Tagliare cucire accogliere
contemplare di Davide
Miccione
Quell’animale poco stabilizzato che chiamiamo uomo non è mai riuscito a farne a meno. Lavora per divisioni: divide e si divide. Con una vertiginosa frattalità divide il mondo (umano/divino, materia/cogito, eccetera), divide alcuni uomini dagli altri e noi da voi e voi da loro (razze, etnie, nazioni, eccetera). Poi dividiamo noi tutti (donna/uomo, buoni/cattivi, eterosessuali/omosessuali) e divide sé da se stesso (corpo, mente, anima, spirito, conscio e inconscio). Nel mezzo, intorno, sotto, sopra, all’inizio e alla fine, centinaia di altre divisioni ci accompagnano, ci supportano, ci calmano e ci aizzano. Ogni traccia del suo passaggio sulla terra (che sia la paleontologia o l’antropologia a raccontarcelo) è essenzialmente l’orma di una divisione, di una separazione. Quella tra Uomo e animale, forse la prima e, diversamente da come siamo abituati a pensare, per nulla ovvia (della sua improbabilità Alberto Biuso dà una acuta lettura nel saggio Animalia), quella tra appartenenti alla medesima sottospecie dei Sapiens, e poi via via quelle tra domestico e selvatico, tra nomade e stanziale, tra civilizzato e barbaro. Una separazione talmente profonda che spesso giace nascosta nella lingua stessa e che chi provi ad andare alle radici delle parole, come in più luoghi si fa in questo volume, scopre. Dal “sacro” alla “tradizione” l’etimo svela una fitta rete di separazioni, ribaltamenti, ambiguità.
Senza dividere, evidentemente, il mondo ci appare troppo vago, opprimente, difficile da manovrare e utilizzare. Senza dividere diventa difficile avere una identità propria, unirsi con qualcuno se non vi è qualcuno che resta fuori. E poi le divisioni spiegano mirabilmente il mondo, elegantemente (si pensi a Platone, alla società
Tagliare cucire accogliere contemplare
┃ 7
passato[presente]futuro
< Duomo di Siracusa, 480 a.C. –prima metà del XVIII secolo.
Il rapporto con il passato in architettura segna il dibattito culturale e anche la pratica professionale ogni qual volta ci si deve confrontare con esso, il che vuol dire sempre. Il passato, sotto veste di patrimonio, di tradizione, di materiali, di risorse, di frammento, di rudere, di organismo, di singola opera, di città, di territorio o di paesaggio puntualmente si pone dinnanzi alle scelte che si fanno nel presente per il futuro. Approcci e decisioni sono conseguenze di questo rapporto perfino, se non di più, quando il sentimento di negazione o di rifiuto del passato prevale a tutto vantaggio dell’impulso all’innovazione. L’azione in tutti i casi è trasgressiva o ancor più, come sostiene Fernandez-Galiano, violenta perché «l’architettura è una storia di violenza. Costruisce contro il passato per proiettarsi verso il futuro, e tra queste due pulsioni il presente precipita su un panorama di macerie»1. L’azione “violenta” del costruire infatti si svolge nel presente sul contesto naturale, sulle città ovvero su tutto ciò che il passato ci ha consegnato e che come palinsesto si offre alla scrittura del futuro. Le relazioni che reggono passato e futuro sono, secondo questa chiave di lettura, se non violente perlomeno trasgressive e si tessono sempre nel presente. In architettura, le azioni che tessono la trama di relazioni tra passato e futuro trasgrediscono quella istituzione sociale che è il tempo, sia esso ciclico o lineare, materializzandone la complessità
1. Luis Fernandez-Galiano, “Una historia de violencia”, in Arquitectura Viva, n. 110, 2006, p. 3. (TdA).
passato[presente]futuro
┃ 23
> Frank Lloyd Wright, Casa sulla cascata, Pennsylvania, 1935.
