La città collettiva. Riflessioni

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CARMINE PISCOPO / DANIELA BUONANNO

LA CITTÀ COLLETTIVA

RIFLESSIONI

È la Città Collettiva, con le sue dialettiche, il suo portato, il suo carico di attese e di istanze sociali, le sue determinate applicazioni, la protagonista di questo volume. In un insieme di testi, che pone al centro lo spazio urbano.

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INDICE

Nota introduttiva

Architettura, usi civici e nuove istituzioni. La sfera dei beni comuni

Per un nuovo “disegno” dell’acqua pubblica

Il patrimonio pubblico. Una discussione non più rinviabile

La piazza ritrovata e il suo doppio. Piazza del Plebiscito

Tra richiami ancestrali e nostalgia di futuro. Il caso Bagnoli

Frammenti di una cortina di ferro. Le aree ex nato e la collina di San Laise

La fine dei grandi racconti urbani. La nuova dimensione di Scampia

La valorizzazione dei beni culturali e la redditività civica. Il Grande Progetto Unesco

Il progetto dello spazio pubblico. Il dibattito sul Lungomare

Interculturalismo e città aperta. Il Borgo dei Vergini

Interventi per la cura del territorio. I programmi europei urbact

Linea di costa, porto e città. Nuove relazioni

Aree dismesse e architettura. L’area orientale di Napoli

Standard urbanistici, usi temporanei e comunità civiche urbane

Una politica per il paesaggio

Città, Ambiente, Diritti e Beni Comuni. Il nuovo Piano Urbanistico Comunale

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– – –Nota bibliografica 06 08 38 46 60 80 102 112 136 154 172 190 208 226 238 246 268 308

NOTA INTRODUTTIVA

I testi raccolti nel volume nascono da occasioni di studio e di ricerca, originatesi nel periodo della reggenza dell’Assessorato all’Urbanistica e ai Beni Comuni del Comune di Napoli, tra maggio 2013 e ottobre 20211. Non, dunque, l’insieme dei testi amministrativi, delle note, dei documenti che formano il corpo degli indirizzi volti al funzionamento organico delle Commissioni tecniche e consiliari, o della Giunta e degli Uffici di competenza, quanto, sono qui raccolti, e rielaborati, “testi di occasione”, prodotti per riviste scientifiche o pubblicati in forma di saggi in volumi collettanei, la cui materia è la Città nel suo presentarsi, in forme diverse, sulla scena pubblica.

Al centro è, dunque, la Città, con i suoi accadimenti, i suoi eventi, i suoi progetti, le sue emergenze, nel farsi materia di elaborazione e di pensiero critico, entro finestre temporali – e, dunque, anche di comprensione – alle volte, molto strette.

Uno spazio, ritagliato in un panorama più ampio (l’esperienza politica e amministrativa), che prova a portare a un grado differente di elaborazione la medesima materia, per tradurla, diversamente dal volume “Esperienze”, che si affianca al presente volume, in “Riflessioni”.

“Riflessioni”, che trovano radici nella vita della città, nel suo piano politico e di esposizione pubblica, come nello spazio delle dialettiche collettive di cui è fatta, per proiettarsi in ambito scientifico, nella piena convinzione di quanto lo spazio delle pratiche, il loro agire tumultuoso, non sia disgiungibile dalla riflessione teorica e dall’elaborazione critica. Una produzione, questa, che ha richiesto un tempo per la sua messa a punto e la sua formalizzazione, che, ad avviso di chi scrive, si è dimostrato del tutto fertile, se tali testi (parallelamente alle delibere) hanno trovato traduzione nelle Università francesi, spagnole, del Regno Unito, come in altri Paesi europei, unendosi, di là in poi, ad altri studi e altre ricerche, insistenti, a loro volta, su altri apparati istituzionali e culturali. Ritrovandosi, così, in tesi di Dottorati di Ricerca, come in programmi e progetti

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della Commissione Europea, come in volumi a stampa della Rete di Ricerca Europea Eurau, solo per citarne alcuni. A conferma, ancora, di quanto la politica, quale sfera di affermazione di progetti e di elaborazioni critiche sulla Città, quale discorso interno all’architettura, non sia disgiungibile dalla sfera della ricerca scientifica e da ogni sua traducibilità in costruzioni più grandi. In ciò, l’Istituzione pubblica mostra di avere molti più gradi di parentela con la ricerca universitaria pubblica, di quanto si è abituati a ritenere. Testi, dunque, originatisi entro occasioni scientifiche circoscritte, che gli autori, come nell’elenco riportato nella nota in calce al volume, hanno provveduto, a una distanza consentita dal tempo e nel rispetto dello spirito e delle contingenze dei contesti nei quali sono stati scritti, a rielaborare in parte, a selezionare, a portare a un grado differente, per presentarli, in forma scelta, nel presente volume.

