Collana Alleli / Research
Comitato scientifico
Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa)
Emilio Faroldi (ICAR 12, Milano)
Nicola Flora (ICAR 16, Napoli)
Antonella Greco (ICAR 18, Roma)
Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa)
Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia)
Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari)
This work was supported by the Erasmus+ program of the European Union [Grant Agreement No.: 621585-EPP-1-2020-1-CY EPPKA2-KA]. The European Commission’s support for the production of this publication does not constitute an endorsement of the contents, which reflect the views only of the authors, and the Commission cannot be held responsible for any use which may be made of the information contained therein.
ISBN 978-88-6242-843-9
Prima edizione maggio 2023
© LetteraVentidue Edizioni
È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
L’autore desidera ringraziare lo studio Giuseppe Strappa per il materiale grafico messo a disposizione per la seguente pubblicazione.
Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa.
Book design: Martina Distefano
Impaginazione: Gaetano Salemi
Finito di stampare nel mese di maggio 2023 presso la tipografia TheFactory, Roma
LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa, Italy
www.letteraventidue.com
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PREFAZIONE
JÖRG GLEITER
In questo libro, che contiene progetti e un’intervista a Giuseppe Strappa, la pratica e la teoria, l’insegnamento e la ricerca si sovrappongono a mo’ di palinsesto per formare una fitta rete di pensieri e intuizioni. Per usare l’espressione dell’autore, questo lavoro è il substrato di una lunga riflessione su architettura, pratica, storia e teoria. Il libro ha il potenziale per entrare appieno nel dibattito sugli strumenti del progetto di architettura e avere un impatto a lungo termine.
Strappa ha sempre in mente l’insieme. L’architettura ha un effetto sulla vita, così come la vita ha un effetto sull’architettura. Sarebbe un malinteso ridurla al solo oggetto materiale. L’architettura, invece, è sempre un processo in divenire.
Nella definizione di Strappa, il substrato è ciò che denota la condizione umana, che non è sempre esistito, ma si è accumulato in molti secoli di cultura, emergendo attraverso processi di metamorfosi, amalgamandosi con altri processi paralleli e, infine, condensandosi nella condizione attuale.
Il substrato, tuttavia, non è semplicemente disteso davanti ai nostri occhi; al contrario, ogni generazione deve appropriarsene di volta in volta secondo lo spirito del proprio tempo, della propria esperienza
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e con la propria intelligenza delle cose. Trasmettere la consapevolezza di questa condizione è il compito dell’insegnamento universitario. Spetterà poi al singolo architetto, al progettista, assumersene la responsabilità. I progetti architettonici dell’autore ne sono testimonianza.
Quello che Strappa vuole dirci qui è che il sapere dell’architettura non può essere semplicemente richiamato: occorre riappropriarsene di continuo, tradurlo in termini sempre nuovi attraverso il fare secondo le proprie condizioni storiche, renderlo fecondo per il presente. Si potrebbe anche dire che il sapere dell’architettura deve essere sempre “infettato” dai germi del tempo presente. Solo così può sviluppare il suo potenziale per il futuro.
Il filosofo presocratico Anassagora affermava che l’uomo è un animale così intelligente perché ha le mani e sa usarle. Si può aggiungere che questo lo rende anche un essere libero. La libertà umana nasce dall’azione attiva o, per usare l’espressione dell’architetto romano, dalla trasformazione della materia in materiale, cioè dai processi morfologici di formazione. In questo processo, la forma è il risultato di una lettura e di un’interpretazione critica in cui “lettura e progetto” si intrecciano. I progetti qui presentati mostrano la simpatia di Strappa per le cose e la vita. L’architettura si fonda su questa simpatia, come egli ci mostra con vigore. Da qui deriva l’incrollabile convinzione di Strappa che l’architettura sia il mezzo e l’espressione in divenire della libertà umana. Il suo lavoro si inserisce, ritengo, nella lunga tradizione dell’umanesimo rinascimentale, nelle forme in cui si è poi evoluto, sotto influenze diverse, divenendo la base dell’architettura in una società libera.
