Indice
Ugo Cantone
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La casa, la città, anzi, il territorio
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Presentazione
(Professore Ordinario Facoltà di Architettura Università di Catania, sede di Siracusa)
Marco Rosario Nobile (Professore Ordinario Facoltà di Architettura Università di Palermo)
Introduzione
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Capitolo I
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Il territorio ragusano come 'eccezione' siciliana
Capitolo II
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Definizione del 'tipo masseria' nell'altipiano ragusano durante l'Ottocento attraverso lo studio delle fonti
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Introduzione Le fonti Definizione del 'tipo masseria' Diffusione della masseria nell'Ottocento Conclusioni
43 56 90 92
Capitolo III
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Evoluzione del 'tipo masseria' nell'altipiano ragusano durante l'Ottocento attraverso lo studio dei manufatti
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Introduzione Il rapporto col territorio Gli elementi che compongono il manufatto Conclusioni
102 139 167
Bibliografia
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Marco Rosario Nobile Presentazione
Diciamo subito che il libro di Luigi Pellegrino ha, a mio avviso, molti meriti, ed altri ne potranno trovare i lettori, architetti o semplici studiosi interessati alla storia del paesaggio isolano. Il principale -per uno storico dell’architettura- è stato quello di ancorare a fonti documentarie solide un fenomeno che invita troppo spesso a letture epidermiche, frettolose, se non addirittura a evasioni romantiche. Lo studio degli accattivanti e vivaci disegni di un agrimensore della prima metà dell’Ottocento e l’analisi dei catasti storici consentono all’autore di individuare percorsi e cambiamenti del territorio e delle tipologie, che, se si potevano in parte intuire, non erano mai state analizzate con tale precisione e attenzione. Pellegrino descrive una evoluzione e una “rivoluzione”. L’intensa attività edificatoria di nuove residenze e caseggiati che dagli anni trenta dell’Ottocento sino alla fine del secolo, ridisegnano il paesaggio dell’altipiano ibleo. Il termine “rivoluzione capitalista” è evocato in più occasioni dall’autore, ma non solo di questo si tratta, poiché accanto all’attività produttiva si affiancano nuovi modelli di comportamento per le classi agiate che provocano rinnovamenti radicali nell’abitare e determinano la costruzione di molteplici ville padronali, il cui scopo sono il soggiorno e lo svago. Oltre allo spirito di emulazione per altri contesti (si pensi alle ville del palermitano), le ragioni di questa “riscoperta” della campagna sono molteplici: la maggiore sicurezza dei luoghi, la costruzione di nuove strade e “trazzere” e non andrebbero dimenticati altri fenomeni più sotterranei e psicologici. La fuga dalla città soggetta a perniciose epidemie (ricordiamo il colera del 1837) e il percorso elusivo che solo una storia degli odori (e della loro percezione) potrebbero offrire. Così la separazione sempre più radicale della residenza signorile dalle stalle e dal contesto produttivo acquista ulteriori determinazioni, comunque legate all’appartenenza a una certa élite e alla distinzione che lo status comporta. Basterà ricordare le parole di Filippo Garofalo (1865): “La classe agiata marcisce nell’ozio e mentre per radicato sprezzo si fugge la campagna…”, per ritrovare un testimone precoce della dualità che sta contrapponendo l’etica della produzione alla nuova e molto attuale idea di villeggiatura e tempo libero. Luigi Pellegrino è architetto; con l’analisi di masserie e residenze signorili dell’Ottocento auspica di ritrovare fili interrotti, segmenti e traiettorie di modernità, utili alla sua professione e, di riflesso, al consorzio civile; non è un ottimista, né si dilunga su pericoli, condizionamenti e trame che questo delicato territorio sta subendo oggi, con una intensità , scala e velocità che negli ultimi trenta anni hanno determinato più modifiche e trasformazioni dei precedenti tremila. Provo a farlo io, in conclusione, e con la sola giustificazione di essere un ragusano. Nell’altipiano dagli immensi orizzonti si trovano, per chi li sa cercare e leggere, ancora segreti avvincenti e storie da scoprire, decifrare, narrare, ma si annidano retoriche deleterie, nate da frammenti di verità, e che sono diventate cliché sotto i quali coprire vuoti di idee e di progetti. Di questi miti collettivi fanno parte le condizioni di un lungo e splendido isola-
mento (quanto reale o quanto solo mitizzato, se si considerano gli esiti architettonici del passato?), vissuto in modo paradossale come occasione storica di cui vantarsi di fronte al mondo e contemporaneamente come limite, offrendo il destro all’ansia di chi pensa che il futuro di un territorio piccolo (che si attraversa in meno di un’ora di automobile a media velocità) e in sempre più gracile equilibrio siano altre case, altre circonvallazioni per costruirne di nuove, autostrade, porti e aereoporti. In realtà, l’identità dei luoghi, il decantato spirito ibleo (quanto pragmatismo, quanta sapienza nei nostri avi!) si infrangono oggi davanti alla massificazione offerta dalla costellazione aggressiva di ipermercati e di capannoni, dagli sfrangiati e sempre più incontenibili nuovi quartieri di Ragusa o di Modica e, in definitiva, dall’unica idea di progresso che la provincialità più ottusa e radicata concepisce. Così nel mondo contemporaneo la perifericità culturale ha sostituito definitivamente quella geografica con risultati temibili, perché le alternative non sono altrettanto solide e perché la direzione appare sostenuta da cappe legittimanti di democrazia e di ineluttabilità. Lontano dalla nostalgia per un mondo perduto e di modelli di vita non invidiabili, questo libro ha il merito di ragionare su un patrimonio di storie e di esperienze che può ancora offrire moltissimo.
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introduzione
Il territorio della provincia di Ragusa – che ricalca con buona approssimazione quella che storicamente si conosce come Contea di Modica – si distingue nell’ambito siciliano, e non solo, per i suoi caratteri non certo ordinari. Recentemente, per ragioni e occasioni affatto differenti, questi caratteri sono emersi a più riprese. E’ del 2002 la messa sotto tutela da parte dell’UNESCO, quale patrimonio dell’umanità, delle città barocche del Val di Noto, dove si distinguono i centri di Modica, Ragusa e Scicli. Finalmente quella felice manifestazione del mai domo operoso spirito dell’uomo che aveva permesso – caso raro nella storia – ad un intero territorio di innalzarsi e rifondarsi nell’arco di poco più di mezzo secolo, ricostruendo decine di centri e di floride città con magnifiche architetture, trova la legittimazione di valore che gli spetta. Per la provincia di Ragusa è stato coniato il termine di nuovo “sud-est” d’Italia, in analogia con il più conclamato modello di sviluppo economico del nord-est. Più volte negli ultimi anni, infatti, una serie di indici (tasso di crescita economica, reddito pro capite, sviluppo socioeconomico, disoccupazione,…) collocano la provincia al primo posto nell’ambito insulare e in buona media nazionale. La particolarità di questo modello di sviluppo, che si fonda su un settore agricolo avanzato ed un tessuto di imprese capaci di strutturarsi in un sistema agro-industriale, ha portato alla ribalta anche il sostrato materiale su cui è impiantato, cioè quel mirabile paesaggio di colline ricamate dai muri a secco che ne costituisce il tratto più caratteristico.1 A fronte di questi caratteri che oggi emergono – ma che trovano in un lungo e radicato processo storico la ragion d’essere2 -, colpisce come l’eccezionalità di questo territorio non abbia goduto di grande fortuna presso gli studiosi ‘di fama’ che, a vario titolo nel corso del tempo, si sono occupati della Sicilia.3 Piuttosto esso ha sempre destato l’interesse di autori ‘locali’ - per ambito operativo ma non certo per formazione e respiro culturale – che, di riflesso spesso da loro studi e interessi di ordine più generale, hanno avvertito l’esigenza di ricondurre sul giusto piano la validità di un modello territoriale con i suoi straordinari manufatti e le esperienze che ne hanno garantito storicamente il loro manifestarsi. Così, mentre illustri viaggiatori stranieri si prodigavano per condursi da Agrigento a Siracusa a Catania (senza attraversare le porzioni di territorio che le connettevano, qualora fosse stato possibile), è l’insigne economista palermitano Paolo Balsamo – pur nel quadro di una apologia politica delle riforme illuministiche dei viceré – a dare un primo e valido contributo nel rilevare questi caratteri, precisando che il suo è un “Giornale del viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella contea di Modica”, dove l’esperienza del territorio ragusano è giustamente messa alla pari delle migliori esperienze italiane ed europee: “La Sicilia … è suscettibile di molti, e sustanzievoli miglioramenti; tantoché non dubito di affermare, che se la campagna nostra fusse coltivata con quell’avvedimento, e diligenza, che è 16
1. Accade quindi che questo paesaggio venga scelto come location per pubblicità che ammiccano al rapporto tra tecnologia sofisticata e campagna incontaminata; o che venga ritenuto il più credibile per suggerire un’idea di Sicilia che una fortunata serie televisiva media dalla penna di uno dei migliori romanzieri italiani viventi. E’ che il paesaggio agrario del ragusano è unico in Sicilia e raro in assoluto per coerenza ed integrità di molte sue parti; cosicché speriamo ed attendiamo che, non appena anche da queste parti la sensibilità paesaggistica raggiungerà la sua maturità culturale (smettendo di riforestare le montagne con alberi di pino, per esempio, o di appiccicare lastre di pietre incoerenti sui muri di contenimento delle strade di campagna), esso venga messo sotto tutela. 2. Persino, e a maggior ragione come si dirà, per quanto concerne il realizzarsi di quella sorta di boom economico del settore agrario, che ha meritato l’appellativo di “oro verde”. 3. Pensiamo ai viaggiatori del XVIII e XIX secolo, troppo ‘distratti’ dalle rovine degli antichi fasti e dal mito di una natura ancora ‘inviolata’ per accorgersi dei fasti nuovi delle città o di un territorio tutto strutturato e governato dai fini produttivi dell’uomo (colpisce soprattutto l’oblio della mirabile ricostruzione delle città dopo il terremoto del 1693 e la non rilevanza di un paesaggio fortemente strutturato come quello ragusano; le città alla fine del settecento e il territorio ragusano alla fine dell’ottocento saranno pur apparsi nella forma che ancora oggi ci meraviglia, quando non in uno splendore di ‘nuovo manufatto’ !?; la società che aveva prodotti quegli sforzi avrà pur avuto una coscienza del proprio status e delle proprie capacità e avrà saputo farne mostra!?); ma pensiamo anche ad una storiografia ufficiale che, per dare peso a una lettura della “questione meridionale”, e “siciliana” nella fattispecie, tesa a ricercare le condizioni di arretratezza e sottosviluppo, glissava volentieri su quelle situazioni non facilmente riconducibili a questa schematizzazione.
