INTRODUZIONE
Nel bel mezzo del secolo scorso nasco acquario, a Villa delle Rose, subito amato dai miei genitori Olga e Pino (che ricambio fin da piccolo con tutto il mio cuore), accolto dalla mia sorella Maura e atteso dal nonno Carlo Quattrocchio quale auspicato continuatore dell’azienda da lui fondata. Una foto dell’epoca mi ritrae nudo, adagiato a pancia in giù su un cuscino, sul tavolo tondo del giardino. Molti anni più tardi questa foto sarà l’immagine guida di una campagna pubblicitaria apparsa su alcuni fra i più importanti media internazionali accompagnata dallo slogan: «This man in his life has done Zero».
“l’uomo immagine della Quattrocchio”, cosa che, devo ammettere, fin dalla più tenera età mi garbava. In spiaggia si andava allora ai Bagni Vittorio Veneto. Mia sorella Maura, pur essendo maggiore rispetto a me di alcuni anni, acconsentiva di buon grado a giocare con me, anche con le pistole ad acqua. Entrambi indossavamo collane di nocciole. Io galleggiavo in acqua grazie a un bustino gonfiabile che peraltro mi infastidiva nei movimenti e mi metteva pure in imbarazzo mostrando in maniera evidente che ancora non sapevo nuotare. Un bel giorno, in un pomeriggio d’agosto, decisi autonomamente che ero capace di nuotare: entrai in mare deciso, mi liberai in un baleno del bustino di salvataggio e mi spinsi fin là dove non toccavo. Ricordo che andai sotto, boccheggiai e poi riemersi, giusto in tempo per vedere mia mamma precipitarsi in acqua con il suo bellissimo vestito a quadri azzurri e blu per riacciuffarmi con dolce forza e, sollevandomi, riportarmi a riva.
MEMORIA DELLE MEMORIE:
I NONNI QUATTROCCHIO
Le memorie del nonno Carlo erano affascinanti: ci raccontava i suoi viaggi in Argentina, fra le due guerre, dove lui, insieme al fratello Gino, aveva fondato una succursale della fabbrica Quattrocchio. Attraversava l’oceano sul “Conte Biancamano” e, quando la nave superava la linea dell’equatore, a bordo si faceva una grande festa. Il suo viaggio, fra andata, permanenze e ritorno, durava
tre mesi e, quando la nave lo riportava a Genova, allo sbarco c’era la banda musicale del paese ad attenderlo. Ancora oggi conservo un vassoio che mi è carissimo, fatto con ali di farfalle, che il nonno acquistò quasi un secolo fa durante uno scalo a Rio de Janeiro.
Nel Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, nel padiglione aeronavale, è conservato il mastodontico ponte di comando del “Conte Biancamano”. Alcuni anni or sono l’ho visitato e, per un momento, ho rivissuto le emozioni che il nonno poteva aver provato navigando verso l’avventura su quello stesso ponte che io stavo calpestando: like a movie!
«Ok nonno con i tuoi racconti mi hai convinto, sono pronto a partire con te per l’America». M’infilo il cappottino, il berretto e una sciarpa non prima di aver preparato una valigetta (ex custodia di una radio) con dentro due slippini, una maglia e una manciata di grissini. Scendo in ufficio e da lì il nonno finge di telefonare a Genova: «Nessuna nave in partenza per l’America». Le maestranze della Quattrocchio.
Grazie a Beppe Gallini, mio indimenticabile e mitico mentore, mettiamo a punto un particolarissimo progetto, unico nel suo genere: una sorta di sistema modulare architettonico rivisto in chiave industriale, una specie di Meccano-Lego per adulti.
Il nocciolo del sistema è un nodo di diramazione o capitello, dal quale possono diramarsi, ortogonalmente in sei differenti direzioni, delle travette reticolari a sezione quadrata da 125 mm di lato. Il modulo del sistema è di 250 mm, le travi reticolari sono realizzate in 5 lunghezze: mm 2000, 1250, 1000, 750 e 500: tutte combinabili e prolungabili fra di loro. La connessione fra trave e trave e fra travi e capitelli è assicurata da un piccolo giunto in alluminio pressofuso a espansione (ne abbiamo prodotti milioni di pezzi!).
Ai primi tempi chiamammo scherzosamente questo sistema Kubinsky, dalla commedia di László Fodor e László Lakatos, L’affare Kubinsky, affare di cui tutti parlano, senza sapere esattamente di cosa si tratta e a cosa servisse.
Noi, però, avevamo bene intuito che con questo sistema avremmo potuto fare un’infinità di cose e assolvere a un’infinità di funzioni.
A questo punto dovevamo battezzarlo, questa specie di enfant prodige. Nel briefing per definire il marchio i punti fondamentali erano:
- deve esprimere il concetto di modularità; - deve fare intuire le infinite possibilità di combinazione e di uso; - deve essere un marchio internazionale, memorabile e facilmente leggibile in tutte le lingue (o quasi).
Osservare il mondo da due punti di vista differenti è certamente utile per avere una più ampia visione delle cose. I miei molti viaggi, i personaggi che incontro, le frequentazioni nel mondo del design, dell’arte e dell’architettura, la vorace curiosità sono il carburante che alimenta il mio sacro fuoco. M’innamoro spesso delle idee e lotto affinché queste idee generino delle cose belle, uniche e seducenti, capaci di lasciare un segno forte e riconoscibile nel mondo del Design. Nasce così, fatalmente, una nuova collezione di mobili e oggetti innovativi, frutti di un design rigoroso, ma nel contempo anticonvenzionali, spesso ironici: ognuno di essi è per me come un personaggio... italiano di nascita e cosmopolita di adozione. Ancora una volta è Italo Lupi ad aiutarmi per realizzare il nuovo marchio ZERODISEGNO che mantiene la radice zero e a essa affianca la parola Disegno (e non design) per dichiarare la matrice italiana del progetto; mentre quattro punti sottolineano la prima parte del marchio come rimando e memoria dell’azienda del nonno Quattrocchio.
