Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale (DICEA), Sapienza Università di Roma IAUS - Quaderni del Dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica. Sapienza Università di Roma
Consiglio scientifico
Maria Argenti (responsabile)
Giovanni Attili Carlo Cellamare Edoardo Currà
Fabio Cutroni
Roberto De Angelis Lidia Decandia Anna Maria Giovenale
ISBN 978-88-6242-780-7
Prima edizione Novembre 2022
© LetteraVentidue Edizioni
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Giulia Li Destri Nicosia
Un viaggio intorno al possibile
Giovanni Attili, Lidia Decandia
In questi ultimi anni il caso di Riace è salito alla ribalta per aver fatto del modello di accoglienza ai migranti, un grimaldello per invertire i fenomeni di spopolamento e avviare una strategia di sviluppo locale, in un’area marginale del Sud italiano, attraverso la costruzione di pratiche di solidarietà e di inclusione dello straniero. Pratiche che, nel coinvolgere la comunità locale, hanno contribuito, proprio grazie alla messa in valore di una tradizione civica, culturale e sociale propria di quel contesto, storicamente propensa all’ospitalità e all’accoglienza, a generare non solo un processo trasformativo, ma a innescare una narrazione che ha modificato profondamente il prevalente e radicato approccio securitario agito nei confronti della migrazione. Una narrazione che ha consentito anche di «ribaltare il punto di vista sul destino delle aree marginali italiane».
Riace, infatti, si è trasformata progressivamente in un luogo di possibilità. Un progetto politico capace di trasformare la pratica di accoglienza istituzionale in un processo profondamente innovativo di sviluppo locale. E a questo caso specifico, diventato una sorta di vero e proprio modello che è dedicato questo libro coraggioso e intenso. Il libro è frutto di una ricerca di Dottorato, che si è avvalsa di una vera e propria immersione nel campo fatta di pratiche etnografiche, osservazioni e interviste approfondite che hanno coinvolto gli abitanti del paese calabrese in un anno assai particolare di questa esperienza: il 2017, quando come ci racconta la stessa autrice erano in atto alcuni cambiamenti che avrebbero innescato profonde trasformazioni nella storia di questa esperienza e accentuato una crisi che forse aveva radici più lontane.
Questa crisi è stata oggetto di un acceso dibattito nazionale, incendiato da posizioni radicalmente opposte e da una polarizzazione del discorso pubblico che ha finito con il ridurre il tema delicato e complesso delle migrazioni all’interno di una prospettiva binaria di stampo moralistico: ospitalità vs respingimenti, solidarietà vs invasione.
Senza appiattirsi all’interno di una semplice logica di accusa o difesa del caso Riace, l’autrice, come sa fare una vera ricercatrice, va più a fondo e cerca di costruire un’analisi capace di aggredire le ragioni culturali, sociali, ed economiche di tale crisi. In questa cornice, Li Destri Nicosia utilizza Riace come una sorta di laboratorio di apprendimento per interrogarsi su alcune questioni più generali, che le consentano di traguardare le «politiche migratorie italiane come ad una cartina tornasole utile per indagare alcuni aspetti inerenti ai processi di territorializzazione delle politiche pubbliche e, in particolare, al modo in cui queste hanno cercato di implementare negli ultimi venti anni un tipo di approccio che fosse più attento ai singoli contesti, entrando in dialogo con le specificità territoriali».