Questo sarà però vero anche quando le architetture del futuro saranno automatizzate come quelle sognate da Spuybroek? Architetture senza nessun disegno di progetto ma solo istruzioni per il montaggio tali che potranno essere costruite facilmente da animali o robot44. In questo modo l’architettura come tecnica potrebbe ridursi – trasgredendo definitivamente l’originaria essenza –, a mero dispositivo il cui scopo è di secondaria importanza, se non del tutto annullato: l’opera architettonica in quanto mero dispositivo fine a se stesso diventa ancora una volta autoreferenziale. L’esempio storico della Torre Eiffel dimostra, come già agli albori della tecnica moderna, il valore dell’idea di una torre alta 300 e più metri fosse secondario rispetto alla tecnica realizzativa. Un esempio di altrettanta capacità tecnica sono le piramidi egizie il cui scopo originario, a differenza della torre parigina, non era di dimostrare, con la loro grandiosità, le possibilità tecniche del popolo che le ha costruite, ma quello religioso di trasportare e consegnare all’eternità i faraoni custoditi in esse. C’è anche da dire che tra gli scopi che si possono attribuire all’architettura c’è quello della comunicazione. E l’architettura come mezzo di comunicazione trasmette molteplici messaggi e tra questi anche il messaggio tecnologico. Tuttavia, oggi, che il messaggio tecnologico pervade ogni aspetto della società e di conseguenza dell’architettura, la questione da affrontare è quale sia il limite all’attuale capacità di trasgressione della dimensione tecnica dell’architettura. Noi crediamo che, nell’epoca della presunta illimitatezza della tecnica, questo limite sia dettato dalla sostenibilità che si frappone tra il concesso e l’eccesso.
Pendragon, Bologna, 2011, p. 141.
44. «Il mio sogno è quello di costruire una torre alta 300 metri, una Torre Eiffel costruita da robot, con delle gru che lavorano seguendo dei precisi algoritmi. Immagina una torre che si costruisca da sola, senza disegni, senza operai, ma solo delle parti che vengono assemblate dalle robot-gru, aiutati da robot-saldatori. Le persone guiderebbero i camion per consegnare le parti all’inizio delle operazioni. Poi le macchine aprirebbero le casse e inizierebbero a realizzare l’opera, e alla fine del cantiere, inizierebbero a inviare messaggi alle persone, come dei pop up sugli schermi dei telefonini. Sarebbe qualcosa come un immenso cervello, una sorta di torre metallo-organica intelligente!». Lars Spuybroek, op. cit., p. 209.
Architettura e trasgressione
48 ┃
dentro[limes]fuori
< Le Corbusier, Villa Savoye, Poissy, 1931.
La trasgressione che, tra tutte quelle che qui sono esposte, meglio rappresenta l’architettura come l’arte di definire lo spazio è data dal superamento di quel limite che separa e definisce un interno da un esterno. Un limite per sua natura dicotomico1 che sta all’origine dell’architettura proprio perché circoscrive la porzione di spazio che chiamiamo architettonico. L’architettura svolge infatti il duplice compito di definire i limiti dello spazio e di mettere le condizioni per il loro attraversamento. L’architettura sembra così avere origine in un primo paradosso: è chiamata a circoscrivere uno spazio con un limite – fatto di chiusure orizzontali e verticali – che invita a oltrepassare. Indipendentemente dalle posizioni teoriche di chi2 vuole che l’architettura sia definita come spazio o di chi3 invece vuole che
1. Rudolf Arnheim afferma che «THE WORDS inside and outside reflect a dichotomy in direct experience. Inside and outside cannot be seen at the same time». Rudolf Arnheim, Wolfang M. Zucker, Joseph Watterson, “Inside and Outside in Architecture: A Symposium”, in The Journal of Aesthetics and Art Criticism, Vol. 25, No. 1, 1996, p. 3. 2. Tra i sostenitori storici di questa posizione si annoverano Bruno Zevi e Sigfried Giedion. Il primo afferma «che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo anche naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi e da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la scena ove la nostra vita si svolge». Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1993, p. 32. Il secondo avverte che «oggi, la preoccupazione sull’aspetto effettivo degli oggetti ha lasciato il posto ad un altro problema, l’esplorazione dello spazio come fenomeno dinamico e la ricerca dei rapporti interni». Sigfried Giedion, L’eterno presente: le origini dell’architettura, Feltrinelli, Milano, 1969, p. 542.