Ha inizio una nuova avventura che vede coinvolti con me, e per Zerodisegno, i designers che ritengo più adatti a sviluppare la nuova collezione: primo fra tutti Paolo Lomazzi e con lui Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, e poi Denis Santachiara, Karim Rashid, Gaetano Pesce, Marco Ferreri e Alessandro Mendini. A loro fanno riscontro all’interno dell’azienda i miei
Octopus, un mazzo di otto tubetti che ruotano intorno a un perno centrale. Design De Pas, D’Urbino, Lomazzi. Collezione permanente Brooklyn Museum .
Volare, un origami in rete metallica. Design De Pas, D’Urbino, Lomazzi e Thomas Mittermair.
sfilata d’imbarcazioni cinquecentesche, multicolori, con i gondolieri in costume che trasportano il Doge, la Dogaressa e le più alte cariche della Repubblica marinara, in una ricostruzione storica del glorioso passato veneziano... e poi le quattro competizioni, la più entusiasmante delle quali è la regata dei campioni sui gondolini.
Anche il pranzo placé è perfetto, offerto con garbo ed eleganza a pochi fortunati ospiti, taluni belli e famosi, sui quali aleggia un’aura di riservatezza.
Grazie Philip di questo privilegio che mi ha riempito gli occhi di così tanta luce e bellezza.
Al calare della sera, una gondola ci porta a San Marco, scendiamo in albergo e Carla, nonostante le mie deboli proteste, stanca della regata, se ne va a letto.
Io non sono ancora del tutto domato dai lunghi voli e dalla giornata intensa e ricca di emozioni: salgo all’ultimo piano alla terrazza del Danieli per godermi lo
spettacolo di Venezia che si prepara per la notte e penso a una frase che mi diceva il saggio Piero Vistarini: «La vita non è una gara a chi arriva primo, ma è piuttosto una gara di resistenza».
Però mi dico che, a volte, quarantotto ore vissute così veloci e intensamente possono valere un bel pezzo di vita... e mi offro ancora, prima che la giornata sia finita, un ultimo “goto” di champagne.
NOBODY’S PERFECT
Sono le 7 del mattino, suona il telefono mentre sono nella mia camera al Mercer di New York. «Carlo, sei sveglio? Quanto ci metti a raggiungermi in studio?». «Un’ora, Gaetano» rispondo. Con Pesce condividiamo la simpatica tradizione di vederci ogniqualvolta i miei frequenti viaggi di lavoro
Nobody’s Perfect Chairs: ogni pezzo è unico e diverso. Design Gaetano Pesce con Zerodisegno.
“L’Italia ricomincia da Zero”.
miei ospiti un meritatissimo “Graycliff Pyramid”. Poi entriamo al Seagrapes: è la serata del Junkanoo e le donne dell’isola danzano in maniera sensuale, avvolte nei loro abiti coloratissimi e anche noi, ben presto, veniamo inglobati in questo vortice umano scandito dal ritmo goombay. Ormai è notte fonda, saliamo sulla barca di Michael e sotto un cielo di stelle navighiamo veloci verso Pierre Island dove approdiamo ridendo fino alle lacrime, non prima di esserci arenati almeno un paio di volte sui banchi di sabbia nel bel mezzo del mare. Mi sveglio all’alba, il mio weekend è finito. Esco all’aperto e due colibrì variopinti frullano le ali velocissimamente rimanendo immobili nell’aria, mentre, con il lungo becco appuntito, succhiano il nettare dei rossi fiori di ibisco: un nuovo primo mattino del mondo sta sorgendo. Saluto Michael, Guido e Svetlana che dormono e scendo all’imbarcadero dove una lancia veloce m’attende. Il mare è uno specchio dalle sfumature di grigio, di rosa e di turchese.
Passiamo al largo della piccola spiaggia di sabbia bianca dove ho progettato di costruire una capanna di Adamo ed Eva, sogno che peraltro non riuscirò a realizzare. Ho però una piccola consolazione; la gente del posto ha battezzato questo piccolo angolo di paradiso “Charles Beach”. Lasciamo in lontananza Harbour Island alla nostra sinistra, avviandoci verso il pontile di Eleuthera. Tornerò?, mi chiedo tutte le volte. Sono commosso, ma non lo do a vedere, che diamine!, un po’ di dignità anche nei confronti della gente del posto che mi tratta con amichevole rispetto.
Davanti alla baracca dell’aeroporto il mio amico, addetto ai bagagli, è disteso su una panca e forse ha passato qui
la notte. «Hi, Jack. How are you today?» lo saluto. Mi vede e subito allarga il suo bianchissimo sorriso e mi risponde: «Ciao Charles, very well, it’s monday morning, the sun is shining and I’m still alive». Mi accompagna fino alla scaletta dell’aereo, gli strizzo l’occhio e m’imbarco. Ha così inizio il mio lungo viaggio di ritorno durante il quale avrò tutto il tempo di trasformare le bellezze e le emozioni che la mia isola m’ha regalato in un film personale, che potrò girare nella mia mente nelle giornate buie della vita.