Un viaggio intorno al possibile
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L’approccio place-based alle politiche d’accoglienza
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Il modello Riace come strategia di sviluppo locale
La storia del modello Riace è caratterizzata da eventi che, per molti aspetti, hanno assunto un valore paradigmatico nell’alveo del discorso pubblico italiano. A partire dalla sua nascita e fino ad arrivare agli avvenimenti che ne hanno quasi decretato la scomparsa, il modello di accoglienza portato in auge dal piccolo paese della Calabria ionica si è reso protagonista – per certi versi anche suo malgrado – di alcune vicende caratterizzanti una parte della storia più recente del nostro paese. Passando dalle prime pratiche spontanee di accoglienza dal basso all’affermarsi di un sistema esclusivamente securitario nella gestione dei flussi migratori e dei confini nazionali, l’esperienza di Riace è stata interpretata seguendo tre principali chiavi di lettura, che si sono alternate (ma in alcuni casi anche sovrapposte) seguendo le vicende che, negli ultimi 20 anni, hanno interessato tanto l’Italia quanto l’Europa. In prima battuta, quella del modello Riace è stata raccontata come la storia di un paese che per la prima volta, sorprendentemente, si è scoperto come luogo d’immigrazione. Dopo un processo costante e apparentemente inevitabile di spopolamento e impoverimento della durata di oltre un secolo, Riace è diventato un luogo d’accoglienza e ripopolamento non solo in grado di ribaltare il punto di vista sul destino delle aree marginali italiane, ma di farlo attraverso azioni e pratiche che insistevano su un profondo senso di solidarietà nei confronti dello straniero e su una narrazione decisa a gettare nuova luce su una regione, la Calabria, fin troppo spesso nota per vicende che lasciavano emergere l’esistenza di legami sociali devianti e criminogeni, da un lato, e di un’azione pubblica assente o parassitaria, dall’altro. In contesti, come quello italiano ed europeo, che di anno in anno consideravano il fenomeno migratorio sempre più come un problema legato all’immaginario dell’invasione, il modello Riace è stato accolto come la storia di un’alternativa praticabile, l’altro polo di una tensione dialettica che vedeva nello straniero una risorsa piuttosto che una minaccia. Anche per questa ragione, e in seconda battuta, quella di Riace non è stata solo intesa come una storia di solidarietà isolata e autoriferita, ma anche come un tentativo di riscatto di più ampio respiro. Nello specifico, il riscatto del meridione d’Italia (e, allargando ancora di più lo sguardo, dell’intero sud del mondo), che appellandosi alle sue tradizioni e alle sue caratteristiche civiche, culturali e sociali riusciva ad indicare strategie evolutive inedite in grado di affrancarsi da traiettorie di sviluppo di stampo modernista e ancora dipendenti dall’imperativo della crescita, indicando piuttosto prospettive di rinascita più attente al rispetto e alla cura dei luoghi e delle persone (Cassano, 1998). Secondo questa chiave di lettura, fortemente ispirata alle
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narrazioni dell’affrancamento dei subalterni da sistemi sociali ed economici egemonici ed estrattivi, il modello Riace ha rappresentato uno dei più eclatanti presidi territoriali in grado di mostrare con la sua stessa esistenza che un altro mondo era davvero possibile, riecheggiando le parole d’ordine di quei fermenti di cambiamento che dal 2001 caratterizzarono l’esperienza del Social Forum. Quei diversi pezzi di mondo, che attraverso i volti e le storie di rifugiati e richiedenti asilo raggiungevano il paese calabrese, altro non erano che una risposta mondialista alla globalizzazione imperante: non più liberi flussi di merci, ma libero movimento di persone. Infine, quella del modello Riace è stata anche considerata come una storia di disobbedienza civile. Negli ultimi anni della sua esistenza, contraddistinti da un netto irrigidimento delle politiche migratorie nazionali ormai implementate in esclusiva chiave securitaria, gli eventi che hanno caratterizzato la vicenda del progetto d’accoglienza riacese hanno contribuito a mettere in luce la sempiterna dicotomia tra legge e giustizia, mostrando in una doppia veste le rigidità in cui spesso il potere statale viene accusato di trincerarsi. Da una parte, su un piano sincronico, la disobbedienza civile attribuita all’esperienza di Riace è stata interpretata come la diretta conseguenza di politiche migratorie inadeguate e inique che, anche grazie alle pratiche di resistenza del paese calabrese, si mostravano in tutta la loro contraddittorietà: politiche che, con l’intenzione di scongiurare il pericolo di una deriva criminogena del fenomeno migratorio, mettevano in atto interventi che, secondo una parte dell’opinione pubblica, rendevano quel pericolo più plausibile e concreto attraverso pratiche di ghettizzazione ed esclusione. Dall’altra parte, su un piano diacronico, le azioni di disobbedienza civile messe in atto a Riace sono state interpretate come la diretta replica ad una politica nazionale (e non solo quella dell’accoglienza) che – sin dai tempi della sua fondazione, secondo alcune chiavi di lettura (Agnew, 1990) – non è mai stata in grado di mostrare un’adeguata sensibilità ai luoghi e ai contesti, alle specificità territoriali e alla loro esigenza di essere ascoltate e rispettate. Fin qui, in estrema sintesi, i diversi aspetti attraverso cui il modello Riace ha mostrato nel corso degli anni i suoi tratti paradigmatici alla luce di tre chiavi di lettura che, per quanto diverse tra loro, hanno fatto del tema dell’accoglienza uno dei loro principali sfondi interpretativi. Rispetto a ciò, l’obiettivo di questo libro è quello di presentare una quarta chiave di lettura che, attraverso il caso di Riace, possa guardare alle politiche migratorie italiane come ad una cartina tornasole utile per indagare alcuni aspetti inerenti ai processi di territorializzazione delle politiche pubbliche e, in particolare, al modo in cui queste hanno cercato di implementare negli ultimi
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venti anni un tipo di approccio che fosse più attento ai singoli contesti, entrando in dialogo con le specificità territoriali.
