Imparare da e con il paesaggio

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Ringrazio l’amico Stefano Cusatelli per aver condiviso alcuni pensieri e aver osservato pazientemente la revisione finale dei testi prima della stampa.

Isotta Cortesi

INTERVISTA

APPARATI

Pubblicazioni su Catherine Mosbach

Scritti di Catherine Mosbach

Letture suggerite dall’intervista

RIVELAZIONI

DI CATHERINE MOSBACH

Isotta Cortesi

Le macerie sono come il fiore di una pianta, sono l’apice radioso di un incessante metabolismo, l’inizio di una rinascita».

Anselm Kiefer

La trasformazione dello spazio aperto che mosbach paysagistes ha sperimentato in questi decenni in diversi continenti, nei concorsi e nelle opere costruite, si rivela fondante per il presente e il futuro della disciplina del progetto di paesaggio: una possibile traccia da seguire, una modalità sulla quale interrogarsi che si propone come ampia e possibile interpretazione delle relazioni tra i temi cruciali del nostro presente (clima, risorse, energia, habitat…).

Il lavoro di Catherine Mosbach nelle sue specificità ci restituisce sempre una profonda e peculiare conoscenza dei luoghi, della storia, dell’evoluzione delle culture e degli ecosistemi che appare costruita su realtà tangibili mentre l’autrice innesta, in modo originale, anche scelte strutturate su ciò che nell’immediato non è visibile: la storia geologica, la memoria dell’acqua, i processi di trasformazione e di decontaminazione dei suoli e le tracce dell’uomo.

Non è scontato sostenere che il suo progetto sia un’ampia ricerca che comincia da un’indagine approfondita e articolata che, per la Mosbach, procede in molteplici direzioni e

arricchisce la conoscenza per condurre a scelte appropriate. In questo modo si impostano alcune ipotesi coesistenti, che risolte coerentemente generano habitat per i viventi e spazi che nutrono l’immaginazione degli uomini. Ogni suo progetto inizia con un percorso di ricognizione di informazioni, una lunga ricerca per conoscere le relazioni tra lo spazio fisico, le trasformazioni indotte, le condizioni attuali e le necessità indagate su più livelli e rintracciando archetipi di paesaggi antichi, tesse una trama diacronica che unisce storia umana e storia naturale.

EDUCAZIONE PLURALE E PROGETTO

Nel pensiero teorico e nelle prove costruite di Catherine Mosbach riconosciamo, in tutte le fasi del progetto, la peculiarità del suo lavoro: rafforzare ed esprimere lo stretto e inscindibile legame tra l’espressione artistica delle forme e la sostanza delle Scienze della Vita (biologia, botanica, geologia…). La rispondenza, così evidente e leggibile, dell’unità tra questi due mondi è espressione di una nuova figura di architetto del paesaggio che nel suo lavoro sposta

i limiti operativi della disciplina integrando le diverse competenze specialistiche. Si potrebbe affermare che molto di quest’unicità origina dal suo particolare percorso di formazione, poiché la Mosbach ha dapprima svolto studi universitari in Scienze della Vita, nell’ambito della fisica e della chimica, per affrontare poi la selezione per la Scuola di Paesaggio a Versailles1 dove ha appreso il progetto sotto la direzione di Michel Corajoud e dopo questa educazione, cresciuta e più matura, ha approfondito gli studi con una specializzazione in Storia e Civiltà a Parigi. La Mosbach quindi custodisce sia un sapere in ambito umanistico, sia una formazione tecnico scientifica e un’affinità sensibile alla pratica delle arti figurative: un’integrazione di saperi non comune né troppo diffusa tra i progettisti di paesaggio in Europa. Possiamo quindi sostenere che parte della sua specificità risieda proprio in questo suo originale percorso di formazione che coniuga la pratica artistica con la ricerca scientifica congiunte all’interesse per la storia e la civiltà. Ma certamente questa non è una condizione sufficiente poiché tutto si unisce, nella sua personale ideazione, con una personale interpretazione delle forme per dar vita ai nuovi paesaggi.

