Acceptera

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Prefazione di Marco Biraghi

Introduzione di Eugenio Lux

Note

Note sulle illustrazioni

Postfazione di Luca Ortelli

Bibliografia

Schede biografiche degli autori

Prefazione di Marco Biraghi

acceptera

,

un “discorso alla nazione”

Quello che il lettore ha tra le mani è probabilmente uno dei libri più significativi della vicenda architettonica della prima metà del XX secolo: un libro che – insieme a un ristrettissimo manipolo di suoi “confratelli” (tra cui si potrebbero annoverare Vers une architecture di Le Corbusier, Großstadtarchitektur di Ludwig Hilberseimer e Russland di El Lissitzky, nonché alcune riviste come “ABC” e “Das Neue Frankfurt”, ai quali sotto diversi aspetti esso può essere assimilato) – ha letteralmente fatto “epoca”; un libro “mitico”, per molti versi, reso ancora più “mitico” dal fatto di essere rimasto a lungo “avvolto” entro un’aura di sostanziale inattingibilità, o perlomeno, custodito in una lectio resa difficilior dal fatto di essere scritto in lingua svedese.

Il destino effettivo di questo libro, pubblicato nel 1931, è dunque quello di essere stato più taciuto che letto e commentato, in particolar modo dalla storiografia “ufficiale” dell’architettura moderna, e solamente in qualche sporadica occasione “evocato”. Così, non se ne trova traccia in testi “fondativi”, che pure cronologicamente potrebbero recarne testimonianza, come Pioneers of Modern Design (1936) di Pevsner, Modern Building (1937) di Behrendt, e Space Time and Architecture (1941) di Giedion. E lo stesso accade per le principali storie dell’architettura del Novecento, con le sole eccezioni di quella di Zevi che – pur dedicando ampio spazio all’Esposizione di Stoccolma del 1930, a cui esso è strettamente connesso – si limita a citarlo in bibliografia (ma a partire soltanto dall’edizione del 1975!), e di quella del sottoscritto del 2008, che inquadra brevemente il libro nella realtà del suo tempo, e cita l’appello da esso lanciato alla sua ultima pagina:

Accetta la realtà esistente – solo in questo modo si può controllarla, averne padronanza, cambiarla e creare una cultura che sia uno strumento adatto alla vita.

Nel contesto italiano il libro aveva già ricevuto le attenzioni di Cesare De Seta in Origini ed eclisse del movimento moderno (1980): qui esso è messo in connessione con il «Funzionalismo europeo», di cui secondo l’autore sancirebbe «la nascita». Inoltre nell’Antologia dell’architettura moderna, Testi, manifesti, utopie (1988) a cura di Mara De Benedetti e Attilio Pracchi, è riportata la traduzione parziale del capitolo sulla città, derivante a sua volta dalla pubblicazione che ne aveva fatto Stefano Ray in Il contributo svedese all’architettura contemporanea e l’opera di Sven Markelius (1969). E ancora, la traduzione tedesca del paragrafo di acceptera dedicato a Provinciale – Nazionale – Internazionale compare nell’antologia curata da Vittorio Magnago Lampugnani, Ruth Hanisch, Ulrich M. Schumann e Wolfgang Sonne, Architekturtheorie 20. Jahrhundert: Positionen, Programme, Manifeste (2004). Sempre in ambito internazionale, una certa considerazione gli riserva Kenneth Frampton in Studies in Tectonic Culture (1995), dove – dopo averlo sia pur fugacemente nominato nel testo – lo definisce (in una nota) «una dichiarazione polemica anonima, [...] una serie di prese di posizioni militanti sulla politica di uno stato assistenziale emergente in merito all’architettura e alla progettazione».

Un libro – acceptera – che è stato spesso ascritto alla “categoria” dei manifesti, nel senso in cui questo termine è stato inteso nell’ambito delle avanguardie storiche; un’attribuzione che si lascia giustificare sulla base dell’impostazione grafica aggiornata, dell’impaginazione libera, dell’accostamento, dell’inquadratura e del taglio delle immagini fotografiche dichiaratamente sperimentale, oltreché dell’utilizzo di fotomontaggi e di vignette, e infine del tono ironico e a volte addirittura scanzonato dei testi. Se con tutto questo acceptera potesse meritarsi il titolo di “manifesto”, allora si tratterebbe indubbiamente di un gentle manifesto, non certo di un manifesto che abbia qualcosa a che spartire con l’aggressività di quelli futuristi o con il rovesciamento del “senso” di quelli dadaisti. E se così fosse, allora i suoi ben noti, quantunque non distinti nei singoli contributi, firmatari – Gunnar Asplund, Wolter Gahn, Sven Markelius, Eskil Sundahl, Uno Åhrén e Gregor Paulsson – potrebbero essere definiti a loro volta una gentle avant-garde