Note

1. Presidente, dal 2011 al 2013, della Commissione Edilizia e della Commissione Edilizia Integrata del Comune di Napoli, da maggio 2013 a ottobre 2021 Carmine Piscopo ha rivestito la carica di Assessore del Comune di Napoli e, nel 2021, di Vice Sindaco della Città di Napoli (Sindaco Luigi de Magistris), con deleghe all’Urbanistica, Beni Comuni, Diritto alla Città, Democrazia Partecipativa, Coordinamento dei Grandi Progetti, Coordinamento dei programmi di Rigenerazione Urbana, Finanziamenti Europei e Coesione Territoriale, Centro Storico di NapoliSito UNESCO, Spazio Pubblico Urbano, Housing Sociale, Edilizia Pubblica e Privata, Antiabusivismo e Condono Edilizio, Metropolitana, Porto, Autonomia della Città, Rapporti con il Consiglio Comunale, Coordinamento delle Partecipate operanti nei settori di competenza. Ancora, dal 2017 al 2022, è stato Coordinatore del Distretto Idrico di Napoli, di cui fanno parte 32 Comuni campani ricadenti nell’ex Ambito Territoriale Omogeneo Napoli-Volturno, nonché componente del Comitato Esecutivo dell’Ente Idrico Campano.

Nei medesimi anni, Daniela Buonanno ha ricoperto il ruolo di Assistente Coordinatore di Staff dell’Assessorato all’Urbanistica e Beni Comuni del Comune di Napoli.

La città collettiva. Riflessioni

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E NUOVE ISTITUZIONI.

LA SFERA DEI BENI COMUNI

ARCHITETTURA, USI CIVICI

DEMOCRAZIA, COLLETTIVITÀ E

BENI COMUNI

Il Comune di Napoli, primo in Italia ad aver istituito un Assessorato ai Beni Comuni, è sin dal suo insediamento impegnato nell’individuazione di percorsi amministrativi tesi a dare forza e vigore a un dibattito etico, civile, giuridico, ambientale, incentrato sulle forme d’uso del patrimonio per il prevalente interesse collettivo. Un principio, questo, che trova radici nella Costituzione. È qui, infatti, che la categoria dei “beni comuni”, intesi quali beni sottratti all’uso esclusivo di parte, al mancato uso sociale e funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle collettività, diviene centrale. Non, dunque, una cornice ideologica, quanto, piuttosto, l’attuazione di un principio fondamentale inscritto nella Costituzione, ove si afferma la prevalente utilità sociale del patrimonio, escludendone ogni forma di privatizzazione o, peggio, di uso clientelare, teso a rafforzare il potenziale costituente di una soggettivazione collettiva. Se il “diritto alla città”, infatti, comprende l’accesso alle risorse che regolano la vita nelle città, ciò implica anche una nuova configurazione e un nuovo assetto delle relazioni sociali, politiche ed economiche che definiscono tali rapporti.

In coerenza con questa impostazione, nel 2011, l’amministrazione de Magistris ha modificato il proprio Statuto Comunale, introducendo, tra le finalità, gli obiettivi e i valori fondamentali della Città di Napoli, la categoria giuridica del bene comune, inteso nella sua disponibilità d’uso quale bene accessibile, fruibile, condivisibile, disponibile alla rappresentazione e alla realizzazione di istanze, di proiezioni, di desideri riconoscibili delle collettività insediate e in cammino.

Bene comune, dunque, quale bene funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone.

Ancora, nel 2012, il Comune ha approvato il Regolamento delle Consulte per la Disciplina dei beni comuni, quali beni di appartenenza collettiva, fissando nei punti della delibera del 18 gennaio 2013 i Principi per il governo e la gestione dei beni comuni della Città di Napoli secondo la quale «ogni cittadino deve concorrere al progresso naturale e spirituale della Città».

Va ancora sottolineata l’azione del Comune riguardo l’acqua pubblica, nelle sue forme di ripubblicizzazione mediante la trasformazione di una Società per Azioni in Azienda Speciale a totale controllo pubblico.

L’Amministrazione ha poi istituito, nel 2013, l’Osservatorio dei

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Beni Comuni, il cui lavoro ha portato a varare due nuove delibere aventi in oggetto le procedure per l’individuazione e la gestione collettiva dei beni pubblici e dei beni privati, quali beni che possano rientrare nel pieno processo di realizzazione degli usi civici e del benessere collettivo. Un percorso, questo, le cui radici affondano nel recepimento e nell’approvazione da parte del Comune di Napoli della Convenzione di Aarhus, divenuta in seguito parte essenziale del Regolamento del Consiglio Comunale. Dove, ancora, si sancisce la condanna della pianificazione autoreferenziale, come di ogni forma astratta di previsione urbanistica che non fondi sulla partecipazione diretta e sul diritto democratico dell’uso delle risorse e dello spazio pubblico, luogo di espressione dei bisogni autentici delle collettività, di produzione di stili di vita e di nuove economie. Non, dunque, una centralità fondata sulla nozione di “reddito finanziario”, nozione che ha contraddistinto storicamente l’assegnazione dei beni del patrimonio pubblico, quanto, piuttosto, l’idea secondo cui il reddito sociale, con i suoi Usi Civici (Uti Cives), è parte integrante del reddito economico, in quanto parte essenziale del benessere sociale e delle proiezioni delle collettività insediate. Ciò, in particolare, con attinenza specifica ai beni del patrimonio indisponibile.

