Maria ScarfĂŹ Cirone
Il Garofano di Sabbia
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IL GAROFANO DI SABBIA Maria Scarfì Cirone
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IL GAROFANO DI SABBIA Maria Scarfì Cirone
Libro a cura di: Maria Scarfì Cirone Testi: Maria Scarfì Cirone Crediti fotografici: Maria Scarfì Cirone Ringraziamenti: Angioletta Cirone Francesco Melgari Cassa di Risparmio di Savona Copertina di: Francesco Melgari Coordinamento editoriale: Lizea Arte Edizioni Stampa: Litografia Li.Ze.A. - Acqui Terme (AL) Finito di stampare nel mese di settembre 2015 © Copyright - tutti i diritti riservati L’autore resta a disposizione per eventuali aventi diritto che non è stato possibile contattare
Lizea sas - Via S Lazzaro, 16 - 15011 Acqui Terme (AL) Tel. 0144 57404 - www.edizioni.lizea.com
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Al cuore splendido della mia famiglia
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Presentazione
Desidero subito dire perché è bello questo libro di Maria. Perché dice come è bella la vita. Guardando quanto ha percorso, visto, conosciuto, udito, Maria ha potuto estrarre queste pagine da un insieme di memorie che non è certo un deposito di fatti accaduti e finiti. Qui non si tratta di guardare indietro e di rivedere semplicemente un archivio cartaceo o fotografico. Si tratta piuttosto, del lavoro di estrazione, di raccolta, di un materiale che, direi, si trova ancora in natura: visibile, sovrapponibile; tangibile, più che pensabile. E’ il materiale che già lei, amabile raccoglitrice di carte, fogli, libri, pitture, ceramiche, sognava e pregustava, quando ella stessa racconta che con il suo Pino, si apprestava a mettere insieme un patrimonio di ricordi per se stessi e per i figli. In mezzo a compagini familiari, sociali e persino urbanistiche spesso prevedibili e caratterizzate dalla freddezza, dalla fretta, dall’aggressività, Maria si ferma a riflettere non solo su quanto l’ha circondata; ma su quanto la circonda e ci circonda ancora. Perché, scopriremo, i suoi ricordi impressi sulla carta non sembrano affatto quegli opachi ricordi, spesso destinati a sbiadire dalla stessa mente di chi li conserva; ma sono interviste e dialoghi con le persone di cui parla, prodigiosamente vive, luminosamente attive, in particolare per la presenza intorno a noi e nel nostro animo, di tante loro opere plastiche e letterarie che per numero e per qualità costituiscono un autentico prodigio. Quanto è bello non solo il libro ma anche il mondo, spiegano queste pagine, e come è pieno di emozioni. Qui, come
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se stessimo a contemplare le immagini di una macchina da presa, ci appaiono vivide le figure di uomini e donne in grado di dipingere, scrivere, riunirsi, parlare, confrontarsi, emozionare. Uomini e donne capaci di lasciare tracce indelebili come i dipinti, gli articoli, i libri, le pellicole, spesso mediati da sguardi lampeggianti, da occhi magnetici (come quelli di Esa d’Albisola) e ridenti (Milena Milani), da voci tonanti (così pare a Maria quella di Franco Assetto), da ire mitiche, da sorrisi accattivanti. E come potevano essere altrimenti persone quali Virio da Savona, Lucio Fontana, Aligi Sassu, Lele Luzzati, Adriano Grande, Enrico Bonino, Tullio d’Albisola, Wifredo Lam, e tutti gli altri grandi di cui si parla nel libro? Persone che sono prepotentemente ritornate in mezzo a noi grazie alla “lunga” Mostra di Savona che ha come richiamato sulla costa i grandi nomi, protagonisti della vita culturale italiana per alcuni decenni, fra cui non poteva mancare un grande regista di vita e di arte, il nostro caro Pino Cirone, la cui immagine radiosa e protettiva ci ha felicemente illuminato e guidato. Una Mostra che trasferisce ancora una volta con veemenza la loro visione nel mondo. Maria ha deciso di restituire agli altri quel patrimonio di intelligenza e talento che loro possedevano e che lei ha già conosciuto: la parola stessa, i sentimenti di queste persone straordinarie; persino l’analisi emozionale e storica di quanto abbia potuto fare da humus allo sviluppo della meravigliosa avventura umana di creature privilegiate; privilegiate perché dotate di capacità naturali e di volontà caparbia: lo studio e le percezioni, gli incontri, le case, la decisione, la forza di operare. Ho parlato di case, di incontri. Perché, scopriremo, un denominatore comune passa innanzitutto attraverso tutte queste storie, ed è il luogo dove esse o parte essenziale di esse si svolsero. E