In realtà, al di là delle consuete e schematiche classificazioni, acceptera è un volume che cerca di combattere la sua battaglia per l’introduzione nella società svedese (e più in generale, nell’intera area scandinava) di una vita – e non soltanto di un’architettura – orientata in direzione funzionalistica: dove nel termine svedese funkis vengono fatte risuonare, più che una fredda e meccanica efficienza e “aderenza” allo scopo, un’intima congiunzione di democrazia e tecnologia finalizzata all’obiettivo comune del raggiungimento di una modernizzazione nella quale il quantitativo e il qualitativo, il

pratico e il bello, trovino posto fianco a fianco. Una battaglia – quella per il funkis – combattuta con le miti armi della forza della persuasione, di un buonissimo senso in grado di sovvertire quello soltanto falsamente “buono” comune, e dell’ironia cui si è già fatto cenno poco più sopra.

Quello che, dal punto di vista del manifesto, potrebbe apparire fuori tempo massimo, si rivela invece perfettamente attuale nella prospettiva di un per nulla retorico – e anzi volutamente anti-retorico – “discorso alla nazione”; il cui obiettivo ideale non è però un chiuso “nazionalismo” quanto piuttosto l’apertura verso un rinnovamento che tocchi tutti gli aspetti produttivi ed estetici nella “nazione” scandinava, in linea con il “movimento” già manifestatosi nei Paesi più avanzati d’Europa (segnatamente la Germania e la Francia). Un rinnovamento dei «modi e [del]le forme con cui si esprimono le esigenze del tempo e il modo di vivere delle persone», come recita un passaggio cruciale di acceptera, che si sforza tuttavia di marcare una significativa distanza dalla posizione occupata dal funzionalismo nel restante contesto europeo: in modo del tutto antitetico rispetto alla “scolastica moderna” centro-europea – vale a dire all’affermazione e alla strenua difesa della propria “verità di fede” architettonica mediante l’uso della ragione praticata dai più ortodossi “adepti” del sedicente “Movimento Moderno”, in analogia con il metodo d’indagine speculativa attuato dagli scolastici medievali –, i “quieti agitatori” di acceptera propongono infatti ai loro connazionali svedesi e corregionali scandinavi un’architettura e un habitat domestico e urbano conformato a uno stile di vita più umano, ma non per questo meno funzionale. E non è forse una coincidenza che la pubblicazione di acceptera preceda di pochi mesi la salita al potere dei Socialdemokraterna, il partito riformista e progressista che guiderà la Svezia per i decenni a venire, istituendovi quel sistema del welfare a cui lo stesso funkis sembra preludere.

Una ragione aggiuntiva per leggere finalmente in traduzione italiana, dopo quella inglese (2008) e tedesca (2018) – grazie al minuzioso e prezioso lavoro compiuto da Eugenio Lux – un libro la cui uscita dall’aura “mitica” che l’aveva avvolto per quasi un secolo non lo priva però d’interesse, conferendogli piuttosto il fascino della realtà

Introduzione di Eugenio Lux

acceptera

, un nordico “appello alla ragione”

Tradurre o tradire?

Nel breve saggio Die Aufgabe des Übersetzers (1921) Walter Benjamin sostiene che la traduzione, come operazione metalinguistica, non consista nell’esprimere un contenuto, dato che a raggiungere questo obiettivo ci ha già pensato l’autore, ma nello stabilire un fecondo rapporto tra le lingue: essa è dunque un’espressione dell’originale, non meramente una sua copia. Solo nella traduzione il testo originale “sopravvive”, trascendendo il proprio ambito per mirare a una dimensione superiore. «Nelle traduzioni – scrive Benjamin – la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento»1. Il compito del traduttore è quindi cogliere nella propria lingua l’eco dell’originale: in altre parole, nel momento in cui si legge una traduzione, si ascolta un altro testo che va oltre, di cui si avverte la presenza in forma di suoni che la lingua della traduzione, la nostra lingua, ci rimanda. Ma perché questo echeggiare avvenga, la traduzione non deve imitare l’originale, non deve farne “ingenuamente” il verso; deve però riprodurre accuratamente e rinnovare proiettando in un “avanti” che è sempre già contenuto nel “dietro” della sua storia e della sua concezione. Compito del traduttore è dunque trovare nella lingua di arrivo «l’intenzione in grado di risvegliare in essa l’eco dell’originale […] per redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione»2

Il presente volume persegue un duplice intento: colmare una ormai secolare lacuna, mettendo a disposizione del lettore italiano il testo tradotto, e analizzare con rinnovato interesse uno dei libri più significativi della vicenda architettonica della prima metà del XX secolo, esaminandone il contenuto, la struttura, l’argomentazione e il design. L’interpretazione rappresenta la conditio sine qua non poiché, come sostiene Umberto Eco,

Casa editrice Tiden

1931

Stoccolma

L’individuo e la massa . . .