Il 17 giugno 2013, il Comune di Napoli ha fatto propria la Carta dello Spazio Pubblico, approvata al termine dei lavori della II Biennale dello Spazio Pubblico, tenutasi a Roma dal 16 al 18 maggio 2013, quale contributo fattivo e concreto al processo di valorizzazione democratica e di studio dei modi d’uso dello spazio pubblico urbano. Un atto fondamentale per la giunta de Magistris, nel quale si riconoscono il diritto democratico all’uso e il potenziale trasformativo dello spazio pubblico, per la città di Napoli.

Nel 2014, il Comune di Napoli ha adottato due delibere aventi in oggetto il recupero alle collettività dei beni abbandonati, di proprietà pubblica e di proprietà privata, secondo un percorso articolato di partecipazione collettiva nell’individuazione dei progetti e delle modalità d’uso. Due delibere, che hanno attivato un dibattito in Italia e che pongono al centro dell’azione amministrativa il prevalente interesse pubblico. È qui che l’Amministrazione riconosce il valore di esperienze già esistenti nel territorio comunale, portate avanti da gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale, esperienze che nella loro espressione fattuale si sono configurate e si configurano come case del popolo, ossia luoghi di forte socialità, elaborazione del pensiero, di solidarietà intergenerazionale e di profondo radicamento sul territorio. Per tali esperienze, dirette al soddisfacimento di interessi generali e senza finalità lucrative, laddove giustificato dall’alto valore sociale creato, l’Amministrazione

Democrazia, Collettività e Beni Comuni

comunale definisce la possibilità di procedere alla compensazione degli oneri di gestione, prevedendo regolamenti di uso civico o altra forma di autorganizzazione civica da riconoscere in apposite convenzioni.

In data 7 ottobre 2014, inoltre, il Comune di Napoli, ha approvato una delibera inerente alla possibilità di adottare (Adotta una strada) parti della città, a partire da un processo partecipato di cittadini riuniti in comitati civici. Si definisce, così, un ulteriore passo in avanti sui modi della partecipazione per l’attuazione delle politiche sociali, instaurando un ulteriore punto di incontro con la Carta dello Spazio Pubblico. Ma è attraverso l'istituzione delle Assemblee territoriali, in costante dialogo con gli abitanti, che si definiscono i metodi della partecipazione democratica e i loro pesi nella formalizzazione delle delibere di proposta al Consiglio. È qui, che lo pubblico si connota di una duplice funzione: come luogo elettivo delle scelte, in cui dare risposta alle proiezioni dei desideri e delle istanze delle collettività di riferimento, e come luogo di riappropriazione, di adozione e di cura. Con questo stesso spirito, attraverso la costituzione di tavoli e di assemblee territoriali confluite in gruppi di lavoro, l’Amministrazione ha redatto e approvato, nel 2014 e nel 2015, lo Studio di fattibilità relativo al progetto di riqualificazione dell’area delle Vele (Lotto M) e i nuovi indirizzi urbanistici, poi approvati in Consiglio Comunale, del Sito di Interesse Nazionale Bagnoli-Coroglio. Analogo percorso è stato condotto per la definizione del Masterplan dell’area ex Nato di Bagnoli, come per la definizione di numerosi progetti di trasformazione urbana di intere parti di città, e, di là in poi, di partecipazione in partecipazione, fino alla definizione del Preliminare di Piano (Puc), approvato nel 2020.

Le assemblee territoriali che hanno preso vita a Bagnoli, a partire dal 2015, hanno dimostrato con chiarezza quanto la città fosse contraria a quella espropriazione che il Governo, attraverso l’art. 33 dello Sblocca Italia, aveva messo in piedi. L’esito del voto della tornata elettorale di giugno 2016 nella Municipalità di Bagnoli ha definitivamente acclarato quanto le collettività, insieme con l’Istituzione Comune, Ente di prossimità, non fossero più disposte a rinunciare alle prerogative costituzionalmente sancite. In linea con questo spirito, vanno qui ancora ricordate le due delibere, del 2015 e del 2016, maturate in un lungo arco di tempo, relative all’approvazione della Dichiarazione di uso civico e collettivo urbano dell’Asilo Filangieri, e all’individuazione di sette spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero dei beni comuni.

Delibere, queste, che hanno varcato i confini dell’Italia per la loro capacità di restituire alla soggettività collettiva un potenziale costituente, quale soggetto anonimo che vive nel respiro della città e la informa. Non, dunque, un sistema di assegnazioni a collettivi, come si è voluto scrivere sulle pagine di alcuni quotidiani locali, quanto la

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restituzione alla collettività di un bene che le appartiene, nel pieno riconoscimento di quanto la collettività esprime. Va ancora segnalato il lungo lavoro istruttorio e di partecipazione collettiva confluito nell’approvazione della delibera n. 458 del 10 agosto 2017 per l’uso temporaneo di attrezzature pubbliche dismesse, senza modifica della destinazione urbanistica, finalizzata alla valorizzazione del patrimonio pubblico non utilizzato o in stato di abbandono. Significativamente essa si intitola: “Individuazione e approvazione delle linee di azione per la valorizzazione dei beni di proprietà comunale a fini sociali. Approvazione degli indirizzi per l’utilizzo temporaneo di spazi aperti e di immobili di proprietà comunale. Individuazione dei soggetti organizzativi, delle competenze e delle procedure per la costruzione, la definizione e l’attuazione di progetti pilota”. Essa fissa indirizzi e azioni relativi alla creazione di Comunità civiche urbane, alla sperimentazione di usi temporanei, alla fruizione di chiese del Centro storico non più adibite al culto, alla creazione di Comunità agricole temporanee per i giovani e orti didattici sociali e di quartiere, alla realizzazione di nuove forme dell’abitare collettivo, per l’accoglienza a rotazione di persone e famiglie.

