MCM Dentro e fuori l’antico

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Ringraziamenti

Molte sono le persone che desidero ringraziare per l’aiuto dato nello sviluppo di questo lavoro che ho intrapreso con convinzione, dopo averne delineato obiettivi e contenuti con Mario Morganti e Gianfranco Cautilli con i quali ho condiviso tutte le mie esperienze professionali, fatto salvo un primo periodo di formazione a Roma nello studio di Luigi Biscogli e nel laboratorio di ricerca diretto da Enrico Mandolesi, presso il Dipartimento di Tecniche dell’Edilizia e del Controllo Ambientale dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

Un particolare ringraziamento va agli amici e colleghi Riccardo Gulli, Guido Montanari, Andrea Campioli, Claudio Varagnoli e Federico De Matteis per aver accolto il mio invito a elaborare i testi critici a corredo del volume; con tutti ho condiviso tratti del mio percorso accademico che mi ha visto operare in più atenei italiani.

Un’espressione di particolare gratitudine va ad Alessandra Tosone e Danilo Di Donato, con cui condivido dal 2006 un lungo e proficuo percorso di ricerca e di didattica presso l’ateneo aquilano, per i tanti suggerimenti critici e miglioramenti dei contenuti del volume e per la stesura delle schede redatte insieme a Matteo Abita, impegnato nello stesso percorso, che ha inoltre rielaborato con l’Ing. Alessia Panepucci il ricco apparato illustrativo del volume sviluppato da Gianfranco Cautilli con il mio personale supporto.

Non posso mancare di includere nei ringraziamenti coloro che, in quanto membri del comitato editoriale di riviste o di rassegne di architettura italiana, hanno dato spazio alle opere raccolte nel volume. Tra questi all’ing. Giuseppe Nannerini e alla collega e amica Domizia Mandolesi devo un ringraziamento particolare per aver accolto le mie proposte editoriali in forma di numeri monografici riguardanti temi diversi, che vanno dall’architettura finlandese contemporanea, alle opere realizzate a Torino in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2006, alla sostenibilità in edilizia, al recupero e alla conservazione del costruito.

Ringrazio inoltre i colleghi Antonello Boschi e Rosalia Vittorini. Il primo per le ripetute sollecitazioni a compendiare in forma monografica i progetti di riuso dell’antico ad opera dello studio MCM di cui lui stesso ha più volte scritto; la seconda per averli promossi presso il Ministero della Cultura nell’ambito del Censimento delle architetture italiane dal 1945 ad oggi

Infine, non mi è dato concludere questa breve nota senza aver esteso i miei ringraziamenti a Luigi Zordan, amico e collega prematuramente scomparso nel 2006, di cui ho cercato di raccogliere e coltivare con cura l’eredità scientifica e accademica nell’ateneo aquilano. A lui devo l’affidamento del corso di “Recupero e conservazione degli edifici” a partire dal 1999, anno successivo all’istituzione del corso di Laurea magistrale a ciclo unico in “Ingegneria Edile-Architettura” con riconoscimento europeo presso l’Università degli Studi dell’Aquila. È anche grazie al suo insegnamento che questo volume vede finalmente la luce. (R.M.)

Oltre l’immagine. Per un’etica del costruire

Riccardo Gulli

La tradizione italiana del recupero

Guido Montanari

Progetto e dettaglio: acciaio e materia antica

Andrea Campioli

Opere

Interpretazioni dell’antico, declinazioni del nuovo

Claudio Varagnoli

Castello Caetani

Trevi nel Lazio

Convento dei Frati Minori – Tribunale

Sora

Cartiera Lefebvre

Isola del Liri

Convento dei Frati Minori – Museo Archeologico

Sora

Lanificio Sangermano

Arpino

Piazza Mayer Ross

Sora

Sepolcreto dei Vescovi

Sora

Torrione Aragonese

Sora

Musei dell’acqua

Trevi nel Lazio – Vallepietra

Architetture per curare il mondo

Federico De Matteis

Apparati

Riferimenti bibliografici

La tradizione italiana del recupero

Il recupero del patrimonio costruito, sia esso di indiscusso valore storico artistico, sia di semplice interesse materiale e documentario, assume ai nostri tempi un’importanza che travalica la consapevolezza scientifica e diventa un’emergenza morale e civile. Di fronte agli effetti distruttivi dei cambiamenti climatici e alla crisi energetica, è sempre più necessario mettere fine al consumo di suolo,1 all’uso di fonti energetiche non rinnovabili e allo spreco di materie prime. Soltanto consapevoli interventi di progetto, manutenzione e riuso del territorio, possono rendere concreta un’attuale strategia di sostenibilità.

