INDICE
█ INTRODUZIONE
009 CINQUANT’ANNI
DI SOLITUDINE
Daniele Frediani, Luca Reale
█ CONTESTI
029 L’ESPERIENZA
TRAUMA/CURA TRA
RIMOZIONE E VISIBILITÀ
Fabio Gianfrancesco
041 IL TRAUMA E L’ATTESA
La dimensione fisica e affettiva
del Laurentino
Luca Reale
█ PERCORRENZE
071 IL PROGETTO
DEL QUARTIERE
Tra razionalità disincarnata e
rivelazione dei sensi
Daniele Frediani
091 PALINSESTI EMOTIVI
Percorrenze spontanee e pratiche urbane
Elisa Avellini
103 IL PONTE DEI DESTINI
INTERROTTI
Spazialità inespresse e attuali trasformazioni
Andrea De Sanctis
█ FENOMENOGRAFIE
117 UNA PROPOSTA
PER L’IDENTITÀ VISIVA
DEL QUARTIERE
Maurizio di Puolo
133 THE WALK LAURENTINO
Cuocolo/Bosetti | Iraa Theatre
█ AZIONI
149 LA PORTINERIA E LA
MASCHERA
Conversazione con Margherita
Manfra e Danilo Morbidoni
Stefano Catucci, Fabio Gianfrancesco
INTRODUZIONE
CINQUANT’ANNI
DI SOLITUDINE
1. Demolizioni e rimozioni
È iniziata il 10 maggio sera la demolizione del ponte XI al Laurentino 38. Un’operazione che per Veltroni simboleggia ‘la rinascita della città’. Tre i camion impegnati a portar via 15.000 metri cubi di macerie, e due le principali squadre coinvolte nell’operazione, salutata dagli abitanti della zona e dal presidente uscente del Municipio Paolo Pollak come ‘una liberazione’1.
La sera del 10 maggio 2006 comincia la demolizione dell’undicesimo ponte del Laurentino 382. A breve distanza seguiranno la stessa sorte i ponti 9 e 10. Nel 2010, durante la consiliatura Alemanno, di opposto colore politico, viene deliberata la demolizione dei ponti 5 e 6, che però non sarà mai attuata. Queste date segnano uno spartiacque non solo nella storia del Laurentino, ma anche nel rapporto che la città di Roma vive da decenni con i suoi quartieri pianificati. Quella dei ponti è stata in effetti la prima e l’ultima tra le tante proposte – Corviale prima3, Tor Bella Monaca con il progetto di Leon Krier poi – di demolizione dei grandi complessi PEEP della Capitale4. Possiamo leggere queste vicende come il tributo che la città ha pagato all’ondata di rimozione della modernità, cominciata a Pruitt-Igoe nel lontano 1972, passata per Runcorn di Stirling e Gowan (1990)5 e recentemente approdata ai Robin Hood Gardens dei coniugi Smithson6.
1. Dal sito veltroniroma.it - 11 Maggio 2006, ora riportato sul sito: https://abitarearoma.it/demolito-lxi-ponte-a-laurentino-38/ (ultima visita 05.09.2023).
2. https://www.youtube.com/watch?v=1FhVuYe6BnI (ultima visita 05.09.2023).
3. “Come risolvere il caso Corviale: conservando o distruggendo?” è stata la domanda al centro di un convegno tenutosi nel complesso del San Michele a Roma, il 14 dicembre 2001, a cura di Francesco Coccia, Leonardo di Paola e Giorgio Muratore che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Lucien Kroll (gli atti del convegno sono poi confluiti in Coccia & Costanzo, 2002).
4. Oltre al contributo in Recuperacorviale, di Giorgio Muratore vedi anche: https://archiwatch.it/2012/05/18/repetita-iuvant-2/distruggere-e%cc%80-anzitutto-una-sconfitta/ (ultima visita 05.09.2023).
5. La Warrington and Runcorn Development Corp., società committente dell’intervento, prima di fallire e cedere i suoi beni, decise nel 1989 di demolirlo completamente. All’epoca in cui fu decretata la sua fine, il Britain’s Architects’ Journal lo dichiarò “il Pruitt-Igoe britannico”, riferendosi al progetto abitativo di Minoru Yamasaki degli anni Cinquanta a St. Louis, fatto saltare in aria negli anni Settanta, che il critico Charles Jencks vedeva come il capolinea del funzionalismo moderno: https://www. architectmagazine.com/design/urbanism-planning/what-went-wrong-at-runcorn_o (ultima visita 05.09.2023).
6. Nonostante le numerose voci di protesta e i ripetuti tentativi di istituzione di forme di tutela, la demolizione dell’edificio ovest dei Robin Hood Gardens è iniziata nell’agosto del 2017, mentre nell’estate del 2022 è stata avviata la demolizione del volume est. L’intervento è propedeutico a un ambizioso progetto di “valorizzazione” immobiliare delle aree denominato Blackwall Reach Regeneration Project che prevede la realizzazione di
Più che per ragioni tecniche o spaziali, la narrazione che ha guidato e in parte giustificato gli intenti demolitori può essere ascritta al tentativo politico di fornire una risposta emotiva al desiderio degli abitanti di maggior sicurezza e maggior controllo. Richiesta alla quale molti progettisti di fama hanno a loro volta fatto eco, proponendo soluzioni che celano spesso intenti speculativi. In ogni caso è impossibile non riconoscere l’esistenza di ragioni più profonde, inerenti alla percezione estetica e dimensionale degli interventi, nonché alla carica simbolica che essi rappresentano nel paesaggio urbano romano. In altre parole, ciò che si è tentato di rimuovere non è solo l’architettura ma anche quella visione collettivista e socializzante di cui essa si fa portatrice.
Nonostante in Italia continuino a essere perpetrate demolizioni dal tono catartico – si pensi alle Vele di Scampia, l’ultima delle quali, la Vela Verde, demolita nel 2020 – a Roma quella stagione sembra fortunatamente chiusa. Da allora, ad esempio, alcuni concorsi – P.A.S.S. Tiburtino III (2010), Rigenerare Corviale (2015), Re Live 2020 Tor Bella Monaca (2020) – hanno proposto strade differenti, che muovono dal riconoscimento di alcune qualità architettoniche e urbane di cui quella stagione si era fatta portatrice.