4. Giornale del viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica dall’abate Paolo Balsamo, ristampa a cura del Rotary Club di Ragusa, Catania 1969, p. 238 5. Barone G., Le campagne iblee. Storia e immagini di una civiltà, dattiloscritto in via di pubblicazione, pp. 12-13
coltivata quella d’Inghilterra, darebbe certamente una produzione quattro maggiore di quella, che presentemente somministra. Le più importanti riforme, che desidera tra noi questa divina arte si riducono alle seguenti: 1) Una maggior divisione di fondi, e di poderi. 2) La partizione dei poderi in chiusure sul piede di quelle della Contea di Modica, di Lombardia, d’Inghilterra ec. 3) Più prati e più bestiami, che non vi sono. 4) Migliori ruote di raccolte, badando sempre a non far succedere gli uni agli altri i prodotti dissuganti, ed a mettere nell’istesso campo le medesime piante co’ maggiori possibili intervalli”.4 Su questi argomenti il contributo storicamente più approfondito e qualificante è dato senza dubbio da Giuseppe Barone. Un testo dal titolo emblematico “Le campagne iblee. Storia e immagini di una civiltà” - che sviluppa una serie di suoi saggi scritti precedentemente - riscatta definitivamente il modello socio-economico del ragusano: “La persistente vitalità dell’agricoltura ragusana e la sua capacità di rinnovarsi nel solco di una tradizione plurigenerazionale invitano perciò lo storico a tornare indietro, ad analizzare il rapporto tra presente e passato, nel tentativo di interpretare sul metro della longue durée la formazione e i processi di cambiamento di una “civilizzazione” insieme urbana e rurale del territorio, che nell’odierna società “globale” torna a riproporsi come modello culturale vincente di relazioni umane. Le vicende qui esposte meritano attenzione per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché smentiscono clamorosamente lo stereotipo dell’arretratezza meridionale, mandando in frantumi l’immagine cristallizzata di un Sud tutto e da sempre depresso, condannato all’immobilismo delle tare feudali del latifondo e della mancanza di capitali. La storiografia più recente sta finalmente smontando pezzo per pezzo questo logoro armamentario concettuale, che aveva finito per cancellare intere sezioni – e le più significative! – della storia del Mezzogiorno: le trasformazioni del paesaggio agrario, l’esistenza di uno scenario urbano di città medie, i processi di mobilità sociali innescati dall’emergere delle borghesie locali, nell’insieme le forme e i tempi di una “difficile modernizzazione”. (…) La seconda ragione attiene ai caratteri originali del territorio in cui si è incardinata la storia dell’agricoltura iblea, quella vasta Contea degli Enriquez-Cabrera che lungo l’età moderna, dalla fine del XV secolo agli inizi del XIX, aveva sperimentato con la diffusione dell’enfiteusi forme precoci di frazionamento terriero e di uso intensivo dei suoli. L’incidenza marginale del latifondo e la presenza di élite locali aperte alle innovazioni agronomiche e alle sollecitazioni produttive del mercato internazionale, soprattutto a partire dalla seconda metà del ‘700, hanno alimentato un costante processo di colonizzazione e di trasformazioni fondiarie che plasmano lo spazio geografico e sociale, imprimendovi i segni marcati del capitalismo” .5 Un altro lavoro ‘di riscatto’ è quello condotto da Mario Giorgianni nel suo testo “La 17
pietra vissuta. Il paesaggio degli iblei”, dove egli lega le trasformazioni produttive al loro specifico supporto geografico: “Nel Ragusano, invece, altri modi di produzione industriale hanno provocato diversi effetti nella struttura ambientale. La diversità consiste in un rapporto di trasformazione ed innovazione produttiva di tipo meno improvviso che a Gela. Il territorio ragusano ha manifestato una maggiore inerzia geografica a mutare la successione delle configurazioni ambientali, determinate da componenti più resistenti di quelle afferenti all’attimo produttivo industriale”.6 Da ultimo va segnalato il continuo inesauribile lavoro di interpretazione del territorio ragusano che Giuseppe Leone ha condotto attraverso lo strumento della fotografia; muovendosi nell’ambito di una disciplina artistica, non vincolato da una tradizione ermeneutica, ha operato dei salti che hanno prepotentemente portato alla ribalta le potenzialità di un territorio che ha preteso a ritroso una rivalutazione. Questo studio intende lavorare nello stesso solco fin qui tracciato. Cercherà di dare un contributo da ‘autore locale’ (un po’ curioso, in verità, per me che sono di origine pugliese) osservando questo territorio e i suoi caratteri di eccezionalità dallo spioncino della propria disciplina, con gli strumenti che le pertengono, che ancora non hanno trovato nello specifico grande applicazione.7 Dei caratteri di eccezionalità del territorio ragusano viene preso in considerazione quello più vicino alla disciplina architettonica: l’insediamento diffuso nel territorio. Lo si farà attraverso lo studio dei manufatti che meglio identificano questo fenomeno nell’altipiano ragusano: le case di campagna, nella fattispecie il tipo più riconoscibile e caratterizzato di esse, la masseria. Esse rappresentano, insieme ai muri a secco, l’aspetto più rimarchevole ed evidente di una strutturazione del territorio, la spia palese di altri suoi caratteri di eccezionalità. Due sono i fattori che danno indicazioni precise in questo senso: il numero cospicuo di queste abitazioni, che rimanda ad una struttura fondiaria parcellizzata e ad un uso intensivo dei suoli, ma allo stesso tempo testimonia di una conformazione territoriale che ben si presta ad essere abitata (un terreno solido, facile a fondarsi, un’esposizione ottimale, abbondanza d’acqua); il fatto che le case erano abitate dai proprietari e dalle rispettive maestranze, che ci dice ancora di una struttura produttiva di non grosse dimensioni, condotta in proprio – dove è assente, per lo più, la figura del gabelloto, vera ‘piaga’ della struttura produttiva agraria siciliana8 -, ma, ancora una volta, rendiconta della predisposizione insediativa del territorio (a 400 – 500 metri di altitudine abitare in campagna in Sicilia è non solo possibile ma anche piacevole. In estate rimane addirittura indispensabile: “villeggiare” – occuparsi degli affari del contado per alcuni mesi – è frutto di una doppia necessità). 18
6. Giorgianni M., La pietra vissuta, Il paesaggio degli Iblei, Palermo 1978, p. 24 7. Non esistono testi sul territorio ragusano scritti da architetti – se si escludono quelli scritti sulla ricostruzione delle città dal terremoto del 1693 e le rispettive architetture -. I contributi più significativi vengono ancora una volta da un ‘autore locale’, Giorgio Flaccavento, che nel suo testo “Uomini, campagne e chiese nelle due raguse. Profilo storico-urbanistico di Ragusa dai Siculi ai nostri giorni” tratta di questi argomenti nel primo capitolo dal titolo “I paesaggi umani: città e campagne nelle due raguse”. Peraltro, è lo stesso Flaccavento che in un altro suo saggio esorta allo studio di questi argomenti: “La nostra convinzione, che vorremmo confermata da lavori documentari come questa prima indagine, è quindi che la diffusione della massaria data a partire proprio dagli anni 80 (dell’ ‘800, ndr) in concomitanza con il compimento dell’infrastrutture e con il vertice dell’espansione demografica”; Flaccavento G., “Urbanistica rurale. Le campagne ragusane alla fine dell’800”, in: I segni dell’uomo nel territorio ragusano. Convegno sulla storia delle tecniche di produzione nell’area iblea, ATTI, Ragusa 1992, p. 49 8. Si veda, al riguardo, O. Cancila, L’evoluzione della rendita fondiaria, in AA. VV., Storia della Sicilia, vol. VII, Società editrice di Napoli e della Sicilia, Napoli 1978
