Architettura come disciplina storica

Page 1


Titolo

Indice

«Cosa è architettura?» A questa domanda il vecchio Peter Behrens rispose al giovane Ludwig Mies: «Dimenticalo e torna al lavoro. Lo capirai da te più avanti». Nel 1939, ricordando il dialogo, Mies afferma di aver apprezzato molto questa risposta, «ma – aggiunge – io volevo capire meglio».

Per «capire meglio» bisogna allora tornare a chiedersi «cosa è architettura», non tanto con l’obiettivo di trovare una risposta definitiva, ma per riflettere sul proprio lavoro, esaminare quello che si fa tutti i giorni, e comprendere in che direzione si sta andando. Si tratta di un’operazione comune attraverso cui instaurare una circolarità tra pensiero e azione, oppure – detto in altri termini – tra “pratica” e “teoria”. Capire cosa s’intende per architettura permette di capire cosa si vuole fare come architetti, che tipo di architettura e quali progetti si vogliono realizzare. È una riflessione che –più o meno consciamente – fa chiunque svolga questo mestiere. Questo piccolo libro in fondo non è altro che una riflessione personale sul proprio lavoro.

Il titolo del libro chiarisce da subito la posizione che s’intende sostenere: la storia, e più correttamente la storia dell’architettura, occupa il centro della nostra disciplina. È però necessario sgomberare il campo da eventuali fraintendimenti: non si tratta di considerare la storia dell’architettura come il più importante dei saperi che collaborano alla formazione e al mestiere di un architetto, e neppure come un aspetto importante o fondante la disciplina. Si sostiene invece che c’è una sostanziale identità tra architettura e storia

dell’architettura, che un architetto nel suo lavoro si occupa sempre e solo di storia dell’architettura, sia che lo faccia consciamente, sia che lo faccia inconsciamente. La storia dell’architettura caratterizza l’architettura sia nel suo farsi, sia nel suo riflettere su se stessa. Senza storia dell’architettura non sarebbe possibile né parlare di architettura né progettarla. Per usare altre parole, il legame col passato costituisce quel nucleo irrinunciabile attraverso cui l’architettura si produce e si accresce, si apprende e s’insegna. È questo ciò che distingue l’architettura da altre discipline. Ma procediamo con ordine.

Chiedersi cosa abbia di specifico una pratica e cosa le sia profondamente proprio equivale a interrogarsi sulla sua essenza. A questo interrogativo molti architetti hanno risposto proponendo diverse definizioni della disciplina, dalle più note – come quella di Le Corbusier, «L’architettura è il gioco sapiente dei volumi sotto la luce», o come quella di Ludwig Mies van der Rohe, «L’architettura è l’espressione di un epoca tradotta in spazio» – fino a molte altre che qui sarebbe lungo elencare. Basti però ricordare che non tutte le definizioni sono precise e che alcune, pur apparendo puntuali, considerano aspetti secondari. A questo proposito è interessante ricordare le parole di ÉtienneLouis Boullée nel suo Architettura. Saggio sull’arte del 1780: «Cosa è architettura? La definirò io con Vitruvio l’arte del costruire? Certamente no. Vi è in questa definizione un errore grossolano. Vitruvio prende l’effetto per la causa. La concezione dell’opera ne precede l’esecuzione. I nostri antichi padri costruirono le loro capanne dopo averne creata l’immagine. È questa produzione dello spirito che costituisce l’architettura e che noi, di conseguenza, possiamo definire come l’arte di produrre e di portare fino alla perfezione un edificio ...». La definizione di Boullé può sorprendere: al centro del lavoro dell’architetto non pone l’edificio realizzato, ma l’atto ideativo che lo precede. Parafrasandone le parole si potrebbe dire che intende l’architettura come “l’arte di progettare”. Nonostante conoscesse a fondo le tecniche costruttive, preferisce sottolineare l’importanza della concezione dell’opera, come traspare anche

1. Antonio Averulino detto il Filarete, Adamo che si ripara dalla pioggia (Filarete, Trattato di Architettura, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II, 1, 140, carta 4v).