Alla retorica della rimozione sembra tuttavia essersi sostituita una più realistica, ma anche più ambigua, politica della “rigenerazione”, termine di origine biologica che ha a sua volta sostituito l’ancor più capzioso “riqualificazione” in voga negli anni Novanta. Questa ricerca lessicale, utile alle cronache giornalistiche ben più che all’avanzamento disciplinare, tradisce un’assenza di temi – sia concettuali che operativi – che ha lasciato campo libero a un approccio eminentemente burocratico e tecnicista. Ne sono sintomo le recenti politiche nazionali e regionali (Piano Casa, Bonus facciate, Superbonus 110%) che, ponendo il tema della rigenerazione in termini di efficienza energetica, mantengono stabile il dibattito su posizioni che rimandano a una prassi per cui è il rispetto della norma e dei consumi e non il buon progettare, a essere oggetto di valutazione e approvazione da parte degli “enti preposti” (ancora una volta la spersonalizzazione del linguaggio anticipa quella delle scelte).
Esaudita l’applicazione normativa, al progettista non resta dunque che rifugiarsi tra le arbitrarietà del linguaggio, che sembra essere l’unica linea capace di discriminare l’architettura dal campo dell’ingegneria, della fornitura di servizi o, per chi crede nella differenza, dell’edilizia. Questa tendenza è ben evidente in campo internazionale già da alcuni decenni: se si guarda a
1575 nuovo alloggi (al posto dei precedenti 214) con servizi e spazi pubblici su progetto di Haworth Tompkins, Metropolitan Workshop e C.F. Møller. Una campata di tre livelli dell’edificio degli Smithson è stata smontata dal Victoria & Albert Museum ed esposta ai Giardini dell’Arsenale in occasione della Biennale di Venezia del 2018.
DANIELE FREDIANI, LUCA REALE
progetti e realizzazioni che hanno tentato di intervenire criticamente sulla trasformazione della residenza, è apparso davvero che il linguaggio potesse diventare protagonista7. Con l’adozione di un armamentario decorativo più o meno superficiale si è tentato di far emergere elementi architettonici quali la finestra, il balcone, il marcapiano, la pensilina di ingresso che potessero essere identitari per l’abitante, in grado così di riconoscervi la “propria” finestra, il “proprio” balcone. Una trasformazione, si potrebbe dire, tutta esteriore, ad uso e consumo del “decoro” o della percezione urbana. Ben più efficace (anche se mai approdato alle nostre latitudini) e segnato da azioni di opposto segno, sarà l’approccio della seconda stagione della riqualificazione, dalla fine degli anni Novanta, il cui lavoro più emblematico è certamente il programma francese PLUS+ (Druot et al., 2004). Le realizzazioni di Lacaton & Vassal, caratterizzate dalla dilatazione dello spessore perimetrale degli edifici di edilizia sociale in Francia, ci hanno dimostrato che l’obiettivo ora non è una casa più efficiente, ma prima di tutto una casa più grande. La differenza è sostanziale: il nuovo spessore amplia, a volte persino duplica, lo spazio di camere e soggiorni attraverso un “balcone/ giardino d’inverno” continuo lungo tutta la facciata. L’obiettivo qui non è tanto la trasformazione “da fuori” (i nuovi prospetti accettano senza problemi l’idea seriale e il linguaggio ripetitivo del partito architettonico), ma l’incremento della qualità interna degli appartamenti. Lo spazio, dunque, è ancora la risorsa più preziosa dell’architettura e la pandemia da Covid-19 ce lo ha confermato in maniera ancora più lampante. Mai come durante il lockdown la differenza tra gli spazi abitativi ha evidenziato infatti le disuguaglianze economiche e sociali.
Tornando alla questione del valore identitario per l’abitante e risalendo all’origine di questa intenzione, si comprende come l’approccio primigenio alla trasformazione contemporanea della residenza moderna sia in fondo quello di sostituire l’utente astratto del funzionalismo in una persona reale (che assomiglia molto a un consumatore) e l’architettura, o meglio il linguaggio, diviene il mezzo con cui comunicare un rinnovato auto-riconoscimento del singolo, basato sulla narrazione di una storia condivisa. Nel tentativo di dare “valore” all’abitante, questo è stato inteso come fruitore, vale a dire come destinatario di un bene o di un servizio che gli viene offerto nella misura in cui egli riesca a goderne8.
7. Si tratta di una strategia che ha trovato in Francia i più favorevoli campi di applicazione: nel primo caso si vedano le proposte e le realizzazioni francesi di Roland Castro e Lucien Kroll che fin dagli anni Ottanta, nel tentativo di “umanizzare” i Grands Ensembles, hanno lavorato oltre che sul rimodellamento del volume costruito, anche nella riproposizione di partiture, marcapiani, cornici, bugnati. Ma si pensi anche alle operazioni di “riduzione” e “frammentazione” di Stefan Forster in Germania (Lenefelde, Halle).