9. Pensiamo agli scritti di Giuseppe Barone, di cui abbiamo già detto, ma anche ad altri che lo hanno affiancato e preceduto e di cui diremo meglio in seguito; si veda Sipione E., Concessioni di terre ed enfiteusi nella Contea di Modica, in <<Archivio storico siciliano>>1977, vol. III, pp. 4 – 75, Rizza M., La rescissione delle soggiogazioni in forza del Decreto 10 febbraio 1824, in <<Archivio storico siciliano>>, 1980, vol. VII, p. 297 - 329 10. Oltre al volume già citato di Mario Giorgianni, o ai vari libri di fotografie di Giuseppe Leone, si fa riferimento anche ad una pubblicistica di varia qualità che cavalca l’onda di un turismo cultural-agreste. 11. Pecora A., Gli Iblei, in: AA. VV., La casa rurale nella Sicilia orientale, in <<Ricerche sulle dimore rurali in Italia>> C.N.R., 30, Firenze 1973. Il testo di Aldo Pecora - basilare per chi intende intraprendere lo studio di questi argomenti – rimane comunque quello di un geografo che predilige l’approccio socio-antropologico a quello tipologico ed architettonico tout-court. 12. Come se nell’espletamento di un incarico per la progettazione del nuovo centro territoriale per la raccolta e la trasformazione del latte dovessimo procedere con la mano sinistra e profondere tutto il nostro acume ed impegno nel ridisegno di un isolato urbano o nell’erigendo nuovo palazzo di città; proprio oggi che la cultura urbana tradizionalmente intesa è fortemente in crisi e potrebbe trarre dalla progettazione dei vuoti e delle grandi distanze del paesaggio agrario le lezioni per tornare ad operare correttamente. Tant’è, possediamo una intera letteratura sulla storia urbanistica e architettonica delle nostre città, anche quando in queste non accade nulla di saliente, come durante l’Ottocento nel cosiddetto Val di Noto; ma se qualcosa di veramente interessante esiste in questo periodo storico, esso va cercato proprio nella costruzione e nell’uso del territorio - perché è su questo che convergevano capitali energie idee -, in quella mirabile architettura del paesaggio agrario figlia della stessa cultura insediativa che aveva presieduto alla ricostruzione delle città del terremoto . Il portato devastante di questo equivoco storico è sotto gli occhi di ognuno: tutto ciò che viene rigorosamente e puntigliosamente proibito nei tessuti storici delle nostre città, è ampiamente concesso nella trasformazione “ad uso industriale” del contado. Così accade che si rischia il carcere se si abbatte un dammuso nel centro storico o se si intende soprelevarlo – senza riflettere che ciò è sempre accaduto -; e che neanche dieci anni orsono è stato espiantato, senza colpo ferire, uno dei tre soli giardini d’agrumi nel territorio di Ragusa dichiarati al Catasto Borbonico del 1846. Tutto ciò sotto la copertura di leggi che sono il frutto e lo specchio di questa erronea prospettiva culturale.
La misura e la qualità di queste case di campagna varia nel tempo, ed evidentemente trovano un momento di più forte elaborazione durante l’Ottocento. Capire quando e come ciò sia successo può costituire un valido contributo a riconoscere quella che è stata definita la “pacifica eversione del latifondo” del ragusano. Se, infatti, abbiamo riscontrato esistere un buon numero di scritti di storia ed economia a questo riguardo9, se la particolarità geografica e paesaggistica emerge sempre più10, non esistono testi che abbiano affrontato queste argomentazioni dal lato dell’insediamento e dell’evoluzione dei manufatti abitativi. Il testo di riferimento in questo campo rimane “La casa rurale nella Sicilia orientale” – all’interno delle <<Ricerche sulle dimore rurali in Italia>>, il grande lavoro di studio sui manufatti abitativi della tradizione contadina condotto dal C.N.R. negli anni ’60 -, dove il capitolo sugli Iblei è curato da Aldo Pecora.11 Sono passati trent’anni da allora ma gli studi non hanno fatto sostanziali progressi. Ci sono state diverse pubblicazioni – specialmente a carattere locale - che hanno cercato di approfondire particolari tematiche. Colpisce, però, che questi studi – a partire dagli stessi volumi del CNR, che si ascrivono alla grande tradizione di geografi italiani che fa capo a Renato Biasutti e attraverso questo ai vari Giuseppe Barbieri, Lucio Gambi, Aldo Pecora, … – siano condotti pressoché esclusivamente da geografi appunto, sociologi, storici, locali o meno, e non vedono mai coinvolta direttamente la disciplina architettonica attraverso i suoi strumenti, primo fra tutti il disegno, sia esso prodotto ex novo o rintracciato e riconsiderato nella sua prospettiva storica. Quasi che a sovrintendere alla costruzione di questi manufatti - e a dargli quella valenza nella definizione del paesaggio agrario che gli viene latentemente riconosciuta – non siano esistiti valenti architetti, maestri lapicidi, etc., alla stregua di quelli che pur operavano nelle città; oppure ricadendo nel banale errore di ritenere questi del contado dei sottoprodotti della cultura architettonica del passato e perseverare nel credere che tali venissero valutati dagli stessi loro artefici12. In questa prospettiva si è cercato di operare due spostamenti rispetto alle ricerche precedentemente condotte sugli stessi argomenti: - lo studio delle fonti. Il territorio che si popola è stato indagato attraverso i documenti storici che lo testimoniano: gli archivi catastali, innanzitutto, che costituiscono a loro modo una radiografia del territorio e delle sue risorse (quello scritto del Catasto Borbonico del 1846 e quello disegnato del Nuovo Catasto Terreni del 1910); di grande utilità si è dimostrato l’archivio di disegni di un agrimensore ragusano dell’800, Giuseppe Puglisi, che opera negli anni a cavallo della redazione del catasto borbonico, tra il 1825 e il 1855 (senza di esso, forse, questo lavoro non avrebbe trovato la sua chiave di volta); - lo studio dei manufatti. Gli oggetti specifici della ricerca, le masserie dell’altipiano ragusano, sono stati sottoposti ad indagine diretta attraverso gli strumenti più squisiti della disciplina architettonica, che hanno portato a restitui19
re in disegno quanto rilevato, indagato, appreso. Si tenta attraverso queste due operazioni un’inedita comparazione. Non esistono, infatti, studi condotti sui documenti catastali che indaghino le trasformazioni del territorio ragusano dal punto di vista dei suoli di case rurali13; non esistono restituzioni in disegni di questi manufatti14. L’innovazione del tipo di indagine ha necessitato della messa a punto di strumenti e metodologie che hanno richiesto un tempo di sperimentazione. Anche per questo nello studio degli archivi si è dovuto procedere a volte per sezioni significative, e lo studio dei manufatti è limitato nel numero. Quindi un lavoro di documentazione esaustivo e un ragionamento definitivo sulla quantità e qualità delle masserie nel ragusano non si pretendono certo raggiunti. Lo studio si è prefisso l’obiettivo di scandagliare quali sono le svariate problematiche ad esso connesse e piuttosto aprire ad altri studi che non chiudere un ragionamento. Molta attenzione, quindi, si è cercata di porre nel definire una metodologia di lavoro e degli strumenti di indagine validi per altri studi analoghi. A margine di quanto finora detto – ma non marginale, nell’istanza che ha mosso questo lavoro fin dai primi passi, e che ha costituito comunque un orizzonte, quantomeno culturale, del suo procedere specifico – può essere opportuno operare una ulteriore riflessione. Se osserviamo la questione alla luce della raccomandazione di Robert Adam - “gli edifici degli Antichi sono per noi ciò che la Natura è per le altre Arti”15 - rintracciamo almeno due desinenze fruttifere per il nostro lavoro di architetti. La prima consiste nell’essere l’insediamento di un manufatto nel territorio un tema attualissimo. Sia perché sempre più ciò costituisce un’occasione progettuale (per esempio il territorio ragusano è oggetto tutt’oggi di forte trasformazione, come abbiamo avuto modo di dire), e può risultare molto utile una riflessione sulla lezione storica di una grande trasformazione come quella ottocentesca. Sia perché si comincia a riconsiderare propriamente il valore di questo territorio così come si è configurato, e sono attuali temi di recupero dei manufatti e del paesaggio in generale. La seconda nella valutazione che l’insediamento di questi manufatti nel territorio presupponeva spesso una sorta di atto di fondazione, di colonizzazione primaria di un sito, la cui riconsiderazione non ha terminato di apportare il suo contributo allo status della disciplina architettonica e ancora molto può suggerire nell’approccio al progetto. Decidere di svolgere uno studio sulle case rurali – e sulle case rurali del proprio territorio, particolarmente – presuppone una scelta di campo non equivocabile nel nostro lavoro. Significa aderire ad una “tradizione del moderno” che su questo approccio ha fondato la sua specificità e i cui termini del ragionamento vengono 20