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CONVERSAZIONE CON GIUSEPPE STRAPPA
PARTE 1
IL PROGETTO COME PROCESSO CIRCOLARE
Inizierei la nostra conversazione parlando del rapporto tra “lettura e progetto” e, in modo particolare, facendo riferimento a uno dei suoi scritti nei quali definisce la tecnica della lettura come l’“arte del possibile”. Nel porre l’accento su questo rapporto di corrispondenza, lei sembra riconoscere all’esercizio della lettura l’attitudine a svelare il potenziale trasformativo delle forme rinvenute e quindi a impossessarsi della dimensione predittivo-produttiva della realtà stessa cogliendo l’aura progressista che essa contiene. Potrebbe descriverci le prerogative sulle quali verte questo metodo di lavoro e le modalità attraverso cui tale capacità cognitivoscrutativa possa ammettere un’ampia gamma di esiti possibili coinvolgendo il giudizio individuale del progettista. Quello stesso giudizio che, a mio modo di vedere, risultando inevitabilmente l’esito di scelte, tende a manifestarsi come “distanza critica” dalla realtà che si offre al progettista. Ti ringrazio, prima di tutto, dell’opportunità che mi offri di ragionare sul mio lavoro di architetto. Ho sempre parlato dei miei lavori come verifica di un metodo e, se sei d’accordo, vorrei discuterne ora in modo meno formale. Comincerei, per rispondere alla tua domanda, con una breve premessa. Credo che l’architetto, nelle condizioni di crisi che stiamo vivendo, non possa che essere di parte, proporre una propria verità nella quale crede pur sapendo che, nel contesto contemporaneo, quando si è persa l’unità delle cose, questa verità non può che essere parziale, che ne esistono molte altre. L’architetto dovrebbe possedere, in altre parole, una propria visione del mondo costruito nella quale collocare le cose e dare loro senso. Questa visione non dovrebbe contenere solo la percezione di quello che ci circonda. Dovrebbe contenere il mito e l’utopia che ci staccano dal contingente quotidiano e permettono di indagare territori nuovi. All’interno di questa idea del mondo che abitiamo, tuttavia, il nostro lavoro non può essere quello di esprimere solo un punto di vista personale. Dobbiamo scrutare con la ragione il processo attraverso cui il costruito si è formato, e potrebbe trasformarsi, attraverso una lettura: sapendo che essa non può essere neutrale, che conterrà
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a Capodimonte “prima e dopo la cura dell’archistar Santiago Calatrava” che l’ha trasformata in una discoteca balneare. Un esempio estremo, tra i tanti, che indica quanto quello dell’architetto sia un mestiere rischioso, che spesso induce ad invadere i luoghi. E, anche se il nostro Ministro della Cultura si è affrettato a dichiarare incautamente che “questa esperienza, che mescola in modo inedito arte contemporanea e barocco, dovrà indicarci la strada”, quello di Capodimonte rimane uno dei tanti casi in cui il sentimento collettivo degli abitanti è calpestato dal narcisismo dell’architetto. Quanti edifici, storici e no, sono stati trasformati, infatti, in materia a disposizione dell’ego del progettista, ricevendo il consenso concorde della “critica”?
Si sentiva proprio la necessità, per dirne una, che il territorio magico della Domus Aurea venisse invaso da uno spettacolare intervento up to date? Non bastava lo spazio della Sala Ottagona, con tutto il rispetto per il successo mediatico dello studio che ha progettato l’opera? Forse occorre spiegare che il restauro è già progetto e trasformazione. E che, a volte, occorre anche meno. Credo che dovremmo riscoprire il fascino e l’utilità dello sguardo che contempla, la lettura delle cose nelle quali non viene riconosciuta alcuna attitudine alla trasformazione.
“Occorre proprio costruire un nuovo granaio pubblico – scriveva Confucio 2500 anni fa – quando quello vecchio è ancora buono e quello nuovo costerà alla gente molto sudore?” Quel granaio possedeva in realtà, come tutte le cose, non solo un’utilità, ma anche una propria magnificenza. Il problema è che molti, annotava il maestro, non sapevano leggerla.