Appare quindi urgente e indispensabile il recupero e riuso dei manufatti abbandonati, tanto più se sono documenti di memoria, destinatari di riflessione critica, di memoria collettiva e occasioni di affinamento dell’approccio progettuale e tecnico. Tutelare e valorizzare il patrimonio del passato deve essere al centro delle preoccupazioni di chi si pone in senso critico di fronte agli interventi di pianificazione, che comportano il degrado delle risorse ambientali, paesaggistiche e culturali. Tali pratiche distruttive sono tuttora in corso, basti pensare al succedersi dei provvedimenti di sanatoria urbanistica, al continuo consumo di territorio naturale e agricolo, al non raro abbandono di preesistenze storico artistiche antiche e meno antiche, documenti dei processi di acculturazione di un territorio storicamente stratificato come il nostro.2

La rilettura di alcune opere dello studio MCM (Mario Morganti, Gianfranco Cautilli e Renato Morganti), a partire da problemi specifici di approccio culturale e tecnico, affrontati attraverso la volontà di assicurare non soltanto la conservazione dei manufatti, ma anche una loro fruizione pubblica, che ne garantisca nel tempo la sopravvivenza, si colloca sullo sfondo dell’intensa attività di recupero e restauro del patrimonio in Italia.

Le opere di riferimento sono collocate nel Lazio meridionale, nell’area della provincia di Frosinone, e si riferiscono al restauro di un castello medievale, di un convento trecentesco, di più manufatti industriali, all’adeguamento funzionale di una cattedrale e ad un intervento di riqualificazione urbana.3 Il restauro della Rocca Caetani (1984-1995) è incentrato sul recupero del manufatto antico, in funzione del programma di sviluppo turistico e culturale del comune di Trevi e del Parco Regionale dei Monti Simbruini, che prevedeva la sua destinazione a museo storico-archeologico e centro visite del parco. Obiettivo del progetto è dunque, non soltanto conservare le preesistenze, ma anche renderne possibile la fruizione pubblica, individuando nuovi spazi accessibili e i relativi percorsi di collegamento verticale e orizzontale. L’unica struttura di orizzontamento superstite, una volta a botte in pietra alla base della torre, è stata consolidata, mentre il recupero delle quote preesistenti è stato ottenuto con nuovi solai lignei, le cui travi si incastrano negli incavi originali, permettendo di ricreare alcuni ambienti dell’antico palazzo. Inoltre sono state riproposte le coperture e risarciti i profili di coronamento fino a riprodurre l’intero profilo della rocca medievale. Per il risarcimento delle lacune e delle terminazioni murarie è stato utilizzato lo stesso calcare spugnoso della fabbrica medievale, ma di due qualità e con pezzature leggermente diverse, per meglio adattarsi alla varietà di muratura riscontrata. La pietra è stata posata in leggero sottosquadro, per essere riconoscibile come elemento dell’intervento moderno. I nuovi collegamenti verticali sono assicurati da scale, rampe e passerelle in acciaio e legno, completamente sospese e indipendenti dalle strutture murarie preesistenti. Per tutti questi elementi funzionali sono scelti profilati in ferro, parapetti in vetro e, per la pavimentazione legno, griglie metalliche o travertino bocciardato

per le parti esposte alle intemperie. L’intervento si caratterizza per una non dissimulata forza del progetto che però si rende disponibile ad accogliere le esigenze della leggibilità e della valorizzazione del manufatto storico.4 L’attenzione all’inserimento dei nuovi elementi in completa autonomia dalle parti storiche, la riconoscibilità delle integrazioni, la reversibilità degli interventi, sono elementi di una filosofia del restauro, in rapporto alla valorizzazione economica e sociale della preesistenza, che si ritrovano anche in altri interventi. Il recupero dell’ex Convento francescano a Sora (1985-2005), complesso edilizio a lungo abbandonato nel centro storico della città, si basa sulla volontà da parte dell’amministrazione di individuare una nuova destinazione a tribunale, museo e altre funzioni pubbliche. Di fronte alla complessità del manufatto e all’eterogeneità dei processi di sedimentazione storica, i progettisti decidono di non privilegiare alcune fasi, ma di accostare alle diverse tracce del passato ancora leggibili gli interventi moderni, volutamente riconoscibili. Si tratta di elementi di consolidamento, di partizioni necessarie per identificare gli ambienti, di nuovi collegamenti verticali e orizzontali, del rifacimento delle coperture. I muri nuovi citano la struttura storica con i mattoni a vista, le rampe, le scale e le passerelle sono in metallo, sospese ad agili tiranti in acciaio, le coperture in coppi tradizionali, poggiano su una struttura portante a capriata in legno, integrata da tiranti in acciaio.