13. Non è questo, in assoluto, un approccio consueto. In Sicilia esistono studi sulla società e sulla struttura fondiaria e produttiva che improntano i propri ragionamenti su una attenta analisi dei vari catasti e riveli. Si veda: Scrofani S., Sicilia. Utilizzazione del suolo nella storia, nei redditi, e nelle prospettive, Palermo 1962; Di Blasi A., La proprietà fondiaria nella Sicilia centro – orientale. Considerazioni geografiche, Catania 1968; Longhitano G., Studi di storia della popolazione siciliana, I, Riveli, numerazioni, censimenti (1569 – 1861), Catania 1988 14. Questa carenza disciplinare non è una prerogativa del solo territorio ragusano, per quanto concerne la Sicilia. Fanno eccezione, in questo panorama, i contributi di Margherita De Simone, in particolare il suo “Ville palermitane dal XVI al XVII secolo”, pubblicato a Palermo nel 1974, e il volume “Matrici e permanenze di culture egemoni nell’architettura del bacino del Mediterraneo”, pubblicato nei “Quaderni del Dipartimento di Rappresentazione, conoscenza, figurazione, trasformazione dell’ambiente costruito/ naturale” a Palermo nel 1989, frutto di una ricerca da lei coordinata dove si segnalano, oltre alla sua “Introduzione” - che alla riflessione sulla residenza/lavoro del contado, con particolare riferimento alle ville signorili dei dintorni di Palermo, affianca disegni di schemi tipologici -, il testo di Filippo Terranova “Case sparse” e quello di Francesca Fatta “I segni antropici del paesaggio siciliano nella lettura della cartografia ottocentesca”. De Simone M., Ville palermitane dal XVI al XVII secolo, Palermo 1974; De Simone M. (e altri), Matrici e permanenze di culture egemoni nell’architettura del bacino del Mediterraneo, Palermo 1989; gli studi sull’architettura rurale nel territorio etneo condotti da Antonino Failla, Giovanni Cascone e Salvatore Di Fazio all’interno dell’Istituto di Topografia e Costruzioni Rurali della Facoltà di Agraria di Catania. Failla A., Cascone G., Di Fazio S., Architettura rurale nel territorio etneo, in: L’architettura rurale nelle trasformazioni del territorio in Italia, Atti del Convegno Nazionale Bari 1987, pp.491-509. Failla A., Di Fazio S., Le costruzioni per l’agricoltura nel paesaggio etneo: stato attuale e prospettive di valorizzazione. Parte prima: caratteristiche tipologiche e costruttive dell’architettura rurale tradizionale, in “Tecnica Agricola”, n.1-2 Gennaio-Giugno 1998; più recentemente una pubblicazione sull’architettura rurale in Sicilia a cura di Maria Luisa Germanà che focalizza l’attenzione sui temi della conservazione e del recupero dei manufatti. Germanà M. L., L’architettura rurale tradizionale in Sicilia: conservazione e recupero, Palermo 1999 15. Adam R., Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in Dalmatia, London 1764, p. 1
16. Si fa riferimento alla figura di Roberto Pane ma soprattutto a quella di Giuseppe Pagano, che nel 1936, coadiuvato da Gualtiero Daniel, inaugura la VI Triennale dell’architettura proprio su questi temi. 17. Grassi G., La licenza dell’ovvio, Lotus Intenational, n. 15, 1977; ma su questi argomenti vedi anche: Grassi G., Rurale e urbano nell’architettura, in: L’architettura come mestiere e altri scritti, 5^ edizione, Milano 1989 18. Scrive Mario Giorgianni: “L’architettura, considerata come disciplina della comprensione del reale ed insieme della sua trasformazione, fornisce a colui che la esercita due possibili supporti storici rispetto ai quali è necessario scegliere il configurarsi del tempo: quello supposto universale dell’accademia dei grandi movimenti internazionali; insieme con l’altro, non alternativo né diverso ma più difficilmente interiorizzabile, delle esperienze sedimentate dai riferimenti vernacolari e contingenti”. Giorgianni M., La pietra vissuta, op. cit., p. 37 19. Ci si riferisce al caso straordinario di Karl Friedrich Schinkel e all’importanza che ha avuto nella sua formazione e nel suo lavoro la ricostruzione ‘fantastica’, nel suo Viaggio in Sicilia, della “casa di campagna nei pressi di Siracusa”. Si veda al riguardo: Fidone E., Il viaggio di Schinkel in Sicilia: architettura rurale e paesaggio, in: Fidone E. (a cura di) From the Italian Vernacular Villa to Schinkel to the Modern House, Cannitello (RC) 2003 20. Schinkel K. F., Viaggio in Sicilia, ristampa a cura di Michele Cometa e Gottfried Riemann, Messina 1990, p. 120
coerentemente formulati intorno agli anni Trenta proprio dalla cultura architettonica italiana16. Significa – per calarsi più direttamente nello specifico del nostro operare di architetti – ritenere che in certi passaggi della storia – in cui il sopravvento delle immagini fa dimenticare l’utilità e la nobiltà dell’azione del costruire, la sua necessità – sia opportuno tornare a riflettere sugli elementi minimi e primari della nostra disciplina. Si tratta di contrapporre, ancora una volta, la moralità e la capacità estetica di un’idea di funzione – così come la specifica Giorgio Grassi, quale condizione naturale del servire17 – alla monumentalità dell’accademia (oggi si direbbe “star-system”). E’ questa l’operazione strumentale – culturalmente sottile e profonda – che fa Pagano con la mostra della VI Triennale di Milano sull’architettura rurale; è questa l’operazione di ‘azzeramento’ linguistico che fa Grassi in piena intemperie post-modernista, rifacendosi ad analoghe battaglie ‘riduzionistiche’ condotte all’inizio del secolo da Loos e Tessenow. E’ questo il lavoro necessario ancora oggi. Significa anche avere chiaro quale è il supporto storico cui ancorarsi nel proprio esercizio18, non perdendo di vista che altri più grandi non hanno disdegnato un lavoro analogo19 giungendo ad una conclusione che può costituire una sorta di lente addizionale nella lettura di questo lavoro: “la vista di queste opere nella natura ha qualcosa di sorprendente che non deriva dalla loro grandezza ma dal complesso pittorico”.20
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01. Il territorio ragusano come 'eccezione' siciliana
Fig.â&#x20AC;&#x2C6;3 Palinsesto territoriale del comune di Ragusa
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Fig. 4 Sezione territoriale del comune di Ragusa
resto annualmente in misura di quattro tumuli di grano per ogni salma di terra – che andavano a sommare le 12000 salme di frumento che il Conte poteva esportare in franchigia dal caricatore di Pozzallo-. In questi termini l’enfiteusi celava in sostanza una forma di vendita. A metà ‘500 il Conte di Modica cedeva in enfiteusi circa 30.000 ettari che sommati ai piccoli feudi effettivamente alienati raggiungeva una superficie agraria di 45.000 ettari, metà del territorio comitale. A questo fenomeno si aggiungeva quello delle usurpazioni dei territori non colonizzati, direttamente collegato all’uso delle “recinzioni” dei terreni invalso nell’altipiano ibleo, che rese necessaria una rimisurazione delle terre stesse - che in molti casi si quantificava in un raddoppiamento della concessione enfiteutica -. Per ben due volte si giunse ad una transazione che decretò in qualche modo il definitivo trasferimento della proprietà terriera dal conte ai suoi sudditi. “Le due operazioni congiunte dell’enfiteusi e delle usurpazioni, comunque legittimate ex 29
02. Definizione del 'tipo masseria' nell'altipiano ragusano durante l'Ottocento attraverso lo studio delle fonti
