ESPERIENZE
È la Città Collettiva, con le sue dialettiche, il suo portato, il suo carico di attese e di istanze sociali, le sue determinate applicazioni, la protagonista di questo volume. In un racconto per immagini, che pone al centro lo spazio urbano.
Piano City, Piazza del Plebiscito, Napoli, edizione 2019.
LA CITTÀ COLLETTIVA
Carmine Piscopo
ESPERIENZE. UN RACCONTO PER IMMAGINI
Lo spazio pubblico ritrovato. Il Lungomare
Il “Palazzo del Popolo” e il patrimonio disvelato. L’Ipogeo di Piazza del Plebiscito
La città parco e la bellezza tradita. Bagnoli
Una grande attrezzatura sociale. L’area ex Nato
Fine dei grandi racconti.
Le Vele di Scampia
Da Gigante Dormiente a Parco di Quartiere. L’ex Ospedale militare
Un nuovo modello di gestione per il patrimonio culturale. Il Progetto Unesco
Waterfront, aree portuali, retroporto e città. I moli S. Vincenzo, Beverello e Luise
Infrastruttura e nuove Stazioni. Il progetto della Linea Metropolitana
La città dei bambini. Il Parco giochi dell’Edenlandia
Adotta la città. Regolamenti per l’adozione e la cura della città
Usi civici e Beni comuni
Il PUC e il mosaico di azioni convergenti per la cura. Pubblico, pubblico-privato, uso pubblico, pubblico-pubblico
Il National Recovery and Resilience Plan
LA CITTÀ COLLETTIVA
Daniela Buonanno
L’elenco delle Delibere e lo spazio delle relazioni
LA CITTÀ COLLETTIVA
Carmine PiscopoA una distanza consentita dal tempo, questo libro prova a definire i contorni di una questione, o, meglio, di un’esperienza che ha attraversato la città di Napoli, delineando una visione il cui orizzonte di attesa resta tutt’oggi vivo e aperto. Fondato su un intenso lavoro, condotto nell’ambito della reggenza dell’Assessorato all’Urbanistica e ai Beni Comuni del Comune di Napoli da maggio 2013 a ottobre 20211, e costantemente verificato nel rapporto con la ricerca progettuale in ambito scientifico, il discorso che qui si presenta prova a tracciare una linea in un intenso panorama di progettazioni, di programmazioni, di accadimenti, di eventi, di emergenze. Dove gli uni, spesso, si sovrappongono agli altri, senza filtro e senza rete.
Ma non l’insieme delle sovrapposizioni, nel loro costruire cifre che andrebbero ulteriormente indagate, né tracciati più o meno esaustivi di cose fatte o di programmi realizzati, nel loro inevitabile bilancio tra luci e ombre, nel loro stringersi intorno a ragioni profonde o avverse che sempre animano la città, formano il nucleo di questo testo. Né sguardi volti alla disamina di altre narrazioni, che pure avvolgono la città. Per tutto ciò, si sarebbe dovuto e potuto scrivere un altro libro, fatto di altri materiali, altre inquisizioni e altre interrogazioni. E non è detto che un giorno non lo si faccia.
L’argomento che qui si è scelto, dopo una lunga riflessione, concerne un punto di vista molto preciso ed è in tale spettro che esso va letto. Come una definizione che si muove tra altre definizioni, essa è gelosa dei propri materiali ed esclude dialoghi, se non a distanza, con altre possibili retoriche, che vedono sempre più la città descriversi dal proprio interno, come una materia che si autoproduce per dar spazio a definizioni enucleate attraverso metodi letterari, innamorandosi di materiali, accarezzando la superficie delle cose, invertendo, spesso, la causa con l’effetto nella costruzione di stemmi, di mappe o di rotte possibili. Non, dunque, la città continua, nel suo sforzo di costruzione di figure, sotto i colpi di dinamiche agenti per effetto di dispersioni non relazionate; né la città dei grandi racconti, fatta di straordinari ritratti che affondano le proprie radici in pianificazioni, progettazioni, processi di breve o lunga durata di cui ne hanno svuotato il senso per la loro irrealizzabilità o astrazione; né la città eterogenea, le cui radici si perdono ad un’insolita profondità, spesso entro confini labirintici per il piacere dell’incontro con il Minotauro; né, tantomeno, la scoperta di un metodo, giacché il suo valore sta nel sollevare, sotto ogni silenzio, un interrogativo sepolto2. E l’elenco è lungo… Nulla di tutto ciò trova qui trattazione o dedica. Come, ad esempio, il libro che si sarebbe voluto scrivere in forma di “diario” all’indomani della fine naturale di questa esperienza, ossia la descrizione immediata di quella simultaneità che tiene insieme eventi, processi e dinamiche agenti in un campo di interazioni continuo e intermittente, decretando ora il nascere, ora l’invecchiare, ora il morire dei giochi3 sull’asse dell’architettura e della realtà del suo discorso4.