Anche il restauro della ex cartiera Le Febvre a Fibreno, Isola del Liri (1997-2002) si rivolge a un complesso a lungo abbandonato, un reperto di archeologia industriale destinato alla produzione della carta, sviluppata a seguito della presenza di numerosi corsi d’acqua, appositamente incanalati, fino alla cascata artificiale di 14 metri di altezza. Il complesso, adagiato al fondo di una forra, è l’esito di un processo di progressiva trasformazione industriale di inizio Ottocento, a partire dal riuso come manifattura del soppresso convento carmelitano, continuato con l’opificio, la costruzione di alloggi per i lavoratori e di una piccola chiesa, in forme neogotiche. La nuova destinazione d’uso a museo prevede la realizzazione di un nuovo accesso dalla strada, posta a quota di molto superiore rispetto al complesso, e l’individuazione di spazi e di collegamenti nuovi. Elemento focale dell’intero progetto è la passerella in acciaio che, citando il vicino ponte ferroviario ottocentesco, permette il nuovo accesso e la percezione dall’alto dell’intero complesso, sviluppandosi per più di 50 metri e affacciandosi nel vuoto come punto di vista anche della cascata del torrente Magnene.

L’ex lanificio Sangermano di Arpino (1996-2019), edificio industriale ottocentesco, già in parte destinato a residenza alla fine dell’attività produttiva, viene individuato dal Comune come opportunità per costituire un patrimonio di edilizia residenziale pubblica, gestito direttamente dall’Amministrazione, nell’ambito di un più ampio programma di rigenerazione delle aree urbane maggiormente degradate. Anche in questo caso il palinsesto delle successive trasformazioni del complesso è lasciato visibile. I collegamenti verticali e orizzontali vengono risolti con leggere scale e ballatoi in metallo che, come una sorta di promenade architecturale, permettono di percorrere tutto l’edificio e propongono spazi di socialità tipici della casa a ballatoio dell’edilizia residenziale ottocentesca.5

Con l’intervento di Piazza Mayer Ross a Sora (20062010) lo studio MCM affronta la riqualificazione dell’antico Orto dei minori conventuali, a ridosso del colle San Casto e Cassio, con l’obiettivo di ricucire un vecchio sventramento che aveva privato la città del suo rapporto con la montagna. La soluzione affronta temi di natura paesaggistica e architettonica. Sono disegnati nuovi percorsi veicolari e pedonali, prevista una sala polivalente semi ipogea e la sistemazione di una piazza verde. Le massicce murature contro terra riprendono le sedimentazioni storiche e riconnettono i nuovi manufatti al paesaggio naturale.

Le opere di adeguamento funzionale della cattedrale di Sora (2007-2019) comprendono l’individuazione di un percorso per persone di ridotta mobilità e la realizzazione del Sepolcreto dei vescovi. Il problema dell’accessibilità viene risolto ripensando l’ingresso dalla Torre Aragonese, un baluardo difensivo risalente al XV secolo, connesso all’edificio religioso. L’intervento prevede l’inserimento di un ascensore al livello inferiore, nello spessore della muratura, mentre al piano superiore lo sbarco e la rampa di accesso alla chiesa sono completamente a vista. Il battente esterno, i profili delle aperture e tutte le strutture a vista sono in acciaio corten, mentre il vetro caratterizza alcuni parapetti in modo da rendere percepibile al meglio il suggestivo spazio interno voltato. Anche qui è chiaro l’intento progettuale di evidenziare l’apporto moderno, autonomo rispetto al documento materiale storico, con il quale si pone in una posizione di dialogo. La Cappella del Purgatorio e il sottostante sepolcreto costituivano due ambienti sovrapposti, diversi per sistemi spaziali, apparati costruttivi ed elementi formali. Il progetto mira soprattutto alla ricomposizione degli spazi e all’eliminazione di tutte le superfetazioni, con la trasformazione di un luogo destinato ad