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non dico una parola vana, se per questo luogo menziono una sorta di Paradiso terrestre; o meglio, alla Milton, un Paradise Regained perché riconquistato, voluto. E questo Paradiso si chiama Albisola. E’ stato detto con molta proprietà, che raramente sotto al cielo fioriscono geni e artisti che vedono la luce o trovano ricetto nella stessa epoca e nello stesso luogo. L’Atene antica, la Firenze rinascimentale sono gli esempi più menzionati. Ma ecco che Maria afferma e rilancia il nome di Albisola. Non è certo accostamento nuovo, quello che faccio e che lei pure evoca, dal momento che i protagonisti stessi di un’ “epoca d’oro” fiorita sotto al “grande sole” che la illumina, ne erano ben coscienti. Tanto che Milena Milani ebbe a denominare “una piccola Atene” la città ligure dove si riunivano letterati, poeti, pittori, scultori, percorsa dal profumo del mare come da una linfa primaverile, porto accogliente come la patria di Nausicaa e capace di far innamorare quale sirena (lo sapeva bene Carlo Cardazzo), e dalle cui fornaci usciva “un patrimonio infuocato” di ceramiche d’arte destinate a trasmettersi negli altri luoghi della Terra. Sì, il mare di Albisola sembra che abbia mandato riverberi continui a quanti si avvicinavano alle sue spiagge, alle sue feste con i falò notturni, ai pranzi omerici nelle case a poca distanza dalla riva. Quelle serate che vedevano protagonisti autentici cantori e bardi e poeti, quasi avvezzi ad altre fornaci, alle officine di Vulcano dove si forgiava lo scudo stesso per l’eroe dell’Iliade. Oppure alla solennità delle chiese, agli esempi altissimi, emulati da Virio da Savona, il pittore che nel suo Cenacolo ha come fotografato gli amici artisti e intellettuali: coloro che sono degni di memoria, figura, amore e che egli riproduce puntualmente in un’opera emozionante eppure familiarmente sempli-
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ce e spontanea. Un Cenacolo vivido che rammenta il tavolo dei misteri e delle grandezze, dove prendono forma le parole e si trasformano in arte mentre coloro che le pronunciano si trasfigurano in terrene divinità. Quanto tutto questo appare mirabile, se pensiamo che queste feste, questi incontri, queste conversazioni, queste capacità, si celebravano all’indomani di una guerra di cui fin troppo sappiamo, dura e lunga quasi si trattasse della impresa di Troia ma senza i suoi eroi. Come ai tempi del Direttorio e del Primo Impero, uomini e donne, dopo aver sfiorato mille pericoli, scoprono la voglia di vivere, e di diffondere intorno a sé la bellezza della vita. Ma proprio per questo comune trascorso, Maria non va alla ricerca di stupori o di incantesimi. Il bosco che percorre non è pieno di fate e di fiori; e forse ancora affiorano i ricordi di pericoli e lupi: per molti, le belve che attentano alla loro vita e che si mostrano sotto l’aspetto di povertà, sacrifici, bombe, come accadde a Mario De Micheli. Per altri, ci sono ancora le immagini dell’insicurezza che sconfina nel malessere vitale, come quella “malattia dentro di me” , la depressione, la paura di non farcela, di cui parla Asger Jorn. Qui si ride, si parla. Nessuno però canterebbe Je suis Titania: nessuno, si scopre, ha la capacità di apparire sulla scena di un pubblico raffinato come quello dell’eroina di Thomas che gestisce una bacchetta magica e che divora applausi e consensi. I grandi della cui amicizia andare fieri hanno fabbricato da se stessi il ramoscello fatato mettendo insieme un tesoro di studio e di esperienze. Ma figli dell’aria si, che lo sono. Un’eterea leggerezza aleggia sui profili delle persone di cui Maria parla, opportuna per quelli che ogni giorno hanno a che fare con l’arte, la letteratura, insomma con la luce. E que-