8. Si pensi a come alcune di queste iniziative si sono presto trasformate in “selfie
Fanno parte di questa ricerca di una dimensione simbolica, di riferimenti culturali, persino di una profondità storica9, le esperienze “muraliste” per cui gli edifici sono diventati superfici su cui rappresentare episodi legati alla storia del quartiere (San Basilio), ritratti di personaggi importanti che lì sono nati o cresciuti (Gigi Proietti al Tufello, Sergio Leone a Centocelle). Oppure supporti per raffinate operazioni di stencil art, come nelle installazioni urbane di Sten e Lex, artisti ormai noti sul piano globale. A Tor Marancia è nato un “Museo Condominiale” con l’intento di tenere insieme arte pubblica e rigenerazione urbana10. Dopo la fase della rimozione, anche la fase “scenografica” sembra tuttavia aver esaurito la propria carica propulsiva, essendo ormai giunta a una stanca reiterazione di soggetti e linguaggi. A Tor Bella Monaca è stato sufficiente colorare con toni accesi alcune torri per parlare di “rigenerazione”11. Al Villaggio Breda la medesima operazione ha scatenato le proteste degli abitanti che hanno rilevato come i nuovi colori sgargianti non rispecchiassero la “storicità del quartiere”12. Più autentiche sembrano alcune iniziative spontanee o anonime che in diversi quartieri provano a delineare una nuova mitologia della periferia romana, pensiamo all’azione ironica dei Poeti der Trullo (PdT)13
Nonostante gli sforzi, il dibattito attorno al tema della trasformazione sembra ancora pervicacemente ripiegato da un lato in una visione “cosale” dell’architettura, per cui la città viene ridotta a un sistema di edifici dotati di una materia e di un’immagine, misurabili, classificabili e rappresentabili, dunque trasformabili. Dall’altro, proprio il tema consolidato e ricorrente della “periferia” è accolto come condizione antropologica, ossia come narrazione dell’emarginazione geografica e sociale, mondo altro rispetto a un centro cui costantemente guardare e verso il quale tendere. Se nel primo caso, come abbiamo visto, la risposta è quella di dar valore ai luoghi atopportunity” per un turismo “interno”, alla ricerca di una chiave contemporanea (e a basso costo) per leggere la periferia romana.
9. Caso emblematico e intelligente sono i Triumphs and Laments di William Kentridge sui muraglioni del Tevere.
10. Quello che avviene in questo caso è l’applicazione di un sottotesto narrativo come nel caso del quartiere États-Unis di Lione, dove le facciate cieche degli edifici di Tony Garnier sono diventate occasione per la narrazione delle vicende del quartiere e della vita del suo autore.
11. Vedi: https://www.dire.it/10-09-2021/666566-zingaretti-tor-bella-monaca-cambia-volto-entro-il-2022-torri-ater-saranno-rigenerate/ (ultima visita 05.09.2023).
12. Vedi: https://www.romatoday.it/zone/torri/tor-bella-monaca/villaggio-breda-colori-case.html (ultima visita 05.09.2023).
13. Il Corriere della Sera li ha chiamati “nipotini metroromantici del Belli”. Vedi: https://www.poetidertrullo.it/dicono-di-noi/corriere-sera-20112013/ (ultima visita 05.09.2023). DANIELE FREDIANI,
CONTESTI
TRA RIMOZIONE
E VISIBILITÀ
FABIO GIANFRANCESCO L’ESPERIENZA TRAUMA/CURA
1. Pretesto
“La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle” (Merleau-Ponty, 1989, p. 13, corsivo mio). Questo l’esordio perentorio con cui un filosofo che si rivelerà tra i più cari agli architetti, Maurice Merleau-Ponty, dava inizio a L’Œil et l’Esprit, ultima opera che poté portare a termine prima della sua prematura scomparsa. La scienza, prosegue subito l’autore, non fa infatti che costruire modelli interni e “operando su questi indici o variabili le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale” (Ibid.). A risuonare come l’occasione fornita da questo pretesto letterario e filosofico sono qui le occorrenze di termini quali abitare, costruire e modellare, che sembrano repentinamente imparentare la riflessione merleaupontiana con temi di decisiva ed eterna attualità a riguardo della pratica architettonica e degli studi urbani.
Ma può questo schizzo filosofico, un quadro concettuale solamente accennato, offrirci strumenti validi per interrogare altrimenti la storia, i turbamenti e gli esiti, positivi o meno, che riguardano gli episodi recenti delle trasformazioni architettoniche, urbanistiche, materiali delle nostre città? Di primo acchito, una risposta a questa domanda sembra agilmente alla nostra portata, e pervenire dall’evidente interesse che l’opera di Merleau-Ponty ha suscitato, almeno a partire dalla sua riscoperta in ambito filosofico, in diversi architetti e teorici delle trasformazioni urbane1. Steven Holl più di altri ha saputo chiarire quanto il contributo fenomenologico, e in particolare lo sviluppo di una fenomenologia corporea e percettiva compiuto da Merleau-Ponty, sia stato decisivo per l’architettura. Caratteristica di quest’ultima è sì, difatti, “il compito sempre attuale […] di creare metafore esistenziali incarnate che concretizzino e strutturino l’essere dell’uomo nel mondo” (Holl et al., 1994, pp. 39-41, Tda), eppure l’operazione concreta messa in atto dalla pratica architettonica non può, per Holl, smettere di esser sempre indagata di nuovo al di là “della fisicità dei suoi oggetti e della praticità del suo contenuto programmatico”, ricercando nella contingenza dell’esperienza vissuta il suo riattualizzarsi, il suo prender significato storicamente situato. Assumendo il punto di vista dell’architetto statunitense dunque, l’affermazione riportata in apertura sembra trovare una sua collocazione, tanto più se ospitata in un’indagine, come quella che si propongono questo volume e la più generale ricerca di cui esso costituisce una tappa (Catucci & De Matteis, 2021), rivolta alla costituzione affettiva degli
1. Per una lettura riepilogativa dei temi merleaupontiani in relazione al loro interesse e utilizzo in ambito architettonico e urbanistico cfr. Hale, 2017 e AA.VV., 2009, in particolare i saggi di Scarso, D., Steven Holl: Architecture and Phenomenology, pp. 19-20, e Holl, S., The Criss-Crossing, pp. 21-24.
IL TRAUMA E L’ATTESA
LA DIMENSIONE
FISICA E AFFETTIVA
DEL LAURENTINO
LUCA REALE
1. Lo spazio come incontro tra corpo e ambiente
[La città della memoria] è vuota perché per un’immaginazione è più facile evocare l’architettura che gli esseri umani.
Joseph Brodsky (1997, p. 43)
Come si può oggi comprendere, o almeno provare a descrivere, la città pubblica senza replicare modalità e narrazioni di cui la letteratura architettonico-urbanistica ha abusato ormai da decenni? Gli architetti parlano, in maniera un po’ generica, di spazio; raramente si interrogano sull’effetto che produce l’architettura su un soggetto che fa esperienza di un certo spazio. Il discorso sullo spazio è il discorso del corpo che si muove in un luogo, il corpo del soggetto che “abita” lo spazio, nelle variabili condizioni temporali in cui quest’azione avviene. Nell’ambito della ricerca sulla città affettiva il nostro lavoro su Laurentino tenta dunque di descrivere la città e l’architettura non partendo dagli oggetti, ma dallo spazio, inteso come incontro tra un soggetto – con la sua disposizione corporea contingente – ed uno specifico ambiente, costruito o naturale, che si presenta al soggetto in una determinata situazione1.