Entrerei ora nel merito di un concetto cui spesso fa riferimento: quello di formatività. Un concetto che Luigi Pareyson adotta al fine di ricondurre la nozione di estetica nel quadro più globale di una dottrina della formazione e dell’interpretazione. Sarebbe interessante comprendere in quali termini questo principio viene assunto all’interno della sua ricerca progettuale, ovvero, nell’ambito dell’esercizio interpretativo della realtà. Si, è vero, le idee di Pareyson sui modi della produzione artistica hanno influenzato il mio modo di vedere le cose. Avevo letto il suo Estetica. Teoria della formatività, ripubblicato da Sansoni nel 1960, quando ero all’università, ma non mi ero accorto della sua utilità per gli architetti. Già allora diffidavo, peraltro, dei facili paralleli con altre discipline, spesso fuorvianti e disinvoltamente utilizzati in architettura in modo a volte folkloristico.
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esterne in pietra, affidando a questo materiale una duplice funzione costruttiva ed estetica. Le vicende costruttive e le ragioni economiche non hanno consentito l’integrale applicazione di questo principio. Ritengo, tuttavia, che la collaborazione tra pietra, impiegata nel duplice ruolo di rivestimento ed elemento costruttivo, e calcestruzzo, materiale anch’esso impiegabile in senso plastico, sia una strada fertile da percorrere. Anche il cimitero Laurentino, a Roma, doveva avere, in qualche modo, una sua forma data. Poiché la conformazione del territorio ereditato era qui ancora leggibile, ho pensato ad un luogo ipogeo, che modificasse la forma del suolo solo con alcuni percorsi, ingressi, prese di luce che avrebbero dovuto costituire piccoli nodi emergenti dall’architettura sommersa. Purtroppo
l’idea iniziale è oggi leggibile nella prima fase di costruzione.
L’esecuzione è sfuggita all’amministrazione pubblica, a cominciare dagli scavi archeologici che hanno sconvolto la stessa orografia del luogo con ingenti movimenti di terra. Di fronte a un’esecuzione estemporanea, lasciata a decisioni arbitrarie e a volte ciniche, ho dovuto abbandonare il progetto e ancora me ne dispiace.
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Vorrei terminare questa prima parte della conversazione invitandola a compiere un ragionamento di natura sintetica. In modo particolare abbiamo affrontato questioni relative alla morfologia urbana, alla storia del luogo, alla tecnica costruttiva. In che modo ritiene debba compiersi la sintesi estetica tra queste componenti? Riprendendo una tesi alla quale ho già accennato, credo che potremmo riconoscere al termine “linguaggio architettonico” il valore di uso personale di una lingua comune e condivisa, la quale dovrebbe essere compresa, studiata, rispettata. Messo in questi termini il problema sembrerebbe risolubile attraverso il ritorno alle matrici fondative della lingua, alle forme comuni e riconoscibili del nostro patrimonio architettonico. E tuttavia il problema è molto meno semplice, perché non possiamo non tener conto del fatto che una vera lingua è stata persa, che il significato delle parole o si consolida con l’uso o si smarrisce. L’unica forma di salvezza, ritengo, è data proprio dalla realtà dell’architettura, dalla sua “materialità” che la differenzia della lingua parlata o scritta.
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Questo spiega come mai nei periodi di grande crisi si sia ritornati, anche in tempi non lontani, al fondamento materiale, costruttivo del nostro mestiere: si pensi, per esempio, alle ricerche di William Morris, di Camillo Boito, di Gottfried Semper. Mi pare che, nella astraente condizione attuale, un contributo alla soluzione della crisi possa essere fornito proprio dal recupero dall’aspetto concreto, evidente dell’architettura. La stessa nozione di “area culturale”, peraltro, nell’epoca della globalizzazione, si va trasformando e, nonostante possa sembrare il contrario, si va rafforzando straordinariamente. Si pensi solo alla continuità dei caratteri di derivazione elastico lignea nelle strutture e nei sistemi leggeri e trasparenti impiegati nelle forme high tech, diffuse, non a caso, nelle aree un tempo legate alla cultura gotica. In questo quadro, a mio avviso, va considerato il richiamo, per tornare alla costruzione del cimitero di Terni, ai caratteri specifici della lingua locale. L’area ternana, rispetto al comune portato plastico dell’area umbro-toscana, presenta alcune specificità delle quali mi sono reso pienamente conto solo quando si è messo mano al progetto esecutivo, dopo molte visite alle aree moderne della città. A Terni, città di tradizioni industriali legate alle acciaierie, l’irruzione delle moderne tecnologie dei metalli ha prodotto notevoli innovazioni. Come conseguenza di queste riflessioni, la quarta fascia di stratificazione architettonica, la conclusione che si sovrappone alle strutture plastico-murarie, è, appunto, a carattere elastico.