Guido Montanari

Opere

Perché credo che nella cruda realtà della costruzione si possa considerare con maggiore chiarezza la natura di un progetto, la consistenza delle idee. Credo fermamente che l’architettura abbia bisogno del supporto della materia; e che ciò che viene prima sia inseparabile da ciò che viene dopo. L’architettura arriva allorché i nostri pensieri su di essa acquistano quella condizione di realtà che solo i materiali possono conferirle. Solo accettando e patteggiando i limiti e le restrizioni che l’atto del costruire comporta, l’architettura diviene ciò che essa è realmente

Rafael Moneo, La solitudine degli edifici, Umberto Allemandi Editore, Torino 2004, p. 148.

Committente: Comune di Trevi nel Lazio

Restauro e allestimento museale

Progetto: 1984-2011

Costruzione: 1992-2013

Castello Caetani

Trevi nel Lazio

Sulle rovine di Trevi, capoluogo dell’antica Tribus Aniensis, devastata da un attacco saraceno nell’839 d.C., fu realizzato un caposaldo difensivo che rese la città inattaccabile per molti secoli. Nel 1111 la rocca fu scenario di uno tra i più bui episodi della storia del papato, quando Enrico V vi imprigionò papa Pasquale II per il tempo necessario a ottenere l’accettazione delle imposizioni imperiali. Nel 1200 con la concessione del feudo di Trevi da parte del papa Alessandro IV al nipote, il castello fu attaccato e parzialmente distrutto dal signore di Jenne. Con papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, nel 1297 lo stesso feudo passò nelle mani della sua famiglia; sotto questa lunga reggenza, durata fino al 1471, il presidio fortificato divenne il principale caposaldo della linea difensiva posta lungo la via Latina.

La rocca, realizzata su un banco di roccia affiorante di calcare spugnoso tipico del luogo, ha un impianto quadrangolare e occupa un’area di circa 800 mq. Costruita come propaggine materiale del sito su cui sorge, era costituita da una cerchia muraria

che racchiudeva al suo interno tre corpi di fabbrica: la massiccia e svettante torre quadrata, isolata al centro della corte, un corpo basso addossato sul fianco nord del recinto e un palatium a ovest. L’ingresso principale, costituito da un grande arco a sesto acuto, era posto su questo lato della cinta muraria, mentre quello secondario a nord, mediante una rampa in pietra, assicurava l’accesso al cortile.

Di proprietà del monastero di Subiaco, il Castello Caetani è abbandonato all’inizio dell’Ottocento e a metà degli anni Ottanta, quando si avvia il suo progetto di recupero e valorizzazione a sede del Museo storico-archeologico dell’alta valle dell’Aniene, si trova allo stato di rudere. Del palinsesto difensivo rimangono le sole strutture murarie del maschio e del recinto cui si aggiunge il ritrovamento, nelle fasi preliminari di studio e rilievo, di una cisterna romana, scavata nella roccia, perfettamente integra.

Il progetto ha inteso ricostituire un’organicità spaziale e funzionale del complesso fortificato rispetto alla consistenza fisica residuale attraverso una

A destra dell’ingresso, nello spazio a doppia altezza che ospita la biglietteria, è collocata una scala in acciaio e pietra che consente l’accesso ai servizi come pure al percorso che conduce al mastio attraversando il cortile; una porzione di questo spazio è allestita a museo che si prolunga nella torre.

Castello Caetani
Pianta Primo Piano
1. Vuoto sulla biglietteria; 2. Servizi; 3. Sala conferenze; 4. Corte interna; 5. Cisterna.

Committente: Comune di Sora

Restauro e consolidamento

Progetto: 1985-1994

Costruzione: 1986-2005

Convento dei Frati Minori – Tribunale

Sora

Di fondazione medievale, il Convento di San Francesco si colloca all’interno della tradizione costruttiva dei monasteri francescani, ma i numerosi interventi che lo hanno riguardato nel corso dei secoli, hanno comportato notevoli modifiche all’impianto originario, come evidente nell’assetto attuale che si presenta complesso e fortemente stratificato. Dopo il terremoto del 1654 l’edificio subisce, infatti, un’importante trasformazione con l’accorpamento di una parte del tessuto edilizio circostante e l’integrazione di un secondo cortile. Alla fine del ’700 la Chiesa viene ceduta a una confraternita e il Convento al Comune di Sora che lo destina a sede amministrativa. Agli interventi della seconda metà dell’800 seguono i lavori di restauro successivi al terremoto del 1915 che non ne scongiurano però una fase di abbandono, protrattasi per larga parte del XX secolo.