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sta leggerezza si trasforma nell’allegria di cui si parla spesso in queste pagine, insieme all’entusiasmo, alla volontà di riedificare un mondo migliore e più bello, nell’“epoca esaltante” in cui si scrivono poesie, si scolpisce, si realizzano film, si susseguono mostre quasi ininterrottamente. La nostra Maria si inserisce ella stessa in questo mondo felice in cui si svolge un interscambio di sentimenti e di ispirazioni. La ragazza che viene a contatto con Lucio Fontana o con Agenore Fabbri, e con tutti gli altri grandi del mondo intellettuale, offre e riceve “estro e fantasia”, felice, raggiante per le scoperte quotidiane degli altri mondi interiori, e si dice “assetata di poesia”; e perciò corrisponde perfettamente con quanto le dice l’amico Adriano Grande, parlandole delle sue opere plastiche e letterarie che definisce lui stesso “il mio pane per l’anima”: parole chiave che giustificano così il mio accostamento al secondo grande Poema di Milton, la cui linea conduttrice è costituita appunto dalla fame fisica e da quella spirituale di Dio. Maria scrive, osserva, fotografa, progetta film, persino dipinge sul tovagliolo che le porge un ristoratore che ha un locale sulle cui mura si trovano gli schizzi e i ricordi dei visitatori illustri, comprendendo al volo che la giovane entusiasta è destinata ad essere un grande nome nella storia della cultura. I sentimenti che hanno permeato e permesso il libro, si diffondono, dunque, si dilatano ancora una volta entrando in una categoria comprensiva dell’arte, delle pagine e dei profili che vi sono descritti. Penso alla parte molto felice che viene dedicata a Quasimodo, esemplificativa della capacità artistica e critica di Maria. Una conoscenza mediata, questa, eppure quanto sentita, quanto compresa. Una presenza che rimane fissa nelle nostre menti e nei nostri cuori, di cui si scrive compiutamente e sem-
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plicemente, facendo comprendere la grandezza del Poeta come se si fosse scritto un lungo libro su di lui. Mi viene in mente allora l’opera non riassuntiva ma decisiva del grande strutturalista sovietico Jurij Sceglov sulle Metamorfosi di Ovidio, a noi giunta grazie alla traduzione di Umberto Eco. Dopo secoli di studio, migliaia di pagine e fiumi di inchiostro sul significato più profondo della grande Opera latina, lo studioso russo finalmente scriveva il breve saggio incisivo, destinato a decifrare quel sistema di classi cui appartengono più oggetti che sono perciò in grado di tramutarsi attraverso un processo più meccanico che prodigioso. Così è Maria, e per logica, per dimostrazione geometrica, spiega come i versi di Quasimodo ne riprendono i sentimenti e la natura; e ci fa comprendere molto meglio di un saggio attraverso quali processi la vita del Poeta abbia generato le idee e come i fatti ci siano stati restituiti in poesia. E’ un enorme risultato. Un risultato, direi, pittorico, dal momento che se il pittore, se il grande fotografo sono in grado di riprodurre la posa riassuntiva di un’esistenza, Maria scrittrice, così prossima alla Maria regista e fotografa, imprime sinteticamente nelle pagine, invece che nella tela o nella pellicola, l’intera vicenda esistenziale delle persone di cui parla. E sempre, come in un’avvincente metamorfosi, la scomposizione, la trasformazione, la ricomposizione di quelle vicende si trasferisce in opere meravigliose, in nature sublimi. In vite degne di essere vissute. La vita è bella, a questo punto. Ma questo lo dice già il Libro del Genesi a proposito del Creato: “E Dio vide che tutto questo era buono”. Carmelo Currò
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Il Cenacolo degli Artisti di Albisola - Virio da Savona 1970 Olio su tela, cm. 120 x 150 Collezioni d’arte Cassa di Risparmio di Savona
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Adriano Grande Carlo Manzoni Camillo Sbarbaro Enrico Bonino Eliseo Salino Angelo Barile Mario De Micheli Emanuele Luzzati Nino Strada Franco Assetto
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Esa d’Albisola Wilfredo Lam Mario Rossello Laurin Lou Mauro Reggiani Giuseppe Capogrossi Tullio d’Albisola Enzo Fabiani Salvatore Quasimodo Carlo Cardazzo
