempre con lo stesso incipit: architetto, critico, professore, direttore, in realtà sono io spesso ad aggiungere, quando posso, il termine curatore all’elenco.
Personalmente mi identifico in questo ruolo, mi considero un curatore che ha studiato architettura, che non è per me un dettaglio irrilevante.
Quindi tu non pensi sia una definizione generica, un termine troppo vago per identificare e circoscrivere un ruolo specifico?
In parte si, la definizione di curatore, per me nello specifico esclude un’informazione fondamentale legata al mio background, lo studio e il lavoro con l’architettura. Questo pregresso è decisivo per identificarmi, perché appartengo al mondo della cultura del progetto ed è quello da cui provengo. La dimostrazione di quanto sia per me importante il ruolo dell’architettura trova riscontro nel metodo con il quale lavoro come curatore, per una qualsiasi mostra lo spazio e il luogo sono i fondamentali punti di partenza, necessari al fine di sviluppare il mio ragionamento sulla curatela dei contenuti. Mi è difficile separare l’analisi dello spazio dal processo curatoriale, per me non è immediato pensare in astratto. La mia formazione da architetto è importante per definire un approccio personale e individuale al progetto della mostra, che cerco di mettere in naturale cortocircuito con la riflessione specifica sulle motivazioni e i contenuti propri che definiscono l’identità di ogni esposizione. Io parlo spesso di “progetto”, che si tratti di uno mostra o un libro, la struttura di lavoro è quella che desumo dalla disciplina della progettazione. Tutto parte da un progetto, questo è fondamentale per me.
Te lo chiedo perché ultimamente mi pare essere un termine molto inflazionato e forse ci troviamo
in una fase di ridefinizione della parola stessa. Visto che la definizione “curato da” è applicata indifferentemente ad una pagina sui social media, ad una playlist su Spotify, al menù di un ristorante, ai contenuti di un sito web, chi si occupa di mostre, in qualità di curator*, si sta orientando verso altre auto-definizioni: exhibition maker, cultural manager, sono solo due degli innumerevoli esempi di un tentativo che va nella direzione di precisare ulteriormente il proprio ambito d’azione professionale, per circoscriverlo all’interno della sfera dei lavori più espressamente legati agli ambiti culturali.
Dal mio punto di vista è un termine che si è progressivamente sfuocato, ma credo che sia determinato più dal fatto che tutte queste definizioni di cui tu parli siano nate come conseguenza naturale dell’estrema specializzazione del ruolo di curator* e questo ha a sua volta generato altre specificità professionali, a supporto del suo ruolo cardine.
Ad oggi, il mondo delle mostre necessita di figure definibili attraverso l’identificazione di nuove professioni con ruoli molto chiari e precisi, che corrispondono ad altrettante funzioni diventante indispensabili. Per cui è vero che curator* è un
termine generico, però continuo a pensare che il verbo curare sia il termine giusto, perché, anche letteralmente dichiara in sé l’esercizio di una specifica attenzione, che si estende non solo al contenuto e alla sua lettura originale, ma anche allo spazio coinvolto, oltre che verso i visitatori della mostra stessa.
Occuparsi di curatela è una presa in cura, oltre che un’attenzione particolare che porta a una strategia progettuale definita dall’obiettivo dare forma ad una chiara narrazione della mostra. Quindi per me curator* è ancora un termine adatto per come nello specifico interpreto oggi questa figura professionale.
Io vedo chi si occupa di curatela come un paesaggista per certi versi, che possiede una dimensione “orizzontale”, nel senso che deve avere, attraverso alcune intuizioni di sistema, una visione larga e complessiva del processo. Processo in cui poi s’inseriscono a catena altre professionalità, precisamente verticali, dal comitato scientifico ai vari specialisti della materia trattata, alle persone delegate alle varie funzioni organizzative e di produzione, che si confrontano e dialogano a diversi livelli con il/la curator* e si rispecchiano in lui/lei.
In fondo, il grande sforzo richiesto da questo tipo di lavoro è quello di mantenere questa orizzontalità,
lasciando il quadro abbastanza aperto, perché tutti non solo si ritrovino, ma abbiano spazio a sufficienza per apportare un contributo attivo e decisivo, questo per me è fondamentale.
La mostra è un eco-sistema complesso e stratificato, che nella sua fase di concepimento e sviluppo deve mantenere un grado di accoglienza che consenta alle intelligenze coinvolte di fare crescere la visione di partenza, in modo da farla propria perché possa maturare e prendere una forma accessibile a tutti. Oggi più che mai le mostre devono essere dei paesaggi generosi, perché un pubblico sempre più vario e fluido possa percorrerle, trovando risposte e suggestioni utili ad affrontare un tempo così difficile. La relazione tra l’impianto della mostra e la rete di persone, coinvolte a diverso grado per renderla possibile, sta vivendo una metamorfosi importante in questo periodo. Il concetto di “collettivo” sta mettendo in discussione la figura di curator* nominale, puntando alla costruzione di un palinsesto trasversale e polifonico, come è avvenuto recentemente per l’ultima edizione di Documenta. Comunque sia, la costruzione di percorsi narrativi, politici, sensoriali ed estetici potenti, oltre che originali, deve essere alla base del curare una mostra oggi.
Un articolo del New York Times si chiedeva provocatoriamente nel 2020:
«Everyone’s a Curator Now. When everything is “curated,” what does the word even mean?».
Questo dialogo, a partire dal termine “curare”, attraverso tutte le sue possibili declinazioni contemporanee, prova ad indagare alcune tappe di un percorso di evoluzione del modo di presentare la cultura del progetto e non solo. La pratica di ricercare, comunicare, sperimentare collegamenti concettuali tra elementi di un racconto, si inquadra come una forma di pratica progettuale. Dalle mostre come strumento di indagine sul design e l’architettura, all’evoluzione di un ruolo, quello dell’exhibition maker, fino ai nuovi linguaggi, strumenti e metodi a servizio della narrazione.
ISBN 978-88-6242-776-0