Agli anni Sessanta del ’900 risale un capitolo importante delle vicende del convento, quando si palesa l’ipotesi di ospitare al suo interno la

pretura e se ne affida il progetto a Emanuele e Gianfranco Caniggia. La proposta dei due architetti romani di una totale ricostruzione, che avrebbe comportato un’inevitabile cesura della storia secolare dell’edificio, rimane senza esito. Nella prima metà degli anni Ottanta matura l’opportunità di recuperare il complesso architettonico. La struttura occupa uno degli isolati di maggiore consistenza tra quelli che costituiscono il tessuto edilizio del centro storico e mostra un’estrema varietà di caratteri spaziali e morfologici nonché una notevole diversità di elementi e soluzioni costruttive. La forte connotazione di frammentarietà ed eterogeneità del convento si pone a premessa del progetto di recupero che assegna all’antico complesso una duplice destinazione d’uso a carattere pubblico, quella di sede degli Uffici Giudiziari e quella di Museo della Media Valle del Liri, secondo un programma temporalmente distinto. Sin da subito gli indirizzi progettuali si pongono in contrapposizione con quanto anni prima era stato proposto dal

I muri crollati sono stati ricostruiti in mattoni faccia a vista a favore di una soluzione che facilita la messa in evidenza dei nuovi codici tecnici, estesi anche alle coperture, che assecondano la complessità e la frammentarietà dell’impianto rafforzata dal contrasto con le morbide geometrie e il contenuto sviluppo in altezza delle partizioni interne introdotte nel piano di sottotetto.

Convento dei Frati Minori – Tribunale

Committente: Comune di Sora

Restauro e consolidamento

Progetto: 1985-2008

Costruzione: 1986-2008

Convento dei Frati Minori - Museo Archeologico

Sora

Il progetto del Museo della Media Valle del Liri che insieme agli Uffici Giudiziari, viene realizzato nel complesso conventuale dei Cappuccini, rimanda a una logica d’intervento unitaria, seppur differita nel tempo. In continuità con la strategia conservativa già adottata nella prima fase del programma di recupero, il progetto reinterpreta la medesima condizione di frammentarietà ed eterogeneità del palinsesto architettonico e l’assume come criterio logico cui ricondurre le scelte connesse alla destinazione funzionale degli spazi e alla definizione di congruenti modelli d’uso, entrambi ispirati non a criteri di riordino ma a ricercate modalità di riconnessione interstiziale di spazi, accessi e collegamenti. La configurazione della struttura museale definisce itinerari in grado di restituire tale intenzionalità in una precisa suggestione, come chiaramente riportata dai progettisti: «Percorrere oggi l’interno dell’antico convento è un’esperienza che richiama l’idea del labirinto: le numerose cellule spaziali delle sale e dei chiostri si accostano a formare un tessuto inestricabile di cavità inanellate l’una nell’altra. L’alternanza e la successione di spazi di diverse forme e dimensioni, ora luminosi, ora in penombra, voltati o coperti a solaio, rendono il tragitto del visitatore una sequenza di percezioni

aperta al casuale e all’imprevisto». L’itinerario del museo è definito su due diversi registri narrativi, che trovano un’attivazione temporale disgiunta ma coerente cui si affida la possibilità di un rinnovato rapporto tra testo e racconto, tra contenitore e contenuto. Questi segnano il percorso espositivo secondo episodi unici e singolari che sperimentano le potenzialità connesse all’uso del materiale metallico con modalità di ibridazione in grado di assicurare il rispetto e la comprensione delle diverse condizioni di contesto. Il primo affida ad una riconnessione spaziale la possibilità di rileggere la complessità stratigrafica del palinsesto urbano a partire dall’esterno dell’isolato con la sistemazione dell’area archeologica e l’inserimento della passerella che anticipa nella soluzione progettuale e tecnica il tema dei percorsi e dei collegamenti interni.