Per raggiungere questo obiettivo, il libro intende provare a dare una risposta ad una precisa domanda: com’è possibile che un’efficace esperienza d’accoglienza diffusa, partita dal basso e caratterizzata da una forte propensione della comunità e dell’amministrazione locale nei confronti di pratiche di solidarietà e integrazione, abbia mostrato delle criticità tali da provocare la chiusura dei progetti di accoglienza e la conseguente fine (almeno sino ad oggi) del modello Riace?
Nell’affrontare questa domanda, farò riferimento ad un lavoro di ricerca svolto tra il 2016 e il 2018, in occasione del quale mi trasferii a Riace per un anno conducendo uno studio che aveva fra i suoi obiettivi comprendere quale tipo di impatto le trasformazioni indotte dall’attività di accoglienza avessero avuto sulle condizioni di vita degli abitanti del paese, autoctoni e non. Nel corso di quel periodo, per la raccolta dei dati mi avvalsi di osservazioni, interviste e conversazioni con gli abitanti di Riace, svolte in centri di accoglienza, scuole, spazi pubblici, luoghi di incontro e spazi privati. Questa lunga attività di “immersione locale” ha permesso di mettere insieme alcuni elementi utili a comporre una risposta alla domanda che questo libro intende affrontare, e di farlo partendo da un assunto molto preciso: quello secondo cui l’esperienza di Riace possa essere considerata, innanzitutto, come il tentativo di mettere in atto una pura e semplice strategia di sviluppo locale in un’area marginale del sud Italia. Tenendo fede a questo assunto, la sfida sarà quella di non assolutizzare la contingenza degli avvenimenti che hanno travolto il modello Riace a partire dal 2017, anno durante il quale non solo il modello entra in crisi, ma si assiste a cambiamenti piuttosto sostanziali nelle politiche nazionali sull’accoglienza. Questo significa che, piuttosto che valutare il volto (più o meno) umano delle politiche italiane di gestione del fenomeno migratorio, il libro intende mettere in luce gli effetti che l’implementazione di tali politiche ha avuto sul territorio del piccolo Comune calabrese, e quali siano stati gli esiti di un approccio che si voleva attento alle specificità spaziali dei singoli contesti territoriali. Se, come credo, l’idea che il modello Riace possa essere studiato come una strategia di sviluppo locale ha una sua legittimità, reputo innanzitutto utile ripercorrere le tappe che hanno condotto alla nascita del più ampio contesto nel quale si inserisce l’esperienza riacese e, nello specifico, quelle della vicenda politico-istituzionale che ha portato alla realizzazione del Programma nazionale asilo (PNA) e, successivamente, alla creazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). In questo modo, l’obiettivo sarà quello di fare emergere il qua-
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A seguito dello sbarco dei curdi sulle coste riacesi nell’estate del ’98, l’eredità e l’idea di Badolato vennero raccolte dall’associazione Città Futura di Riace, nata con l’obiettivo di promuovere e realizzare azioni di valorizzazione della cultura locale riacese. Così come era avvenuto nel caso di Badolato, anche a Riace l’intervento della comunità locale fu essenziale per mettere in atto azioni di primo soccorso e dare cibo e riparo alle persone in difficoltà, che nei primi mesi della loro permanenza riacese vennero ospitate nella Casa del Pellegrino, edificio di proprietà della Curia di Locri pensato per accogliere i fedeli che annualmente, nel mese di settembre, tuttora raggiungono in pellegrinaggio il paese per la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano.