3. È Gottfried Semper a individuare gli elementi basilari a fondamento dell’architettura, quelli che chiama “I 4 elementi dell’architettura”, e tra questi il recinto, il tetto e il terrapieno
┃ 75
dentro[limes]fuori
sia ciò con cui si delimita questo spazio, essa è sempre a servizio dell’abitare dell’uomo. Per abitare è però necessario superare il limite che racchiude lo spazio abitabile che è tale proprio perché deve essere permeabile. L’abitare presuppone il passaggio, il superamento e la trasgressione, nel senso originario dell’andare oltre. L’abitare è rappresentabile come un dinamismo che si fonda sull’architettura e sui limiti che essa dispone e impone. L’architettura stessa, definendo i limiti che è chiamata a superare, è sia il limite che il suo superamento; è il problema e la soluzione. In quest’ultima affermazione si cela un secondo paradosso, anch’esso insito nello spirito ancestrale dell’architettura, che trova soluzione nella definizione del problema. I due paradossi dell’architettura che qui si sono messi in evidenza offrono ulteriori inferenze sulla natura trasgressiva di questa pratica artistica e non solo. Una prima inferenza è che la differenza tra un manufatto architettonico e uno scultoreo sta proprio nella necessaria penetrabilità4 finalizzata all’abitabilità dell’opera d’architettura. L’opera scultorea infatti non è tenuta a essere penetrabile. Questo sebbene ci siano sculture, come quelle di Eduardo Chillida5, che vivono in funzione dello spazio che producono le loro forme. Le sculture di Chillida sono penetrabili e abitabili. Ma, sono ideate mediante un procedimento di creazione dello spazio differente da quello usato dalla maggioranza degli architetti. Lo scultore spagnolo non lavora con superfici liminari – verticali e orizzontali – che racchiudono spazi, ma combina vuoti e pieni pensati sempre nella loro tridimensionalità. Inoltre, uno degli scopi delle sculture di Chillida è di non rendere immediatamente accessibili gli spazi interni delle sue opere agli spettatori situati al loro esterno. L’effetto che vuole offrire è a metà tra lo spirituale e lo spettacolare: vuole sorprendere lo spettatore (effetto spettacolare) con uno spazio nascosto che, proprio per questo svelamento, assume una sacralità di antiche origini (effetto spirituale). In generale, invece, il compito dell’architettura dovrebbe essere di invitare all’ingresso –di superare il limite – fino a rendere accessibili gli spazi interni ancor che separano, delimitano, un interno dall’esterno. Cfr. Gottfried Semper, I 4 elementi dell’architettura, Jaca Book, Milano, 1991.
4. Secondo Jacques Derrida, «la penetrazione è l’oltrepassamento di un limite, vale a dire di un cammino che separa due luoghi opposti». Jacques Derrida, Gas, Bompiani, Milano, 2006, p. 867.
5. Cfr. Eduardo Chillida, Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, Christian Marinotti, Milano, 2010.
Architettura e trasgressione
76 ┃
prima di entrarci. Si usa il condizionale perché certe architetture, alle quali è possibile attribuire qualità perturbanti6, restano inaccessibili, nel senso di inabitabili, anche quando sono penetrabili. Infatti, per usare le argomentazioni di Anthony Vidler, che per primo applica la categoria del perturbante all’architettura, «se si interpretano edifici o spazi reali attraverso questa lente non è perché essi stessi possiedano proprietà perturbanti, quanto perché essi agiscono, da un punto di vista storico culturale, come rappresentazioni dello straniamento»7. Uno spazio è definibile perturbante per come produce un senso di straniamento in chi lo abita. Il sentirsi estraniati implica uno sconvolgimento della percezione della realtà che passa anche dalla percezione dei limiti al di là o anche al di qua dei quali lo straniamento si consuma. Quando questi limiti non sono noti o identificabili, il sentimento di disorientamento sostituisce quello dello straniamento.