La passerella strallata, utile ad assicurare la piena accessibilità del museo, attraversa l’area archeologica e definisce con essa una relazione di sola fruizione visiva rimandando fuori dal contesto repertuale ogni altra possibile e necessaria condizione di vincolo e connessione che viene invece trovata in prossimità del varco d’ingresso. Qui ai due ritti metallici, posti a segnare l’accesso, sono collegati i tiranti inclinati che proseguono all’esterno al di sotto delle sottili travi calastrellate

Di fronte al frammento di maggiori dimensioni dell’altare modanato con cui si apre il percorso espositivo della sala dedicata alla prima e seconda colonizzazione romana, è sistemato il donario in pietra formato da due valve e terminante con un cappuccio bronzeo inciso in sommità per l’introduzione di monete preludio della statuaria, punto focale della seconda colonizzazione.

(struttura: profilati cavi 40x40x2 mm; rivestimento: lamiera in corten ossidata e trattata con vernice trasparente s=1,2 mm, piatto in acciaio corten 50x8 mm)

3. Lastra in pietra di basalto lavorata (s=120 mm)

4. Supporti in lamiera sagomata in corten (s=10 mm)

dei Frati Minori – Museo Archeologico
1. Busti di statue di loricati
2. Pannello

Committente: Parrocchia di S. Maria Assunta, Cattedrale di Sora Riuso e miglioramento sismico

Progetto: 2005-2006

Costruzione: 2006-2007

Sepolcreto dei Vescovi Sora

Posta in prossimità del monte San Casto, la cittadella vescovile di Sora comprende oltre alla Cattedrale, il Vescovado e il Seminario, con un’estensione di circa 4000 mq. Legata alle vicissitudini della città il complesso religioso, nei suoi circa 900 anni di storia, è oggetto di diversi processi trasformativi che finiscono per alterare i caratteri originari dell’impianto architettonico e la sua complessiva immagine. Alla fine della prima metà del ’600 gli spazi della Cattedrale sono riconfigurati sulla base di nuovi codici architettonici: la navata centrale, di cui si ringrossano pilastri e archi ogivali, è riproporzionata in altezza dall’inserimento di un controsoffitto a cassettoni e modificata percettivamente nel suo invaso spaziale dalla luce proveniente dalle finestre aperte lateralmente.

Agli inizi del ’700 l’impianto della chiesa e gli spazi esterni sono oggetto di ulteriori trasformazioni; un avancorpo, contenente il “Coro d’Inverno” e il Battistero, è aggiunto sul fronte principale, mentre un altro edificio, giustapposto

lateralmente come contrappunto alla torre aragonese, è destinato a ospitare la Cappella del Purgatorio.

Successivamente ulteriori accrescimenti volumetrici, come la più tardiva costruzione di un magazzino interposto tra torre e cappella, modificano completamente il fianco della cattedrale connotato, per una lunghezza libera di 36 metri, da una muratura in opus quadratum, a metà tra il tipo romano arcaico e quello greco, apparecchiata da blocchi in pietra calcarea del tipo poroso con alternanza di diatoni e ortostati.

Anche la storia dei restauri di tutto il complesso vescovile, che segue l’ultimo devastante incendio del 1913, risulta altrettanto lunga. Iniziata infatti nel 1916, proseguita fino al 1970 con gli interventi dell’ingegner Marta e il rinvenimento di reperti archeologici negli spazi sottostanti la scalinata di accesso, è ripresa nel nuovo millennio con il parziale riordino dell’accessibilità della chiesa e del campanile. A quest’ultimo programma di valorizzazione del complesso monumentale può essere ricondotto l’intervento di

Le otto tombe si costituiscono come primario elemento di riordino dello spazio rafforzato dal contrasto materico tra antico e nuovo, tra la caoticità dell’apparecchio murario romano e la regolarità geometrica imposta dalla misura delle sepolture.

Sezione A-A

Architetture per curare il mondo

In una recente intervista pubblica sul magazine online Places,1 l’architetto e docente spagnolo Jorge Otero-Pailos si interroga su un problema cruciale della formazione contemporanea dell’architetto: ha ancora senso insegnare il progetto come pratica combinatoria e additiva, in maniera simile a come si è iniziato a fare all’indomani della Rivoluzione Industriale? La nascita della figura contemporanea dell’architetto, sostiene Otero-Pailos, trae la sua origine esattamente da questo momento seminale della storia recente dell’umanità. A partire dalla metà del secolo XIX, le industrie europee prima, statunitensi poi, globali infine, hanno iniziato a produrre instancabilmente componenti edilizi, che l’architetto doveva poi imparare ad assemblare. È il modus operandi sotteso a tutti i movimenti di avanguardia del primo Novecento, dalla Bauhaus all’Esprit Nouveau, dal Neues Bauen al MIAR, una pratica che struttura tutt’oggi, con poche innovazioni, il nostro fare, insegnare, apprendere l’architettura.

