Francesca Coppolino
Rovine in divenire
Da scene a spazi della città della post-produzione
«È molto difficile scrivere questo libro. Perché i libri sono dimensionali, e io vorrei che il mio si distinguesse per una proprietà che in realtà è incompatibile con la bidimensionalità di un lavoro stampato. Si tratta di una doppia esigenza. In primo luogo, questo mazzo di saggi non deve in nessun modo essere esaminato e assimilato in ordine successivo. Vorrei che i saggi fossero percepiti tutti insieme simultaneamente, giacché in fin dei conti essi non rappresentano che una serie di settori di differenti campi che ruotano attorno ad un unico punto di vista, ad un metodo comune che li determina. D’altra parte, vorrei anche proprio spazialmente istituire la possibilità di comparare ciascun saggio direttamente con gli altri, di passare dall’uno all’altro avanti e indietro. Attraverso continui rinvii. E reciproche integrazioni. Una simile simultaneità e interpenetrazione dei saggi potrebbe essere soddisfatta da un libro che avesse la forma di una... sfera!
Dove i settori coesistono simultaneamente in una forma di sfera, e dove, per quanto lontani possano essere, è sempre possibile un passaggio diretto dall’uno all’altro attraverso il centro della sfera. Ma ahimè... i libri non si scrivono sfericamente...».
Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1983
Indice
Prefazione
Dall’atopia alla relazione
Pasquale Miano
Introduzione
Su ciò che resta. Progettare la rovina
1. DISVELARE ROVINE
Visioni materiali
Scene sedimentate. La rovina come strato mnestico
Immagini-collage. La rovina come frammento immaginifico
Movimenti cronotopici. La rovina come non finito figurativo
2. IMMAGINARE TRAIETTORIE
Come un film
Trama, memoria e narrazione
Frame, immaginario e montaggio
Spazio “tra”, tempo e movimento
3. SPERIMENTARE DISPOSITIVI
Outlis di post-produzione
Variare il racconto
Assemblare le parti
Esplorare lo spazio
4. COSTRUIRE VISIONI
Afterlife. Ritorno al futuro urbano
Musei di relazione
Bordi in transizione
Infrastrutture archeologiche
Postfazione
Del progetto e dell’archeologia
Alessandra Capuano
Bibliografia tematica
Introduzione
Su ciò che resta. Progettare la rovina
1. «Le città sono destinate all’autodistruzione / Le rovine sono l’immagine delle nostre città future / Le città future sono esse stesse rovine / Così come le nostre città contemporanee». In: Arata Isozaki, Japan-ness in Architecture, MIT Press, Cambridge, 2006.
2. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1999; ed. originale: Ursprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt am Mian, Suhrkamp Verlag, 1963.
Ruins are the style of our future cities / Future cities are themselves ruins / Our contemporary cities, for these reasons too.
A. Isozaki, Japan-ness in Architecture, 1962
L’emblematico fotomontaggio dal titolo Future City, elaborato dall’architetto giapponese Arata Isozaki nel 1962, mostra come la “rovina” costituisca inesorabilmente il nostro destino e come la città futura si costruirà a partire dalle rovine1. Anche le città contemporanee in cui la presenza dell’antico è quasi nulla, diventeranno a loro volte rovine.
D’altronde, come sosteneva il filosofo tedesco Walter Benjamin, se si svincola la nozione di “rovina” dalla sua vocazione prettamente letteraria, ci si accorge che il passato è costituito da “rovine su rovine” e che la rovina costituisce una condizione perpetua e inevitabile2, da cui non c’è scampo e con cui è necessario, di volta in volta, confrontarsi. Le rovine non ritraggono solo l’immagine di passati gloriosi, non restituiscono solo l’immagine del presente enigmatico della città, ma rivelano anche l’immagine del futuro delle città: future “città-rovina”. Non si tratta di immagini nuove. Le guerre, i disastri, le catastrofi naturali, hanno mostrato ampiamente gli effetti della distruzione. Villaggi e città fantasma hanno già mostrato gli effetti dell’abbandono. Siti e parchi archeologici hanno già mostrato gli esiti della conservazione. Così come racconti, dipinti e film di fantascienza hanno già prefigurato visioni di possibili città-rovina del futuro: basti pensare a film come Metropolis diretto da Fritz Lang (1927), Blade Runner di Ridley Scott (1982) o Dune di David Lynch (1984), che hanno nutrito il nostro immaginario; o ai dipinti post-apocalittici di future “città rovinose”, come ad esempio la Mnemosyne (20212022) di Anne e Patrick Poirier, esposta nella mostra Apoptosi (2023); oppure ai ritratti di futuro, da sempre rappresentati
Arata Isozaki, Perspective view, Incubation Process, 1962; inchiostro su carta, 22x14,7 cm, CA81/1/3. © Arata Isozaki, image courtesy of M+, Hong Kong.