dal modo in cui l’arte è stata concepita fin dall’antichità nella tradizione greco-cristiana. Gli elementi dell’architettura non rimandano ad altro: sono tutti interni alla disciplina e rimandano solo ad altre architetture. Cosa imitano le colonne? Davvero dobbiamo credere a Vitruvio che le scanalature del dorico riprendono le pieghe delle tuniche femminili? Davvero si può pensare che il capitello ionico rappresenti i riccioli di una fanciulla? Se così fosse sarebbero imitazioni davvero poco riuscite! Detto questo, la posizione di Cesariano, pur moderna e ricca di sviluppi, rimane minoritaria e avrà molta meno influenza rispetto a quella di Filarete. Il dibattito attorno alla «capanna primitiva» di Laugier ha avuto una grande fortuna tra il XVIII e il XIX secolo, segnando un importante momento rifondativo della disciplina. Anche per questo all’interno dello studio baukuh lo abbiamo utilizzato per metterci d’accordo riguardo a cosa intendessimo per architettura. Nelle lunghe discussioni che accompagnarono la messa a punto del saggio Affinità e divergenze tra il compagno Giorgio Grassi e noi completato nel 2007 e pubblicato nel 2012 avevamo formulato una teoria che poi non è stata inclusa nella versione finale del testo, ma che nella sua semplicità chiariva bene il nostro pensiero. La teoria era la seguente: «La prima architettura non è la prima capanna, questa è solo una capanna. Invece la seconda capanna, in quanto copia della prima, è la prima architettura». L’illusorio paradosso mette in luce il fatto che l’architettura si produce attraverso altre architetture. Poiché – come giustamente sottolineato da

2. Pyramidion della piramide nera di Amenemhat III a Dashur (basalto nero, Museo Egizio, Il Cairo).

sono prodotte attraverso avanzati mezzi grafici. Siamo così assuefatti all’uso di tale strumento da non ritenere neppure possibile che si possa produrre un’architettura senza disegnarla. Ma non sembra essere sempre stato così.

Tralasciamo pure le costruzioni rurali, prodotte seguendo tradizione e consuetudine, e concentriamoci sulle opere monumentali dell’architettura occidentale. Sappiamo ad esempio che nelle piramidi egizie il progetto assumeva la forma di un modello fisico, fatto in pietra e chiamato pyramidion, il quale – una volta che la piramide era terminata – veniva posto sulla sommità dell’edificio e ne costituiva la punta. In breve se l’atto ideativo è sempre stato parte del mestiere dell’architetto non si può dire altrettanto dell’atto di disegnare. In effetti, il progetto sembra assumere una forma disegnata solo a partire dal XII secolo, quando la carta viene introdotta in Europa.

Anche se conosciamo abbastanza bene numerose architetture antiche, abbiamo molte meno informazioni sugli strumenti attraverso cui erano progettate. Ad esempio non conosciamo disegni di progetto di templi greci. Alcuni tracciati incisi nella pietra degli stilobati sono stati interpretati come tracciati costruttivi di porzioni o elementi del tempio. Il significato dato a questi disegni e la loro interpretazione sembra derivare però dalla nostra necessità di presupporre un disegno di progetto, per quanto perduto o non riconoscibile, più che dalla realtà dei fatti. Questi tracciati, caotici e realizzati su di una superficie non visibile a costruzione

4. Fregio dorico a metope e triglifi (Patenone, Atene).

La relazione tra forme e significati è un altro aspetto molto complesso del progetto. Se è vero che un muro o una colonna non hanno un significato ma solo un senso, ossia rispettano una serie di modalità per relazionarsi l’un l’altro, è però anche vero che nelle architetture sono spesso utilizzate forme e immagini che rimandano ad altri significati. Lo statuto dell’immagine si differenzia da quello della parola per la sua ambiguità e per la sua capacità di rimandare contemporaneamente ad ambiti semantici differenti. Uno statuto ricco e ambiguo che sembra essere incluso nella disciplina architettonica in virtù della decorazione. Il discorso meriterebbe ben altro spazio, tuttavia è utile notare che oggi architetti e archeologi tendono a dare un significato secondario alla decorazione e a concentrarsi sulle parti che più li interessano, mentre la società che usa un edificio spesso riconosce proprio nella decorazione la parte essenziale di una costruzione. Non è un caso che i templi egizi fossero ricoperti di geroglifici, quasi fossero principalmente il supporto di una scrittura comprensibile a tutti, allo stesso modo di quanto accade nel tempio buddista di Borobudur, nel complesso maya di Tikal, in quello azteco di Tenochtitlan e perfino in una basilica paleocristiana: tutte architetture scritte, architetture realizzate come supporto di una scrittura e di una decorazione, a riprova della centralità degli aspetti che chiamiamo decorativi.