Introduzione Abbiamo detto della grande valenza che l’insediamento sparso ha avuto in questa regione nelle varie epoche storiche, fino a raggiungere in anni recenti valori di 20 – 30 abitanti per kmq., che la distingue nettamente dalle altre regioni siciliane. Abbiamo detto delle ragioni storiche che hanno determinato questa condizione, soprattutto in relazione al particolare rapporto determinatosi fra la proprietà fondiaria e l’economia agraria nella Contea di Modica, e delle grandi trasformazioni che ciò ha comportato nel contado durante l’Ottocento, il grande secolo della costruzione del paesaggio agrario degli Iblei. In questo capitolo ci occuperemo della masseria come portato di queste trasformazioni ma cercheremo anche di capire se e fino a che punto ne è stata strumento o motore.44 All’interno della Contea l’approfondimento di questo studio è stato ristretto al territorio di Ragusa alta. Essa è la città che ha portato meglio a compimento la “pacifica eversione del latifondo”. Ha un territorio particolarmente indicato per estensione – è doppio di quello della stessa Modica - e per conformazione – un altopiano leggermente inclinato solcato e delimitato da corsi d’acqua -. Al contrario di Modica, quando si trattò di ricostruire la città dopo il terremoto optò per spostarne il centro proprio in quel ‘patru’ superiore a ridosso dei redditizi campi dell’altipiano, piuttosto che sulla arroccata Ibla (o quantomeno duplicò i centri). La città è baricentrica rispetto al territorio provinciale, che ne avvantaggerà la funzione amministrativa e commerciale. Lontano dalla oligarchia semifeudale modicana sviluppa più facilmente una media borghesia imprenditoriale. Non a caso quindi nel giro di un secolo raddoppia la popolazione e, grazie alla sua abile classe politica, soffia il titolo di capoluogo di provincia proprio alla stessa Modica. Ancora oggi, peraltro, sull’onda lunga di questa strutturazione sociale ed economica, è la realtà più dinamica all’interno di una provincia fra le più dinamiche di tutto il meridione. A latere di tutto ciò, ma non da ultimo - come a supportare culturalmente queste trasformazioni stesse -, è stato possibile rintracciare un numero più consistente di materiali di studio e nella fattispecie preziosi documenti d’archivio che hanno consentito un salto di qualità alle riflessioni. La masseria è la tipica abitazione di campagna del meridione. Benito Spano, nel suo saggio dal titolo “La masseria meridionale”45, ce ne da i caratteri generali e le peculiarità delle diverse aree geografiche. Dettagliatamente, nelle note illustrative della “carta dei tipi strutturali della masseria” (fig. 6), all’interno del grande raggruppamento delle forme a recinto distingue i tipi che più ci interessano : “- piccole masserie a corte (cortile interno, laterale o posteriore all’abitazione, raramente antistante). 38
44. La masseria “è la tipica impresa agricola del ragusano, basata sull’affitto di tenute di medie dimensioni (30 – 100 ettari) e con una struttura architettonica <<chiusa>> attorno alla corte, che rappresenta il centro spaziale dell’azienda e delle operazioni colturali. La stalla, i magazzini per le derrate, la casa del massaro e l’abitazione signorile del proprietario costituiscono un’unità compatta di risorse e materiali finalizzate alla trasformazione fondiaria. ”Barone G., Le campagne iblee, op.cit., p. 78 45. Spano B., La masseria meridionale, in: La casa rurale in Italia, Firenze 1970. Benito Spano nel suo mirabile saggio fornisce diversi elementi di una certa utilità per il nostro discorso. Dopo aver precisato, infatti, l’ambiguità semantica del termine, “dimore sparse o accentrate, temporanee o permanenti, complesse od elementari, terreni seminativi e branchi di animali, imprese, funzioni e contratti agrari possono essere dunque designati ugualmente come <<masserie>>, con una varia e rilevante confusione di termini anche dentro i confini di un medesimo dominio dialettale”, (p. 276); ragiona specificamente dei tipi edilizi: “Nella realtà attuale si sono cioè ulteriormente attenuate le ragioni della loro primitiva discriminazione nominale, per cui masserie a predominante fisionomia pastoreccia e masserie a prevalenza di funzioni agricole concorrono insieme a disegnare, in prima approssimazione, una quadruplice categoria di impianti rurali, non per altro dissimili che per la consistenza delle fabbriche e l’importanza dell’impresa, e cioè: a) masserie elementari (categoria comprendente forme a elementi lineari e forme elementari a recinto, semplice o composito, sul tipo appunto degli stazzi e delle <<poste>> per l’allevamento stanziale e transumante); b) medie e grandi masserie unitarie o di tipo composito, con più corpi di fabbrica addossati fra loro o disposti a gruppo intorno ad un edificio centrale, di maggior volume o risalto estetico (masserie a gruppo o a nucleo); c) masserie a corte (medie e grosse corti rurali con più corpi edilizi disposti a racchiudere totalmente o su tre lati uno spazio centrale – curte, curtile, ma, più comunemente, cartiglio (-a) in Campania, curte in Puglia, quastro nel Molise, bàgghiu in Sicilia – ovvero disposti intorno a due o più cortili, sul tipo delle masserie ad aggregato di corti, più frequenti in Sicilia e nella Puglia meridionale); d) masserie a villaggio (più complessi raggruppamenti di fabbriche – contenenti anche locali adibiti ai più elementari servizi sociali – intorno a un voluminoso casamento centrale, per lo più del tipo a corte chiusa e, talora, con tutti gli attributi del castello)” (p. 278).
Fig. 6 Carta dei tipi strutturali della masseria meridionale (da: Benito Spano, "La masseria meridionale")
39
Le mappe dell’agrimensore Puglisi Nel carpettone n. 32 del fondo Preunitario dell’archivio comunale di Ragusa si conserva un numero cospicuo di fogli appartenuti al “Perito Agrimensore Don Giuseppe Puglisi del Tenere di Ragusa”. “Tenere di Ragusa Contrada del Pinnino Di Immezzo ossia Pinnenti Terre del SS.mo Sacramento Al Circolo di Ragusa L’anno milleottocentoquarantadue 1842 Il giorno 23 dicembre Io infrascritto Giuseppe Puglisi del fu Epifanio regio Agrimensore patentato sotto li maggio 1807, registrato li 23 luglio in Ragusa 1842, al n° 1655 di questa istessa Comune domiciliato via S. Rocco al n° 98, mi sono personalmente conferito in detta contrada come sopra ad istanza e commissione del Rev. Canonico e Sac. D. Salvadore Comitini e Sac. D. Raffaele Lissandrello il primo come procuradore e il secondo come tesoriere da una parte e da Salvadore Di Stefano figlio di Giorgio dall’altra, tutti di questa sudetta Comune all’oggetto di misurare stimare e riferire nel attuale stato che trovasi il Vignale di terre confinante con terre del Rev. Sac. D. Orazio Mazza (…) Questa è la mia relazione e la sottoscrivo …” (fig. 7) Questo incipit di uno dei fogli conservati nell’archivio di Ragusa funziona come sorta di autopresentazione dell’agrimensore Puglisi e introduce al contenuto dei fogli stessi. Puglisi viene chiamato per “misurare stimare e riferire” circa terreni appartenenti al contado di Ragusa. L’interesse per il nostro studio è costituito dal fatto che Puglisi accompagna sistematicamente queste relazioni di misura e stima con mappe dettagliate dei fondi in questione. Tutte le mappe presenti nell’archivio vengono redatte da Puglisi nell’arco di un ventennio, dal 1832 al 1853, tranne tre rispettivamente del 1814, 1815 e 1826. (figg. 8 e 9) Esse vengono stilate per motivi diversi, tutti riferibili comunque allo svolgimento ordinario del lavoro di agrimensore: semplici misurazioni o apprezzamenti di terreni, appunto; questioni controverse come usurpazioni, tracciamenti di limiti, …; passaggi di proprietà legati a vendite, eredità, ripartizioni. (figg. 10, 11, 12 e 13) L’“istanza” a redigere le mappe è mossa dalle diverse compagini della società civile, sia pubbliche (sindaco, demanio, enti religiosi) che private (borgesi, professionisti, massari). (figg. 14, 15, 16 e 17) L’estensore delle mappe si firma “don Giuseppe Puglisi” - che lascia presupporre una condizione di agiatezza o comunque di considerazione sociale –, “Regio Agrimensore” – che rimanda ad una carica pubblica o quantomeno ad un titolo di studio conseguito ufficialmente -. 44
Fig. 7 Titolazione della mappa della contrada del Pinnino di Immezzo Fig. 8 Datazione della mappa del Predio del SS. Sacramento al Circolo Fig. 9 Datazione della mappa della Contrada della Marchesa
45
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54. Zangheri R., I catasti, in: Storia d’Italia. I Documenti, vol. V, Torino 1973, p. 761 55. Di Fazio S., I catasti descrittivi del regno delle Due Sicilie, in: AA.VV., Forma e struttura di catasti antichi (a cura di Sergio Mattia e Roberta Bianchi), Milano 1994 56. Caruso E. Nobili A., Il catasto borbonico per la lettura del paesaggio storico siciliano, in: Caruso E. Nobili A. (a cura di), Le mappe del catasto borbonico di Sicilia, Palermo 2001, p. 50 57. DECRETO approvante le istruzioni per la rettifica del catasto fondiario della Sicilia, art. 92; in: Caruso E. Nobili A. (a cura di), op. cit.