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Milena Milani Asger Jorn Emilio Scanavino Aligi Sassu Lucio Fontana Roberto Crippa Agenore Fabbri Garibaldo Marussi
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UN VERO SIGNORE, UN GRANDE AMICO
Virio da Savona
Pino e Virio si conoscevano già da tempo, da quando Vittorio Agamennone, in arte Virio da Savona, pubblicizzava la propria arte frequentando banche e uffici pubblici dove i funzionari avevano più possibilità economiche per l’acquisto dei suoi dipinti. Ci incontrammo in una sera estiva, durante una passeggiata ad Albisola Marina e fu Pino a fare le presentazioni. Poco dopo ci raggiunse Ines, al fianco di Virio già dalla fine della guerra e madre di Maria Grazia, la loro bambina. Mi piacquero i modi del pittore, eleganti e sobri nello stesso tempo. Mi accorsi subito che il suo sguardo era profondo, che sapeva guardare oltre le cose e vedere ciò che molti non riescono neppure a percepire. Ines fu briosa, così ampia, così simpaticamente battagliera, frequentatrice di corsi culinari per insaporire la sua tavola con sempre nuovi intingoli prelibati. Scherzammo nel vedere una esplosione di fuochi d’artificio proveniente dalla zona Vado o di Spotorno, “fatti apposta per onorare la nostra nascente amicizia”, come sottolineò l’artista. Una decina di giorni dopo ci giunse l’invito per partecipare ad una festa in spiaggia, da parte dei gestori dei Bagni Colom-
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Pino, Virio da Savona
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bo. Ritrovammo i Virio, che ci vollero con loro. Quella calda serata di luglio segnò l’inizio di un’amicizia che durò tutta la vita. Eravamo sul finire degli anni ’60 dello scorso millennio. In precedenza Pino mi aveva parlato della bravura di Virio, ma devo ammettere che la visione delle sue opere superò le aspettative. Trovai, nei suoi quadri, una intensità di vita che valicava, se così posso esprimermi, la vita stessa. L’estrema vivacità dei colori veniva accostata con geniale armonia. I soggetti potevano rappresentare personaggi umili ritratti nella loro modesta condizione sociale, eppure parevano sovrani nel loro mondo consueto, spesso dardeggiati dal sole, in un respiro artistico di sentimento e di passione. Avevamo quale amico un artista che era un attento indagatore della realtà e sapeva trasfigurarla in maniera sorprendente. I luoghi servivano da scenari mai estranei alla potenzialità del soggetto. La possenza del mare serviva per celebrare la forza e il coraggio dell’uomo in lotta perenne contro gli elementi, mentre i verdi, i gialli, i rossi dei campi e dei vigneti magnificavano le donne portatrici di una solarità ferrigna, cariche di gerle d’uva i cui acini conservavano ancora la velatura dello zolfo. Sapevano di ignorati profumi i suoi fiori e di intenso vissuto i volti dei ritratti che eseguiva. Dipinse anche la celebre attrice Lea Massari, la diva che incantò le platee e i teatri di tutto il mondo. Quando al vernissage di una indimenticabile personale Virio presentò “Il Cenacolo degli Artisti di Albisola” Pino ed io
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decidemmo di realizzare un lungometraggio su quella grande opera riprendendo dal vero tutti i personaggi raffigurati. Volevamo eseguire un lavoro importante, ma non potevamo prevedere quanto lo sarebbe diventato con il trascorrere del tempo. Oggi è un documento unico e prezioso. Durante le serate, fra una cena e l’altra, in casa Virio con Milena Milani molto spesso presente, avevamo visto nascere e crescere l’opera in tre pannelli separati. Ora che l’insieme risultava in tutta la sua grandiosità e con l’impegno che ci eravamo assunti di superare l’immobilità della tela attraverso icone particolari da dedicare a ciascuno degli artisti raffigurati nel quadro, le nostre giornate divennero lietamente febbrili. Anche gli incontri con i Virio si intensificarono. Ogni bobina sviluppata rappresentava l’occasione propizia per vederci, commentare, gioire per l’efficacia delle riprese, per la bellezza