L’ultimo atto in ordine di tempo riguarda l’approvazione, nel 2021, a valle di un lungo iter di confronto e di scrittura congiunta con le singole assemblee, dei Regolamenti di Uso Civico dei beni ascrivibili nel novero dei beni comuni. Atti, questi, che recano le approvazioni dei Regolamenti di Uso Civico discussi e approvati nel corso delle assemblee pubbliche e con le collettività di riferimento. È lungo questi assi – che tengono insieme pianificazione non autoreferenziale, superamento del concetto di proprietà per nuovi usi civici, prevalente interesse pubblico, necessità di legare confini e distanze sociali con nuove figure sollecitate alle realtà istituzionali e amministrative – che si dispone il territorio dei beni comuni. Non come un assioma che lega esclusivamente il territorio al suo progetto, quanto, piuttosto, come una sfida che ci sollecita al superamento di nozioni e figure date. Vanno ancora ricordate, a tal proposito, le delibere della Giunta de Magistris per l’istituzione di luoghi collettivi democratici, a partire dal riconoscimento di realtà esistenti sul territorio, secondo principi e indirizzi largamente percepiti in Europa. Come, ad esempio, nella Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000), che dispone ad asse centrale del discorso valori comunitari, secondo cui l’identità di un luogo non è data da valori astratti, quanto, piuttosto, dal riconoscimento dei valori che le collettività di riferimento danno di quei medesimi luoghi. Un principio, questo, che potrà trovare maggiore forza, il giorno in cui tutte le Istituzioni coinvolte definiranno un percorso in grado di dare concreta attuazione alla relazione che lega il paesaggio, quale sfera

Democrazia, Collettività e Beni Comuni

giuridica in senso proprio, ai diritti civili e sociali delle persone. Non solo, dunque, al diritto di cittadinanza, quanto alla sfera propria del Diritto alla Città.

Se numerosi appaiono ancora i nodi da sciogliere, il dibattito che si va oramai diramando e stratificando a partire dalla città di Napoli indica con chiarezza principi giuridici, etici, civili, amministrativi, politici che rilanciano la sfera dei “beni comuni”. Al centro, sono l’uso democratico dei nostri beni e la salvaguardia stessa del nostro ambiente. E, con essi, il nostro futuro e il respiro delle generazioni che verranno.

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IL TERRENO DEI

BENI COMUNI

Dagli studi umanistici, alle discipline giuridiche e sociali, agli spaccati antropologici, alle scienze del territorio, i beni comuni costituiscono un tema di grande attualità, che si va stratificando e potenziando attraverso un dibattito culturale che coinvolge sempre più differenti ambiti disciplinari. E guarda al fiorire di Nuove Istituzioni.

Si parla spesso di beni comuni, ma altrettanto spesso si finisce con lo scivolare in terreni densi di genericità. Ecco perché colgo con grande interesse le parole che fanno da incipit a questo importante incontro1. È con grande precisione di argomentazioni, che si è fatto riferimento al “contesto” dei beni comuni, senza perder di vista i percorsi amministrativi e le pratiche che si vanno diffondendo. E, insieme, le relazioni, che tra questi differenti campi, si vanno attivando e stratificando. In questo senso, si è fatto qui richiamo alle collettività informali, al senso di identità che lega una collettività a un luogo, alla partecipazione e al diritto delle scelte, alla necessità di sperimentare sempre più, in ambito delle pubbliche amministrazioni, percorsi di attivazione che portino alla costruzione di luoghi di espressione dei bisogni delle collettività, con riferimento, soprattutto, al patrimonio indisponibile, in quanto patrimonio della collettività. Luogo, in cui si esprimono i bisogni, i desideri, le proiezioni, le istanze delle collettività insediate. Un principio, questo, assolutamente non scontato, che dispone l’architettura tutta, nel suo legame con le collettività e nella realtà del suo discorso, di fronte ad un ripensamento che attraversa l’intero corpus disciplinare, nel suo aprirsi ad altri punti di vista profondamente insiti in altre discipline, inaugurando strade di grande interesse. Fino a riconoscere quanto il reddito economico sia valutabile come parte di un reddito più grande, innanzitutto sociale, i cui fondamenti sono inscritti nella Carta Costituzionale. Dove, con grande lungimiranza ed equità, si riconoscono e si allineano i diritti essenziali delle persone. È per queste ragioni, che tali argomenti acquisiscono, sul terreno degli studi, come sul terreno delle pratiche amministrative, un peso fondamentale. Democrazia, collettività, beni comuni, patrimonio e, ancora, usi civici, come un passaggio dal piano del