Mimmo Jodice, Tempio di Serapide, Pergamo, 1993. © Mimmo Jodice.
Si potrebbe affermare che la rovina architettonica rappresenti la scena di un atto concluso in cui mancano gli attori, di un processo che si è compiuto e di cui sono visibili i resti27. Eppure si pensi, ad esempio, alle selvagge rovine dei templi di Angkor in Cambogia, in cui sono ambientate le vicende conclusive del film In the Mood for Love (2000), diretto dal regista cinese Wong Kar-wai e definito dall’antropologo Marc Augé come «la vertigine della rovina»28, e si noti come esse possano rappresentare ben più di un semplice sfondo di un’azione assente. La virtualità dell’amore possibile ma non realizzato tra i due protagonisti si contempla da lontano, nel momento in cui, divenuta rovina, non è più una virtualità. Di qui la portata del gesto simbolico compiuto alla fine del film dal signor Chow, che confida il suo segreto d’amore non all’incavo di un albero, come vorrebbe la tradizione, bensì all’incavo di una colonna del noto tempio in rovina.
Lo spettacolo di quelle sontuose rovine non risveglia alcun ricordo specifico in colui che le contempla, ma a suscitare in lui la più profonda emozione, nel presente, sono l’esperienza del tempo racchiuso in molteplici scene sedimentate e la conseguente percezione della possibilità di continuare a stratificare la memoria di quel luogo con la propria presenza e il proprio agire. Scena, memoria e stratificazione disvelano la rovina come strato mnestico.
Se Francesco Venezia, facendo riferimento alle vicende storiche del mausoleo di Augusto e riprendendo il capitolo delle Confessioni di Sant’Agostino dedicato alla memoria, descrive le rovine come il «deposito della memoria della città»29, che accumulano stratificati ricordi comuni, sia positivi che negativi, Salvatore Settis aggiunge che: «memoria di quel che fummo, le rovine ci dicono non tanto quello che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quello che per l’individuo sono le memorie d’infanzia»30, evidenziandone il ruolo di strumento della memoria. Sul rapporto tra rovina, memoria e stratificazione ragionava Sigmund Freud quando, nel suo noto Disagio della civilità (1930), utilizzando la metafora dell’archeologia per raccontare il
27. Vincenzo Cuomo, Rovine del teatro e rovine della storia (secondo Carmelo Bene), in Giuseppe Tortora (a cura di), Semantica delle rovine, op. cit., p. 201.
28. Marc Augé, Rovine e Macerie, op. cit., pp. 45-47.
29. Francesco Venezia, La separazione fatale, in Che cosa è l’architettura, op. cit., pp. 14-15.
30. Salvatore Settis, Rovine. I simboli della nostra civiltà che rischiano di diventare macerie, in “la Repubblica”, 11 novembre 2010, p. 44.
Carel Willink, Late Visitors to Pompeii, 1931. © Collection Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Gift Academiefonds. Foto di Studio Tromp, by SIAE 2024.