A conferma dell’inesauribile vitalità dell’architettura, il cui campo si offre nell’immensità del suo discorso. Di codice in codice, di testo in testo5, nell’insieme delle dialettiche che ne formano il corpo. Una cifra, questa della simultaneità, che si offre alla città in forma di processualità, - che è cosa profondamente diversa dal “processo”di cui questo libro, se non altro per i suoi effetti, tiene conto. Come una dimensione che attraversa, anima e plasma profondamente la città, nel suo soggettivarsi in architettura o in suoi frammenti. Come un fiume in piena che la investe ogni giorno, lasciandola al termine esausta, che fa sì che un’occasione, un progetto o un’idea si trasformino, o meno, concretamente, fattivamente, in Città, o, analogamente, in suoi frammenti di materia o di pensiero, come nuclei pronti a inseminare nuove dialettiche e nuove visioni, non appena la luce del giorno torna ad illuminare un possibile inizio. Una dimensione, questa, che sfugge ai più, per non dire alla maggior parte degli addetti e degli operatori, chiusi nella propria convinzione che la realizzazione di un progetto discenda esclusivamente dalla sua forza o dalla sua bontà. Questa processualità, che ogni giorno attraversa l’architettura, sottoponendola a banchi di prova spesso irriducibili, è ciò che ne forma parte come una costruzione di cui il suo stesso destino è fatto: la persuasività, la ricorrenza delle argomentazioni, la capacità di penetrazione nel dibattito e nelle idee, nei salotti e nelle aule, nelle piazze e nelle rubriche degli esperti, nel gioco degli interessi contrastanti, nelle mozioni e nelle strumentalizzazioni, perfino nei finti accreditamenti volti a demistificare la mistificazione, per mistificare ancor di più… sono solo alcune delle infinite stanze, spesso costruite le une nelle altre, in cui ogni giorno l’architettura prova faticosamente a incedere. Giacché, se vi è sempre un legame tra l’architettura e la città6, ancor di più, oggi, andrebbe sondato il legame inscindibile e singolare tra la città e il fiume dei suoi corpora discorsivi che ne formano la processualità, ovvero la sua asseverazione, come un banco di prova tra i più temibili.
È a partire dall’insieme di queste riflessioni, o, meglio, di queste esclusioni, che trae origine il nucleo di questo libro, che vuole parlare di una questione precisa, ossia della città collettiva nella sua costruzione e nello spazio di un’esperienza circoscritta, come un insieme di visioni profonde enucleate da un dibattito intenso che ha attraversato la città, i cui materiali si ritrovano in inediti archivi, fatti di dialettiche forti e di dialettiche deboli, di memorie biografiche della città come di momenti irriproducibili in cui hanno trovato spazio e accoglimento istanze, proiezioni, desideri delle collettività, nel loro farsi proiezione, ideazione e processo e, infine, documento, delibera e, di là in poi, traduzione tangibile e attuazione. Una città, dunque, concreta, i cui materiali traggono il proprio spazio di dominio dal confine di un pensiero che abita la città, nel suo farsi
spazio di confronto e di costruzione collettiva, cifra portatrice di una razionalità profonda e trasformatrice. E, ancora, nello spazio delle pratiche, nella sfera del “comune” (il cui senso sta esattamente nel significato letterale) e nella costruzione degli statuti delle “Nuove Istituzioni”, in un processo di sedimentazione, di messa a fuoco e di progressiva acquisizione. Dove trovano spazio dialettiche ora irriducibili, ora asimmetriche, ora laterali, nel dar vita a nuovi rivolgimenti, come a camere di compensazione dalle profondità alle volte secolari7.
Archivi, questi, spesso, interdetti, giacché i loro materiali sono il frutto di un rapporto inedito, per come si è venuto costruendo a Napoli in assemblee pubbliche e collettive, in consulte e osservatori aperti alla collettività, che si sono tenuti in luoghi precisi della città, ai piedi delle Vele di Scampia o tra i frammenti di ciò che resta di una cortina di ferro come l’area ex Nato di Bagnoli, nello spazio delle “case del popolo” di Bagnoli come nelle piazze assolate o dense di pioggia di Cavalleggeri, nelle sedi delle Municipalità come dei parchi, delle Istituzioni cittadine, in confronti continui, durati sino a notte fonda, lasciati aperti e mai conclusi finché ogni partecipante ne potesse decretare davvero la fine, prima di trasformarsi in atto di indirizzo, in delibera da approvare o in seduta di Consiglio Comunale. Per divenire documento presso ogni consesso governativo. Come, ancora, ai bordi del lungomare di Napoli, negli ampi spazi della logistica del Porto, negli spazi liberati e nelle stanze dell’Avvocatura di Palazzo San Giacomo, nelle stanze del Consiglio Comunale o nelle assemblee nei pressi delle sedi locali del Governo, per dar corso ad una dimensione profonda entro cui si costruisce la città. O, meglio, la città collettiva, di cui essa è parte.
Come una sfera luminosa, la città collettiva si nutre della crisi della ragione8, giacché al lungo racconto dell’architettura, condotto in stile quasi monista, essa associa la pluralità dei giochi, dei nessi, e la sovrapposizione degli effetti. Con medesima convinzione, essa celebra la fine dei grandi racconti per lo spazio dell’elaborazione del pensiero critico e della disgiunzione dei processi costruttivi basati su tali convinzioni. E, ancora, vive nella memoria biografica dei luoghi e nei progetti non realizzati, la cui realizzazione si rende possibile come azione collettiva.