La presenza del limite è quindi una condizione necessaria e non solo sufficiente per il collocamento nello spazio architettonico: sto dentro; sto fuori; sto tra dentro e fuori; sto sopra; sto sotto; sto tra sopra e sotto. Le distinzioni sul posizionamento nello spazio però non sono sempre così nette. Questo dipende da cosa sta tra dentro e fuori, da cosa distingue un interno da un esterno. A fare la differenza nel passaggio tra dentro e fuori è, come si è fin qui detto, quel confine che Piero Zanini8 declina nelle differenti accezioni di limite, di barriera, di frontiera, di contorno, di recinto. Lo stesso elemento che Remo Bodei9 interpreta come limitazione, restrizione, misura, demarcazione e che Sergio Crotti10 rappresenta come soglia, tramite, passaggio, solea, sequenza.
Lo stare di mezzo è pertanto una delle condizioni precipue dell’architettura. Continuando a “giocare” con le parole, l’architettura però non sta solo di mezzo. Essa è anche il mezzo, che è un’altra delle sue prerogative. Stare di mezzo a cosa? Ed essere il mezzo per cosa? La risposta a queste domande, retorica per chi definisce l’architettura
6. Si prende a prestito da Vidler «il perturbante come metafora di una condizione moderna fondamentalmente invivibile». Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006, p. VIII.
7. Ivi, p. 13.
8. Cfr. Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Mondadori, Milano, 1997.
9. Cfr. Remo Bodei, Limite, il Mulino, Bologna, 2016.
10. Cfr. Sergio Crotti, Figure architettoniche: soglia, Edizioni Unicopli, Milano, 2000.
dentro[limes]fuori ┃ 77
> Kengo Kuma, Great (Bamboo) Wall, Pechino, 2002.
Analogamente ai tagli corti e ai primi piani montati dal regista russo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn attraverso il “metodo dell’interpolazione”16, i frammenti permettono di creare una destabilizzante attrazione.
Il sistema di scale, passerelle, rampe e spazi di attraversamento del Centro di arte contemporanea di Le Fresnoy a Tourcoing del 1991-97 si avvale di tale dispositivo. La trasposizione della promenade cinematique, qui sospesa tra la nuova copertura in acciaio e la copertura tradizionale dei preesistenti edifici, programma l’accadimento. Genera infinite relazioni tra fruitori, artisti, videomaker, musicisti, registi. Genera piani in movimento, punti di vista plurimi. Induce all’accadimento e all’inaspettato. Spazi piranesiani che accendono l’immaginazione. «Una tale proposta, astratta e concreta, deve prendere al più presto ‘materialità’ poiché l’architettura è prima di tutto la materializzazione del concetto. Bisogna poi far intervenire immediatamente anche la parte dell’evento, la parte dell’aleatorio, la parte dell’illusione: la copertura diviene il comune denominatore concettuale che permette la ‘produzione’ del sogno e dell’invenzione»17.
Contemporaneamente alle teorie di Tschumi, in una intervista del 1985, Rem Koolhaas afferma, riferendosi agli anni Settanta, che l’intenzione dei propri progetti di quegli anni fosse di fare architettura più in termini di programma che di forma18.
Tale proposito avveniva per intercettare la contemporaneità di quel tempo. Società in trasformazione, fondata sulla varietà culturale e sul pluralismo a cui l’architettura aveva il compito di consegnare una risposta. Sebbene, tuttavia, Koolhaas rivendichi l’imprevedibilità del programma, rispetto alle proposte suggerite da Tschumi, seguita a ricercare una specificità architettonica. Quando docente all’AA di Londra chiese ai propri studenti di approfondire le composizioni architettoniche di Kazimir Malevic spogliandole delle loro funzioni, anch’egli inverte di fatto l’epigono del Movimento Moderno per cui la forma segue la funzione. Il programma costituì per Koolhaas l’espediente per la scrittura di sceneggiature, e la scrittura di sceneggiature è la maniera per costruire tettonica. La progettazione della Biblioteca
16. Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, vol. IV, Einaudi, Torino, 1956, p. 247.
17. Bernard Tschumi, Entretien Bartomeu Marì et Bernard Tschumi, in Le Fresnoy, Studio National des Arts Contemporains, Massimo Riposati, Parigi, 1993, p. 64.