Il personale o l’universale?

Qualità o quantità?

— Una questione insolubile, perché non possiamo ignorare la collettività così come non possiamo ignorare la pretesa di vita indipendente dell’individuo.

Il problema ai nostri giorni è: quantità e qualità, massa e individuo. È necessario cercare di risolverlo anche nell’architettura e nel prodotto industriale.1

dell’urbanizzazione, l’enorme crescita delle città (il 79% della popolazione vive nelle città in Inghilterra contro il 20% in Ucraina). L’agricoltura guidata dall’industria spinge le persone ad allontanarsi (rispetto a una popolazione rurale dell’80% nell’Ucraina agricola, nella Danimarca cooperativa è solo del 55%).

Conseguenze:

I. Aumento della popolazione, urbanizzazione, spopolamento rurale;

II. industrializzazione della produzione di beni, aumento della produzione di beni, aumento dei salari e del potere di acquisto;

III. connessione del mondo attraverso nuovi mezzi di trasporto, connessione attraverso il commercio e le banche; tutto ciò è in fase di creazione

Un nuovo mondo —

— un nuovo tipo di individuo.

Costruisci per loro secondo le condizioni che hanno creato!

In vacanza.

Evento di ginnastica.

Ragazzi e ragazze si sono avvicinati allo scoutismo, che è una combinazione di educazione e attività all’aria aperta. Qualche dato: in Svezia ci sono 4.620 grandi impianti sportivi e la produzione di sci è più che quintuplicata in 30 anni. Individui sani, con un senso di libertà nel proprio corpo, con un bisogno istintivo di pulizia, tornano a casa dalle palestre, dai campi da tennis, dalle piscine e dai campi sportivi, dalla terra, dalla foresta e dal mare. Sarebbe naturale per loro chiedere case basate su igiene, sole, aria, luce e acqua.

Questa attività sportiva e all’aperto è all’origine di una nuova relazione con la natura. Mentre una generazione fa le persone uscivano raramente di casa o al massimo facevano una passeggiata di cinque chilometri una volta all’anno, oggi è consuetudine dedicarsi regolarmente a qualche tipo di attività all’aperto.24

La distanza dalla città non è così importante. È chiaro che in questo modo l’uomo moderno guarda alla natura con occhi nuovi. La conquista del territorio grazie a strumenti tecnici, energia fisica e spirituale rafforza l’autostima, ma dà anche il

mattina.

Domenica

L’evoluzione dal vecchio sistema urbanistico chiuso al nuovo sistema aperto.

Il grattacielo.

Di recente si è discusso molto sui diversi modi di risanare un’area residenziale. Il grattacielo è stato spesso indicato come mezzo per raggiungere questo scopo, laddove il terreno è costoso ed è necessario sfruttarlo, pur volendo enfatizzare il bisogno di spazio e luce. Non sappiamo se sia economicamente competitivo con le tipologie abitative più basse. Probabilmente non lo è con gli attuali contratti e l’organizzazione del lavoro. Tuttavia, se dobbiamo accettarlo, dovrebbe essere dove, nonostante il suo possibile prezzo più alto, può essere davvero giustificato sulla base di preferenze igieniche. Facciamo quindi attenzione a non idealizzarlo in modo romantico e provinciale come strumento di pianificazione al centro di una vecchia zona buia ed edificata della città senza demolire le case intorno.

New York.

scambio tra individui, sono stati perfezionati strumenti che rispondevano a esigenze comuni o simili. Ciò che una persona realizzava veniva migliorato dall’altra.

Grazie a generazioni di miglioramenti e perfezionamenti, le cose si sono perfezionate in forme tipiche. Esse sono diventate dei tipi.

Il tempio classico, la chiesa, l’abitazione, il libro e l’automobile sono solo alcuni esempi di tipi in cui ha preso forma lo sviluppo della cultura materiale.