Con un po’ d’immaginazione possiamo guardare nello stesso modo anche i templi greci che la critica neoclassica ci ha portato ad ammirare come oggetti quasi

5. Mastaba Hours Get, Saqquara, Egitto (courtesy of the Egypt Exploration Society, London).

asettici, spesso trascurando il loro significato sociale e religioso. Se rammentiamo per un momento l’enorme quantità di bestie che veniva sacrificata in un tempio, è quasi certo che inizieremmo a guardarli sotto una luce diversa. A Delfi, ad esempio, durante una qualsiasi festività non era inusuale sacrificare più di cento buoi: si pensi all’immensa quantità di sangue che in queste occasioni scorreva lungo le scoscese pendici del santuario, confondendosi con le rosse rocce della valle. Quelle che noi chiamiamo decorazioni diventano allora l’aspetto principale di questo manufatto totemico e arcaico, mentre la struttura architettonica ne è solamente il sostegno. In Gli dèi e gli eroi della Grecia (19511958), Károly Kerényi propone incidentalmente di rovesciare la lettura del tempio greco e di considerarlo principalmente come il supporto alle sacre ossa degli animali sacrificati. Un modo di rafforzare questa tesi è ricordare i nomi di quelle che noi consideriamo mere decorazioni: i “bucrani”, ossia le teste di bue scolpite nelle metope, gli “astragali”, piccoli ossicini del piede usati come decorazioni, e ancora i “denti” o “dentelli”, o forse anche le “gole”. Lo stesso “triglifo” potrebbe essere la rappresentazione schematica di tre tibie o di tre ossa affiancate in verticale. In questo caso il termine “gliphos” “γλύφος” non significherebbe “incisione” ma “decorazione”; non sarebbero allora tre incisioni, ma tre decorazioni. Per altro è più semplice riconoscere i tre elementi ripetuti del triglifo nelle tre porzioni in aggetto piuttosto che nelle due incisioni centrali a cui aggiungere le due mezze-incisioni laterali. Tornando al

6. René Magritte, Clairvoyance, 1936 (Mr. and Mrs. Wilbur Ross, Art Institute, Chicago / © RENE MAGRITTE, by SIAE 2024).

essa può corrompere la città. Qui invece di parlare del “bello” Platone parla di «divino terrore», come nota con acume Giorgio Agamben ne L’uomo senza contenuto (1994). Sarà invece Aristotele a riscattare il valore artistico assegnando all’arte e alla bellezza l’utilità sociale di educare i cittadini: il pericoloso “fascino” della bellezza diventa così uno strumento attraverso cui istruire la società. La posizione aristotelica, poi fatta propria dal cristianesimo, inaugura quel rapporto tra espressioni artistiche e ideologia dominante che ha percorso gran parte della civiltà occidentale. La relazione tra arte e potere, pur profondamente radicata nella cultura occidentale e pur centrale per l’architettura, mostra una certa indisponibilità a diventare biunivoca. L’arte cioè non sembra poter diventare perfettamente funzionale al potere, resta in lei sempre un aspetto ambiguo che, pur acconsentendo a finalità differenti, non le permette d’identificarsi con scopi che non siano quelli suoi propri.

Nella terza dissertazione della Genealogia della morale (1887) Friedrich Nietzsche critica la definizione di bello data da Kant: «Kant pensò di fare onore all’arte quando, fra i predicati del bello, diede una posizione privilegiata a quelli che costituiscono il vanto della conoscenza: l’impersonalità e l’universalità. [...] Il bello – dice Kant – è ciò che piace senza che vi si mischi l’interesse. Senza interesse!» Nietzsche ridicolizza questa posizione schernendo chi pensa che si possa guardare in modo “disinteressato” un’antica «statua femminile priva di veli». Continua poi facendo notare che «Kant,

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.