Fig. 23 Mappa del Predio di Lauretta
in forma non trasparente, non immediata. A prima vista sembra determinante il problema del prelievo fiscale. Ma è in gioco, in fondo, l’indipendenza e l’esistenza dei ceti feudali”54. In Sicilia sarà il vicerè Caracciolo, conscio di queste potenzialità, a farsi promotore di una riforma del catasto – sul tipo di quello geometrico adottato in Lombardia – negli anni fra il 1781 e il 1786. Questa come altre iniziative del Caracciolo tese a ridimensionare il potere dei baroni in Sicilia, ritenuti un ostacolo al progresso della regione, risulterà vana e sarà accantonata dopo la sua partenza. Ma i tempi per queste riforme erano comunque maturi – come sappiamo i primi decenni del secolo XIX sono quelli che porteranno anche in Sicilia al tramonto del sistema feudale – e già nel 1810 il parlamento siciliano emana alcune ordinanze per la contribuzione fiscale fra le quali si stabilisce che l’imposta sulla proprietà fondiaria debba essere proporzionale alla qualità dei terreni. Così, dopo la legge del 10 febbraio 1824 sulla rescissione delle soggiogazioni, non è più differibile una “Rettificazione del catasto fondiario” e durante il 1833 vengono emanati quattro decreti che contengono “le norme per la rettificazione del catasto; le norme per il contenzioso in materia di contribuzione diretta; le istruzioni relative alla suddetta rettificazione; le norme relative all’ordinamento del personale che doveva provvedere alle operazioni di rettificazione”55. Successivamente, nel 1838, viene emanato un decreto abrogativo del precedente che, pur rivedendo le Istruzioni per la rettifica, non muta l’impalcato generale della riforma. Le operazioni di accatastamento si protrassero fino al 1853, anno in cui Vincenzo Mortillaro di Villarena, in qualità di “Delegato speciale alla immediazione del Ministero di Stato per la compilazione dei Catasti di Sicilia”, le dichiarò concluse. Il Catasto borbonico siciliano, pur prevedendo la redazione di mappe d’insieme, rimane un catasto descrittivo. “Per i beni territoriali le Istruzioni della rettifica prevedevano sopralluoghi in campagna molto accurati, finalizzati a verificare la rispondenza tra i dati dei riveli e lo stato dei luoghi. Ne scaturiva il cosiddetto “cartolare della campagna”, una descrizione dettagliata dei fondi e dei suoi beni”56. “Si noteranno I.° i nomi e cognomi de’ possessori; 2.° i confini, cioè la strada con cui confina, i limiti naturali se ve ne saranno, e le possessioni limitrofe; 3.° se vi sono chiese, cimiteri, conventi, monasteri, cave di qualunque specie, acqua, miniere, molini, paradori, fabbriche di manifatture e industrie, fabbriche rurali, o altro oggetto qualunque tassabile; 4.° se vi sono mura, siepi, corsi d’acqua, ed altro bisognevole di spesa di manutenzione”57. Questi quaderni, di straordinario interesse per la conoscenza del contado siciliano a metà ottocento, concorrevano a definire gli “stati delle sezioni”, documenti che riassumevano i dati raccolti. La denominazione “stato delle sezioni”, che ancora oggi vale ad indicare negli archivi i documenti suddetti, deriva dall’essere stato ripartito il territorio, per comodità d’esercizio, in un numero di sezioni congruo – non meno di cinque e non più di dieci -, di estensione approssimativamente uguale: “Le strade e trazzere pubbliche e vicinali, ed anche i confini naturali si dovranno ordinariamente scegliere a preferenza per linee 51
A
Senza titolo
Contrada della Pece
Terra di Maiello
Cava delli Chiaramidi
Cava delli Chiaramidi
Cava delli Chiaramidi
Contrada della Corsia
Contrada della Pirrera
Predio del SS. Sacramento al Circolo
Predio di Lauretta
Contrada delli Chiaramidi
Predio della Giubbiliana
Predio della Giubbiliana
Fondo Ciantroarato
Predio di Basarano
Contrada della Marchesa
Feudo di Carbonaro
Senza titolo
B
C
D 58
Predio di Basarano
B
Predio del SS. Sacramento al Circolo
Senza titolo
Contrada del Pericolo
Terre di D. Ignazio Leggio
Predio di Lauretta
C
Senza titolo
Senza titolo
Fontana della Turtula
Contrada di Bellocozzo
Senza titolo
D 59
Contrada di Cillone
Contrada di Trebastone
Predio del Pegno
Contrada dello Sdirubbato
Contrada di Santi Marco
E
Predio del SS. Sacramento al Circolo
Predio della Cristilla
Predio della Targia
Vignale del Pagliaio
Contrada delli Pianetti
Contrada del Celso
Terre delli Cugni
Terre delli Cugni
Senza titolo
Fontana della Turtula
Predio di Cornocchia
Predio delli Puzzilli
Predio della Brivonilla
Predio del Pegno
Predio di Puzzi e Buttino
Terre delli Cugni
Contrada del Conservadore
Predio della Giubbiliana
Giardino di Renda
E
E
F 60
Senza titolo
G
Feudo di Carbonaro
Predio di Meusa
Terre di Passo di Scicli
Terre di Maiello
Senza titolo
Predio di Lauretta
Predio di Lauretta
Terre della Croce
Giardino di Cavatello
Quartiere del SS. Salvadore
Predio delli Magazzinazzi
Feudo di Carbonaro
H
I
L 61
Feudo di Giafanti
Senza titolo
minimo di due fino a cinque o anche sei. In un caso ancora siamo in presenza di un recinto strutturato a mandra. (fig. 30) Nell’immagine tratta dal Predio di Lauretta troviamo annotato “Luoco di case e mandre”. (fig. 31) Nella fascia “D” in maniera meno complessa, nella fascia “E” più articolatamente, i corpi di fabbrica non sono più semplicemente giustapposti ma articolati planimetricamente in relazione ad un vuoto recintato che essi stessi contribuiscono a definire. A buona ragione – specialmente nei casi più elaborati, come il “Predio di Cornocchia”, il “Predio di Puzzi e di Buttino”, il “Predio del Pegno” – si può cominciare ad utilizzare la dicitura di corte per questi spazi. (fig. 32, 33 e 34) Anche qui – per il “Predio della Brivonilla” o il “Predio di Puzzi e di Buttino” - si segnalano delle strutture di “mandra”. (fig. 35) Nella fascia “F” siamo davanti a strutture che chiaramente denunciano la presenza di una corte rispetto alla quale si articolano i corpi di fabbrica. Questa loro specificità è segnalata da Puglisi attraverso il disegno ribaltato in pianta dell’arco di accesso alla corte. La seconda in successione di queste mappe presenta la struttura per la mandra all’esterno rispetto ai fabbricati, dall’altra parte della strada. (fig. 36) Di particolare interesse si dimostrano sia il “Predio della Giubiliana”, per il disegno del giardino annesso al caseggiato, che il “Giardino di Renda Tumino” per la descrizione dettagliata dell’impianto del grande giardino d’agru-
62
Fig. 30 Particolare di una mappa senza titolazione Fig. 31 Particolare della mappa del Predio di Lauretta
Fig. 32 Particolare della mappa del Predio di Cornocchia Fig. 33 Particolare della mappa del Predio di Puzzi e Buttino Fig. 34 Particolare della mappa del Predio del Pegno Fig. 35 Particolare della mappa del Predio di Brivonilla