Il terreno dei Beni Comuni

pubblico, inteso quale “proprietario” del bene, al collettivo, inteso quale sfera di proiezione dei diritti. Un concetto, questo, molto complesso, che tuttavia, alla luce delle ricerche e delle pratiche in corso di svolgimento, sposta il campo della gestione del patrimonio dal pubblico, che negli ultimi decenni ha incarnato un modello di tipo “privatistico” del bene, al collettivo, cui i beni sono connaturati. Inteso in questo senso, il terreno dei beni comuni si connota come uno spazio di sperimentazione e di concreta innovazione sociale, che coinvolge sempre più non solo studi e ricerche, quanto, anche, pratiche agenti e percorsi della pubblica amministrazione. […]

Note

1. Cfr. Il Convegno di Studi coordinato dal Prof. Pasquale De Toro “Valutare la rigenerazione urbana”, organizzato dall’Associazione Annalisti Ambientali e dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 27-28 ottobre 2017.

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I BENI COMUNI E LE NUOVE

ISTITUZIONI

Architettura e Beni comuni

A dispetto delle loro origini, le cui tracce sono già presenti nei fondamenti del Diritto romano, i beni comuni costituiscono un tema di grande attualità, che si va stratificando in Italia, come nel resto del mondo, attraverso un dibattito che coinvolge differenti ambiti disciplinari. Non è infatti un caso che essi definiscano quest’anno il tema del Padiglione Italia alla XVI Biennale di Architettura di Venezia, in cui i curatori, parafrasando Giancarlo De Carlo nel testo del 1972, “L’architettura della partecipazione”, ricordano quanto l’architettura sia di tutti, un bene comune in sé, quando nasce dalla e per la società, e per tali ragioni, non resta reclusa entro ambiti esclusivamente specialistici ed elitìstici.

Il concetto ha diverse declinazioni di significato a seconda che lo si affronti in ambito giuridico, civile, politico o amministrativo, ma il punto di partenza comune riguarda l’innovativo (per quanto fondativo) rapporto che lega l’esistenza di questi beni alle collettività di riferimento che in essi si riconoscono.

Se dal punto di vista giuridico i beni comuni tendono al superamento della nozione di proprietà1, da un punto di vista politico-urbano essi affermano la negazione di ogni forma astratta di previsione urbanistica che non fondi sulla partecipazione diretta e sul diritto democratico all’uso dello spazio pubblico. […]

La discussione si sposta, dunque, dalle diverse possibili forme giuridiche del possesso (la titolarità pubblico-privata della proprietà) ai modi di governo effettivi, alle finalità della gestione di tali beni e sui diritti da parte di una comunità a utilizzare beni indisponibili e risorse non riproducibili, entro un quadro condiviso fondato sull’autogoverno.

In tal senso, i beni comuni: «sono quei beni che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle collettività e al libero sviluppo delle persone, che sottratti all’uso esclusivo rappresentano il soddisfacimento di bisogni e di desideri dei cittadini»; sono quindi beni produttori di utilità necessariamente condivise e in questo senso collettive2

Nella teoria sociale che ad essi fa riferimento, essi non riguardano soltanto le componenti naturali, quali gli ecosistemi e le risorse non riproducibili, ma anche il mondo immateriale, le forme della

I Beni Comuni e le nuove Istituzioni

conoscenza, il capitale sociale, i legami affettivi tra gli individui e, di conseguenza, anche i luoghi in cui queste relazioni si costruiscono: la casa, il quartiere, la città, il territorio, gli ecosistemi. Così, «il lato soggettivo e relazionale diventa importante tanto quello economico e materiale. Proprio questo duplice aspetto di materialità e immaterialità fa sì che il tema dei beni comuni sia profondamente legato alle pratiche dell’architettura, quando esse diventano il punto di snodo tra la concretezza degli edifici, dei luoghi della città e del territorio e l’immaterialità dei legami affettivi e delle memoria collettiva degli individui che li vivono»3.

Territorio bene comune

Se un insieme di relazioni, afferma Paolo Maddalena4, viene affidato a logiche non proprietarie, non è solo la storica categoria della cittadinanza a mutare, quanto il territorio tutto, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi, secondo approcci monodisciplinari, ma come “sistema” nel quale s’intrecciano natura e storia, individuo e collettività, patrimonio da conservare ed esigenze sociali da soddisfare, il che comprende anche entità immateriali, quali le attività umane che sul territorio si svolgono e che determinano il modo di vivere e il tenore di vita delle collettività che lo abitano. Il territorio considerato come «bene comune unitario, formato da più beni comuni»5, come un’entità dinamica, in continuo mutamento, che appartiene non solo alla presente, ma anche alle future generazioni, si configura così come una messa a dimora di un concetto fortemente innovativo e di un progetto di cittadinanza fondato sull’interesse pubblico, entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità e le specificità dei singoli e della collettività, considerata nel suo insieme e nella sua complessità di relazioni. […]