e il risalto dei colori, per la bravura degli improvvisati attori mentre Pino ideava già il montaggio e le scelte musicali che avrebbe compiuto. Il tutto avveniva oltre ai nostri impegni familiari e professionali. Non sentivamo ombra di fatica. Tutto apparteneva allo splendido cuore della mia famiglia. A sua volta Virio rievocava volentieri il momento in cui gli balenò l’idea di dipingere “Il Cenacolo degli Artisti”. Nei suoi discorsi riapparivano Pozzo Garitta, le cene che riunivano tutta la comunità artistica albisolese, bagnini e pescatori che portavano in tavola, su vassoi di ceramica bianca e blu, decine di chili di cozze profumate di mare e condite con aglio, prezzemolo e olio d’oliva finissimo. Seguivano eccezio-
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nali piatti di pesce fritto da Efisio, con l’aggiunta di fresco pane casalingo. Il tutto veniva innaffiato con delizioso Nostralino di Ellera che passava con molta rapidità dalle bottiglie ai bicchieri dei commensali fra il vociare, le risate, le battute di spirito. Intanto i Virio lasciarono il Palazzo di Vetro con grande dispiacere di Milena e il giardino della loro nuova casa di Grana si prestava per altre cene serali, alle quali partecipavano tanti altri amici, dall’allora Sindaco di Savona Carlo Zanelli con Carla, sua moglie, ad Aldo Capasso, due volte candidato al Premio Nobel per la Letteratura con Florette, la sua sposa creola. Sulle alture del Lago di Viverone i Virio possedevano una villetta. La loro ospitalità fu così piacevole che anche noi acquistammo in quella località una grande casa del ’600. In tante serate trascorse insieme, a volte anche davanti al caminetto acceso e in compagnia di amici che venivano a trovarci, Virio tornava con la mente a Parigi, a Madame Rosita Girardot che lo fece accreditare presso il Tribunale Penale di Parigi come “croquis de sèance” ai processi, con il compito di raffigurare i personaggi coinvolti nei procedimenti processuali. Fu, per il giovane Vittorio Agamennone un sorprendente impatto con il mondo della legalità e, in quell’occasione imprevista, conobbe il principe del Foro parigino, l’avv. Francois Bertim, che gli chiese di ritrarlo in un acquerello, posando nel suo prestigioso studio legale. Fra un ciocco di legna e l’altro descriveva Anne Armandie, romanziera e lo scenografo delle Follie Berger Jean Thiriot. Una sera, mentre Ines preparava una delle sue succulente
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cene, ci divertì con il racconto di una festa di Carnevale data nella sua fastosa villa dal direttore del “Journal Journal” Pierre Descaves, in cui ballarono soltanto giovani uomini nudi, bellissimi, dai corpi levigati come dallo scalpello di uno scultore, scelti fra gli studenti di Lettere della Sorbona. Con piccoli flash ci faceva quasi stare al tavolino con Marcel Prevost mentre sorseggiava un caffè molto lungo e ci introduceva fra i contrasti e i veleni che si scambiavano lo scrittore e gallerista Antonio Aniante e Giorgio De Chirico per le opere di quest’ultimo allora invendute o cedute, a fatica e a prezzi modestissimi. Definiva Mario Tozzi come “pictor optimus”, persona oltremodo generosa e gentile. Ci raccontava di Alberto Savinio, il fratello di Giorgio De Chirico, di Kokoschka e di Carlo Levi che Virio conobbe proprio da Aniante, mentre dipingeva su vetri molto pesanti, con colori a olio. Era medico, colui che diventerà uno scrittore celebre con “Cristo si è fermato ad Eboli” , ma a quei tempi si dedicava a quelle vetrate. Possedeva, il nostro Virio, una grande memoria e ricordò alla perfezione l’indirizzo della Galleria di Aniante, a Parigi, in Rue Vavin n.6. Descriveva le notti a Pigalle, dove danzava la Venere nera Josephine Baker con l’immancabile gonnellino di banane, accompagnata dal suo terzo marito Giuseppe Abatino. Moltissimi nomi si concatenavano nella memoria del pittore che continuava a parlare della danzatrice turca Rubebjasky e di Lucienne Boyer, la famosa cantante del “Lapin agile” splendida interprete della canzone “Au temp des cerises”, mentre Ines fremeva perché voleva giocare a carte e Pino ed io eravamo scarsissimi in materia.