Le qualità specificamente architettoniche che interessano questo lavoro riguardano l’articolazione delle relazioni spaziali concepibili non semplicemente dal punto di vista della progettazione, ma dell’esperienza, il modo in cui le persone vivono gli edifici che sono stati immaginati per loro. Osservando poi le relazioni che attraversano lo spazio urbano, i legami e i sentimenti che contraddistinguono questa esperienza (libertà e costrizione, diffidenza e fiducia, empatia e ostilità), da un lato ci chiediamo in che maniera questa sfera affettiva incida sul nostro modo di percepire e muoverci in un luogo; dall’altro tentiamo di stabilire come le trasformazioni, le promesse mancate e i traumi che un luogo come Laurentino 38 ha subito dalla sua costruzione ad oggi influenzino il nostro modo di sentire e percepire il quartiere. Un tema centrale nel lavoro di lettura del testo della città contemporanea è anche quello di cercare di ribaltare alcuni luoghi comuni come autoriale/anonimo, pubblico/privato, naturale/costruito. Colin Ward giustamente sostiene che studiare l’architettura d’autore tralasciando lo studio di quella ordinaria e “non-blasonata” (dove abita il 98% della popolazione) sarebbe “come restringere le scienze botaniche solamente ai gigli e alle rose” (Ward, 2016, p. 15). Ma nel caso di studio che questo testo esamina occorre comunque partire dalla lettura dell’importanza del testo architettonico che abbiamo di fronte.
1. È questo l’approccio alla base della ricerca confluita poi primo volume di questa collana (Catucci & De Matteis, 2021).
Laurentino 38 – insieme a Corviale e Vigne Nuove – può considerarsi, infatti, uno dei tre manifesti dell’urbanistica novecentesca romana degli anni Settanta (Fig. 1). La sua vicenda progettuale, realizzativa e umana, a distanza di cinquant’anni dalla messa a punto del “planivolumetrico”, descrive in modo esemplare la parabola dell’abitare pubblico a Roma. Dopo queste tre esperienze, così sperimentali e in maniera diversa così radicali, poco di innovativo e riferibile alla scena internazionale si è realizzato a Roma nel campo della residenza pubblica. E come sottolinea Pietro Barucci, coordinatore dell’intervento del Laurentino 38, “[…] Le esperienze successive, dalla 513 alla 94, dal Secondo PEEP a Tor Bella Monaca, non hanno potuto evitare di riferirsi a quei tre interventi: per superarli, per negarli, per disprezzarli, per quello che volete, ma sono sempre stati presenti nel dibattito sulla città” (Barucci, s.d., p. 22).
Questi tre esempi sono importanti anche per il programma politico che rappresentano: il salto di scala che IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), oggi ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), compie a metà degli anni Settanta passando dalla realizzazione di piccoli interventi a veri e propri “pezzi di città”, è figlio della decisione di smantellare definitivamente baracche, borghetti e abitazioni precarie e malsane in cui in quegli anni vivono ancora centinaia di migliaia di romani2. Ma quando questi grandi interventi vengono completati, all’inizio degli anni Ottanta, il contesto politico e demografico è completamente mutato e l’aver concentrato il disagio (sociale, economico, lavorativo) in quartieri senza nessun mix sociale, ha acutizzato una condizione di isolamento che nel caso di Laurentino era prima ancora una segregazione territoriale. Riferendosi al Laurentino Nicolò Bassetti sottolinea che “[…] solo recentemente sono state aperte nuove vie di accesso, cercando di abbattere le barriere di difesa naturale che lo separavano da zone più borghesi come Eur, Ferratella, Torrino e Cecchignola. […] Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, chi voleva andare al Laurentino 38 poteva entrare e uscire da due sole strade, veri e propri check point che davano entrambi sulla Laurentina ed erano spesso presidiati da posti di blocco. Una condizione che ricordava Belfast o Gaza anziché un quartiere di Roma” (Bassetti & Matteucci, 2013, p. 73) (Fig. 2). Noi architetti abbiamo la tendenza a considerare lo spazio urbano e l’architettura in termini di esistenza materiale prima che di vita, di “oggetti” articolati nella loro dimensione fisica e spaziale (e perciò misurabili) prima che di avvenimenti umani che si svolgono negli spazi che abbiamo conce-
2. Il primo Piano per l’Edilizia Economica e Popolare di Roma, messo a punto nel corso della redazione del PRG, prevedeva la realizzazione di 73 piani (64 quelli realmente attuati) per complessivi 474.000 abitanti.
pito, o che tentiamo di interpretare attraverso il progetto sull’esistente. Se la componente materiale è a maggior ragione importante in un quartiere d’autore come quello in questione, è certo che in questo caso persistono anche immagini, condizioni e fattori molto profondi legati alla memoria dei luoghi e ai traumi condivisi, subiti e vissuti dagli abitanti. Vicende umane e architettoniche sono dunque impossibili da separare. Smarrita la dimensione identitaria e il senso di appartenenza connesso alla memoria collettiva, in luoghi come Laurentino 38, e in generale nelle periferie dei grandi interventi unitari, è la dimensione relazionale – legata alle pratiche di appropriazione e all’immersione affettiva nello spazio urbano – ad apparirci con più persuasività ed evidenza. La relazione è quella che si stabilisce tra i soggetti, ma anche tra spazio vissuto e sentimenti di chi lo abita. L’esistenza di chi risiede nel quartiere si svolge in un ampio campo di possibilità (non nel terreno del determinismo) e, al di là della vulgata comune o della narrazione veicolata nei media, tali possibilità sono plasmate dalla capacità umana di ricordare, evocare esperienze fatte, immaginarne di nuove, agire più o meno liberamente, e consciamente, nello spazio (cfr. De Matteis & Reale, 2017).