Il superamento di una cifra autoreferenziale dell’urbanistica Secondo questo punto di vista, la sfera urbanistica ha forti responsabilità nell’aggravarsi delle disuguaglianze sociali e nell’individuazione delle politiche di gestione e di redistribuzione delle risorse naturali. La tendenza all’esclusione delle minoranze è connaturata a dinamiche sociali difficilmente controllabili con gli strumenti classici del progetto urbano6. Il secondo Novecento, da questo punto di vista, ha potuto osservare gradualmente l’insinuarsi di un’idea spesso tecnicistica dell‘urbanistica, che ne annulla la matrice umanistica, privilegiando, nell’approccio con la fenomenologia urbana, prevalentemente il portato delle forme e delle destinazioni d’uso, come una matrice orientata su assetti visibili e concretamente misurabili, che ha reso subalterni i legami, le soggettività e l’invisibilità delle relazioni delle collettività. Con essi, l’intero potenziale collettivo di gruppi sociali, nei loro legami reciproci e

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nelle loro interrelazioni profonde con il territorio. E, ancora, il loro essere parte di una comunità più ampia, entro cui si inscrivono gli ecosistemi e le comunità viventi. Ma, più della matrice funzionalista, ha certamente potuto la progressiva sottrazione del territorio alle collettività, ai loro legami, in uno con la deriva della difesa dell’interesse collettivo. La necessità di assegnare ad ogni metro quadrato di territorio un’”utilità” e una “funzione” – termini, questi, che oggi andrebbero nuovamente sondati, per misurare la loro distanza dai contesti culturali nei quali si sono generati –, spesso in contrasto con la realtà esistente, ha così generato, secondo la Cecla7, un horror vacui, che ha impedito quella flessibilità che, in passato, ha consentito alla città di costruirsi in accordo con le pratiche sociali dei suoi abitanti. Non è un caso, infatti, che oggi siano proprio i luoghi periferici e marginali, i territori scartati dalla modernità e le aree a più denso contenuto di naturalità ad accogliere nuove e più interessanti funzioni urbane8, e ad essere percepiti per primi come beni comuni. Basti pensare alla positiva (quanto disattesa) relazione tra spazi urbani ed equilibri sociali, architettonici e comunitari. Tale relazione è andata dissolvendosi anche in connessione con l’ambigua dialettica tra apertura e chiusura, che nella contemporaneità ha assunto caratteri quasi tragici. È nello spazio aperto o nello spazio chiuso che meglio può generarsi la comunità? Lo spazio chiuso e delimitato favorisce la creazione di comunità; al tempo stesso, esso sottolinea un bisogno di isolamento e di privacy. D’altronde, l’apertura richiama l’idea del flusso, della mobilitazione, della comunicazione, del confronto, del transito, ma anche l’idea dell’indistinzione e dell’indifferenza.

Un’architettura dei beni comuni si definisce, in questo senso, come un’architettura in grado di dare forma e luogo a tali processi, contribuendo alla valorizzazione di un capitale sociale e di nuove forme d’uso dello spazio collettivo, fondamentali per il futuro. Secondo tale visione, il valore dell’architettura non risiede unicamente nell’oggetto architettonico in sé, ma in ciò che esso produce. Ciò che interessa, dunque, è generare azioni, cambiamenti e relazioni, in grado di sviluppare forme, modelli o strutture in grado di contribuire alla costruzione di processi, accompagnando dinamiche sociali invisibili, che possano crescere e adattarsi a situazioni diverse. Risuona, qui, il modello della città come luogo di «produzione dello spazio sociale» di Henri Lefebvre (1968), con la connessa tematica del «diritto alla città» (uguale possibilità, per tutti, non solo di fruire dei beni del territorio, ma anche di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni urbane), che innerva le tante manifestazioni di cittadini cui si assiste in questi anni9

Una politica per i beni comuni. Gli atti del Comune di Napoli Con questo spirito, il Comune di Napoli è da tempo impegnato nell’individuazione di percorsi amministrativi che diano forza e vigore

I Beni Comuni e le nuove Istituzioni

al tema delle forme d’uso del patrimonio per il prevalente interesse collettivo.

I principali atti deliberati dall’Amministrazione de Magistris mirano in tal senso a costruire

[…]

Attraverso tale logica, il procedimento di individuazione del bene non parte dallo spazio fisico, dall’oggetto architettonico, ma dai suoi valori e dalla sua riconoscibilità da parte dei cittadini, che in esso individuano un valore, anche d’uso, collettivo. In questo caso, il ruolo del Comune è quello di garantire l’ambiente di sviluppo civico, di tutelare la capacità generativa di attrazione del bene e il suo uso civico, che non viene assegnato in concessione, a un collettivo, un’associazione o un gruppo, ma all’intera comunità attraverso regolamenti di uso civico e forme di autogoverno disciplinate10. Il riconoscimento delle realtà esistenti sul territorio e dei luoghi in cui è possibile dare risposta alle proiezioni delle collettività rappresenta la vera innovazione di questi atti amministrativi che provano a definire un percorso in grado di dare concreta attuazione alla relazione che lega il paesaggio, quale “sfera giuridica in senso proprio”, ai diritti delle persone. Come nel caso, ad esempio, dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG), liberato dal suo degrado da decine di studenti, lavoratori, cittadini, nel 2015, per essere aperto al quartiere, attraverso un’azione sintetizzata dallo slogan “Je so’ pazzo”.

L’enorme complesso, situato all’interno del centro storico, da allora, ha riaperto le sue stanze, i suoi cortili e le sue terrazze ai cittadini del quartiere che hanno iniziato ad abitarlo e farlo rivivere attraverso attività culturali, sociali e aggregative, rivolte soprattutto a bambini e anziani.