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Questi episodi si alternavano con altri riguardanti le vicende belliche del 1940-1945, che Virio trascorse, con il grado di maggiore, sul fronte russo, riportando immagini di alta poesia per la suggestività dei luoghi con distese sterminate di girasoli ospitanti migliaia e migliaia di tortore azzurre e per la dolcezza dei canti che le contadine russe effondevano nei campi. Quale contraltare ci fu la delusione provata nel vedere il leggendario Don privo di ogni bellezza, molto dissimile dai nostri fiumi argentei o cerulei fra argini verdi, punteggiati di fiori a seconda delle stagioni. Quando giunse l’inverno divenne teatro di un’immane tragedia, di un orrendo scenario di dolore. Virio conobbe in prima persona, con le diverse compagnie di soldati che comandava, la terribile “ritirata del Don” che spesso, in seguito, dipinse, quasi ad esorcizzare i ricordi. Una sera presentai Virio sugli schermi di Telebiella, la prima emittente libera italiana ideata e realizzata, dopo aver vinto una storica causa contro lo Stato italiano, da Peppo Sacchi. C’era anche Ivana, la moglie del Peppo. La nostra amicizia con loro risaliva a circa un ventennio prima, proprio ai tempi della loro conquista dell’etere per le trasmissioni televisive che ebbero i volti di Enzo Tortora, Ezio Greggio e la firma di Beppe Recchia per la regia. La mia intervista andò a meraviglia. Ad un certo momento, a fine lavoro, tutto il gruppo formato anche dai tecnici si allontanò e rimanemmo soli, Virio ed io, ai nostri posti di fronte alla cabina di regia ormai spenta. I discorsi assunsero i toni di un linguaggio ben diverso da quello consueto. Aveva molti anni, Virio, e mi confidò i suoi
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pensieri sulla parte finale dell’esistenza. “E’ un evento individuale e inevitabile” mi disse in tono sommesso. “Siamo sovrastati dal grande mistero e l’uomo, anche il più geniale, non riesce a spiegare il dopo. Non ho la fede come dono ma tutte le sere prima di addormentarmi ho un mio pensiero religioso” e me lo confidò. “Non l’ho mai detto a nessuno” concluse. Per mezzo di Virio conoscemmo Lino Cremon di Biella, il grande fotografo di casa Agnelli e di Indira Gandhi. Fu un’amicizia molto importante anche questa. Lino era legato da forti rapporti di stima con il Primo Ministro indiano e si recava spesso a New Delhi, ospite della Gandhi. In quel periodo voleva realizzare un lavoro particolare. Si trattava di un libro fotografico sul fascino di quella terra dai mille splendori e voleva che fossi io a scrivere i testi con le descrizioni appropriate alle sue immagini, ispirandomi dal vero sui molteplici incanti di quei luoghi. Per questo aveva ottenuto da Indira che Pino ed io fossimo accreditati da lei e ospitati nella sua stessa dimora per un periodo di quaranta giorni. Eravamo affascinati dall’idea di un simile invito ma ponderando bene la circostanza ci furono diversi motivi che ci suggerirono altrimenti. Andò soltanto Lino. Portò una serie di foto dalla bellezza insuperabile. In quelle immagini ce n’erano alcune di Indira Gandhi con un suo uomo della scorta, Beant Singh. Era colui che le avrebbe tolto la vita. Torno ora agli anni ‘70, quando fu “Il Cenacolo”. Ultimato il nostro film, organizzammo una grande festa e da quel momen-
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to ci fu un susseguirsi di eventi culturali e di proiezioni in abbinamento all’esposizione del grande quadro. Iniziammo con il vernissage alla Galleria “Il Vertice” di Milano, in Via Visconti di Modrone, avvenuto il 18 aprile 1974. Presenziarono altissime personalità del mondo della Cultura, del Giornalismo e dell’Arte. Immancabile, Milena Milani. Ogni volta che si nomina Virio da Savona, tutti coloro che lo hanno conosciuto ripetono in maniera unanime la stessa frase:“ Era un vero signore”. Questo avviene tanto nel savonese quanto nel biellese dove il pittore ha vissuto negli anni del dopoguerra prima di tornare in quell’Albisola dove per la prima volta era approdato, dalla sua natia Verona, nel 1924. Potrei continuare a lungo, perché una moltitudine di episodi, di feste, di cene albisolesi e non solo, di viaggi, di incontri sono strettamente legati alla figura di questo grande artista del Novecento, signorile e modesto, di profonda cultura anche musicale e di elevato intelletto. Di lui si occuparono i più grandi critici, da Dino Buzzati a Vittorio Sgarbi. Si addormentò per sempre il 24 giugno 1995. Aveva speso bene i suoi 94 anni.
