Indice 7 Introduzione 11 Dialogo sull’insegnamento dell’architettura Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin, Luigi Snozzi
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Note sulla formazione e l’apprendimento Giorgio Peghin
Introduzione Questo dialogo è nato ad Alghero in occasione di un seminario per gli studenti del primo anno di architettura da Pierre-Alain Croset e Luigi Snozzi1. Abbiamo discusso di formazione, di architettura, di strumenti per la didattica, riflettendo sulla condizione del progetto e sul suo ruolo pedagogico. Il progetto, parafrasando Daniel Defoe sulla costruzione della torre di Babele, è «un’impresa molto vasta, troppo grande per essere controllata e per questo destinata, con molta probabilità, ad approdare nel nulla»2. Il pessimismo di Defoe sembra colto anche da Luigi Snozzi, che chiude questo incontro affermando che «l’architetto si confronta in ogni progetto con un luogo, sia esso città, campagna o natura. Questo è difficile da insegnare agli studenti, molto difficile». Una frase che esprime il senso dell’insegnamento dell’architettura, cioè il difficile compito di trasmettere non tanto gli strumenti tecnici della disciplina ma il segreto del saper progettare, la capacità di sviluppare l’idea e di interpretare, con la cultura, la modificazione del nostro ambiente. Abbiamo affrontato argomenti che spaziano in 1. Conversazione tra Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin e Luigi Snozzi registrata il 24 ottobre 2014 ad Alghero. 2. Defoe Daniel (1692), Sul progetto (tit. or. Essay upon Project), in Tomàs Maldonado (a cura di), Electa Editore, Milano, 1983, p. 27.
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tutte le componenti disciplinari, consapevoli che la pratica del progetto si confronta oggi con una progressiva complessità del sapere ed una sua frammentazione in tanti specialismi: alcuni temi riflettono sulla possibilità di condividere una base teorica e pratica; altri si interrogano sui conflitti tra pensiero pratico e pensiero teorico, tra specializzazione e universalismo; altri ancora affermano la necessità di un’educazione all’arte e all’architettura che non sia “terra di nessuno” dove tutto è permesso. Questioni che il testo affronta in maniera non sistematica o dottrinale ma guardando ad una rinnovata pedagogia per l’educazione all’architettura. Si sviluppa così un racconto che si dipana nell’esperienza diretta e personale, consapevoli della natura effimera di queste divagazioni, in un tempo in cui non è possibile dire niente di definitivo e permanente, in cui l’instabilità epistemologica fa percepire il futuro come qualcosa di indefinito3. Si ha la consapevolezza, in una simile situazione, che l’architettura non muove più l’interesse dell'uomo della strada, dell’intellettuale o del politico, estranei alla complessa dialettica che vede coinvolti architetti, tecnici e ingegneri sul futuro del loro ruolo. Le necessità estetiche e del pensiero, che in passato sono state interpretate dagli intellettuali, e tra questi dagli architetti, trovano risposta nelle infinite 3. Edgar Morin parla di questa perdita del futuro come di «una inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra, da una parte, i nostri saperi disgiunti, frazionati, compartimentati e, dall'altra, realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari»; cfr. Morin Edgar, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001, p. 35.
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varianti e modalità della comunicazione di massa, oggi più che mai accessori della nostra quotidianità. Quando questo fenomeno non era del tutto definito e si manifestava come una delle possibili condizioni sociali, Theodor W. Adorno evidenziò il meccanismo di controllo sociale ed il pericolo dell’omologazione. Oggi, la grande disponibilità di informazioni e di scelte che la rete offre sembra escludere questo pericolo, anche se rimane in fondo l’idea che il fluire temporaneo ed effimero di questa nuova conoscenza “liquida” possa originare una formazione ed informazione poco consapevoli. Il meccanismo di controllo sociale si è sempre espresso nelle teorie educative: formare/deformare può avere lo stesso significato se assoggettata all’ideologia della globalizzazione. Riflettere sull’insegnamento è, quindi, un modo per ribadire un’idea di libertà dalle consuetudini imposte, dai modelli dominanti, dall’apparente inevitabilità della perdita di riferimenti, costanti ed universali, che hanno formato generazioni di architetti, nella consapevolezza che non l’individualismo è la chiave della nostra libertà, ma la condivisione di idee, principi e azioni.