Nel 1999, Domenico Lucano, tra i membri fondatori dell’associazione Città Futura, divenne Consigliere comunale e propose con successo all’amministrazione locale di partecipare al primo bando del PNA (Piano nazionale asilo) per un progetto di accoglienza che avrebbe visto il Comune nelle vesti di ente attuatore e l’associazione Città Futura nel ruolo di ente gestore. Con quell’atto, si assiste alla nascita ufficiale del modello Riace. La rete di associazioni nazionali che, sin dai suoi primi passi, ruotò intorno
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La collocazione di Riace nell’area del Mediterraneo
all’esperienza di accoglienza di Riace rappresentò una risorsa inestimabile per il modello. Tra le molte, si possono ricordare Libera, l’associazione Villaggio Leumann, Re.Co.Sol, l’ARCI, Xiphia, Lunaria e Les Enfants Terribles, le cui attività di supporto riguardarono soprattutto la progettazione di azioni di inserimento sociale per rifugiati e richiedenti asilo, di animazione territoriale e coinvolgimento della comunità locale, nonché di promozione turistica e culturale, soprattutto grazie all’organizzazione di scambi con altre realtà europee. Grazie al supporto del CRIC, l’associazione Città Futura riuscì ad ottenere un prestito bancario con il quale diede avvio ai lavori di ristrutturazione di alcune delle case abbandonante di Riace Superiore. In alcuni casi, per individuare i proprietari delle vecchie case l’associazione fece ricorso al passaparola, risalendo non senza difficoltà ai figli – se non addirittura ai nipoti – di quei riacesi che ormai da tempo avevano lasciato il paese. Questo primo nucleo di case venne concesso gratuitamente all’associazione, mettendo in moto un meccanismo virtuoso grazie al quale 1) i proprietari vedevano le loro abitazioni ristrutturate (oltre che rimesse in uso), 2) quelle stesse case diventavano anche il mezzo per forme di economia inedite, quali l’accoglienza di qualche decina di richiedenti asilo e rifugiati, e abitazioni per uso turistico. Il centro storico di Riace (Riace Superiore), che nel corso del tempo era stato quasi del tutto abbandonato, si trasformò così in un “villaggio globale”, in cui turismo e accoglienza si in-
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Il centro storico di Riace, Riace Superiore, e la marina, Riace Marina
La costruzione di questa “nuova” identità territoriale si intrecciò saldamente alle caratteristiche che nel corso degli anni assunsero i progetti locali di accoglienza. Infatti, oltre ad usare questa pratica come cornice di senso per immaginare interventi fisici e di riqualificazione del centro abitato, ambito in cui la Regione Calabria svolse un ruolo di rilievo riconoscendo le inedite potenzialità del modello Riace, gli elementi peculiari del progetto di accoglienza riacese riguardarono soprattutto la logica con cui si affrontarono le attività di integrazione e inserimento sociale dei migranti. Come già sottolineato, la stessa rete SPRAR nasceva con l’obiettivo di radicare l’accoglienza nei territori promuovendo azioni di reciprocità e mutuo supporto tra le comunità locali e gli stranieri in accoglienza. Nella sua manifestazione più evidente e immediata, questa dinamica poteva esprimersi attraverso la differenziazione dei servizi ai migranti a seconda dei luoghi e dei contesti in cui si realizzavano i progetti di accoglienza. Tali servizi, infatti, dipendevano dall’expertise e dalle specificità espresse dalle cosiddette risorse territoriali, e in particolar modo dalle associazioni locali, secondo le logiche tipiche dell’approccio place-based. In questa cornice, la reciprocità e la mutualità potevano a loro volta manifestarsi facendo leva sull’expertise e sulle specificità espresse dai singoli migranti, le cui risorse personali sarebbero state messe nella condizione di entrare fruttuosamente in dialogo con il contesto locale nel quale erano inseriti, con la possibilità di arricchirlo e di rappresentare per esso delle nuove risorse. A Riace, però, questa di-
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A destra: il cartello di benvenuto a Riace, foto di Daniela Maggiulli. A sinistra: Rappresentazione del veliero con cui sbarcarono i curdi presso le coste di Riace Marina. Foto di Daniela Maggiulli
A sinistra: la bottega della ceramica. A destra: donne per le strade di Riace Superiore: In basso: la realizzazione dei murales del centro polifunzionale di Riace Superiore. Foto di Daniela Maggiulli
namica assunse sin da subito una dimensione più socialmente connotata. L’obiettivo che si diede l’amministrazione locale, infatti, fu quello di fare in modo che attraverso l’integrazione dei migranti si potessero porre le basi per realizzare un processo d’integrazione che coinvolgesse anche la stessa comunità locale riacese, la quale aveva vissuto e viveva in un contesto territoriale fortemente deprivato. Questo significò che tutti i servizi che ricadevano nell’alveo delle attività di accoglienza prese in carico dal progetto SPRAR di Riace dovessero avere un’immediata ricaduta ed un immediato beneficio anche per i suoi abitanti autoctoni. È proprio per questa ragione che quella di Riace può essere considerata a tutti gli effetti come una strategia di sviluppo locale tramite accoglienza istituzionale. L’esempio più eclatante in questa direzione si materializzò nella creazione