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NELL’ORTO DEI FRATI
Adriano Grande
Appena entravo nel salotto dei nostri amici Franca ed Enrico Bonino, cercavo con lo sguardo, sulle pareti, quei quadri che mi incantavano. C’erano i dipinti di altri noti autori, ma in quei soggetti, così nitidi, così precisi leggevo storie di poesia e di amore. Assaporavo la finezza dei ritmi ancestrali pieni di geometrie pulite e forti che l’autore aveva voluto imprimere nelle sue opere dando una successione ariosa agli spazi interni e grande armonia ai giardini, al mutare delle foglie, alla leggiadria dei fiori. Quelle tele mostravano interni di case con i pavimenti a rigoroso quadrettato bianco e nero con prospettive precise ed elementi geometrici caratterizzavano anche le pareti. Case immaginarie quanto vere componevano scene paesaggistiche, anche queste disegnate con sapiente accuratezza. Sapevo che erano opere di Adriano Grande, del fondatore di “Circoli” e di “Maestrale” e, a quell’epoca, seguivamo i suoi articoli pubblicati dal “Tirreno” accanto a quelli di una nostra grande amica, l’esploratrice e filmaker A. Pina Morando. Mi piacevano molto anche le sue poesie che sentivo particolari, concepite con una freschezza che sapeva di ingenuità forse, ma dotate di una bellezza contemplativa.
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Furono i proprietari di quei quadri a volerci con loro, la volta in cui invitarono Adriano Grande, in un pomeriggio che risultò indimenticabile. I nostri discorsi si avviarono calmi, sul filo di una cordiale conoscenza. Dopo un’ora sentimmo di condividere una pienezza di sentimenti che ci avvicinava anche sul piano spirituale. Poesie e pittura, due poli d’attrazione da ambo le parti, il suo e il nostro mondo si fondevano in maniera mirabile. Ci raccontò che per molto tempo aveva frenato il suo desiderio di dipingere perché temeva il giudizio di chi era abituato alla frequentazione di artisti “consacrati”. Usò questa parola con un tono umile, come un fanciullo di fronte a un gigante. E invece gli parlai di quell’ordine interiore che possedeva, tanto da permettergli realizzazioni in cui i suoi disegni perfetti diventavano sinfonie, appartenenti alle mirabili leggi che governano, con divina sapienza, il creato. I suoi occhi mi guardavano e si accendevano di una luce nuova. Pino aggiunse che trovava molta quiete nelle sue opere sia poetiche sia pittoriche e Adriano Grande assentì con queste parole: “Sono il mio pane per l’anima”. Era una persona genuina, con la sua visione tersa della vita. Ci trovammo una volta da Angelo Barile. I discorsi vagarono, prima, su argomenti leggeri, poi si passò al personale e notai una certa preoccupazione nel poeta albisolese. Temeva che il dipingere distogliesse Grande dalla poesia. Non solo. Lo impensieriva il timore che la pittura potesse non ripagare, questo suo amico, quanto il comporre versi. Mi accorsi dell’ombra che attraversò il viso di Adriano e lo percepì pure Angelo Barile, perché aggiunse: “Però non devi
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frenare la fantasia”. La conversazione prese, poco dopo, altri rivoli. Passò mio papà e annunciò che avrebbe varato la barca che teneva, in secca, sotto l’albero di fichi di “Pinettu u Baciulettu”, nell’orto a fianco del palazzetto dei Barile, a pochi metri dal mare. La giornata era serena, tiepida. Si respirava l’aria di giugno. Adriano Grande, giornalista, scrittore, pittore. E poeta. Le sue liriche erano fresche, delicate, immediate come acquerelli: “Nell’orto dei frati il fratel laico ha candeggiato a calce i tronchi snelli dei meli e dei mandorli. I cavoli cappuccio e le lattughe lungo i solchi novelli , allineati tra le siepi d’alloro e i tra i rosai sembrano fantolini avvolti in fasce.” (Nell’orto del convento di Sant’Isidoro) da “Acquivento” ed. Carpena, 1962)
Si leggevano, questi versi, con un tono di tenerezza. Possedevano l’incanto e la semplicità del mattino e delle piccole cose. E ancora: “Io guardo i minimi fatti che accadono intorno, sorpreso d’essere al mondo, con occhi beati”.