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mi e dell’abbeveratoio con canalata, grotta e fonte connessi. (fig. 37 e 38) Le fasce “G”, “H”, “I” presentano a loro modo degli edifici ‘speciali’. Nella “G” i manufatti caratterizzati da una iterazione di aperture e elementi verticali riuniti da una struttura a tetto unico possono ricondursi a magazzini, come suggerisce una delle contrade in questione stessa. (fig. 39) Nella “H” si tratta di case di campagna con riferimento a strutture fortificate (torri, castelli), che denunciano peraltro l’appartenenza a casati nobiliari. (fig. 40) Nella “I” la destinazione specialistica del manufatto è dichiarata dalla chiara geometria quadrangolare dell’impianto. (fig. 41) Una notazione a parte merita l’ultima fascia. Il secondo disegno non è tratto da una mappa ma è un preciso elaborato in scala, tracciato a riga e matita, di quello che a ragione si può ritenere il progetto di una masseria. (fig. 42) Vi è la corte con l’arco di accesso, un fabbricato a tre luci su due piani, alcuni corpi bassi o recinti di servizio sulla destra entrando, l’impianto di un giardino dalla parte opposta. Il particolare dell’ “Ex feudo di Giafanti” si dimostra allora particolarmente significativo per la sua struttura di impianto così tanto simile a questa di progetto.(fig. 43) Quest’ultima notazione svela anche, in qualche maniera, il criterio ‘tendenzioso’ col quale sono stati raggruppati ed elencati questi manufatti. Le fasce vanno, come già anticipato, da strutture più semplici - manufatti monocellulari -, a strut-
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Fig. 36 Particolare della mappa della Contrada del Conservadore
Fig. 37 Particolare della mappa del Predio della Giubbiliana Fig. 38 Particolare della mappa del Giardino di Renda Fig. 39 Particolare della mappa delli Magazzinazzi Vecchi Fig. 40 Particolare di una mappa senza titolazione
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Fig.â&#x20AC;&#x2C6;51 Particolare della mappa catastale 1:2000 della Contrada Castiglione Fig.â&#x20AC;&#x2C6;52 Particolare della mappa della Contrada Castiglione ossia Fontana della Turtula 78
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Fig. 53 Particolare della mappa catastale 1:4000 del Predio del Pegno Fig. 54 Particolare della mappa catastale 1:2000 del Predio del Pegno Fig. 55 Particolare della mappa del Predio del Pegno 80
81
sembra propriamente la trazzera di Renda, e della proprietà certo più rappresentativa di questa contrada agli inizi dell’Ottocento, quando la masseria venne impiantata ( non dimentichiamo che era questo uno dei tre soli agrumeti nel territorio di Ragusa dichiarati al catasto del 1846 e che la proprietà, giusta la dichiarazione di Puglisi, era conosciuta come il “giardino di Renda”). Infatti la “strada comunale consorziale Renda Cimillà Magnì” pare essere costruita per raggiungere il “giardino”, come spesso accadeva nelle contrade con impianti di masserie storiche, che davano nome alla contrada stessa o viceversa; qui giunta, nello slargo d’ingresso con l’abbeveratoio, piega ad aggirare la proprietà lungo i muri perimetrali, quasi fosse stata prolungata in un secondo momento. La masseria in contrada Magnì è propriamente una masseria di altipiano. (Tav. II) Posta a quota 500 metri – nella porzione di territorio dove, diradandosi le curve altimetriche, meritatamente si può parlare di altipiano -, si insedia col suo preciso impianto quadrangolare aprendosi su un lato, nel verso di pendenza del territorio a sud-ovest. E’ situata in prossimità di una delle tante trazzere bretelle che collegano la provinciale per lo scaro di Mazzarelli alla parallela “strada comunale consor-
Fig. 76 Planimetria della casa in Contrada Magnì 104
Tav. II
105
ziale Renda Cimillà Magnì”, collegata a questa – o ‘separata’, come diremo meglio più avanti – da una corta trazzera di accesso che muove lungo la stessa giacitura nord-est sud-ovest della masseria. Il “casino di campagna” che il Cavaliere Sortino Trono fa edificare a partire dal 1865 in contrada Castiglione è chiaramente anch’esso una masseria d’altipiano. (Tav. III) Posta nella sua parte più rilevata a quota 600 metri, a ridosso delle coste che repentinamente digradano verso Comiso, si sviluppa nella sua successione di percorsi e volumi lungo la giacitura delle curve altimetriche, rivolta a sud-est. E’ situata sulla “strada comunale consorziale Passolatello Bocampello Mangiapane Tresauro” che porta fino a Donnafugata – che svolge in questa porzione di altipiano la stessa funzione di asse di scorrimento longitudinale che altrove è svolta dalle provinciali per S. Croce Camerina e lo scaro di Mazzarelli -. Si trova subito all’inizio di questa strada, dove essa si dirama dalla provinciale per Comiso. La masseria si insedia quindi ortogonalmente alla strada con un percorso di accesso chiaramente strutturato dagli elementi che la compongono.
Fig. 77 Planimetria della casa Sortino Trono 106
Tav. III
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Non molto si può aggiungere a quanto detto precedentemente rispetto agli ampliamenti che portano durante l’Ottocento la casa in contrada Magnì a diventare Villa Di Martino, come essa è attualmente riconosciuta. (Tav. IV) Solamente bisogna notare che si spostano i ‘pesi’ della masseria, costruendosi i nuovi volumi e il nuovo ingresso a sud-est, portandosi a contatto con la trazzera e in più diretta relazione con la provinciale. La masseria di impianto più recente, degli inizi del XX secolo, la Villa Ottaviano in contrada Montagnola, è situata in posizione mediana nella fascia più larga e più estesa dell’altipiano, quella compresa fra il torrente Cavalusi e le ripide coste del “fiume grande” Irminio. (Tav. V) Vede quindi il territorio discendere nella pendenza naturale dell’altipiano a sud-ovest ma anche verso la valle del Cavalusi a nord-ovest e quella dell’Irminio a sud-est. E’ una condizione acropolica, accentuata dalla decisione di posizionare la villa su una sorta di lingua pianeggiante che la curva altimetrica di quota 400 ritaglia nel terreno. Il manufatto si insedia sul limite estremo di questa propaggine lungo l’asse nord-ovest sud-est, nella giacitura delle curve di livello. La prossimità e la relazione del manufatto con la provinciale per lo scaro di Mazzarelli sono fondamentali. Per raggiungerlo viene costruita una delle tante trazzere bretelle che abbiamo visto partirsi ortogonali alla provincia-
Fig. 78 Planimetria della villa Magnì 108
Tav. IV
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l’intero manufatto in un’infilata che è anche uno spiedo visivo. Al piano superiore l’abitazione padronale vera e propria stacca su tutto questo con la suite di stanze affacciate sul paesaggio a sud-est, conclusa agli estremi da due terrazze. Nell’inversione prospettica che si ha del manufatto dall’ingresso sulla strada comunale è proprio questo piano, con la sua teoria di finestre, a proiettarsi in primo piano ed emergere ancora su tutto. La masseria – per quanto acquattata nella lieve pendenza del terreno, quasi un’increspatura dell’altipiano – è una presenza evidente alla scala territoriale. Contribuiscono molto a questo la composizione a croce dei volumi, con l’abitazione padronale che stacca sui lunghi muri perimetrali del manufatto, e il vignale che si attesta sulla misura dei fabbricati e del giardino padronale, con il grande albero di pino e l’alto muro di 4 metri. (figg. 86 e 87) Alla scala architettonica sono due gli elementi che segnalano precisamente queste relazioni col territorio: il portale d’accesso con le sue panche, condotto direttamente sulla strada principale a guadagnare la trazzera d’accesso al sistema interno del manufatto (figg. 88 e 89); la suite di stanze al piano dell’abitazione padronale, quasi una galleria affacciata con la sua teoria di finestre sul paesaggio, terminata ai lati con due terrazze a filo dei muri perimetrali, a rimisurare inequivocabilmente la logica insediativa longitudinale - trasversale della masseria.