Per lungo tempo associata alla sfera della ragione o, quanto meno, ad una delle sue possibili immagini, essa ha da tempo abbandonato i territori di una rappresentazione lineare, dove chiari erano i legami di dipendenza tra differenti ordini e spiegabili i rapporti di reciprocità interna. La crisi di questo modello “razionale”, di cui le città si sono nutrite nel tempo, ha sancito la crisi non solo di un sapere, quanto della fondatezza stessa dei suoi processi costruttivi, corrodendone il nucleo. Così essa ci restituisce oggi non solo l’inizio e la fine dei processi, La Città Collettiva
ESPERIENZE
UN RACCONTO PER IMMAGINI
LO SPAZIO PUBBLICO RITROVATO. IL LUNGOMARE
La città collettiva è fatta di spazi infrastrutturali e di arterie carrabili che la collettività vuole trasformare in spazio pubblico pedonale, disponibile a molti usi, in una straordinaria cornice paesaggistica.
Il progetto di riqualificazione del Lungomare di Napoli nasce dall’esigenza di restituire alla collettività uno spazio pubblico unitario, pedonale, accessibile a tutti, in una straordinaria cornice di paesaggi. Tale visione si origina in occasione della pedonalizzazione del Lungomare, disposta con Ordinanza Sindacale nel 2012, per consentire lo svolgimento delle gare sportive dell’America’s Cup, e si sostanzia ulteriormente in numerose altre occasioni sportive e culturali, tra cui, la Coppa Davis e il Giro d’Italia, che conferiscono, da subito, alla città di Napoli una immagine attrattiva e aperta alle sfide della contemporaneità.
L’iter progettuale trae origine dallo Studio condotto in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, finalizzato alla definizione di linee guida per la trasformazione del Lungomare, nel tratto di costa tra Largo Sermoneta e i Giardini del Molosiglio.
Lo Studio, redatto tra il 2012 e il 2013, proietta il Lungomare di Napoli in una dimensione contemporanea, secondo una scalarità innervata da un insieme di memorie biografiche antecedenti la realizzazione della colmata.
L’approvazione dello Studio da parte della Giunta, nel 2013, attiva un vivo dibattito in città, incentrato sulle diverse possibilità di trasformazione del Lungomare, sul suo ruolo urbano, sulla modifica delle sue funzioni, sulla sua dimensione metropolitana.
La conservazione della carrabilità, quale tratto distintivo della sua configurazione, insieme con le istanze di modifica della morfologia della costa per un recupero della sua monumentalità, acquisiscono, in tale dibattito, un ruolo preminente. Nel 2014, la Direzione Regionale per i Beni culturali e Paesaggistici della Campania istituisce un Tavolo Tecnico finalizzato alla verifica degli aspetti progettuali, che ha come esito, tra le altre cose, la riaffermazione, da parte della Soprintendenza BAPSAE,
dell’assetto stradale e carrabile del Lungomare, quale suo tratto “identitario” non superabile. Sulla scorta di tale parere, gli Uffici comunali redigono il progetto definitivo dell’intervento di riqualificazione urbana del Lungomare, relativo al tratto compreso tra piazza Vittoria e il Molosiglio. Nel 2015, la Soprintendenza introduce, in aggiunta, nuovi regimi vincolistici sull’area e prescrive l’uso della pietra lavica per la pavimentazione, confermando, seppur con proporzioni e rapporti diversi, la suddivisione del tratto per fasce funzionali marciapiede/strada/corsia ciclabile/marciapiede. Il progetto definitivo, approvato e validato, trova nel 2018 finanziamento a valere sui fondi POC Metro per un totale di 13.5 milioni. Il progetto esecutivo viene redatto dall’RTP Studio Discetti, in seguito ad un bando internazionale di progettazione. La gara pubblica per l’affidamento e l’avvio dei lavori si è conclusa nel 2022.
La città collettiva rilegge qui lo spazio secondo molteplici istanze di trasformazione e ne chiede il cambiamento: da spazio altamente specializzato, infrastrutturato e frammentato, in spazio libero, attraversabile in qualsiasi ora del giorno e della notte, pedonale, multiuso; da arteria carrabile, vincolata, a luogo iconico del paesaggio, secondo un nuovo disegno ad altezza di una città monumentale contemporanea; da autostrada congestionata a spazio di fruizione paesaggistica; da luogo di interdizione al mare a luogo di conquista del mare; da luogo senza spazi di sosta a luogo per il tempo libero, immerso nella straordinaria cornice del golfo; da luogo inquinato dai gas di scarico dovuti alla funzione veicolare a luogo salubre per l’esercizio del corpo; da paesaggio di scogli addensati a paesaggio libero da scogliere; da luogo recintato entro barriere, gradini, salti di quota, a spazio pubblico per eccellenza senza barriere; da luogo della mobilità carrabile a luogo dalle diverse mobilità lente, per ciclisti, pattinatori, carrozzine, secondo una nozione di mobilità rispettosa del paesaggio; da luogo chiuso alle permeabilità esterne a luogo dei viaggiatori e dei turisti, da luogo di attraversamento a luogo di sosta per tutti. Lungamente, qui, la città collettiva si è chiesta se una funzione, quella carrabile, fosse elevabile al grado di bene culturale da tutelare in quanto formante un carattere identitario del luogo, da preservare e tramandare. L’Amministrazione comunale ha qui creduto nelle possibilità trasformative del Lungomare, traducendole in progetti e ha reperito i finanziamenti necessari per poterle realizzare.