72. Marc Augé, Rovine e Macerie, op. cit., p. 98.
73. Cfr. François Hartog, Régimes d’historicité, Seuil, Paris, 2003.
74. Ibidem.
75. Cfr. André Habib, Le temps décomposé: cinéma et imaginaire de la ruine, op. cit.
l’avvenire non potesse che essere immaginato come il ricordo di un disastro di cui noi oggi avremmo solo il presentimento»72. In un momento di crisi, di elogio del dubbio, dell’incertezza, nel presentismo descritto da François Hartog73, «in un’epoca che sa distruggere, e lo fa anche in modo massiccio, ma che privilegia il presente, l’immagine e la copia, alcuni artisti sono stati sedotti dal tema delle rovine. Non come i pittori di rovine del Settecento, per giocare – malinconicamente o edonisticamente – con l’idea del tempo che passa, ma per immaginare il futuro»74. Si pensi ai quadri di Carel Willink, come ad esempio Gli ultimi visitatori di Pompei (1930) o Simeone lo stilita (1939), in cui in una Pompei del passato è rappresentato lo spettro della catastrofe che sarebbe poi avvenuta. Così come, in tempi più recenti, Anne e Patrick Poirier hanno conferito alle loro rovine della mente un senso di tragica scomparsa: le città immaginarie di Mnemosyne (1996), di Exotica (2000) e Amnesia (2009) rispecchiano un’utopia nera, che sembra prefigurare disastri successivi, realmente accaduti. Nel cinema è stato addirittura introdotto un genere specifico, identificato come “le registre fantastique”75 della rovina, o anche detto del “cinéma catastrophes”, nell’ambito del quale numerosi film raccontano e anticipano grandiose città apocalittiche in rovina, raffigurando scenari di futuri impossibili e dando vita alle più sfrenate visioni o alle più recondite e allarmanti paure del futuro. Si pensi a The planet of the Apes (1968) diretto da Franklin J. Schaffner, ma anche ai più recenti Dogville (2003) di Lars von Trier, The Day After Tomorrow (2003) di Roland Emmerich o Inception (2010) di Christopher Nolan. Queste considerazioni e questi esempi, da un lato, sottolineano il rischio che, con l’infinità di immagini che, sempre più negli ultimi anni, di continuo circolano sui media, la materia possa oggi faticare a produrre narrazioni, in quanto «l’immagine si è
emancipata del suo corrispondente materico e tutto, di conseguenza, è narrazione virtuale»76, avendo effetti anche sull’immagine della rovina, sempre più svuotata di significati. Dall’altro, evidenziano la necessità di considerare il rapporto dell’immagine con l’immaginario delle rovine. Come fa notare Lucio Altarelli, in una recente pubblicazione dal titolo L’immaginario delle rovine (2022), nel contesto attuale, il ruolo eversivo dell’immaginario delle rovine può costituire il motore che feconda nuovi processi d’invenzione, svolgendo anche un ruolo pedagogico, che appare oggi particolarmente significativo nei diversi distretti dell’arte e dell’architettura contemporanee77. Introdurre l’immaginario accanto all’immagine, pone in evidenza la capacità della rovina di operare una «ri-semantizzazione del passato nel futuro, ossia l’attribuzione di un nuovo senso e significato alla città storica»78.
In tal senso, una potente visione che sembra restituire senso e profondità all’immagine della rovina è l’immagine-collage individuata dall’architetto norvegese Juhani Pallasma, quando sostiene che le rovine con le loro sfaldature, con le loro tracce e i loro segni costituiscano suggestivi «collage involontari» capaci di evocare una densità poetica dell’immaginario e una narrazione plurima, che derivano da quella che egli definisce come “immagine incarnata”79. Associare l’idea di rovina all’immagine-collage, riprendendo le menzionate concezioni sviluppatesi con la nascita della tecnica del collage, significa «riconoscere nuovamente nell’antico un tempo denso e condensato, storie e origini diverse e quelle inevitabili discontinuità che determinano spostamenti e vuoti suggestivi nella dimensione narrativa e nella logica dell’immagine»80 e anche riconoscerne la necessaria interazione con il contesto di riferimento e con l’immaginario. Significa guardare la rovina come frammento immaginifico.
Louis I. Kahn, Acropolis from the Olympieion, Atene, Grecia, 1951; pastello e carboncino su carta. Disegno di Louis I. Kahn, 1902-1974. © Sue Ann Kahn / Art Resource, NY.
76. Sara Marini, Amnesia, op. cit., pp. 34-35.
77. Lucio Altarelli, L’immaginario delle rovine, op. cit.
78. Alessandra Capuano, Archeologia e nuovi immaginari, in Paesaggi di rovine. Paesaggi rovinati, op. cit., p. 43.
79. Juhani Pallasmaa, L’immagine incarnata. Immaginazione e immaginario nell’architettura, a cura di Matteo Zambelli, Safarà Editore, Pordenone, 2014, p. 94; ed. originale: The Embodied Image: Imagination and Imagery in Architecture, John Wiley & Sons Ltd, 2011.