2. Grumi di urbanità
I 5500 alloggi del quartiere Laurentino (Piano di Zona n. 38), progettato tra il 1971 e il ‘76 per una popolazione di quasi 32.000 abitanti, sono ripartiti in dodici insulae che, a gruppi di due o tre, costituiscono cinque comparti edilizi distribuiti, come delle “vertebre”, lungo un anello viario di quattro chilometri, all’interno del quale è un’area, orograficamente depressa, adibita a parco ed edilizia scolastica. Ogni insula è formata da cinque edifici in linea di otto piani e da una torre di quattordici piani, aggregati perpendicolarmente all’asse stradale e “tenuti insieme” da un edificio-ponte – “abitato” da servizi ed esercizi commerciali – che sovrappassa la strada. I ponti assumono anche un fondamentale ruolo territoriale, permettendo di superare l’anello stradale e collegando così il parco centrale con tutte le aree urbane esterne al complesso. Tra un comparto e l’altro vengono poi collocati i servizi complementari e sportivi. L’estrema dilatazione dello spazio che caratterizza il quartiere è compensata da una forte coesione delle singole parti, densi “grumi” di città immersi nel vuoto del “parco-campagna” (Fig. 3).
Anche grazie a questa drammatica alternanza di densità e rarefazione, che genera un contrasto spaziale prodotto dal continuo e ambiguo passaggio da una condizione in cui si è fuori dal quartiere ad una condizione in cui si è dentro, a Laurentino 38 esiste una relazione di profondo scambio tra città e paesaggio, non molto comune nel panorama dell’edilizia residenziale romana, dove in genere l’edificato si raffronta al paesaggio secondo un’idea,
Fig. 2 - Uno dei “check point” del quartiere alla fine degli anni Settanta (autore sconosciuto). A pagina 42: Fig. 1 - Laurentino 38, gennaio 2020 (foto di Luca Reale).
quasi arcaica, di pura contrapposizione artificio/natura (pensiamo agli acquedotti imperiali nella Campagna Romana). Questa condizione così peculiare tende a contraddire il diffuso convincimento per cui una città per definizione non è un paesaggio. Scrive infatti Lévy: “[…] quando ci si trova in una città non si può metterla a distanza, si è immersi in un paesaggio che potrebbe esistere solo se si potesse uscirne. E se lo facessimo, la città si ridurrebbe a uno skyline, diventerebbe un paesaggio impoverito incapace di render conto di ciò che fa la città una città, l’urbanità, che è multisensoriale, interattiva e densa come una società. Anche se si toglie ogni connotazione naturale alla nozione di paesaggio, bisogna riconoscere che, quando la città diventa un paesaggio, cessa essenzialmente di essere una città” (Lévy, 2018, p. 115). Questa difficoltà di visibilità a distanza della città contemporanea sembra fotografare bene la periferia romana; si potrebbe invece sostenere che nel Laurentino il paesaggio, in maniera più anonima e quasi “domestica”, entra a far parte dell’esperienza urbana di chi si muove nei passaggi alla quota dei ponti, quasi “fluisce” negli spazi tra le case, non solo mettendo in relazione tra loro le componenti fisiche delle diverse insulae, ma permettendo al soggetto una libera fruizione (fisica e visuale) degli spazi aperti –minerali e naturali, scoperti o coperti – per vaste porzioni dell’intervento. Sul piano più strettamente insediativo e morfologico il quartiere esprime, nel rapporto tra linee, torri, ponti e spazi pubblici, la compattezza di un
PERCORRENZE
In questa sezione si offre una lettura critica del Laurentino 38 che superi le istanze compositive e morfologiche per adottare una posizione utile a restituire l’esperienza del quartiere come spazio vissuto attraverso il progetto del movimento e delle sue forme. Il Laurentino è presentato come una sovrapposizione di percorrenze auspicate, progettate, praticate, cancellate, desiderate, ovvero come azioni del corpo che, interferendo con l’ambiente, siano in grado di produrre e orientare i modi con cui abitare lo spazio urbano. Questa condizione “stratificata” rifugge il concetto di “quartiere pianificato” per aprirsi a una pluralità di interventi messi in atto dalle persone – alcuni coscienti, altri meno, altri del tutto spontanei – che combinandosi, e talvolta confliggendo, producono “affettività”. La città come palinsesto, come luogo di innumerevoli sovrascritture, è ormai accettata in gran parte degli studi che hanno per oggetto la forma urbana e i suoi meccanismi di funzionamento. A ognuna di queste fasi, si sosterrà, corrisponde una relazione dicotomica tra aspettativa (più o meno latente) e sua materializzazione (sempre concreta e dunque leggibile) e quindi una precisa strategia di progetto “emotivo/esperienziale”. In che modo, dunque, mi relaziono al quartiere, percorrendolo? La struttura del Laurentino sembra essere, da qualsiasi punto la si guardi, un continuo invito al movimento: il primo, quello previsto dai progettisti, carrabile; il secondo che ricalca i percorsi spontanei degli abitanti; il terzo, quello interrotto dai continui traumi e dalle rimozioni cui il quartiere è stato sottoposto nei suoi primi cinquant’anni di vita. Al contrario di altri Piani di Zona dello stesso periodo, in cui si reinterpretano archetipi e forme urbane storicizzate, il Laurentino ha assunto come suo paradigma fondativo quello della mobilità, o meglio delle molte modalità di movimento possibili, sempre separate ma strettamente connesse e interdipendenti. Se infatti il progetto di Barucci si propone come una perfetta “macchina circolatoria”, nelle fasi successive le pratiche spontanee degli abitanti e le azioni puntuali dell’amministrazione intervengono a ribaltare i principi su cui il progetto esperienziale del quartiere è stato strutturato, modificando l’idea stessa di abitare che ne era alla base. Il tema delle percorrenze (che collegano punti notevoli e che tracciano assi, percorsi trasversali e direzioni oblique) si contrappone all’idea macchinista del circuito. In questo senso la demolizione dei ponti è un ostacolo al consolidamento delle percorrenze e costituisce un limite “per difetto”.