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Dialogo sull’insegnamento dell’architettura Pierre-Alain Croset Giorgio Peghin Luigi Snozzi
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Giorgio Peghin. La formazione dell’architetto si è modificata in modo profondo, messa in crisi dalla fine del pensiero razionale e moderno che ne garantiva uno statuto comune e un corpus di strumenti e conoscenze condivisi. Una situazione analoga si era osservata con la crisi del dispositivo regolatore degli ordini architettonici e rispetto alla quale seguirono cambiamenti radicali nel modo di trasmettere i principi della disciplina. Veniva messa in discussione, con le avanguardie del movimento moderno, la centralità della storia; veniva azzerata la tradizione e i suoi codici espressivi. Eppure, nell’insegnamento dell’architettura, non possiamo prescindere dal materiale storico, dalle teorie e dai progetti che si sono conformati nel tempo come riferimenti stabili e universali e che valgono, oggi come ieri, come fondamenti per l’architettura. Come possiamo trasmettere questo corpus di conoscenze innestandolo in nuove forme d’insegnamento ed efficaci strumenti didattici? Gli studenti, soprattutto nei primi anni della loro formazione, sono all'oscuro delle complesse articolazioni che reggono i rapporti tra forma, costruzione, luogo, storia. Percepiscono l’architettura sulla base di un forte condizionamento della “retro-cultura” costruita sull’immagine e sul valore superficiale della forma, come avviene in altri campi dell’apprendimento. Oggi, gli strumenti per la diffusione del sapere disciplinare non sono più le riviste di architettura ma il grande deposito digitale di immagini e progetti della rete. È un sapere generico, effimero, continuamente cangiante e questo incide anche sulla
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Adolf Loos, Disegno per il concorso della sede del Chicago Tribute, 1922 (Albertina Museum, Vienna)
difficoltà di comunicare la cultura e gli strumenti del progetto – dal disegno alla storia alle regole della composizione – che sono, al contrario, il prodotto di una sedimentazione lenta e di lunga durata. La brevità del tempo disponibile per la didattica, infine, impone rinunce alla completezza del sapere architettonico. Mi sembra interessante ragionare su questi temi con Luigi Snozzi, architetto che per anni ha insegnato al primo anno delle facoltà di architettura, e Pierre-Alain Croset, docente, architetto, critico e storico. Due modi differenti di insegnare l’architettura ma che condividono alcuni principi, come quello della centralità del progetto e del ruolo dell’architetto come figura necessaria nella trasformazione del nostro ambiente fisico. Luigi Snozzi. Io farei una prima distinzione. Una cosa è insegnare in Italia, una cosa è insegnare in Svizzera. Malgrado la preparazione culturale sia migliore – se parli di Palladio in Svizzera non sanno neanche chi è – insegnare al primo anno in Italia è quasi impossibile. Insegnare in Svizzera ed in altri paesi è più semplice, nonostante una distinzione tra paese e paese, perché c’è in fondo una conoscenza dell’architettura moderna più diffusa che non in Italia. In Italia ti guardi in giro ed è un disastro. Nei nostri comuni, nonostante tutto – il piccolo comune di Monte Carasso è un caso particolare – conoscono qualche rudimento di architettura, c’è una consapevolezza dell’architettura. Qui in Italia è impossibile, non c’è nessun rapporto, e mi immagino che un giovane abbia delle difficoltà enormi.
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Office Building, 1941/1942, Hendrich-Blessing, Chicago (Casabella, n. 651/52, dicembre 1997/gennaio 1998, p. 81)
Insegnare l’architettura
Note sulla formazione e l’apprendimento Giorgio Peghin Il presente è diventato egemonico. Eppure, la storia è un continuo determinarsi di rapporti tra ciò che appartiene alla tradizione e ciò che anticipa il futuro. La storia non si trova mai, in una di queste fasi, allo stato puro. Michel Foucault aveva descritto questo processo come «un campo a doppio valore; ogni elemento che vi si trova può essere caratterizzato come vecchio o nuovo; inedito o ripetuto; tradizionale o originale, conforme a un tipo medio oppure eccentrico»1. L’intreccio tra vecchio e nuovo, la lenta accumulazione del passato e la sedimentazione delle cose – dove spesso perde importanza anche l'identità del loro autore – la presenza simultanea tra ciò che è nuovo e ciò che non lo è, consentono di vedere l’educazione come la storia. L’educazione non è mai un indefinito accumulo di conoscenze, anche quando tende alla conservazione 1. Foucault continua così questo pensiero: «si possono distinguere due categorie di formulazioni; quelle, valorizzate e relativamente poco numerose, che compaiono per la prima volta, che non hanno antecedenti simili a loro, che eventualmente serviranno di modello alle altre, e che in questa misura meritano di passare per creazioni; e quelle, banali, quotidiane, massive, che non sono responsabili di sé e che derivano, a volte ripetendolo testualmente, da ciò che è già stato detto»; Foucault Michel, L’archeologia del sapere, Rizzoli Editore, Milano, 1971, p. 186.
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