80. Ivi, pp. 93-95.
Collage dell’autrice, L’Acropoli di Atene come uno dei film più antichi
Come un film
Nel 1938 il regista e teorico sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, nel celebre saggio Montage and Architecture, descriveva l’Acropoli di Atene, “rovina per eccellenza”, come “uno dei film più antichi”.
Questa particolare visione, se da un lato trovava un suo antecedente nei contributi teorici dello storico Auguste Choisy sul principio del pittoresco greco, dall’altro si intrecciava con le concezioni progettuali di Le Corbusier sul movimento e sulla composizione nello spazio, che lo portarono, in quegli anni, alla ideazione della ben nota promenade architecturale.
L’Acropoli di Atene rappresenta una delle rovine maggiormente indagate, raccontate e fantasticate nel corso della storia, poiché considerata come emblema della classicità. Dai sublimi schizzi di viaggio elaborati da Le Corbusier e Kahn nei loro Grand Tour, alle note performance artistiche, fotografiche e teatrali messe in scena in questo luogo; dal ricordo dell’Acropoli di Sigmund Freud come un “disturbo della memoria”1 all’Acropoli come incarnazione del tempo puro di Marc Augè; dai progetti di trasformazione proposti da Karl Friedrich Schinkel, alle sperimentazioni di Dimitris Pikionis o, più recentemente alle suggestioni progettuali di Andreas Angelidakis e dei Point Supreme, innumerevoli sono stati e sono tuttora gli immaginari suscitati dall’antico monumento.
La visione dell’Acropoli “come un film” trae origine dalla descrizione dell’antico complesso architettonico come «una composizione pittoresca di scene successive»2, proposta per la prima volta sul finire dell’Ottocento da Auguste Choisy nella sua Histoire de l’Architecture. Il passo di Choisy riguardante tale descrizione è interamente riportato nel menzionato saggio di Ėjzenštejn, il quale lo introduce attraverso queste parole: «vi prego di leggerlo con occhio cinematografico: è difficile pensare per un insieme architettonico un foglio di montaggio più raffinato nelle sue inquadrature di quello che qui si presenta come un percorso tra gli edifici dell’Acropoli»3. Il racconto della sequenza visiva dell’avvicinamento all’Acropoli è condotto, all’interno
1. Sigmund Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland, in Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, pp. 469-481.
2. Auguste Choisy, Historie de l’Architecture, Bibliothèque de l’Image, Paris, 1899, p. 410. 3. Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Percorsi architettonici. L’Acropoli e l’altare del Bernini, in Teoria generale del montaggio, a cura di Piero Montani, Marsilio, Venezia, 1985, pp. 79-80; ed. originale: Izbrannye proizvedenija v šesti tomach (Opere scelte in sei volumi), vol. II, Montâz, Moskva, Iskusstvo, 1963-1970.
Sperimentare dispositivi
Sigurd Lewerentz, St. Mark’s Church, Bjorkhagen, Stoccolma, Svezia, 1960. © Hidden Architecture.
«È innanzitutto una matassa, un insieme multilineare, composto di linee di natura diversa. Queste linee nel dispositivo non delimitano né circoscrivono sistemi di per sé omogenei […] ma seguono direzioni, tracciano processi in perenne disequilibrio […] Ogni linea è spezzata, soggetta a variazioni di direzione, biforcante e biforcuta, soggetta a derivazioni».
G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, 2010
Collage dell’autrice composto da un dettaglio de La Città Analoga, di Aldo Rossi, Eraldo Consolascio, Bruno
Reichlin e Fabio Reinhart, 1976, da: “Lotus”, n. 13, 1976, pp. 4-7 e un dettaglio di Atlas Mnemosyne, di Aby Warburg, 1926-29.
Assemblare le parti
Il Bilderatlas Mnemosyne, esposto in mostra dal critico d’arte
Aby Warburg tra il 1926 e il 1929, presso la Biblioteca Hertziana di Roma, è un atlante figurativo composto da tavole costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse: testimonianze rinascimentali, reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana e testimonianze della cultura del XX secolo, in forma di ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli. Nel Bilderatlas la giustapposizione delle immagini è pensata in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, provocando nello spettatore un processo interpretativo aperto: Mnemosyne è una “macchina associativa”51 che pone in evidenza la relazione tra montaggio, frammenti e immaginario52 e il potere associativo che ne deriva.