Le tre forme di percorrenza individuate si sovrappongono allora come dei lucidi. Questi si possono leggere singolarmente o nella complessità prodotta dalla loro lettura simultanea. Ma è solo in questo secondo caso che i punti di snodo, le criticità, vengono
alla luce, ed è solo mettendo in tensione i diversi livelli che si può rileggere la forma della “città affettiva”. È per questo motivo che il quartiere appare rilevante ai fini della nostra ricerca: la peculiare conformazione dell’insediamento, il suo contesto, le sue vicende di cronaca, i suoi traumi, ma anche le speranze di riscatto, qui non hanno (ancora) trovato una soluzione, una sintesi “spazializzata”, ma sono rimasti tutti pienamente leggibili per “strati” sovrapposti, al punto che basta isolarli per poterli studiare analiticamente. In particolar modo si vedrà come il passaggio da un livello di lettura all’altro avvenga per dei punti di cerniera talvolta coincidenti con delle situazioni architettoniche, tal’altre con un repentino cambio del paesaggio, altre ancora con dei “vuoti”, spazi ancora in attesa di una prospettiva d’uso che ne definisca il senso. Verticalmente rispetto agli strati, saranno allora oggetto di specifica attenzione quei nodi in cui le diverse percorrenze si incontrano-scontrano, oppure quelle situazioni in cui il conflitto delle diverse percorrenze ha prodotto corto-circuiti di tipo distruttivo: è il caso della mancata attivazione dei servizi del quartiere, in particolar modo di quelli sui ponti, ma anche il destino delle portinerie, abbandonate prima ancora di entrare in funzione, le quali da sole avrebbero costituito un presidio sociale nelle singole insulae. Discorso simile per l’abbandono della forra, cuore verde del progetto ma di difficile accessibilità. Dal punto di vista morfologico ha pesato il fallito inglobamento della Laurentina nel progetto attraverso il nucleo direzionale che è rimasto sulla carta, e ovviamente la già menzionata demolizione dei ponti 9, 10 e 11. Ognuno di questi eventi traumatici coincide con un varco spaziale che permette di attraversare i diversi layer della città, una collisione inattesa tra città sovrapposte abitate da soggetti differenti ma che apre a nuove connessioni. Scomponendo il conflitto di tre progetti, quello urbanistico, quello antropologico e quello politico, il Laurentino si offre come caso studio per comprendere le dinamiche sociali in atto, quelle sopite e quelle in potenza. Si tratta, quindi, non solo di soglie spazio-temporali in cui si sovrappongono modi e tempi molto diversi della storia del progetto. Ma anche di soglie emotive, in cui le progettualità esplicite ed implicite dei progettisti, degli amministratori, degli abitanti arrivano (o non arrivano) a richiedere una visione che orienti le trasformazioni future.
(DF, EA, ADS)
IL PROGETTO DEL QUARTIERE
TRA RAZIONALITÀ
DISINCARNATA E RIVELAZIONE DEI
SENSI
DANIELE FREDIANI
1. L’immagine spaziale oltre il primato della tecnica
Descrivere un intervento articolato e già sovraccarico di sguardi come il Laurentino 38 implica l’adozione di strumenti interpretativi inediti, capaci di interrogare i luoghi senza cadere nella facile trappola della retorica “fallimentarista” che ciclicamente reinveste il quartiere. Questa è l’idea alla base del presente contributo che, attraverso la lente esperienziale, vuole introdurre il lettore a forme di conoscenza che precedono e in qualche modo orientano le successive decodificazioni disciplinari. Questa narrazione “in prima persona” diviene cruciale in considerazione del fatto che nel progetto di Barucci, De Rossi, Giovannini, Nucci e Sostegni, parallelamente al disegno architettonico e urbano, si è manifestato ben presto un altro progetto, non meno importante, che riguarda le modalità con cui la città debba essere scoperta ed esplorata. Attraverso i documenti provenienti dal Fondo Barucci e grazie a un apparato grafico-esplorativo originale, si vedrà che tale “progetto percettivo” non è frutto di una lettura accessoria o occasionale, o ancora di un’interpretazione critica postuma, ma è parte integrante del disegno del quartiere, al punto da costituirne la premessa concettuale. Tale progetto veicola una visione spaziale di grande valore che però non emerge dagli elaborati diffusamente pubblicati sulle riviste dell’epoca e neanche negli studi successivi, avviati dopo la tragica vicenda delle demolizioni, quando l’architettura del quartiere ha cominciato a essere studiata e apprezzata (Lenci, 2009; Lenci, 2020).
Il mancato riconoscimento delle qualità spaziali del progetto barucciano paga senz’altro l’assenza di rappresentazioni prospettiche, di viste d’ambiente dalle quali dedurre l’atmosfera peculiare immaginata dall’autore e dal suo gruppo. Probabilmente tale lacuna è dovuta alla natura dell’incarico: sostanzialmente un affidamento diretto, secondo l’oliato meccanismo in uso presso la GESCAL e adottato del resto anche per gli altri quartieri del Piano, rivolto a progettisti di manifeste capacità e comunque considerati “di fiducia” da parte dell’ente (Petrangeli Papini, 1984, p. 98). Tutti gli elaborati grafici sono, non a caso, disegni tecnici in senso stretto: planimetrie, prospetti, sezioni, ma anche bellissime assonometrie, “spellati”, abaci tipologici. Il loro obiettivo è far risaltare la correttezza, l’efficienza e la coerenza logica del processo compositivo, piuttosto che proporre accattivanti rappresentazioni tridimensionali, dimostrando come, all’atto pratico, l’aspetto narrativo abbia ceduto il passo a quello tecnico-realizzativo1.
1. Si potrebbe suggerire che, se il Laurentino si ispira dichiaratamente al Plan Pampus, è proprio nella bella prospettiva in bianco e nero di van den Broek e Bakema che dobbiamo ricercare la vivace frenesia urbana immaginata dai progettisti del quartiere romano. Le automobili che sfrecciano sotto un intrico di ponti e passerelle sono le
Fig. 1 - L’area della Cecchignola con la forra del Laurentino 38 nelle carte dell’Istituto Geografico Militare, Anno 1894, Foglio 150 della Carta d’Italia, III.N.O.