Ma qualcosa non torna: l’epoca che viviamo oggi è quanto mai difforme dall’era a cui possiamo ricondurre le cause prime di questo modo di fare. Basta osservare la demografia del pianeta Terra: se il principio dell’impennata della crescita antropica può ricondursi proprio alla Rivoluzione Industriale, con un’estrema accelerazione a partire dal Secondo Dopoguerra, le proiezioni odierne ci raccontano una storia del tutto diversa. Secondo molti studi, la popolazione umana sta per raggiungere il suo picco, in un momento stimato entro i prossimi 50 anni:2 inizierà poi una riduzione con un tasso che, pur difficile da pronosticare con esattezza, plausibilmente riporterà la popolazione del pianeta a livelli preindustriali nell’arco di appena una decina di generazioni. Possiamo dunque immaginare di stare entrando in una nuova età delle rovine.

Quanto afferma Otero-Pailos si rivolge esattamente a questa dinamica futura, ormai nemmeno più così

lontana nel tempo: ha ancora senso considerare l’architettura come l’incarnazione del paradigma moderno della crescita infinita, figlia dell’era industriale, se siamo destinati a diventare i “custodi” di una terra desolata? Chi avrà ancora necessità di costruire, se non ci sarà più nessuno per occupare e utilizzare gli spazi nuovi?

Una prospettiva analoga viene proposta dalla geografa britannica Caitlin DeSilvey, che nel suo libro del 2017 Curated Decay: Heritage Beyond Saving riflette sull’impossibilità materiale di prendersi cura di “tutto” il gigantesco patrimonio che l’umanità ha prodotto e accumulato nell’arco degli ultimi due secoli. Se l’istanza fondamentale – il Bauen, “costruire”, di cui ci parla Heidegger – è quella di crescere sottomettendo la terra, come possiamo anche solo concettualizzare l’idea contraria, ovvero quella di lasciar andare le cose, “disabitando” il mondo? Chi potrà prendersi cura del nostro patrimonio, se nel futuro che ci attende non vi saranno più risorse – né economiche, né materiali, né tantomeno umane – per condurre a termine questo lavoro di paziente manutenzione?

Questo scenario può apparire desolante, anche distopico, ma lo è soltanto nella misura in cui non consideriamo quale fattore dell’equazione alcuni dei punti critici del mondo contemporaneo, che secondo molti è “danneggiato”: la crisi ambientale, nelle sue innumerevoli manifestazioni; la scarsità di risorse, persino le più elementari come l’acqua, l’aria o la stessa luce; il moltiplicarsi di conflitti, che in molti casi deriva proprio da condizioni di scarsità. Una ridotta presenza umana sul pianeta – fenomeno che di certo non si presenterà privo di problemi –potrà forse però fornire una maggiore garanzia di sopravvivenza alla nostra specie sul lungo periodo.

Curare

Che cosa comporta, dunque, questo quadro futuro per chi studia, insegna, pratica l’architettura? Per

certi versi dovremmo semplicemente “tirare i remi in barca”, riconoscendo con umiltà che di chi fa questo mestiere non vi è – e non vi sarà in futuro –più bisogno. D’altro canto, appare invece sempre più pressante la necessità di immaginare una figura diversa e per molti versi nuova: “l’architetto come curatore”. Al che non possiamo che rimboccarci le maniche, mettere da parte la vaga malinconia per l’immagine di un mondo futuro un po’ deserto e capire come il progetto possa divenire uno strumento differente rispetto a quello che conosciamo ora, più utile – e per certi versi più intelligente.

Questa lunga premessa, sia chiaro, non è posta qui a caso, ad anticipare alcune considerazioni sullo studio MCM: si aggancia con molta chiarezza a quanto questi professionisti sensibili e colti hanno portato avanti, con coerenza e determinazione, nei numerosi interventi di recupero. Per certi versi, questa figura prossima-ventura dell’architetto come curatore già esiste, è già all’opera: MCM ne sono un’incarnazione, dotata di ben specifiche caratteristiche.

