ISBN 978-88-6242-805-7
Prima edizione marzo 2023
© LetteraVentidue Edizioni
© Rita Biasi
© Sergio Camiz
© Manuel Lentini
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Impaginazione: Alberto Scalia
LetteraVentidue Edizioni Srl
Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italia
www.letteraventidue.com
a cura di
Rita Biasi
Sergio Camiz
Manuel Lentini
La coltura promiscua ad alberate Conversazioni su un paesaggio
Contributi dal seminario di studi organizzato da Alessandra Capuano
paesaggio e ambiente
Direttore della collana
Alessandra Capuano
Comitato Scientifico
Jordi Bellmunt
Gianni Celestini
Philippe Poullaouec-Gonidec
Luca Reale
Giuseppe Scarascia Mugnozza
Fabrizio Toppetti
Redazione
Viola Corbari
Federico Di Cosmo
Daniele Frediani
Progetto grafico
Viola Corbari
La collana adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla doppia revisione paritaria e anonima (double blind peer-review ).
I criteri di valutazione adottati riguardano: l’originalità e la significatività del tema proposto; la coerenza teorica e la pertinenza dei riferimenti rispetto agli ambiti tematici propri della collana; l’assetto metodologico e il rigore scientifico degli strumenti utilizzati; la chiarezza dell’esposizione e la compiutezza dell’analisi.
Indice
Adattamenti colturali, sapere materiale e re silienza nell’agricoltura di
La piantata La sostenibilità di un
Pre sentazione Alessandra Capuano Prefazione Giuseppe Barbera La coltura promiscua ad alberate Vite, vigna, paesaggio Rita Biasi
cultura Attilio Scienza
Netto,
Forme d’allevamento della vite e territorio Metafora del legame tra natura e
Curare la terra Gli antichi vigneti e il borgo Baver Roberto
Simonetta Zanon
Giuseppe Barbera,
Motisi
Pantelleria
Antonio
Alberto Minelli 8 12 18 30 46 58 76
relitto
Alberata Un dispositivo agroambientale flessibile e resistente Lucina Caravaggi La piantata bolognese nella storia Manuel Lentini, Roodabeh Loftpour, Sara Mobasheri La cultura della vite Il restauro dei paesaggi agrari in aree archeologiche Federico Desideri Montreuil: un residuo di paesaggio agrario Mattia Proietti Tocca APPENDICE La piantata emiliana Narrazione per immagini Rita Biasi, Sergio Camiz 88 110 128 144 154
La coltura promiscua ad alberate
Vite, vigna, paesaggio
Rita Biasi
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Università degli Studi della Tuscia
Non c’è sistema agrario che meglio della coltura promiscua ad alberata esprima la natura multi-scalare del paesaggio. Questo sistema agroforestale, che risulta dalla consociazione di specie di interesse agrario con specie di interesse selvicolturale, si presenta in diversissime forme nelle campagne rurali o urbane come relitto di un uso agricolo del suolo del passato, ma anche come elemento di progetto negli spazi aperti di nuova realizzazione. Nonostante la molteplicità delle sue forme, espressione delle culture rurali locali, una costante è data dal fatto che sempre la coltura promiscua ad alberata è contemporaneamente una specie dominante, la vite, un vigneto e un paesaggio. Alla luce degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e della transizione ecologica questo sistema colturale può assumere un significato di grande modernità superando l’essere considerato unicamente una forma di uso del suolo del passato. In questo senso l’alberata è un sistema tutt’altro che antico e che risponde invece a quelle forme e funzioni dello spazio agrario, complessità e multifunzionalità, che oggi politiche e strategie nazionali e internazionali richiedono all’agricoltura, ma che stanno alla base anche della progettazione ecologica nell’architettura del paesaggio. Nei paragrafi che seguono si propone una lettura di questo paesaggio agrario tradizionale per evidenziarne il carattere di modernità come sistema biologico, agrosistema e paesaggio. •
Vite: sistema biologico strategico
La vite coltivata, quella europea (Vitis vinifera sativa), è pianta antica. La sua coltivazione ha accompagnato la nascita dell’agricoltura e oggi mantiene un ruolo di centralità nelle produzioni agrarie, rappresentando in Italia e nel mondo uno dei pochi comparti del settore agro-alimentare in forte ascesa. La produzione di ortofrutta, uva inclusa, e di vino rappresentano in Italia le poche voci attive dell’export agroalimentare, a fronte di un deficit di produzione per tanti altri prodotti che devono essere importati per soddisfare la domanda alimentare interna.