Con Ordinanza Sindacale n.308 del 22/3/2012, il Lungomare di Napoli (5 Km di linea di costa) viene interamente pedonalizzato per consentire alla collettività di assistere allo svolgimento delle gare dell’America’s Cup World Series.
Migliaia di persone si riversano sull’arteria carrabile appropriandosene e attraverso scalette provvisorie riconquistano gli scogli e il mare.
L’occasione dell’America’s Cup segna l’inizio dell’uso pedonale del Lungomare
È l’incontro di due tensioni convergenti: dell’Amministrazione comunale, impegnata da tempo in studi e proposte per la pedonalizzazione duratura del Lungomare, e della collettività che, nel frattempo, invade lo spazio carrabile e lo fa proprio.
Il Lungomare prima dell’Ordinanza di pedonalizzazione del 2012.
Il Lungomare dopo l’Ordinanza di pedonalizzazione del 2012.
UNA GRANDE ATTREZZATURA SOCIALE. L’AREA EX NATO
La città è fatta di luoghi militari che la collettività vuole trasformare in una grande attrezzatura sociale e in un luogo di produzione.
Il Collegio Costanzo Ciano fu progettato con l’obiettivo di accogliere ed educare circa 2.500 giovani e diventare un grande centro di ospitalità e solidarietà per i “figli del popolo”. Costituito da 18 edifici, tra cui, scuole, dormitori, strutture logistiche e sportive, una infermeria, una chiesa e un teatro, il Complesso - la cui inaugurazione avvenne nel 1940non fu mai veramente utilizzato per lo scopo sociale per il quale era stato costruito, ma fu destinato dapprima a sede delle truppe italo-tedesche, e poi, al termine della guerra, dato in concessione d’uso all’esercito americano del Comando Us Navy della NATO, fino al 2013.
In quanto sede militare, l’area, inaccessibile e invalicabile, ha goduto dello status di extraterritorialità, che rappresenta un particolare regime di esenzione dalla giurisdizione (anche urbanistica) del diritto locale.
La dismissione del Collegio come sede del Comando Americano, dopo circa cinquant’anni, e la “riacquisizione” dell’area alla gestione comunale hanno da subito spinto l’Amministrazione de Magistris a decretare, nel 2013, la necessità della sua restituzione alla collettività in forma di grande attrezzatura sociale e della sua integrazione nel tessuto di relazioni del quartiere di Bagnoli e con le aree ex Ilva.
Il recupero dell’area alla giurisdizione del Comune, soprattutto in termini urbanistici, ha comportato la necessità di un preventivo lavoro di ricostruzione del quadro delle vicende edilizie degli ultimi 50 anni, finalizzato a raccogliere documenti relativi allo stato di diritto, al grado di manutenzione, nonché alla legittimità degli immobili e delle terre agricole della Collina di San Laise, di cui si compone il Complesso.
Il 2013 segna, così, la dismissione dell’ultimo frammento di una cortina di ferro che a lungo ha escluso la collettività, insieme con l’avvio di una serie di azioni per il recupero della
fruibilità pubblica del Complesso. Ancora, esso segna l’avvio di un’interlocuzione fattiva con la collettività di Bagnoli, da tempo impegnata nel richiedere alle Amministrazioni un destino diverso per l’area militare. Tra le prime azioni messe in campo, la sottoscrizione, in quello stesso anno, di un Protocollo d’Intesa pubblico-pubblico con la Fondazione Banco di Napoli Assistenza all’Infanzia (proprietaria dei suoli), per l’istituzione di un percorso, con la collettività, finalizzato ad avviare iniziative coordinate tra il Comune e la Fondazione per la trasformazione del Complesso in attrezzatura sociale.
Seguono manifestazioni per l’utilizzo pubblico delle aree e la loro destinazione, attraverso forme di convenzionamento con il quartiere e la città, ad attrezzature sportive, per l’istruzione, per il tempo libero e per attività di ricerca produttive e terziarie.
La non attuazione dei principi sottoscritti nel Protocollo da parte della FBNAI, porta il Comune dapprima a sollecitare la Fondazione (nel 2015) e, successivamente, a trovare con la stessa un dialogo e un confronto, dai quali scaturiscono l’attivazione di un Tavolo, composto da collettività, associazioni, Municipalità e Università, che conduce all’approvazione di un Masterplan, con valore di preliminare di PUA, nel 2016.