Su tale relazione rifletteva Aldo Rossi quando, nel 1976, disegnava, secondo uno stile che evocava le rovine piranesiane, un paesaggio urbano immaginario composto da un collage di progetti, immagini e luoghi da lui amati. Lo chiamò Città analoga, riferendosi, attraverso questo titolo, alla mescolanza tra desiderio, sogno e ragione presente in ogni originale progetto di architettura. Emergono memorie, simbologie, immaginari e geografie del territorio, fusi in un assemblaggio che dichiara tutto il suo mondo di appartenenza e, al tempo stesso, trasfigura la memoria per essere contaminata dall’analogia e dall’immaginazione53
L’immaginario diventa qui progetto54. E il progetto diventa occasione per riflettere sulle relazioni e sulle associazioni tra le cose, le parti, i singoli elementi visibili e invisibili. Il progettista unisce di volta in volta i tasselli secondo logiche organizzative, come avviene nel Bilderatlas, in un continuo assemblaggio di immagini che riaffiorano in maniera semplice e imprevedibile, capace di tradursi in un linguaggio di associazioni dove le architetture stesse diventano frammenti, fotogrammi di una sequenza filmica.
Assemblaggio, montaggio, mixage alludono a operazioni che utilizzano materiali esistenti55, in cui «la gran parte dei materiali del progetto esiste già e può essere coinvolta in differenti
51. Aby Warbur, Roberto Ohr, Axel Heil, Aby Warbur: Bilderatlas Mnemosyne - The Original, Hatje Cantz Verlag Gmbh & Co Kg, StoccardaBerlino, 2020.
52. Cfr. Claudia Trillo, Assemblaggio, memoria, topofilia, in AA. VV., Montaggio, in “Arc Architettura Ricerca Composizione, Rassegna dei dottorati italiani in progettazione architettonica e urbana”, n. 6, maggio 2000, p. 8.
53. «Il progetto è forse ritrovare questa architettura dove filtra la stessa luce, il fresco della sera, le ombre di un pomeriggio d’estate». In: Aldo Rossi, La città analoga, tavola in “Lotus”, n. 13, 1976, pp. 4-7.
54. «L’immaginario può, in una certa misura, essere decrittato e riconosciuto indipendentemente dalla possibilità di agire sul piano del reale. Con tutti i limiti della interpretabilità, può diventare materiale disponibile per l’elaborazione del progetto». In: Alessandra Capuano, Immaginario, in Alessandra Capuano, Fabrizio Toppetti, Roma e l’Appia. Rovine, utopia, progetto, Quodlibet, Macerata, 2017, p. 326.
55. Si veda il numero dedicato al “Montaggio” nel 2000 dalla rivista Arc Architettura Ricerca Composizione, Rassegna dei dottorati italiani in progettazione architettonica e urbana, Per approfondire si veda: AA. VV., Montaggio, op. cit.
Postfazione
Alessandra Capuano
Del progetto e dell’archeologia
È stato in occasione di una ricerca PRIN del 20091 che tra il Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP) della Sapienza Università di Roma e il Dipartimento di Architettura (DiARC) dell’Università degli Studi di Napoli Federico II è iniziata una proficua e intensa collaborazione sul rapporto tra architettura e archeologia. Un tema di centrale importanza nel nostro Paese, ma particolarmente significativo a Roma e Napoli, città che posseggono alcuni dei più importanti parchi archeologici al mondo e un sistema articolato di rovine e “affioramenti” che connota e condiziona il territorio. Per i gruppi di ricerca coordinati da Pasquale Miano a Napoli e da me a Roma, questa situazione storico-geografica non implica unicamente ragionare sulla protezione del passato, ma coinvolge il futuro delle città. La conservazione delle tracce dell’antico non è solo azione responsabile e doverosa, ma rappresenta infatti un’opportunità creativa per la modificazione dello spazio urbano affrontando i temi della contemporaneità. Si tratta quindi di ragionare in una dimensione globale, dove paesaggi culturali, siti naturali e trasformazioni urbane devono convivere e interagire a reciproco vantaggio. In questo quadro, il patrimonio ha un valore cruciale, non solo in quanto legato alla memoria e alla sua funzione di testimonianza, ma soprattutto in relazione ai nuovi significati che esso può assumere nelle città.