Nella logica del riconoscimento di queste realtà, l’Amministrazione Comunale ha chiesto il conferimento dell’ex OPG nell’ambito del Federalismo Demaniale, al fine di destinare l’immobile ad una nuova funzione sociale, regolamentata da appositi regolamenti di uso civico. Di recente, attraverso una delibera di Giunta Comunale, in continuità con il percorso dei beni comuni, il complesso è stato inserito, insieme con altri sei immobili, tra gli spazi di rilevanza civica ascrivibili al novero dei beni comuni.

In pratica, il Comune riconosce ufficialmente le capacità rigenerative di capitale relazionale, sociale e civico di queste esperienze, perseguendo un principio messo in luce anche dalla Corte dei Conti che in una sua sentenza ha ribadito: «il comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell’utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata» 11

Il vero valore economico di queste esperienze è quindi da rintracciarsi nell’uso, nella cura degli spazi sociali, a partire dalle attività svolte in

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questi luoghi dalle comunità dei cittadini, dalla fiducia che si genera nei confronti del prossimo e che crea senso di appartenenza a un luogo e a un progetto di collettività.

Queste esperienze dimostrano la volontà dei cittadini di essere soggetti attivi, divenendo essi stessi produttori di spazi pubblici e di servizi collettivi, da indirizzare entro una progettualità più ampia che via via cresce e va monitorata.

In particolare, nel caso dell’ex OPG, la sua inscrizione all’interno dei processi di Federalismo Demaniale, e, da lì, il suo conferimento al Comune di Napoli, che riconosce, insieme con le altre Amministrazioni, l’esistenza di un processo civico attivo, conferisce un senso, una direzione e una dimensione differenti, dai modi frequentemente messi in atto da altre Amministrazioni, nei percorsi del Federalismo Demaniale. Il suo essere un bene indisponibile sottolinea, ancora di più, la sua funzione sociale, riconosciuta dalle Amministrazioni, e portata avanti secondo modelli di gestione disciplinati da Regolamenti. Dallo Stato alla collettività, secondo principi che legano, sin dalle origini, il rispecchiamento dell’uno nell’altra.

Intesi in questo senso, i beni comuni costituiscono un fattore di forte cambiamento rispetto ad una tradizionale pianificazione astratta, in quanto segnano il passaggio dal pubblico al collettivo, riconoscono alla collettività la capacità di co-produrre beni e ricchezze, i cui benefici sono condivisi e distribuiti, e attribuiscono diritti alle comunità.

È lungo questi assi, che tengono insieme pianificazione non autoreferenziale, superamento del concetto di bene pubblico per nuovi usi civici, prevalente interesse pubblico, necessità di legare confini e distanze sociali con le nuove figure sollecitate alle realtà istituzionali e amministrative, che si dispone il territorio, vasto e ancora da esplorare, dei beni comuni.

La nascita di sistemi politici avanzati in cui le nuove forme di attivismo dei cittadini non avvengono al di fuori del sistema politico, ma prendono forma al suo interno, attraverso modalità di interazione partecipate dentro cui trovano spazio progetto di cittadinanza e progetto del bene, lascia immaginare quanto oggi il tema delle Nuove Istituzioni sia presente nel suo iter ideativo. I Beni Comuni e le nuove Istituzioni

1. Cfr. P. Nicolin, Architettura e Beni Comuni, in “Lotus International”, n. 153, 2014.

2. Cfr. Atti della Commissione per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, cosiddetta Commissione Rodotà. Nominata con decreto del Ministro della Giustizia, il 14 giugno 2007, con l’incarico di riformare la disciplina codicistica dei beni pubblici, rimasta invariata dal 1942.

3. Cfr. P. Inghilleri, Verso un’architettura dei Beni Comuni e dell’identità, in “Lotus International”, n. 153, 2014

4. Cfr. E. Salzano, L’ habitat dell’uomo bene comune in P. Cacciari, La Società Dei Beni Comuni, Ediesse, Roma 2011.

5. Cfr. P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, introduzione di S. Settis, Donzelli Editore, Roma 2014.

6. Cfr. B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari-Roma 2015.

7. Cfr. F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino 2015.

8. Cfr. L. Decandia, Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma 2008.

9. Cfr. C. Piscopo, I beni comuni. Verso una nozione partecipata di paesaggio, in “AREA”, n. 136, 2014.

10. Su questo indirizzo, è utile ricordare anche l’approvazione da parte del Comune di Napoli, nel 2014, di una delibera inerente la possibilità di “adottare” parti della città, a partire da un processo partecipato di cittadini riuniti in comitati civici.

11. Cfr. Corte dei Conti Veneto Deliberazione 716 /2012.

Bibliografia essenziale

• P. Berdini, Le città fallite, Donzelli, Roma 2014.

• P. Dardot, C. Laval, Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo, prefazione di Stefano Rodotà, Derive Approdi, Roma 2015.

• C. Donolo, L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano 1997.

• G. Hardin, Tragedy of commons, in “Science” 162, 1968.

• D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Seggiatore, Milano 2013.