La coltura promiscua ad alberata è, nella sua struttura, innanzitutto un sistema produttivo con una specie dominante e costantemente presente: la vite. A dispetto di un limitato numero di vitigni su cui si basano le produzioni viticole dei moderni impianti, questa specie possiede una ricchissima variabilità genetica e sono centinaia le varietà e le accessioni descritte e caratterizzate dall’ampelografia, scienza
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Rita Biasi
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principale servizio ambientale che si chiede oggi all’agricoltura. Oltre che la diversità degli organismi vegetali, insita nella complessità degli ecosistemi, il vigneto, e quello della vite maritata ancor più per sua stessa natura di sistema di sistemi biologici, costituisce un habitat in grado di ospitare una ricca biodiversità animale, soprattutto una varia avifauna che nelle fronde degli alberi trova riparo e nei frutti della vite, ma non solo, alimento (Pithon et al., 2015). Il sistema della vite maritata fornisce anche un servizio culturale. La sua architettura – i sistemi arborei rispondono a precisi criteri architettonici in fatto di forma/dimensione delle piante e loro disposizione nello spazio – è testimonianza di una pratica agricola tradizionale e quindi della cultura rurale di un territorio il cui valore è ormai ampiamente riconosciuto come patrimonio culturale collettivo. In tal senso la vite maritata conserva la diversità bio-culturale delle sue campagne.
Paesaggio: da paesaggio agricolo a terzo paesaggio
Il sistema della vite maritata non è un paesaggio, ma tanti paesaggi ciascuno espressione della diversità bio-culturale dell’Italia. Prescindendo dalla variabilità della sua struttura e composizione floristica che risponde alle tecniche tradizionali tipiche delle diverse culture rurali adattate alle specifiche caratteristiche fisiche dei diversissimi ambienti della penisola italiana (Ferrario, 2019; Pandakovic, 2013), il paesaggio della vite maritata è innanzi tutto un paesaggio che possiede una specifica geometria. È un paesaggio lineare, che grazie alla biodiversità e alle relazioni fra i diversi sistemi biologici, si configura come un vero corridoio ecologico. L’ecologia del paesaggio attribuisce alla complessità dei corridoi continui o discontinui che mettono in collegamento aree di valore ecologico – sono le cosiddette aree core o stepping stones se di estensione più contenuta – la proprietà della connettività ecologica di un territorio, che dipende appunto dalla ricchezza di ecosistemi e dalle loro reciproche relazioni. Il significato moderno dell’alberata è anche insito in questa forma geometrica. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso la campagna è andata semplificandosi nella sua struttura per soddisfare le esigenze dell’intensificazione e specializzazione colturale, della meccanizzazione, particolarmente spinta nelle aree di pianura. Il processo di semplificazione del paesaggio agricolo si è basato sull’ampliamento delle superfici destinate a colture monospecifiche e monovarietali, alla estirpazione dei residui naturaliformi, alla
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coltura promiscua ad alberate. Vite, vigna, paesaggio
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La vite maritata: un particolare vigneto multifunzionale dove i filari di vite coesistono con altri agrosistemi come frutteti e oliveti inerbiti (in alto) o seminativi e colture ortive (in basso), assicurando quella complessità alla base dei servizi eco-sistemici. Bolsena (VT), 2014 (foto di R. Biasi).
Forme d’allevamento della vite e territorio
Metafora del legame tra natura e cultura
Attilio Scienza
Università degli Studi di Milano
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Pensare nel segno della pianta
Le civiltà si sviluppano, secondo l’antropologo Leo Frobenius (18731938) per stadi successivi di crescita, maturità e decadenza, dapprima in forma “intuitiva” come nel bambino, poi “ideale” come nel giovane, infine “pratica” come nell’adulto. Il divenire storico è guidato dalle forze irrazionali che muovono dal profondo dell’umanità provocando “commozione”.
Pensare, operare nel segno della vite, significa tornare all’origini della sua domesticazione: un approccio antropologico al modo di operare del viticoltore delle origini, che sintetizza così l’atteggiamento dei coltivatori primitivi nei confronti delle piante oggetto del loro interesse.