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Nota metodologica
Come sottolineato nel primo capitolo, questo lavoro si basa su una ricerca sul campo che si è svolta nel corso del 2017 inerente all’esperienza di accoglienza riacese. Durante quell’anno, mi trasferii a Riace per immergermi nella sua realtà locale e per svolgere l’attività di raccolta dati sul modello di accoglienza. L’indagine si avvalse principalmente di interviste, osservazioni e conversazioni che coinvolsero gli abitanti del paese calabrese, autoctoni e non. Il 2017 non fu solo l’anno della mia ricerca di campo, ma anche il periodo in cui il modello Riace visse dei cambiamenti che trasformarono definitivamente il corso della sua storia, e che condussero l’amministrazione locale di Riace ad entrare in aperto conflitto tanto con il Servizio centrale dello SPRAR, quando con la Prefettura di Reggio Calabria (ente gestore dei CAS). Pur manifestandosi in modo eclatante durante i mesi di quell’anno, tali cambiamenti avevano delle radici ben più profonde e riguardavano sia il livello locale, sia quello regionale che quello nazionale. Per certi versi, il lungo percorso evolutivo attraverso cui queste mutazioni di contesto si manifestarono alle tre diverse scale creò una sorta di “effetto valanga” che travolse l’esperienza di Riace, un effetto che si rese palese nella sua piena portata e con le sue ricadute negative solo nella seconda metà del 2017, e quindi in un lasso temporale più breve e circoscritto. A mio parere, l’onda lunga e lenta di questi cambiamenti ha in parte influenzato l’individuazione delle correlazioni tra possibili cause e possibili effetti in riferimento alla crisi del modello Riace, contribuendo a rendere più salienti questioni riconducibili alla cronaca e alle circostanze politiche legate all’attualità di allora, piuttosto che elementi di natura più strutturale e di lungo periodo. La mia ipotesi, di contro, è che cronaca e circostanze politiche abbiano esacerbato delle condizioni le cui radici andrebbero tuttavia cercate più in profondità. E proprio nel tentativo di andare in questa direzione, credo possa emergere una lezione utile per chi si interroga (da studioso o da professionista) sul tema della territorializzazione delle politiche pubbliche e sulla possibilità di individuare approcci di policy in grado di rappresentare per le comunità locali una reale occasione di crescita sostenibile, durabile ed efficace a partire da una profonda ed effettiva presa in carico delle risorse locali che i territori sono in grado di esprimere.
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leva principalmente sulle peculiarità del contesto riacese, si accompagnava inoltre un’aspra critica nei confronti delle politiche migratorie nazionali, sempre più appiattite sull’obiettivo securitario e sulla protezione dei confini nazionali.
Questo indusse una parte dell’opinione pubblica nazionale a descrivere lo scontro tra l’amministrazione locale riacese e il Ministero degli Interni come un caso di disobbedienza civile da parte della prima nei confronti delle iniquità del secondo. In altre parole, alcune delle azioni e delle scelte compiute dall’ente comunale, riguardanti in primo luogo le modalità di erogazione dei servizi ai migranti e considerate inaccettabili dal Servizio centrale perché non rispondenti ai criteri ritenuti congrui ai principi dell’universalismo, trovavano la propria ragion d’essere nella necessità di declinare territorialmente un valore come quella della solidarietà che, a detta di chi supportava il modello, non poteva essere ricondotto alla correttezza formale di una rendicontazione. Il nucleo di questa interpretazione si reggeva sul diverso significato che, attraverso le loro azioni, i due attori istituzionali
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Manifestazione in solidarietà del modello Riace. Riace superiore, giugno 2017, fonte Flickr.com, autore Hiruka komunikazio-taldea – CC BY-SA 2.0
Manifestazione in solidarietà del modello Riace. Riace superiore, giugno 2017. Foto di Daniela Maggiuli
dimostravano di dare al concetto di interesse pubblico e, in ultima istanza, di giustizia. Da una parte, la giustizia del governo centrale sembrava risiedere nell’urgenza di definire e far rispettare delle regole uguali per tutti, al fine di garantire il più possibile un’uguale qualità dei servizi sul territorio nazionale; dall’altra, la giustizia dell’amministrazione comunale di Riace consisteva nel pretendere il riconoscimento delle irriducibili differenze e specificità territoriali proprie di ogni contesto locale, specie in quei casi in cui tali differenze e specificità sono vincolate al soddisfacimento di bisogni da cui dipende la stessa possibilità di vivere in quei luoghi.
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