All’interno di ogni epoca culturale si può seguire lo sviluppo delle cose in tipi sempre più distinti e perfetti. Questa formazione naturale di tipi era sorprendente nei tempi antichi. Era il risultato di tradizioni professionali e stilistiche distinte. All’uniformità contribuivano anche speciali tradizioni locali. La scelta del tipo era molto limitata, sia in termini di case che di arredi.

Privata del supporto di queste tradizioni, l’edilizia moderna, con i suoi legami a modelli tradizionali scelti arbitrariamente, ha dato vita a un individualismo sfrenato.

È sicuramente un errore interpretare l’eterogeneità delle costruzioni abitative di oggi come espressione di desideri personali diversi. Se esaminiamo nel dettaglio la questione, scopriamo subito che in mezzo a tutto questo individualismo ci sono abitudini abitative molto simili. La grande maggioranza, oggi come in passato, aderisce ad alcune forme abitative comuni. Queste permettono di creare forme di sussistenza comuni. La standardizzazione delle case e degli arredi è possibile nella misura in cui abbiamo abitudini di vita “standardizzate” o possiamo facilmente adattarci a quelle nuove.

Oggi si tende a creare tipologie simili a quelle di un tempo. Sfruttare questa tendenza attraverso la standardizzazione è una necessità economica. Solo in questo modo è possibile sviluppare tutte le migliori caratteristiche di un prodotto nelle condizioni più favorevoli per la produzione. Solo in questo modo i beni migliori possono essere prodotti in quantità sufficiente e al minor costo possibile.

La

standardizzazione

è una creazione deliberata di tipi.

La formazione naturale dei tipi non comporta alcuno sforzo consapevole di definire forme comuni. Il tipo viene creato come forma comune perché per ogni tempo, ogni luogo e ogni funzione c’è un modo di fare qualcosa che è considerato migliore di altri modi. Nella standardizzazione oggi, per ragioni economiche, tentiamo consapevolmente di trovare forme comuni per alcune necessità. Cerchiamo e ci sforziamo di creare forme comuni. Questa è la differenza tra la standardizzazione e la formazione naturale dei tipi, dove l’uniformità veniva da sé. Qui sta la difficoltà della standardizzazione. Nella tipizzazione naturale, nessuno sentiva che le proprie esigenze individuali fossero soppresse. Se tale sensazione fosse esistita, avrebbe portato a una deviazione dal tipo.

L’ideale per qualsiasi standard dovrebbe essere quello di assomigliare al tipo naturale in questo senso, di non essere percepito come una costrizione all’uniformità, ma di essere accettato come il modo migliore per soddisfare una certa esigenza.

Uno standard deve innanzitutto essere mantenuto “vivo”. Se non cambia in risposta alle mutate esigenze e al miglioramento dei metodi, è un ostacolo allo sviluppo. Il modo migliore di fare qualcosa oggi potrebbe non essere il migliore domani. “Suggerire che lo standard di oggi diventi quello di domani significa sopravvalutare il nostro potere e la nostra autorità: una simile proposta non può

Ponte sul fiume Delaware, Filadelfia. Monumentalità delle costruzioni.

Non ci interessano gli orpelli tradizionali, i resti di stili che in origine erano forme costruttive ma che sempre più spesso sono degenerati in espedienti decorativi, adatti a mascherare l’inganno architettonico. Le necessità architettoniche — muro, finestra, porta, scala, balcone, tetto, camino — sono viste come mezzi. Il tempo cerca la semplificazione, la raffinatezza, le linee tranquille, le superfici belle e lisce. Facciamo uso consapevole, ma più liberamente di prima, del contrasto tra luce e ombra, tra aperto e chiuso, tra superfici piane e curve, tra linee rette e curve, tra materiali duri e morbidi, tra colori.

Un signore: “Lei cancella la sua arte”.

Un signore: “Il vuoto primordiale dell’immaginazione!”.

Palchetto, Esposizione di Stoccolma. Idoneità allo scopo.

Un signore: “Era alla mostra? Ha visto le scatole di Asplund? Il transatlantico incagliato?”.77

Noi: — —

Sig. T.: Che programma arido, poco artistico, noioso!

Noi: No, signori, un programma ricco. Molto più ricco, molto più attraente e stimolante di quello che è stato rinchiuso in un pantano rigido e stilistico. Lasciate che le forme naturali emergano: ci coloriamo le guance. In realtà l’immaginazione, non più vincolata allo stile, ha molto più spazio e può concentrarsi sull’essenziale, sulla traduzione dei bisogni. Ritiene che l’immaginazione e l’arte si stiano deprezzando con il cambiamento delle forme e la raffinatezza dell’architettura? No, al

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