Il Piano Urbanistico Attuativo per l’ex area NATO, al termine di un lungo iter aperto alla collettività, viene definitivamente adottato nel 2020, con il supporto del Comune, e rappresenta, in continuità con il Masterplan, un atto urbanistico essenziale per la destinazione d’uso del Complesso, improntato ad attività sociali, alla ricerca, alla formazione, allo sport, alla cultura e al tempo libero.
La città collettiva trasforma qui lo spazio delle parate militari, delle logistiche di guerra, degli armamenti e dei frammenti della cortina di ferro in un luogo aperto alla collettività, alle culture della pace, al tempo libero, ai giovani, alla produzione di socialità e di servizi urbani.
Da luogo del Comando militare Us Navy (accessibile a pochi), a luogo per tutti. E chiede che qui si inveri il progetto originario di cooperazione sociale, come poi precisato nei documenti della Fondazione Banco di Napoli Assistenza all’Infanzia, come una cifra di realtà.
Ritrova spazio nello statuto sociale della Fondazione, che promuove e concretizza attività e servizi rivolti sia ai singoli che all’intera comunità; nelle ragioni storiche della fondazione del Complesso, quale luogo di assistenza e di accoglienza per giovani e adolescenti in difficoltà e di produzione di servizi sociali; nelle spinte della collettività volte a riconquistare uno spazio negato e nelle continue progettualità che hanno legato il Collegio Ciano, al viale Giochi del Mediterraneo, alla Mostra e all’intero quartiere di Bagnoli, quale polo di rilancio e di rigenerazione dell’area Occidentale; e, ancora, nella collina delle colture agri-contadine, che hanno resistito alle speculazioni edilizie, e nel suo paesaggio ritrovato.
La città collettiva trova spazio nell’Amministrazione Comunale che ha dato seguito, attraverso i propri strumenti urbanistici, alle previsioni di Piano per la trasformazione dell’area in una grande attrezzatura collettiva a destinazione sociale, interpretando lo statuto della “cessione” come cessione di servizi alla collettività.
2 luglio 1963. Il Presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy è in viaggio a Napoli. Le celebrazioni per la visita di Stato si tengono nella Base Nato di Bagnoli.
Archivio fotografico CarboneNapoliLa funzione militare del Complesso (Comando Us Navy) ha consentito, per oltre 50 anni, di oscurare la Base Nato dal territorio comunale di Napoli.
Le immagini satellitari ne hanno segretato a lungo la posizione e la forma. La pianificazione urbanistica di questa parte di città è stata “congelata”, fino alla smilitarizzazione del Complesso, avvenuta nel 2013
Lo spazio negato. La dismissione della funzione militare segna la definitiva caduta della cortina di ferro nella città di Napoli e la sua riapertura alla collettività.
Una grande attrezzatura sociale. L’area ex NatoLA CITTÀ DEI BAMBINI. IL PARCO GIOCHI DELL’EDENLANDIA
La città è fatta di aree di resistenza che la collettività vuole trasformare in cooperative di comunità.
Realizzato negli anni ‘30 del Novecento, contestualmente con la Mostra d’Oltremare di cui fa parte, l’Edenlandia rappresenta uno dei parchi divertimento più antichi d’Europa. Tra gli anni 2011 e 2013, per problemi finanziari e gestionali, il Parco, contestualmente con la chiusura dello Zoo, chiude i propri cancelli mentre viene avviata la procedura di fallimento nei confronti della società gestionaria. Una complessa procedura porta all’affidamento dell’area del Cinodromo e del Parco dell’Edenlandia (la cui proprietà dei suoli è della Mostra d’Oltremare) a una nuova società di gestione, che si dice disponibile a garantire la continuità lavorativa dei 54 dipendenti del Parco, a rischio licenziamento.
Nel gennaio 2013, iniziano i lavori per ammodernare il Parco, ma nuovi problemi portano la Società a rivedere l’iter concordato. Numerosi, da quel momento, sono gli incontri, le assemblee e le riunioni di cui l’Amministrazione si fa promotrice per trovare un accordo tra i lavoratori del Parco, il Curatore fallimentare e la Mostra d’Oltremare, al fine di salvaguardarne il patrimonio, riaprire il Parco e restituirlo alla Città.
Nel 2014, la nuova Società New Edenlandia presenta un progetto che prevede la realizzazione di nuove attrazioni insieme con la riattivazione e il restauro di quelle storiche (i Tronchi, il Vecchio Maniero, la vecchia America, etc.), da realizzare secondo un articolato programma che tenga conto del quadro vincolistico, nonché delle istanze della collettività e dell’Amministrazione.
Per dimostrare la liceità della maggior parte dei volumi edificati e salvaguardare il patrimonio storico artistico, i dipendenti della struttura indicano all’Amministrazione quale prova testimoniale della storicità dei volumi, alcune scene tratte dal film “Rita la Zanzara” del 1966, di Lina Wertmüller, dove una giovanissima Rita Pavone si fa ritrarre tra le strutture del parco
La città dei bambini. Il Parco giochi dell’Edenlandia
divertimento. Una serie di assemblee, aperte alla collettività, portano alla definizione dei nuovi scenari, mentre gli Uffici Tecnici di Palazzo S. Giacomo, insieme con la Mostra D’Oltremare, i dipendenti del Parco Giochi, la Curatela fallimentare e la Soprintendenza, lavorano a ricostruire l’esatta consistenza volumetrica dello storico parco giochi.