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Fig. 86 Pianta, prospetto della casa padronale e sezione longitudinale della casa Sortino Trono Fig. 87 Vista da est della casa Sortino Trono
Fig.â&#x20AC;&#x2C6;88 Veduta del portale d'ingresso della casa Sortino Trono Fig.â&#x20AC;&#x2C6;89 Pianta e prospetto del portale d'ingresso della casa Sortino Trono
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Dalla casa in contrada Magnì alla Villa Di Martino (o Villa Magnì, come pure è conosciuta) il passo è breve – pochi metri, viene da dire –, ma la distanza delle caratteristiche insediative è veramente notevole. Si era cominciato a ‘prendere le distanze’ nel 1857 quando si decise di trasformare lo spiazzo antistante l’ingresso della casa in una corte squadrandolo, recintandolo e dotandolo di due corpi accessori a fiancheggiare l’ingresso. Il passaggio decisivo, nel 1876, fu costituito dalla realizzazione della terza corte, quella della nuova casa padronale, separata con un portale dalla corte del 1857. La costruzione della abitazione padronale vera e propria, del nuovo giardino e del nuovo accesso dalla strada consorziale, agli inizi del Novecento, rappresenta solo il completamento di un disegno di intenti già chiaro. Si assiste ad una rotazione a 90 gradi dell’impianto, con la successione delle nuove corti che stabilisce una nuova assialità a sud-est. (Tav. XIV) Tanto era ‘distante’ la prima casa dalla consorziale, con la sua apertura a sud-ovest, quanto risulta prossimo il nuovo manufatto, con l’abitazione padronale portata nell’angolo più vicino alla strada e la successione dei nuovi elementi spaziali allineati a sud-est in piena evidenza per chi giunge, attraverso la consorziale, dalla strada provinciale. (fig. 90) La fronte principale della casa è ora a sud-est. (Tav. XV) La successione di volumi e spazi su questo lato è organizzata lungo una nuova trazzera d’accesso, interna
Fig. 90 Vista dalla provinciale della Contrada Magnì 126
Tav. XIV
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al manufatto, segnalata da un portale a due bracci e da un’ampia panca circolare che lo fronteggia, che modificano la sezione della consorziale in quel tratto quasi a farne ritenere il nuovo accesso alla casa come punto d’arrivo. La masseria è ancora ben chiusa a nord-est – anche nel nuovo volume della casa padronale -, ma lo risulta altrettanto a sud-ovest con l’alto recinto chiuso del nuovo giardino. L’abitazione non solo stacca sul paesaggio, per i suoi due piani, dai rimanenti volumi, ma è anche separata da questi, con stanze finestrate a girare sui quattro lati e la terrazza attestata sulla fronte a sud-est. La Villa Magnì è ben evidente, in quella porzione di tavolato, per chi scende attraverso la consorziale dalla provinciale per Mazzarelli (Marina di Ragusa). In particolare spiccano il volume della casa padronale, con la copertura piana e la torrettabelvedere, e il giardino, con le sue alte palme. (figg. 91 e 92) Alla scala architettonica queste mutate relazioni con l’intorno territoriale sono evidenziate da almeno tre elementi: il portale d’accesso con la panca prospiciente, che modificano la sagoma e la sezione in quel punto di un elemento territoriale quale una strada, e ancora una volta riportano in una strutturazione interna al manufatto la nuova trazzera d’accesso; la terrazza dell’abitazione padronale, a filo sul muro perimetrale della nuova fronte principale della masseria; la torrettabelvedere sulla copertura piana dell’abitazione, vera e propria ‘postazione paesaggistica’ a 360 gradi sul territorio. La similarità della decorazione sommitale del
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Fig. 91 Pianta primo piano e prospetto est di Villa Magnì Fig. 92 Vista da est di Villa Magnì
Tav. XV
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portale d’accesso sulla strada e della torretta-belvedere suggella – a distanza di un secolo esatto della sua fondazione, nel 1924, come recita la data incisa sull’architrave della porta della torretta – le nuove potenti relazioni che il manufatto intende mutuare con il territorio ( dal suo elemento più in basso a quello più in alto, “usque ad infera usque ad coelis” verrebbe da dire). (figg. 93, 94 e 95) Nel posizionare la Villa Ottaviano in contrada Montagnola viene operata una scelta determinante ai fini del suo rapporto con l’intorno territoriale: la villa padronale è realizzata non solo per traguardare il territorio a 360 gradi ma per essere da questo rimirata nel suo stereometrico volume cubico. La masseria è insediata sul limite estremo di una lingua pianeggiante che la curva altimetrica a quota 400 ritaglia nella pendenza dell’altipiano. (Tav. XVI) Nella sua disposizione longitudinale occupa interamente la larghezza di questa lingua cosicché il terreno digrada abbastanza rapidamente – per quel tratto di altipiano – sui tre lati soggetti al maggior soleggiamento (a nord-est si distende la lingua pianeggiante). La masseria è situata, in definitiva, in posizione acropolica rispetto all’intorno territoriale. L’altro elemento determinante nell’insediamento della masseria è la prossimità della provinciale per Mazzarelli: la strada in quel tratto scorre con una accentuata pendenza che esalta la percezione acropolica del manufatto sul limitare della lingua pianeggiante. I fabbricati della masseria si dispongono
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Fig. 93 Veduta della torretta belvedere di Villa Magnì Fig. 94 Veduta del portale d'ingresso di Villa Magnì Fig. 95 Pianta, prospetto e sezione del portale d'ingresso di Villa Magnì
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Fig. 114 Pianta, prospetti e sezione della casa padronale del "Giardino di Renda" Figg. 115 -116 Casa padronale e terrazza del "Giardino di Renda"
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Fig. 117 Pianta, prospetti e sezione della casa padronale in contrada MagnĂŹ Figg. 118 - 119 Casa padronale e terrazza in contrada MagnĂŹ
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regolarmente pavimentata come le corti interne. La seconda è la corte principale, di forma pressoché quadrata, chiusa da alti muri laterali, su cui prospetta la fronte dell’abitazione padronale. La terza e ultima è una corte di servizio, poco profonda, chiusa sempre da muri lateralmente, su cui danno il retro dell’abitazione e gli ambienti del lungo corpo basso posteriore. Anche la villa Magnì è una masseria a corti plurime, la cui giustapposizione nel tempo rende conto della complessità di aggregazione del manufatto. (Tav. XXII) Alla primigenia corte di casa Magnì si sono aggiunte a metà e nella seconda parte dell’Ottocento due altre corti che nella loro successione stabiliscono la nuova assialità del manufatto. La prima, realizzata nel 1857, è la regolarizzazione – di fatto, questa volta – dello spiazzo antistante l’ingresso della prima masseria. Essa funziona da snodo fra la vecchia e la nuova corte principale e si caratterizza come corte di servizio legata all’accesso secondario. La seconda, del 1876, è la corte principale della villa, cui si accede dal nuovo portale d’accesso a sud-est, dove prospettano l’abitazione, un corpo basso e l’ingresso al nuovo giardino. Due sono le corti di Villa Ottaviano, contrapposte paradigmaticamente e comunicanti – o separate, sarebbe meglio dire – dall’unico portale del manufatto. (Tav. XXIII) La prima – corte di accesso e corte di servizio –, in leggera pendenza, poco più marcata di quelle di Magnì o Sortino Trono, è racchiusa canonicamente su due lati da volumi e sugli altri due da muri, di cui uno contenente il portale d’accesso alla villa. La seconda – corte principale, prospettandovi l’abitazione – non è racchiusa da muri o volumi sul perimetro esterno. Piuttosto è essa a cingere i muri della villa a girare sui quatto lati, corte ad ‘anello’ anziché quadrata, rettangolare, … Non più spazio di relazione fra gli elementi, ma fra gli elementi e l’intorno. Il giardino. Argomentare sul giardino del “Giardino di Renda” potrebbe risultare fuorviante ai fini della nostra analisi comparata, stante la sua sproporzione rispetto al manufatto (non elemento fra gli altri, ma prioritario per forma, misura e funzione). (Tav. XIX) Merita comunque sottolineare che anche esso soggiace ad alcune regole dell’aggregazione delle parti, come quella dell’assialità dei percorsi di accesso che pure obbliga l’unico ingresso al giardino d’agrumi (Puglisi, forzando il disegno, delinea un’assialità persino visiva). Il giardino di casa Magnì, invece, costituisce un buon punto di partenza per rintracciarne l’evoluzione nel rapporto con gli altri elementi. (Tav. XX) E’ sicuramente più proporzionato, specie in relazione agli altri spazi aperti. E’ conte160
70. “Il giardino, pur senza mai separarsi interamente dalla natura, tende ad identificarsi con la dimora e l’abitare, o comunque ad assumerne i caratteri fondamentali; come la casa, esso si pone come medio analogico tra micro e macrocosmo; tra l’individualità dell’uomo (e dell’etnia) e la totalità del mondo.” Vittorio Ugo, Dimensioni teoriche dell’architettura del paesaggio, in: AA. VV., L’architettura rurale nelle trasformazioni del territorio in Italia, Atti del Convegno Nazionale Bari 1987, p. 244
nuto all’interno dell’aggregazione delle parti, fra la corte, la parte terminale del lungo corpo basso, la terrazza dell’abitazione. E’ inserito nella stessa successione assiale del sistema d’accesso che già notavamo a Renda: dallo spiazzo antistante l’ingresso, attraverso il portale nella corte, attraverso un portale minore nel giardino. Come l’intera strutturazione della masseria Sortino Trono, l’articolazione dei giardini è complessa. Vi sono i due orti d’ingresso, il giardino di pertinenza retrostante l’abitazione, il grande vignale laterale. (Tav. XXI) I due orti stringono la trazzera d’accesso come a suggellarne la sua nuova natura di elemento interno al sistema. Il giardino di pertinenza dell’abitazione si estende, nell’esatta larghezza del manufatto costruito, ad allungare il profilo della masseria nella percezione territoriale. Il grande vignale tiene insieme la misura dei fabbricati sommata al giardino dell’abitazione e proietta l’elemento giardino, con il suo muro alto 4 metri e il gigantesco solitario albero di pino, nella dimensione territoriale. Il giardino di Villa Magnì completa la suite di quattro elementi – dopo la casa padronale, la corte, il corpo basso - che si allineano a sud-est lungo la nuova trazzera d’accesso al manufatto. (Tav. XXII) E’ proporzionato alle nuove misure del manufatto e soprattutto alle sue ambizioni rappresentative: l’ingresso invade con due lati la corte principale segnalando la valenza del giardino con la cancellata pilastrata e le due alte palme. La Villa Ottaviano non ha giardino. La nuova potente relazione stabilita col paesaggio non ne fa più avvertire l’esigenza di introiettarlo in un microcosmo. 70
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Tav. XIX
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Tav. XX
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Tav. XXI
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Tav. XXII
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Tav. XXIII
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Finito di stampare nel mese di Gennaio 2008 presso le Officine Tipografiche Aiello e Provenzano Bagheria (PA)