In proposito consentimi un’ultima considerazione che riguarda l’interpretazione individuale del tema. Nella costruzione del Cimitero di Terni le trasformazioni sono andate avanti per un quarto di secolo, con continui, piccoli ma importanti ripensamenti, innovazioni, aggiornamenti. E tuttavia non ho mai creduto che fosse essenziale una rielaborazione del progetto iniziale.
Le risposte ai nostri problemi, in architettura, sono state in gran parte già date. Riconoscerle in termini contemporanei, nell’età dell’elogio dell’incertezza e della frammentazione, credo sia una vera forma di scrittura innovativa.
Dopo tanti anni di familiarità con le loro forme, non riesco più a valutare le emozioni che queste costruzioni possono provocare. Non mi sembra che l’opera trasmetta la melanconia del distacco, né il dolore degli affetti perduti. Si percepisce piuttosto, spero, una calma pietas architettonica intesa nel senso classico del termine. Credo che sia un progetto che, in
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Direi qui, sinteticamente, che il paesaggio potrebbe essere riguardato anche come forma percepibile di strutture modellate dalla mano dell’uomo a partire da un suolo naturale. Come tale esso è dunque costruzione, luogo abitato trasformato per successive fasi formative, che stabilisce un rapporto di pertinenza tra uomo e suolo: un paesaggio appartiene ad una comunità di abitanti ma essi appartengono, anche, al paesaggio che abitano.
Un altro aspetto che connota il suo interesse a comprendere e spiegare l’architettura moderna e contemporanea è la ricerca di un principio di appartenenza ad aree culturali precise. Ho la sensazione che questa posizione tenti, in qualche modo, di liberarsi dalle certezze di una certa scuola di tipologia derivata dalle ombre poste dal “secondo” Saverio Muratori. Sarebbe interessante risalire alle origini di questo suo modo di concepire lo studio dell’architettura moderna, per arrivare alla sua recente ricerca sull’architettura di Louis Kahn.
Il rapporto con la scuola muratoriana è stato per me fondamentale, ma anche molto sofferto. La lezione dei suoi maestri, le nozioni di base intorno alle quali ruotava il loro insegnamento, non sono state per me un’eredità diretta trasmessa attraverso corsi, lezioni, ricerche, ma una conquista faticosa, che si fonde con altri contributi ricevuti durante la mia formazione. Forse per questo l’impiego di molti principi ereditati è sempre avvenuta, per me, in modo laico. Io non sono stato allievo di Saverio Muratori. Quando ho iniziato a frequentare la Facoltà di Roma non si entrava nell’aula dove insegnava perché il corso era frequentato, in buona parte, da studenti di estrema destra. Del resto, nel clima del dopo ’68, non avevo alcuna curiosità di incontrarlo. In seguito mi sono pentito di quell’autocensura perbenista e dell’occasione mancata di conoscerlo. Mi affascinava però, e mi affascina ancora, il suo aspetto umano, la sua figura epica di intellettuale isolato, acutissimo e maledetto, che ho poi conosciuto attraverso la lunga consuetudine con alcuni suoi allievi di grande valore come Giancarlo Cataldi e Paolo Vaccaro. La damnatio memoriae di cui è stato oggetto da parte dei colleghi è sempre stato per me il sintomo di una differenza che lo rendeva, già per questo, importante. Non sono stato nemmeno allievo diretto di Gianfranco Caniggia, col quale ho avuto invece un’intensa amicizia durante il suo insegnamento a Roma, e col quale c’era un progetto di collaborazione, interrotto dalla sua scomparsa. In
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