Fig. 2 - La stessa area nel 1959, E.T.A. Ente Topografico Aerofotogrammetrico (Fonte: Frutaz, A.P. (1962) Le piante di Roma, Roma: Tip. L. Salomone e A. Staderini 1962, III, CCXXXVII, p. 651).
Non sorprenda poi che nella monumentale quantità di elaborati prodotti in fase progettuale, non appaia mai la figura umana come elemento misuratore dello spazio. Il punto di vista ad altezza d’uomo non sembra coincidere con quello dei progettisti, più interessati ad altri aspetti (conformemente al quadro politico e finanziario dell’iniziativa) come l’ottimizzazione dei processi costruttivi, la sostenibilità economica e la rapidità di esecuzione, il rapporto dell’insediamento con la scala delle trasformazioni previste. Tutti gli sforzi devono essere destinati a non mancare questa sfida che colloca finalmente l’Italia sul piano europeo in termini di industrializzazione edilizia (Lenci, 2020, p. 39). E ancora è l’automobile, non il corpo umano, l’unità di misura su cui impostare ogni riflessione critica. Queste constatazioni sono il punto di partenza per produrre un avanzamento degli strumenti con cui osservare e intervenire nella trasformazione positiva del Laurentino, come di altri quartieri che trovano nel legame costitutivo tra razionalizzazione costruttiva e grande dimensione la propria posizione critica. Come si può dunque, oggi, in tempi di contrazione del mezzo di trasporto privato, guardare a questo brano di città pensato a misura di macchina? E com’è possibile gettare su di esso uno sguardo proiettivo per l’avtestimoni di un’atmosfera futurista priva di ogni nostalgia della città tradizionale e della sua placida organizzazione spaziale e temporale.
venire, senza rinnegare un progetto originario controverso ma di grande interesse, accogliendo le legittime aspirazioni degli abitanti che qui hanno ormai costruito la propria rete di affetti, speranze, desideri?
La ricostruzione ex-post di un’immagine figurativa del progetto può essere un primo passo per conciliare storia e futuro. La molteplicità delle strade che percorreremo per raccontarlo (la ricerca d’archivio, il ridisegno, il sopralluogo) è indicativa della grande ricchezza di riflessioni e spunti posti da questo contraddittorio frammento urbano. Il quartiere è davvero l’esito di un pensiero meccanicistico o tra le sue pieghe spaziali si cela una progettualità sommersa, che una volta riportata alla luce saprà concimare nuove forme di affezione?
2.
La “misura” romana del Laurentino 38
Ebbene sì, è vero: abbiamo creduto ai rivolgimenti degli anni ’60, alle nuove aperture culturali, alla grande dimensione, al town-design, alla industrializzazione, alla validità delle nuove tendenze europee, alla ricerca di nuovi standard di vita per una società in trasformazione. Abbiamo ammirato il pragmatismo di paesi più avanzati che passavano dall’utopia alla sperimentazione come unico percorso possibile, come la via necessaria allo sviluppo. Ci sentivamo più partecipi di un fluire cosmopolita, europeo, che non attratti dalle tradizioni e dal localismo.
Pietro Barucci 2
Lontano da ogni forma di identificazione con i temi e le rappresentazioni dell’architettura romana, il Laurentino 38 rivendica con fierezza – soprattutto per la strenua difesa delle sue ragioni che per decenni ha impegnato Barucci – l’appartenenza a una “classicità del moderno” ben più che a una tradizione. Rivendicando la propria appartenenza a una koiné europea, che proprio in quegli anni era messa in discussione dall’affacciarsi dell’ondata postmoderna, il Laurentino è un caso unico nel panorama romano, sicuramente il quartiere pianificato in cui più alta è stata l’asticella delle aspettative. A dispetto del suo respiro internazionale, tuttavia, custodisce alcune qualità – alcune inclinazioni, se vogliamo – che lo tengono fortemente ancorato all’immaginario condiviso della cultura architettonica romana. Questi caratteri non sono certamente ascrivibili alle soluzioni linguistiche o tipologiche, e meno che mai alla messa a punto del principio insediativo in sé, quanto piuttosto alle modalità con cui quest’ultimo entra in collisione con le condizioni ambientali e geo-morfologiche distintive dell’Agro Romano, ovvero con le caratteristiche insediative che consentono di rico-
2. Frase pronunciata in occasione della lectio tenuta presso la Facoltà di Ingegneria di Sapienza il 6 febbraio 2007. Poi pubblicato in: Lenci, 2009, p. 380.
Fig. 3 - L’insula e il rapporto con la forra (Fonte: Notiziario dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari [...] 1973).
noscerlo in quanto elaborazione culturale e dunque come paesaggio (D’Angelo, 2014, p. 13). Mettere in tensione la grande dimensione dell’intervento con la scala percettiva del territorio è, a ben vedere, un tratto comune anche ad altri casi simili: la genesi di molte delle grandi 167 romane, forse come rivendicazione “di scuola”, è pienamente inserita in un dialogo con le figure notevoli della geografia laziale3. Eppure, se altrove le condizioni ambientali sono un referente narrativo dell’architettura, che la mette in risalto dialetticamente, nel caso del Laurentino la geografia è materiale stesso del progetto. Entrando in tensione, geografia e architettura producono un modello di funzionamento complesso che passa per la manipolazione del suolo. Si guardi alle variazioni dell’attacco a terra: il progetto sfrutta le condizioni geo-morfologiche a proprio favore, le modifica e in qualche modo le falsifica, per ottenere l’effetto di una città multilivello che appaia “naturalmente” incastonata nel contesto. Laddove l’insula è un modello ideale, sempre uguale e ripetibile, il suo “atterraggio” nella realtà è ogni volta diverso.