Il Piano degli abbattimenti viene così verificato e presentato all’Autorità Giudiziaria e realizzato nei suoi assi fondamentali.
Nel 2017, il Comune approva il nuovo progetto di riqualificazione del Parco, e, a seguito degli interventi realizzati, la nuova Società di gestione del Parco, il 26 luglio del 2018, riapre l’Edenlandia, tutelando i posti di lavoro dei suoi dipendenti e riaccogliendo la collettività.
La città collettiva si costituisce, qui, nelle istanze di associazioni, comitati, movimenti, che hanno visto nella chiusura del parco, nel licenziamento degli operai e nei rischi di svendita del patrimonio dell’Edenlandia e dello Zoo, il tramonto di un modello pubblico, per l’avanzare di nuovi programmi estranei all’identità del luogo. E, ancora, nell’istanza di costruzione di un modello di comunità, per la gestione del fallimento. Una dialettica, questa, che ha scritto una delle pagine più interessanti nella costruzione di nuovi modelli di “cooperative di comunità” per la gestione di procedure fallimentari del Tribunale e per il rilancio di un luogo. La città collettiva, qui, chiede la continuità del lavoro dei dipendenti, la salvaguardia del patrimonio pubblico, la sua integrazione, di fatto, con il parco della Mostra, e, ancora, l’accessibilità ai suoi spazi verdi, l’apertura del parco alla collettività, la modifica del suo recinto per la cessione alla collettività del parco Robinson, insieme con l’integrazione diversificata con le aree del Cinodromo, lo Zoo e l’ex area Nato. Un progetto fortemente sentito, che ha visto la partecipazione di collettivi e di movimenti in numerose assemblee cittadine, nella prospettiva di rilancio dell’intera area occidentale. Un grande parco, che tiene insieme, in una dimensione contemporanea e accessibile a tutti, le aree dell’ex Acciaieria, Mostra, Cinodromo, Zoo, Edenlandia, ex Nato, fasci dismessi delle ferrovie. Con diverse gradazioni della nozione di pubblico
e differenti effetti di ricaduta sul rilancio dell’intera area occidentale.
Così, Amministrazione e collettività, qui, si sono lungamente confrontate sulla trasformabilità dei luoghi, sui regimi proprietari, sulla costruzione di nuovi assetti democratici per la definizione delle scelte, sulla redazione dei progetti e delle delibere, sui nuovi modelli di gestione che includessero la collettività e la sua partecipazione diretta.
La città collettiva si è qui costituita anche sulla cifra delle identificazioni con i propri ricordi, ponendo l’istanza di riapertura di un parco divertimenti a libero accesso e riproponendo il recupero di attrazioni di pregio, divenute ostaggio dell’abbandono e dell’entropia. Come immagini legate al ricordo, in cui ai vagoni scoloriti dei trenini e ai frammenti di cartapesta ridotta in polvere delle finestre del Castello di Lord Sheidon, si alternano le immagini di una memoria da recuperare, la città collettiva ha chiesto il recupero dei luoghi e l’allontanamento dei rischi di perdita o distruzione del patrimonio. Ritrovandosi, così, in un intenso lavoro di recupero di frammenti di pellicole amatoriali, di ricordi di memorie e di produzioni cinematografiche, al fine di scongiurare tale rischio, collaborando con le Istituzioni al fine di rinvenire la sua consistenza volumetrica. E, ancora, ritrovandosi nelle assemblee dei lavoratori, nell’occupazione permanente delle giostrine vincolate, poi svincolate, libere, finalmente, di poggiarsi in nuovi paesaggi.
Tra piani finanziari e gestionali, piani di demolizione e procedure decretate dal Tribunale e dalle curatele fallimentari, la città collettiva è qui fatta anche dall’Amministrazione comunale, a lungo impegnata a garantire la piena restituzione alla città del parco pubblico dello Zoo e del parco divertimenti, la tutela dei posti di lavoro e la salvaguardia della vita degli animali.
Dopo un lungo periodo di chiusura (dal 2013), il Parco giochi dell’Edenlandia, riapre alla collettività nel luglio 2018.
Ph. © Riccardo SianoLA CITTÀ COLLETTIVA
Daniela BuonannoMolteplici aggettivi sono oggi associati alla città (diffusa, generica, porosa, indistinta, intermedia, globale, virtuale, ecc.). Ciascuno di essi rappresenta un modo per raccontare le trasformazioni in atto e per decifrare lo spazio che ci circonda e che abitiamo.
L’aggettivo collettivo, introdotto in questa pubblicazione, non vuole aggiungersi alla lista come ulteriore generica definizione, ma vuole essere un modo per esplicitare – come chiarito da Carmine Piscopo nella sua prefazione – la natura singolare, condivisa, della città, quale entità legata alla memoria collettiva di un popolo che in essa si riconosce, con le sue contraddizioni, i suoi antagonismi, le sue camere di compensazione.