Possiamo verificare questo comportamento anche oggi nei viticoltori più anziani, nel rapporto che hanno con le viti. Ne seguono lo sviluppo in tutte le loro fasi vegetative e riproduttive, cercando con atti precisi, di realizzare il maggior benessere della vite al fine di massimizzarne il prodotto. Il rapporto si perde con la coltivazione estensiva, con la fine della mezzadria e con la scomparsa del podere, con l’introduzione delle forme di allevamento ad alta meccanizzazione, con l’arrivo nei vigneti di lavoratori, spesso stranieri, che non conoscono la pianta. La domesticazione della vite inizia così, con un rapporto personale con le piante selvatiche, solo con quelle che, in virtù delle caratteristiche dei loro fiori, riuscivano a produrre con regolarità. Questa sorta di viticoltura, che non ha il significato che oggi viene comunemente dato a questa parola, si limitava a favorire lo sviluppo della vite nei confronti della concorrenza della pianta tutrice, perché la vite, non si deve dimenticare, è una liana, che per vivere non solo deve farsi sostenere da una pianta arborea, ma soprattutto deve cercare di portare le sue foglie sopra la chioma. Solo più tardi l’uomo crea dei vigneti ex situ, ma lo farà riproducendo il modello di associazione naturale vite-albero, che per molto tempo aveva osservato e valorizzato, con la sua azione di proto-viticoltore, nei boschi.
Prima della comparsa della fillossera in Europa i vigneti erano promiscui, le piante non venivano mai rinnovate e quando una pianta, spesso ultracentenaria, subiva le ingiurie del tempo, si svuotava all’interno e riduceva troppo il suo vigore, veniva rimpiazzata con una propaggine ottenuta da una pianta vicina. Il segreto della loro longevità era consegnato alle modalità della potatura.
Ancora una volta il viticoltore operava nel segno della pianta, rispettava cioè le sue caratteristiche di liana, togliendo il meno possibile di
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quel legno che la vite aveva prodotto durante l’anno e dove aveva accumulato le riserve per garantire alla ripresa vegetativa, quel vigore che era necessario per assolvere all’imperativo evolutivo di sviluppare le gemme più lontane, sopra la pianta ospite. Le vecchie forme di allevamento forniscono un quadro molto efficace di quei comportamenti cesori, che si limitavano a togliere le parti più vecchie, esaurite, deboli, con tagli di piccole dimensioni. La viticoltura moderna, nata alla fine dell’Ottocento sulla spinta del progresso scientifico e dalla necessità di dover combattere efficacemente le nuove malattie arrivate dall’America, ha ignorato il cammino evolutivo della vite e da una pianta dalle forme libere ed incontrollate si è passati ad una siepe dallo sviluppo determinato, che per mantenere la sua forma è sottoposta a severi tagli in tutte le stagioni dell’anno. Il ritorno, ancora timido, alla potatura cosiddetta minimal pruning sviluppata dagli Australiani negli anni Ottanta è forse un inconscio desiderio di ritornare alla viticoltura primigenia.
La durata sempre più limitata nel tempo dei vigneti e la diffusione crescente delle malattie del legno, spesso dalla difficile eziologia, sono la testimonianza del distacco dell’uomo moderno dalla nascita remota della viticoltura.
La forma d’allevamento, iconema di un territorio
In Italia le comunità viticole formano una cultura originale nel mondo agricolo. Anche se fortemente ancorate alla realtà, esse hanno la capacità di reinventare perpetuamente il loro passato attraverso un prodotto emblematico e secolare che è il vino. Di fronte alla standardizzazione della maggior parte dei settori della società contemporanea, occupano uno spazio culturale a metà strada tra il rurale e l’urbano, tra la tradizione e l’innovazione. Astraendoci per un istante dall’immagine della natura e del paesaggio nel suo evolversi secondo il gusto estetico occidentale, possiamo identificare il paesaggio viticolo attorno ad un nucleo abitato, da un punto di vista eminentemente antropologico come un giardino eutopico (buon luogo), ricorrendo al mito, per fondare su questo, la memoria e l’identità dei suoi abitanti. Nello scudo che Efesto orna con scene di vita campestre per Achille, si ritrova la descrizione di un giardino-vigneto: “vi pose anche una vigna, stracarica di grappoli, bella, d’oro; i grappoli neri pendevano; era impalata da cima a fondo di pali d’argento ed intorno condusse un fossato di smalto ed una
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d’allevamento della vite e territorio. Metafora del legame tra natura e cultura
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Tipologie di alberello mediterraneo senza sostegno che si differenziano per il numero delle branche, per l’altezza del fusto e per la forma in volume o in parete.