LE FORME DELLA VITA

Dobbiamo considerare che i suoi straordinari e solo apparentemente insoliti disegni di paesaggio restituiscono immagini alle quali non siamo abituati, alle quali il nostro pensiero e la nostra visione non sono ancora (o non più) educati. Così in un’osservazione esteriore ci appaiono forme sconosciute sia come costruzione, sia come fonte sorgente alla quale attingere o riferirsi. Non è affatto scontato né immediato, nel suo lavoro, trovare i legami con la tradizione che ha attraversato la storia del paesaggio e delle città mutando lineamenti, o con le regole della composizione, della geometria cartesiana, o con quelle delle proporzioni alle quali gli architetti sono formati. Accade pertanto che le sue realizzazioni a volte vengano erroneamente considerate come esiti in forma di opera artistica, ossia risultati di una sua personale ricerca espressiva che individua forme proprie e originali; invece è importante rilevare che la Mosbach esplora ragioni in percorsi differenti ben oltre la dimostrazione di una personale espressione comunque presente ma non esaustiva del progetto. Certamente molte spiegazioni risiedono nella sua formazione, come

già raccontato, ma la singolarità delle forme del suo lavoro vive nella capacità di trasferire, in una nuova dimensione, quegli elementi da sempre presenti nel paesaggio, che già esistono, che i più non sanno riconoscere, ma che sono modelli possibili, classificati come forme della natura. Essi scaturiscono sia dalla consuetudine che la Mosbach ha avuto da sempre, con gli elementi della campagna e del paesaggio e anche da quell’iniziale formazione scientifica universitaria che per alcuni anni l’ha allenata a riconoscere le diverse forme della vita nelle scienze naturali e biologiche, e dagli approfondimenti delle sue ricerche progettuali in un’osservazione ingrandita al microscopio di cellule animali e vegetali che, certamente ricche di fascinazioni, sono tuttavia inconsuete nella figurazione corrente e nell’educazione alla pratica del paesaggio.

Il suo contributo è trasversale tra i saperi, salda la relazione tra ricerca scientifica e quella artistica, fonda un profondo interesse sui viventi, sulla storia delle civiltà e le loro trasformazioni per trovare in questi ambiti compresenti e riuniti la costruzione delle ragioni dei suoi progetti.

ISOTTA CORTESI intervista

CATHERINE MOSBACH

a

La nostra conversazione è avvenuta una mattina di dicembre a Parigi, nello studio di mosbach paysagistes in rue des Poissonniers, era piuttosto presto, perché avevamo anche organizzato di trascorrere del tempo insieme per il pranzo. Mi ha accolta con calma, prima ha terminato di innaffiare tutte le sue piante, io mi sono accomodata ho organizzato il materiale e poi abbiamo cominciato a sentirci a nostro agio, per questo atteso incontro: due sedie una fronte all’altra in una zona di passaggio ben illuminata. Il suo studio, molto silenzioso, era affollato di persone, di libri, di oggetti e di contenitori bianchi per conservare il materiale di archivio. Il suo studio è anche la sua casa, quella non l’ho visitata, è al piano di sopra, pare sia popolata da una lussureggiante vegetazione.

Isotta Cortesi. La discussione contemporanea rivela l’importanza e anche la necessità di rafforzare il rapporto tra gli studi scientifici e il valore estetico dei luoghi che noi, come progettisti, trasformiamo. Questo argomento racchiude un pensiero sul fondamentale rapporto tra arte e scienza nel progetto del paesaggio contemporaneo. Come leghi arte e scienza nei tuoi progetti e nella tua ricerca?

Catherine Mosbach. Questa è una domanda difficile per iniziare. Io ho una formazione scientifica di base, quindi necessariamente guardo le cose da questo punto di vista, con un pensiero scientifico, ovviamente non come uno scienziato che fa ricerca oggi perché è ormai trascorso molto tempo da quando ho completato l’università, ma la componente scientifica mi interessa e so che ci sono molte cose invisibili che orientano il visibile. Il modo in cui affronto i temi e i problemi, che sono questioni trasversali nel paesaggio, si nutre di questa dimensione dell’invisibile e del micro. Nella mia ricerca la questione dell’arte viene affrontata più da un punto di vista filosofico, ho infatti molti amici che sono sia artisti, sia filosofi che critici d’arte.

Ho frequentato molti seminari di Georges DidiHuberman1 all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences

Sociales a Parigi e ho letto molti dei suoi libri e il suo modo di porre domande e sviluppare la dialettica alimenta profondamente il mio lavoro per come affronto i temi e per come sviluppo i principi del progetto dello spazio che restano questioni aperte e non sono solo dati da osservare, come spesso ci viene chiesto in Occidente… relegati a scene, o a qualcosa di carino e di fisso. Se invece consideriamo le scienze in primo luogo e l’arte in secondo luogo sappiamo che le cose sono in un perpetuo

ricominciamento. Questa condizione non è un tema confortante per la maggior parte delle persone.