Come ricordavo in quella prima occasione di ricerca citando l’egittologo Assmann, il valore narrativo del passato costituisce una fondamentale “retrospettiva” che rende possibile una “prospettiva”. Rileggere continuamente la storia è infatti ciò che la mantiene viva. Occorre chiedersi, dunque, quali valori della città storica hanno senso oggi, perché questa ri-semantizzazione ha la capacità di agire sull’immaginario collettivo. L’archeologia può pertanto avere un importante impatto culturale e educativo sulla società, stimolando le comunità locali. E, le aree archeologiche, in particolar modo
quelle meno spettacolari e più periferiche ma non solo, possono avere un ruolo anche per affrontare ulteriori temi come la qualità urbana, la biodiversità, lo sviluppo sostenibile o il cambiamento climatico, se le si considera con uno sguardo complessivo e non settorialmente2
Attorno a questi ragionamenti abbiamo lavorato negli anni, formando giovani architetti e archeologi attraverso tesi di laurea e di dottorato, fondando un master internazionale Erasmus e organizzando workshop di progettazione multidisciplinari per esplorare, secondo differenti punti di vista e in diversi contesti, queste tematiche.
Francesca Coppolino è entrata a far parte di questa comunità di ricerca e ha dato un contributo fondamentale ai ragionamenti teorico-progettuali, di cui questo libro è significativa testimonianza.
Avvalendosi di uno specifico strumento desunto dalle tecniche cinematografiche, la post-produzione, Coppolino ragiona sulla presenza delle rovine come frammenti del passato da rimontare nella sequenza della città contemporanea. Una tecnica che, a ben guardare, è sempre stata utilizzata nella storia urbana, quando le rovine venivano considerate più come materiale da reimpiegare nell’architettura che come oggetto di una adorazione feticistica.
Prima che la scienza dell’archeologia cambiasse il rapporto simbiotico tra passato e presente, il reimpiego di spoglie era un fatto corrente e si riscontra già nell’architettura tardoantica a partire dal regno di Costantino o nelle prime basiliche cristiane. Le colonne della chiesa di Santa Sabina a Roma provenivano da un monumento tardo-imperiale e il teatro di Marcello si trasformò prima in fortezza e poi Peruzzi ne fece il palazzo per la famiglia Savelli. I resti di passate architetture assumevano dunque nuovi usi e configurazioni spaziali. Gli esempi sono tantissimi e come dice José Ignacio Linazasoro «attraverso la rovina il passato si attualizza permettendo la sua integrazione nel presente»3. Piranesi suggerisce il potenziale attivo dei frammenti, il suo essere un processo in via di mutazione per diventare altro. Mentre, nel famoso disegno di Joseph Michael Gandy, che immagina la Banca d’Inghilterra progettata da John Soane in un ipotetico futuro disfacimento, la rovina si fa linguaggio. Le tre espressioni della ratio vitruviana vengono di colpo ricondotte alla sola venustas. Le rovine rappresentano così la più sublime immagine di bellezza di ogni edificio, come affermerà anche Auguste Perret.
Questo modo disinvolto di reimpiegare la storia e i resti di passate architetture è per noi oggi poco praticabile con
Nel loro costante divenire nella città, le rovine si mostrano come visioni materiali dell’antico immerse nello spazio urbano del presente tra molteplici memorie, immaginari, temporalità. Scene sedimentate, immagini-collage, movimenti cronotopici celano la duplice essenza fisica e figurativa di forme inedite in cui convergono i contrasti e di punti di insorgenza tra reale e possibile. A partire da queste osservazioni, rintracciate nell’ambito dell’evoluzione del relativo ampio dibattito culturale, il libro propone una lettura del rapporto tra architettura, cinema e città, incentrata sul tema della rovina. Attraverso lo sguardo filmico e la prassi della post-produzione, ci si interroga sul progetto delle rovine come spazi del divenire da rimontare nella sequenza della città contemporanea e in grado di mettere in movimento la città stessa. In un intreccio di teorie, tecniche e strategie, disvelare rovine, immaginare traiettorie, sperimentare dispositivi, costruire visioni, rappresentano i mo(vi)menti progettuali del ritorno al futuro urbano della rovina.
ISBN 9788862429177 € 24
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