18. Cfr. Rem Koolhaas, “OMA” , L’Architecture d’Aujourd’hui, n. 238, 1985.
Architettura e trasgressione
126 ┃
centrale di Seattle del 2004 in collaborazione con lo studio LMN Architects rappresenta, di fatto, tale atteggiamento caratterizzato da specificità ed eventualità del programma. Pensata come l’unione di cinque clusters di programmi differenti la biblioteca si sviluppa in altezza per undici piani. Tra ogni cluster indefiniti spazi di relazione, di consultazione, di informazione, di gioco e di socializzazione. Nella parte superiore spazi in-between (meeting room, book spiral, headquarters) e piattaforme (living room, mixing chamber, reading room). Il principio organizzativo, tra forma e programma, è rappresentativo delle trasformazioni tecnologiche che ha subito la società del XXI secolo fondata sulla comunicazione multimediale e sulla cultura per immagini. Ricerche confluite nei testi Seattle Public Library Research Reader e Megabook raccontano che la biblioteca non costituisce difatti il luogo esclusivo dove consultare un libro e leggerlo. Sarebbe riduttivo. Ospita attività plurime di socialità, di gioco e di relazione. Diviene uno spazio urbano. Anche i materiali sono diversi. Non più gremita di soli libri cartacei, dispositivi multimediali ne condizionano il programma. Le pratiche collettive e culturali la rendono un condensatore sociale.
Considerato anche il diverso momento temporale, quello della Biblioteca centrale di Seattle rappresenta uno scenario altro rispetto all’opera di Louis Kahn che, a proposito del programma della Phillips Exeter Library del 1972, scrive: «Un uomo con un libro va verso la luce. Così comincia una biblioteca. [...] Il posto-lettura è la nicchia, che può essere il principio dell’ordine spaziale della sua struttura. In una biblioteca, la colonna comincia sempre in luce. Senza essere nominato, lo spazio creato dalla struttura della colonna suggerisce il suo uso come posto-lettura. […] L’edificio in questione parte da un uomo che vuole leggere un libro»19. In tutte le opere dell’architetto americano forma, spazio, struttura e luce coincidono. Ogni spazio comunica la propria funzione senza che esso sia denominato. Benché lavori per composizione additiva di stanze secondo la tradizione romana antica, benché progetti secondo un ordine principale (spazi serviti) e uno secondario (spazi serventi), è la luce, la struttura, la forma della stanza, “luogo della mente”, che comunica la propria vocazione.
19. Louis Kahn in Perspecta, n. 4, 1957, in Nicola Braghieri, Buoni edifici, meravigliose rovine. Louis I. Kahn e il mestiere dell’architetto, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 32.
]evento ┃ 127
programma[probabilità
Non è il programma a definire l’architettura ma la sua luce. E in che modo questo influisce con l’evento.
> OMA + LMN, Seattle Central Library, Seattle, 2004.
In una stanza piccola, in compagnia di una sola persona, quello che dici non lo avresti mai detto prima. Se c’è una sola persona la cosa è diversa. In una stanza grande l’evento appartiene alla collettività. Il progetto è una società di stanze, si collegano l’una all’altra per rafforzare la propria natura esclusiva. Una società di stanze è un luogo in cui è bello imparare, è bello lavorare, è bello vivere. La società di stanze è tenuta insieme dagli elementi di collegamento, che possiedono caratteristiche proprie. La strada è una stanza che esprime un patto. Le strade di attraversamento, dopo l’avvento dell’automobile, hanno perso del tutto la qualità di stanza. L’urbanistica deve prendere coscienza di questa perdita e cercare di reintegrare la strada, dove la gente vive, nel ruolo di stanza comunitaria20
Cosa significa tutto questo per Kahn? Quando un’opera d’architettura ha inizio, questa può assumere qualsiasi programma. Quando è ultimata, il programma o l’evento è definito dall’architettura stessa.
20. Christian Norberg-Shulz, Louis L. Kahn idea e immagine, Officina edizioni, Roma, 1980, p. 130.
Architettura e trasgressione
128 ┃