Le condizioni di partenza con cui si confrontano i progettisti sono tutt’altro che propizie: l’area prescelta è slegata dalla città, isolata in un quadrante non ancora urbanizzato e individuato come un semplice retino sulla tavola del Piano Regolatore. Per i progettisti “attrezzare e sistemare organizzativamente al suo interno alcuni settori di periferia scelti qua e là,
3. In egual misura, a Corviale è lo stesso Mario Fiorentino a ricordarci come il progetto nasca da “un’idea ispirata alla storia e alle immagini di Roma e del suo territorio” (Fiorentino, 1985, p. 271).
evidentemente, non può significare risolvere il problema della trasformazione degli agglomerati urbani nella loro totalità” (Jacobelli, 1974, p. 61). Lo stesso Barucci prende nettamente le distanze dal modello della città per parti, che è però uno dei capisaldi del PRG. Al contrario, egli rivendica la vocazione romana alla continuità dell’espansione edilizia, in quanto frutto della secolare infrastrutturazione del territorio tramite le vie consolari4. Si può allora provare a delineare l’ambiguità che connota il quartiere: un circuito automobilistico riannodato su se stesso che inanella una successione di microcittà, formalmente e funzionalmente autonome, in sé dense e dalle spazialità sorprendentemente misurate, intervallate da lembi di verde attrezzato. Le insulae da parte loro sembrano il tentativo di aggiornare e ibridare l’approccio antropologico dell’unità di vicinato con la grande dimensione modernista: ognuna conta 300 alloggi per 1800 abitanti, con una dotazione di 11 negozi, localizzati sui ponti, e un volume aggiuntivo per servizi culturali (Passeri, 1978, p. 8). Quindi non un quartiere compiuto, ma piuttosto un atto fondativo che spinge alle estreme conseguenze le previsioni di piano e le astrazioni della disciplina urbanistica, per farne emergere contraddizioni e aporie, estraendovi con veemenza la suggestione di una città “stratigrafica” sia nel suo rapporto con il territorio che nelle modalità con cui si passa da un livello all’altro.
4. Sosterrà molto più tardi Barucci in Progettare Roma. Il Laurentino 38 che “il modello della città per parti applicato al territorio romano è un non senso, profondamente contrario al modo in cui la città è strutturata nel tempo e al modo in cui l’immaginario collettivo vive la città stessa, tuttora ancorata allo schema radiocentrico dei tracciati consolari di epoca romana” (Lenci, 2009, p. 379).
UNA PROPOSTA PER
L’IDENTITÀ
VISIVA DEL QUARTIERE
MAURIZIO DI PUOLO
Nota dei curatori
La proposta elaborata nei primi anni Settanta dallo studio Metaimago di Maurizio di Puolo per la segnaletica del Laurentino 38 costituisce un importante documento per rileggere retrospettivamente quell’idea di città che contempla la visione dall’automobile come momento essenziale nella costruzione dell’immagine urbana. Il corpus di disegni, schizzi e documenti di lavoro conservati presso il Fondo Barucci dell’Archivio Centrale dello Stato – e qui parzialmente pubblicato per la prima volta – testimonia lo sforzo di escogitare un modello insediativo in cui lo stesso concetto di orientamento assume una dimensione percettiva territoriale, alludendo al superamento della toponomastica tradizionale. Grandi proiettori luminosi e intermittenti sono collocati sulle diverse torri, distinguendo cromaticamente gli edifici anche di notte e a grande distanza, così da guidare gli automobilisti dapprima lungo l’anello principale, per poi smistare il traffico fin dentro le singole insulae. Essi rimandano, di contro, a una fascinazione quasi futurista e “protomoderna”, che ritrova nella luce artificiale e nelle sue pulsazioni un medium espressivo ed eloquente, fino a offrirsi agli abitanti come segnale identitario e di riconoscimento. Con tale soluzione di Puolo prende ironicamente le distanze da quelle forme dell’abitare che, nello sradicamento dal suolo e nella dissoluzione della strada, avevano perpetrato l’idea di una città fermamente antigerarchica e antiprospettica. Qui di seguito pubblichiamo un contributo che l’autore ha scritto appositamente per questo volume, a cinquant’anni di distanza dalla sua proposta per l’identità visiva del quartiere. (DF, LR)
Ritorno al Laurentino
Lavoravo nello studio AYDE dai tardi anni ‘60, con Carlo e Maurizio Aymonino insieme ad Alessandro De Rossi e al fratello Baldo. In particolare Sandro De Rossi stava ultimando i progetti per il nuovo comparto del “Laurentino 38”.
Mi fu chiesto di cercare un sistema di orientamento in questo spazio urbano completamente nuovo e soprattutto innovativo rispetto agli abituali canoni urbanistici: doppi livelli di traffico che dividevano lo scorrimento veloce dal movimento locale e pedonale, ponti di attraversamento contenenti attività commerciali, episodi edilizi variati per destinazione e per altezze, ed infine il desiderio di non affidarsi alla solita toponomastica con la solita scelta di nomi e cognomi o città o fiumi o ad altri nomi in genere sconosciuti...
In quegli anni girava un libro, frutto di una ricerca finanziata dalla Fondazione Rockefeller e affidata a Kevin Lynch dal titolo – in italiano – L’immagine della città. L’opera divenne presto fondamentale nel mondo degli studi urbanistici individuando il modo esatto della percezione di una città:
1. Cartello indicatore immediatamente prima dell’immissione nella circolazione anulare del quartiere. Sono specificati i colori dei vari blocchi.
2. Cartello di specificazione della divisione dei blocchi omologo dell’altro con i relativi colori. Indica il senso di percorrenza più razionale e rapido.
3. Cartello che connota l’ubicazione raggiunta, specificando il settore e l’isolato nonché il settore successivo per il quale bisogna proseguire (blocco blu).
4. Cartello che indica il parcheggio più conveniente per le unità N° 3 e N° 4 e le rispettive direzioni.
5. Cartello indicante la fermata per i servizi pubblici al Blocco Giallo e unità N° 3.
6. Cartello che dai parcheggi o dalla fermata bus indica la posizione delle scale di risalita per raggiungere la piastra pedonale.
7. INDICATORE generale all’arrivo dell’utente al piano pedonale. Si riconferma l’unità e si specificano le direzioni dei servizi e del tipo e la divisione e la direzione degli ingressi.
8. INDICATORE parziale delle direzioni per raggiungere l’ingresso desiderato.
9. INDICATORE dell’ingresso cercato (equivale al numero civico).
Alcuni esempi per l’individuazione del linguaggio grafico. È evidente la necessità di condensare nello stesso simbolo la “domanda” e la “risposta”.