Collettiva è dunque una condizione intrinseca della città, che è causa e motivo della sua costruzione e della sua esistenza.
L’accettazione di una “non definizione” dell’aggettivo collettivo rende possibile la contemporanea ammissione di tutti gli altri appellativi usati per descriverla, quali tentativi parziali di descrizione di un sistema più ampio e complesso, in cui la collettività, (entità che può apparire generica nella sua individuazione, ma è chiaramente identificabile nelle sue manifestazioni), diviene centrale.
La Città Collettiva prova, dunque, a risolvere il divario, presente nel dualismo delle parole francesi ville e citè, tra “il territorio edificato e il modo in cui la gente abita e vive1”, ovvero tra il modo in cui abitiamo e facciamo esperienza dello spazio urbano e il modo in cui esso è costruito.
Termini, quali “beni comuni”, “usi civici”, “diritto alla città”, legati alla sfera giuridica e del sociale, che si incontrano nei testi che accompagnano il racconto delle immagini (e che non sono pertanto da considerare mere didascalie), rappresentano un esempio di come, per descrivere la città contemporanea e le sue trasformazioni, sia necessario uno sguardo più ampio e multidisciplinare.
Da qui, la scelta curatoriale di provare a rappresentare la complessità di cui è fatta la Città Collettiva, attraverso una modalità grafica di narrazione che si compone di materiali eterogenei (testi, immagini, disegni, progetti, articoli di giornali, documenti amministrativi, sentenze, atti giudiziari etc.).
Nella limitazione della forma e della bidimensionalità del libro stampato, il tentativo è stato costruire uno “spazio” di punti di vista, che genera rappresentazioni diverse in cui si contrappongo, trovando convergenza, progetti di architettura e di trasformazione urbana insieme con le proiezioni, i bisogni e le istanze della collettività. Per tali ragioni, il racconto non segue un ordine esclusivamente cronologico, ma si articola affrontando questioni, mettendo in luce conflittualità, sovrapponendo istanze differenti, e, nella contraddizione di alcune posizioni, spesso irriducibili, prova a mettere in evidenza la forza della Città Collettiva e del suo verificarsi, quotidianamente, per determinare il destino dei suoi territori.
L’interpretazione soggettiva, propria del concetto di lettura, del testo e dei diversi sub-testi di cui si compone, consente di percorrere differenti strade di conoscenza, di approfondimento e di comprensione delle esperienze narrate.
Dalla sovrapposizione di tali flussi, prende forma la Città Collettiva che garantisce non solo il diritto di fruire dei beni del territorio («diritto di appropriazione») ma anche quello di partecipare attivamente alle decisioni sulle trasformazioni urbane («diritto alla partecipazione»), attraverso nuove forme di legittimazione che superano quella visione piramidale, verticistica, dettata dal binomio oppositivo bottom-up e top-down. I tentativi di trovare un equilibrio tra questi due “movimenti” unidirezionali opposti, attraverso forme più o meno strutturate di condivisione delle scelte, in particolare quelle che riguardano la trasformazione del territorio, trovano nella forma dei beni comuni e degli osservatori cittadini – così come definiti dall’Amministrazione comunale di Napoli - la loro espressione più compiuta.
Il motivo è dovuto al riconoscimento delle collettività nelle scelte essenziali che riguardano la “sfera” del Comune, tra cui l’uso del patrimonio e dello spazio pubblico, la salvaguardia ambientale e la tutela del territorio.
Tale partecipazione, nei suoi diversi livelli, ha consentito la costruzione di una forma di identità urbana collettiva autentica, anche se molteplice, perché diversamente interpretata dai vari gruppi nel corso della loro vita, e dinamica, in quanto è esposta a nomadismi periodici e a continui pendolarismi da parte della collettività.
Il rafforzamento di questa identità rappresenta l’obiettivo necessario per provare a colmare il distacco esistente tra lo spazio urbano e lo spazio politico, ovvero tra le “politiche” e le “pratiche” urbane, e per approfondire i legami che le comunità hanno con i luoghi.
Conflittualità, esigenze diverse e usi molteplici, talora in contrasto tra di loro, costituiscono la ricchezza vitale della Città Collettiva.
Far emergere questi conflitti consente di individuare delle soluzioni tra cui scegliere esplicitamente attraverso il progetto, oppure da attuare transitoriamente, con esperimenti temporanei o “pilota”. In questo senso, il richiamo a modelli di urbanizzazione reversibili, ad architetture aperte basate su dispositivi territoriali meno rigidi di quelli utilizzati dai progetti urbani tradizionali, o sull’uso temporaneo degli spazi, si è rivelato un importante metodo di verifica e di sperimentazione di un nuovo modo di percepire e, dunque, di trasformare lo spazio. Il progetto iperdeterminato dello spazio urbano esclude ogni possibilità di sperimentazione e di inclusione di usi informali nella città2
Così, dal punto di vista progettuale e processuale, la Città Collettiva, che emerge dalle esperienze di trasformazione urbana ripercorse nel libro, presenta alcuni punti ricorrenti, che si vogliono qui evidenziare e
che rappresentano un sottile fil rouge che lega insieme i vari progetti, nonostante le diversità di localizzazione, dimensione e complessità che li contraddistinguono.