Di quali capacità dispone questo architettocuratore? In che maniera si differenzia e distanzia da chi invece di occupa di costruire il nuovo, ma anche di restauro o conservazione? Che cosa dunque “cura”? Le domande sono molte; altrettante, e molteplici, le risposte. Curare non significa conservare, nel senso brandiano nel termine: le architetture di MCM ne sono evidente riprova. “Conservare” significa, in estrema sintesi, lavorare fra gli interstizi, nello spazio spesso scomodo e ristretto che rimane libero a seguito della attribuzione “istituzionale” dell’etichetta di “patrimonio”. Etichetta di certo agognata, dato che in molti casi prelude allo sviluppo culturale-turisticoeconomico di un bene storico, come del luogo e della comunità che lo ospita; ma altrettanto temuta, in quanto richiede una sorta di “passo indietro”.

L’architetto, in questi casi, spesso inizia a muoversi come un gambero, percorrendo la freccia del tempo a ritroso, andando a scovare degli illusori piani temporali antichi, che precedono i processi di danno o degrado, rimuovendo chirurgicamente ciò che viene considerato lesivo di una presunta immagine “autentica”, e possibilmente circondando il tutto da prati ben tagliati. La conservazione, pratica certo non priva di aspetti controversi, è ciò che consente al patrimonio di apparire proprio come deve apparire, come tutti ci aspettiamo che appaia.

L’architetto-curatore, per certi versi, non ha la vita altrettanto facile. Non può limitarsi a dire: torniamo indietro, restituiamo il bene (architettonico) ad una condizione di integrità-autenticità-pulizia.

Deve necessariamente assumere delle decisioni a monte, spesso in un non facile groviglio di attori e burocrazie, per giungere in ultima istanza a definite, ab origine, il da farsi. Il che potrebbe comportare l’introduzione di nuove forme architettoniche, nuove attività, oppure anche la conservazione, o ancora un cocktail ben miscelato di queste due, se non addirittura – fatto da noi raro – la rimozione di qualcosa. Ma si potrebbe anche decidere – e in questo l’architetto-curatore differisce dal conservatore – che in alcune circostanze non si debba fare nulla: si può quindi pensare di “lasciare andare”. La responsabilità di questa figura, dunque, è molto maggiore rispetto a quella di chi – in un certo senso semplicemente – riceve il mandato di conservare per le generazioni future. “Curare” significa, innanzi tutto, decidere il futuro stesso di un oggetto, di un edificio, immaginandone – spesso rocambolescamente – il destino ultimo.

Identità

Che la pratica dell’intervento sull’esistente abbia se non un primato almeno una primogenitura italiana è fatto abbastanza noto. Se nel corso del Secondo Novecento il recupero sia progressivamente divenuto patrimonio del saper fare degli architetti in giro per il mondo, in Italia lo si pratica già dal Rinascimento: nel riminese Tempio Malatestiano Leon Battista Alberti certo non ragionava sul restauro di un oggetto antico, semmai sul riutilizzo – tanto pragmatico quanto simbolico – di un’architettura realizzata dai padri. Il recupero nasce, certo più che la pratica del restauro, dal “culto” per le rovine, anch’esso invenzione rinascimentale: il quasi naturale esito dell’abitare in un paesaggio che, dopo la caduta dell’Impero Romano, era costellato di frammenti spesso inspiegabili, tanto inutili quanto affascinanti, capaci di far “sentire a casa” i nostri progenitori. Questo era (e per molti versi è ancora) il paesaggio italiano e non di altri: i frammenti potevano essere recuperati e riutilizzati, spogliati e ricostruiti, risemantizzati o semplicemente ignorati. Ma quasi sempre si trattava di un toccarli in maniera leggera, gentile, perché ciascun architetto, da Alberti in poi, riconosceva in questo paesaggio qualcosa di sé stesso.

Fra alti e bassi, momenti di maggiore interesse e altri quasi di fastidio, la pratica molto italiana dell’intervento sull’esistente è giunta sino alla contemporaneità, diventando patrimonio condiviso del saper fare.3 Gli interventi di MCM descritti in questo volume mostrano di avere ben chiara la “lezione” sviluppata da Albini, Canali o Scarpa, il cui lavoro di architetti ha spesso agito recuperando

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