Gli studi universitari di biologia, fisica e chimica mi hanno insegnato ad imparare più che a pensare, e all’università ho imparato ad imparare. E quando arrivai all’École Nationale Supérieure du Paysage, tutto il giorno ci dicevano che non sapevamo nulla. Quindi ho avuto bisogno di tempo, forse sono trascorsi cinque anni o sei anni prima che mi sentissi a mio agio col fatto che le cose sono in continua formazione, e comprendere questa condizione non è stato per me assolutamente un problema. Infatti durante il nostro cammino apprendiamo continuamente e questo cambia letteralmente il modo di affrontare il progetto sia dal punto di vista sociale, sia per le opportunità e le possibilità che diamo alle popolazioni che visitano gli spazi che progettiamo, il che è molto importante… Questo è un modo per educare e sensibilizzare le persone, quello che offriamo loro, come progettisti, è una maniera diversa di utilizzare quello che già conoscono e di attivare nuovi comportamenti che non sono necessariamente consentiti in alcuni spazi pubblici, in Francia o all’estero. Quindi sì, il rapporto tra arte e scienza mi nutre e ne ho appetito perché so che sia nella scienza che nell’arte, oggi è un momento molto intenso e fecondo in diversi campi

future trasformazioni. Allo stesso tempo esse sono anche frammenti di paesaggi più ampi che tu col tuo progetto trasporti nella sfera pubblica. Dimmi come queste immagini diventano tracce?

Esse appaiono sia come forme specifiche e memorabili, sia come forme generali quando si riferiscono alla forma del paesaggio più ampio, più territoriale. Raccontami come identifichi le tracce nel progetto? Le costruisci dall’osservazione diretta del luogo? Oppure emergono durante l’elaborazione? Svolgono un ruolo principale o sono il risultato di altre decisioni, di altri principi? Mi sembra che la tua ricerca riveli tracce che a volte sono ritrovamenti nel terreno, ma non è archeologia, è qualcosa di diverso. Il tuo rivelare tracce è un modo per studiare e raccontare il tempo, gli agenti atmosferici, la geologia, le immagini di elementi naturali che si trovano nel paesaggio. Insomma rappresenti e costruisci esperienze e le porti a divenire reali, ad esistere come uniche. Sembra quasi che tu abbia con te una libreria di cose: una biblioteca della vita, di figure viventi che, proprio come nei romanzi, diventano personaggi speciali. Phase Shift Park, Taichung, Taïwan, 2011-2019. Dettaglio della planimetria generale.

per tutte le età, per tutti i sessi, perché lo spazio pubblico è ciò che educa le persone ed è ciò che dà loro la libertà di essere sé stesse e di essere sé stesse con gli altri. Questo pensiero è fondamentale oggi, visto la grande confusione che osserviamo tra ragazze e ragazzi, per capire come nasca tutto questo. Questa confusione di comportamenti è in realtà un’abitudine, anche se la biologia ha una realtà fisica, ma queste manifestazioni sono pur sempre standard sociali. Abbiamo bisogno di norme sociali, altrimenti non potremo più vivere insieme. Ovviamente non sono anarchica. Ma ad essere onesti, abbiamo bisogno di regole sociali, anche per renderle più aperte e farle evolvere in senso positivo. Questo è il problema, vale a dire che a volte, le comodità e le abitudini, racchiudono, impediscono e limitano le possibilità. Ad esempio, quanto è pericoloso per un ragazzo e una ragazza giocare insieme o quanto è pericoloso giocare semplicemente? Negli Stati Uniti ho visto, a New York nel 2019, rinchiudere i bambini per farli giocare in un recinto, per proteggerli poiché è pericoloso che qualcuno possa interferire, è pericoloso essere liberi! Questo esempio effettivamente rivela una Lost in Transition, Ulsan, Sud Korea, 2018. Micro-topografie di asfalto e la porosità del suolo.

Sorridiamo insieme

E all’improvviso dovetti imparare a disegnare, io non sapevo disegnare, studiavo fisica, mi piaceva la biologia, non sapevo disegnare. Così, ho preso lezioni di disegno da un artista, un pittore, per imparare a disegnare a mano. E così sono arrivata al concorso di selezione per la scuola di Versailles dove nella graduatoria sono entrata per ultima, sì per ultima, sì. E solo dopo, sono stata a visitare la scuola di ingegneri des eaux et des forêts. E ho scoperto che erano gli ingegneri che rimanevano negli uffici e i tecnici invece stavano fuori. È anche vero che la scuola di ingegneri des eaux et des forêts era veramente difficile, sarebbe stata una vita dura per almeno quattro anni. Vale a dire, tutto doveva essere imparato a memoria, sì a memoria. Quindi sono diventata paesaggista perché volevo un lavoro che mi consentisse di stare fuori, all’aperto. Infatti, ogni volta erano gli insegnanti che mi dicevano “devi andare lì, devi andare lì”, io dico “va bene, io ci vado” è sempre successo così, fin dalla prima infanzia. Sempre.

Concorso per il Centro della città di Saratov, Russia, 2020-2021. Mappa della variazione igrometrica: acqua alta.

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