Il primo punto di connessione riguarda l’interpretazione dello spazio pubblico che si connota, in molte di queste esperienze, di una duplice funzione: luogo elettivo delle scelte, in cui dare risposta alla proiezione dei desideri e delle istanze delle collettività di riferimento, e luogo di cura e di riappropriazione di adozione.
Valori, questi ultimi, che hanno rappresentato la vera spinta alla trasformazione delle aree di Bagnoli, di Scampia e dell’ex Area Nato, nelle quali lo spazio della città diventa spazio di riscatto e di liberazione in cui, il territorio non rappresenta più un luogo da suddividere in aree funzionali, ma un bene comune da restituire alle collettività in ogni sua forma.
Ecco il senso delle battaglie per il parco e la spiaggia pubblica di Bagnoli, per l’uso pubblico perpetuo degli spazi interni dell’ex area Nato (ex Complesso Ciano) di proprietà della Fondazione Banco Napoli per l’Assistenza all’Infanzia, e per lo spazio collettivo da realizzare sull’area di sedime delle Vele, nel quartiere di Scampia. L’aggettivo pubblico implica, in questi casi, un’assunzione di responsabilità da parte della collettività, che nel sentirsi protagonista del processo di trasformazione, si prende cura dello spazio e lo gestisce, attraverso un uso collettivo, per preservarlo da qualunque forma privatistica.
Anche la rifunzionalizzazione del patrimonio costruito, negli esempi dell’ex Asilo Filangieri e dell’ex Ospedale Militare, risente di questa sensibilità progettuale e politica insieme. Il tema della valorizzazione sociale3, attraverso una sua utilizzazione collettiva per scopi sociali, rappresenta una forma, tra le più interessanti, di riattivazione e riappropriazione del patrimonio che non si esaurisce nella sua dimensione economica, quantificabile in termini monetari, ma tiene conto di altri indicatori, quali il beneficio d’uso, il reddito civico e il valore dei servizi che la riattivazione di quel bene può avere sul territorio e su una determinata collettività.
A partire da queste considerazioni, un secondo fondamentale punto che lega le esperienze narrate, riguarda il ruolo delle collettività nella costruzione e condivisione delle scelte rivolte alla rigenerazione e trasformazione urbana.
In tutti i casi, gli scenari di trasformazione dello spazio sono stati definiti mediante la costituzione di tavoli di lavoro e di assemblee territoriali, oppure mediante l’attivazione di processi partecipativi strutturati, come nel caso del programma Urbact. Manifestazioni pubbliche, assemblee cittadine, consulte territoriali, sono solo alcuni dei luoghi in cui il necessario conflitto tra interessi
Primo di due volumi dedicati alla Città Collettiva, il libro presenta, attraverso un racconto per immagini, un’esperienza amministrativa e progettuale, che ha attraversato la Città di Napoli tra il 2013 e il 2021, delineando una visione il cui orizzonte di attesa resta tutt’oggi vivo e aperto.
Al centro di questo racconto è la Città Collettiva, nel suo emergere come una dimensione che anima profondamente la Città, per tradursi in architettura o in suoi frammenti di materia e di pensiero, pronti a inseminare forme, spazi, luoghi, processi, entro cui è il farsi dell’organismo urbano.
È a partire da un insieme di esperienze, che trae origine il nucleo di questo libro, i cui materiali si ritrovano in inediti archivi, fatti di dialettiche forti e di dialettiche deboli, di memorie biografiche della Città, come di momenti irriproducibili in cui hanno trovato spazio e accoglimento istanze, proiezioni, desideri delle collettività, nel loro farsi ideazione e processo e, infine, documento, decisione e delibera e, di là in poi, traduzione tangibile e attuazione.
Entro tale racconto, trovano spazio l’insieme dei processi che hanno condotto alle progettazioni del Lungomare di Napoli, di Bagnoli, di Scampia, dell’ex Area Nato, dei moli cittadini, delle aree di costa e delle aree Unesco, come il telaio delle scelte che ha trovato formalizzazione nel Piano Urbanistico Comunale, nei Piani di Edilizia Residenziale Pubblica, nei Piani Urbanistici Attuativi, nel Documento Strategico dell’Autorità di Sistema Portuale, come nell’intero piano della mobilità e della connettività infrastrutturale cittadina. Un insieme organico di progettazioni e di realizzazioni, in cui la Città Collettiva si fa spazio di istituzione di processi, allineandoli secondo fasi, metodi e luoghi della soggettivazione collettiva. È questa visione, nelle sue forme istituenti, costituenti e deliberative, che attraversa la Città e ne forma l’ossatura, il cui naturale manifesto sta nelle profondità delle sue forme e delle sue relazioni, che questo libro prova a descrivere, per prolungarne il movimento.
ISBN 978-88-6242-922-1