• Lefebvre H., Le Droit à la ville, I, 1968 (seconda edizione); trad. it. Il diritto alla città, Padova 1970.

• U. Mattei, Il benicomuismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015.

• L. Mazza, Spazio e cittadinanza, Donzelli, Roma 2015.

• S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile, Carocci, Roma 2015.

• T. Negri, M. Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

• T. Negri, Inventare il Comune, Derive e Approdi, Roma 2012.

• P. Pileri, Che cosa c’è sotto: il suolo, i suoi segreti, la ragione per difenderlo, Altreconomia, Milano 2015.

• S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010.

• V. Shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2005.

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Note

ARCHITETTURA E BENI COMUNI

La sfera dei beni comuni sta assumendo un ruolo centrale nella discussione pubblica, diventando sempre più persuasiva e coinvolgente in molte città d’Europa e del mondo. A dispetto delle sue origini antichissime, i beni comuni sono riemersi con maggiore evidenza solo di recente, ma il concetto risale all’antica Roma, dove fondante era il valore della proprietà collettiva del popolo e la tutela delle res in publico usu, cioè delle cose di uso pubblico, poste extra commercium, ovvero fuori commercio, e pertanto inalienabili e imprescrittibili.

L’epopea delle recinzioni (enclosures), all’origine dello sviluppo del capitalismo che rafforza la “privatizzazione del mondo”1 e consolida forme sempre più spinte di individualismo, ha trasformato nei secoli passati i beni comuni in una questione ideologica, un’utopia rivoluzionaria per pochi. Oggi, di fronte agli squilibri del mercato globale, dei disastri provocati dai neoliberismi e dalle deregulation, tale prospettiva (fondata su un uso consapevole delle risorse) sta acquisendo sempre più consenso, al punto da rappresentare una formidabile leva per sollevare cultura e società sul terreno di una nuova rivoluzione, di una nuova “ragione”, di altri modelli di relazione col reale2. È il riemergere di una sorta di “soggettivazione” collettiva, che in questi ultimi anni ha reso possibile il nascere una nuova forma di “benicomunismo”3, esaltandone il potenziale costituente. Secondo la comune accezione, i beni comuni rappresentano il soddisfacimento di bisogni e di desideri dei cittadini che non possono essere soddisfatti da società consumistiche, e che per questo si inseriscono a rompere, ma anche ad arricchire, gli sterili dualismi tra pubblico e privato, tra uso delle risorse e sostenibilità ambientale, tra libertà ed equità, tra individuo e collettività.

I beni comuni non si identificano, in tal senso, né col privato, né col pubblico; costituiscono piuttosto una categoria differente in quanto non rappresentano né il punto di vista dell’individuo, né quello dello Stato4, sono beni produttori di utilità necessariamente condivise e in questo senso collettive5.

Nella nuova teoria sociale che ad essi fa riferimento, i beni comuni non includono le sole componenti naturali, quali gli ecosistemi e le risorse non riproducibili, ma anche le forme della conoscenza, il capitale sociale, le istituzioni, gli stessi insediamenti umani. Il tema si

Architettura e Beni Comuni

Secondo di due volumi dedicati alla Città Collettiva, il libro presenta un insieme di riflessioni, originate da occasioni di studio e di ricerca, condotte nel corso di un’esperienza amministrativa e progettuale che ha attraversato la Città di Napoli tra il 2013 e il 2021, tracciando i lineamenti di un dibattito il cui orizzonte di attesa resta tutt’oggi vivo e aperto.

“Riflessioni”, che trovano radici nella vita della Città, nel suo piano politico e di trasformazione pubblica, come nello spazio delle dialettiche collettive di cui è fatta, per proiettarsi in ambito scientifico, nella piena convinzione di quanto lo spazio delle pratiche, il loro agire tumultuoso, non sia disgiungibile dalla riflessione teorica e dall’elaborazione critica.

Protagonista di questo racconto, è, dunque, la Città Collettiva, nel suo emergere come una dimensione che anima profondamente la Città, per trasformarla dall’interno, con il suo carico di attese, il suo portato, le sue determinate applicazioni.

Entro tale racconto, trovano spazio l’insieme dei processi che hanno condotto alle progettazioni del Lungomare di Napoli, di Bagnoli, di Scampia, dell’ex Area Nato, dei moli cittadini, delle aree di costa e delle aree Unesco, come il telaio delle scelte che ha trovato formalizzazione nel Piano Urbanistico Comunale, nei Piani di Edilizia Residenziale Pubblica, nei Piani Urbanistici Attuativi, nel Documento Strategico dell’Autorità di Sistema Portuale, come nell’intero piano della mobilità e della connettività infrastrutturale cittadina. Un insieme organico di progettazioni e di realizzazioni, in cui la Città Collettiva si fa spazio di istituzione di processi, allineandoli secondo fasi, metodi e luoghi della soggettivazione collettiva. È questa visione, nelle sue forme istituenti, costituenti e deliberative, che attraversa la Città e ne forma l’ossatura, il cui naturale manifesto sta nelle profondità delle sue forme e delle sue relazioni, che questo libro prova a descrivere, per prolungarne il movimento.

ISBN 978-88-6242-923-8 € 25

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