Fasi evolutive nell’allevamento della vite con tutore vivo. Nel disegno in alto si riconosce un esempio di viticoltura primigenia o antropofila ancora presente nelle lambruscaie della Maremma, mentre nelle immagini successive, l’evoluzione in filari con sostegni vivi, è l’espressione della viticoltura promiscua.
Todi. Cantina Roccafiore, viti di moscato giallo maritate all’acero campestre (progetto di paesaggio di L. Caravaggi, foto di A. Cimmino, 2012).
Assisi. Vite su albero taglio a vaso, 1958 (foto di H. Desplanques tratta da Stefanetti, 1999).
Siena. Progetto del sistema dei luoghi verdi, Schema di progetto del Parco del tiro a segno, 1990 (disegno di V. Calzolari).
Siena. Progetto del sistema dei luoghi verdi, Schema di progetto del parco gradonato della stazione, 1990 (disegno di V. Calzolari).
Montreuil: un residuo di paesaggio agrario
Mattia Proietti Tocca
Dottorato in Paesaggio e Ambiente
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Spesso nelle aree periferiche di moltissime città europee si possono ancora rintracciare numerosi e interessanti residui di paesaggio agrario tradizionale con le loro forme ancora ben riconoscibili che talvolta si sono perfino riverberate nella struttura del tessuto urbano circostante. Dalla fine del XVII secolo e per otre trecento anni a Montreuil, città della Île-de-France situata a est di Parigi, si è coltivato l’albero di pesco in spalliera1 con un sistema di muri che ne favoriva la crescita. Fondato nel XVII secolo, il sobborgo di Montreuil contava oltre 600 km di muri coltivati con alberi di pesco a spalliera, fino agli anni Settanta del XIX secolo, quando questo sistema di coltivazione raggiunse il suo apice2 .
La peculiare modalità di arboricoltura della città di Montreuil, caratterizzata da un sistema di peschi a spalliera coadiuvati dalla presenza di muri, si fa risalire alla prima metà del XVII secolo. I murs à pêches, così chiamati e conosciuti in tutto il mondo, possono essere definiti come veri e propri giardini in cui venivano coltivati gli alberi di pesco addossati a dei muri. Fin dai testi più antichi in cui si possono ritrovare delle dettagliate descrizioni di questi paesaggi rurali, essi vengono raccontati come giardini e non come orti o pomari e gli abitanti di Montreuil vengono definiti sempre giardinieri e non contadini. Lo scopo di questo sistema agricolo è quello di ottimizzare la radiazione solare attraverso l’orientamento dei muri verso meridione. Questi muri venivano rifiniti da un intonaco bianco a base di gesso, presente in abbondanza nel terreno di Montreuil, per far sì che le piante di pesco potessero giovare di un’esposizione migliore e di una radiazione solare aumentata del riflesso delle pietre. A tali espedienti tecnici va aggiunta la disponibilità di un terreno particolarmente fertile e soprattutto la straordinaria capacità dei giardinieri orticoltori di Montreuil nella gestione agronomica dei pescheti.
Da sistema produttivo a matrice urbana
Il noto paesaggista francese Michel Corajoud ha condotto uno studio sulla cittadina di Montreuil e in particolare sul rapporto tra il sistema dei murs à pêches e l’espansione urbana (Atelier Corajoud, 1993)3. Ciò che rende centrale il suo studio sull’espansione urbana di Montreuil, è la ricchezza di sovrapposizioni, conflitti e convivenze fra le tracce dell’antica maglia rurale, l’antica pratica di gestione del territorio, e le parti di tessuto urbano che sono il risultato dell’espansione incontrollata e ipertrofica della città contemporanea.
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3. L’alberata fa da quinta alla coltivazione del sorgo (Sorghum vulgare) (foto di S. Camiz).
4. Alberata: elemento divisorio dello spazio coltivato (foto di S. Camiz).
5. La scala di grandezza dell’alberata (foto di S. Camiz).
6. L’alberata elemento divisorio dei campi (foto di S. Camiz).