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Gli dissi che mi ritrovavo nei suoi versi, una sera, al Bar Testa. Era piacevole parlare con Adriano Grande e la sua compagnia ci divenne ben presto molto cara. Giunse il momento per l’assegnazione annuale della famosa “Rosa d’oro” di Esa Mazzotti. All’unanimità il prescelto fu questo illustre genovese che, pur se trapiantato da lunghissimo tempo a Roma, era fiero della sua liguritudine e si considerava figlio adottivo di Albisola. Era il 12 agosto 1971. Villa Faraggiana, quella sera, sprigionava la sontuosità delle più importanti occasioni. Illuminata a giorno, le magnolie dalle foglie lucenti erano splendide con i loro fiori bianchi e carnosi, ampi turiboli di profumo. Alto, magro, con i capelli ormai bianchi, Adriano Grande, ricevette la “Rosa d’oro” con l’emozione che sa donare la modestia, con la commozione che certi riconoscimenti riescono a destare. In quella sera vellutata e piena di stelle, conoscemmo Titta Rosa. Non stava bene ma ambiva essere presente alla cerimonia. Con questo grande scrittore, poeta, critico d’arte e saggista, il cui nome merita di non essere dimenticato, trascorremmo qualche tempo insieme passeggiando lentamente nei viale della Villa. Parlammo a lungo di Adriano, delle sue qualità di uomo e d’artista. Poi, di altro ancora. Il giorno successivo, così come avevamo concordato in precedenza con il premiato, ritornammo nel pomeriggio a Villa Faraggiana per fare le riprese da inserire nel nostro film.
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Venne anche Mario, il suo bambino. Adriano aveva portato la “rosa” modellata con dita sapienti da Esa e in quel fiore c’era il compendio della sua vita, a partire dal 1927 quando esordì con “Avventure” fino a “Andrei, l’onesto” romanzo del 1970, tanto per rammentare un arco ricchissimo di produzioni letterarie. Riassumeva anche la sua arte pittorica, in uno scavo psicologico intriso di poesia. Per tutto questo accentrai, quale punto focale, l’attenzione cinematografica sulla Rosa d’oro da riprendere e la Villa Faraggiana, ancora impregnata dall’emotività della sera precedente, si presentava quale scenario ideale nel quale incorniciare il personaggio così illustre. Fu così che realizzammo quello che avevo nella mente. Desideravo che quel fiore passasse, in eredità spirituale, dal padre al figlio, simbolo di un prosieguo intellettuale e morale che doveva continuare nella nuova generazione avviata verso un futuro capace di procedere sulle orme paterne. Come sempre, Pino lavorò in perfetta intesa con me. Mi accorsi che Adriano era veramente commosso, mentre il piccolo Mario seguiva con serietà e precisione quanto gli veniva suggerito. Ne risultarono scene tenere, toccanti. Padre e figlio furono spontanei e un vero messaggio si trasmise dall’uno all’altro attraverso un ideale filo d’amore. Sentii, dentro di me, il fremito di quei sentimenti. Quando completammo le riprese, Adriano ci confidò: “Mi sono commosso più adesso che alla cerimonia di ieri sera”. Accarezzava i capelli castani del suo bambino e pareva volesse fermare quel momento, per sempre.
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L’UOMO DAI BAFFI
Carletto Manzoni
Fu una serata indimenticabile. Carletto Manzoni faceva già parte dei nostri fantastici amici con le frequentazioni di Bordighera e di Albisola. Una sera, trovandosi dalle nostre parti, venne da noi con Eliseo e Simonetta Salino e con un altro amico dal cognome un pochino imbarazzante. Come si fa a raccontare l’allegria di quelle ore? Fu così che appena entrati in casa, nel sentire il cognome di questo signore, il più piccolo dei miei figli scoppiò in una irrefrenabile risata, mentre gli altri due si mordevano le labbra per apparire compìti e seri. Non so bene dove trovai la padronanza per accogliere gli ospiti nel modo migliore, ma fu lo stesso signore a provvedere. Si rivolse ad Alberto ancora con le lacrime agli occhi dal gran ridere e, presolo per mano: “Non ti preoccupare”, lo rassicurò,“ ci sono abituato, ho il privilegio di avere un cognome che tutti ricordano e non dimenticano più”. A questo punto Carletto iniziò a elencare una sfilza di nomi e cognomi ridicoli, esilaranti, strani o semplicemente originali come Vittoriosa Gallina in Gallo, Piera Macchia in Cuscino e una Sandra Calcagno che opportunamente sposò un Roberto Caviglia.
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Eliseo Salino, Carletto Manzoni, Maria, Enrico
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Il maestro di musica Walter Ferrato, che con la moglie Carla era giunto in quel momento di ilarità e aveva perduto la parte introduttiva, prima ci guardò interdetto, e poi, sospinto da Eliseo, cercò nei meandri della memoria qualcuno da aggiungere all’ improvvisata tematica. E ne vennero fuori: Pasqua Di Dio, Fortunato Cavallo, Felice Contento. Fra un gelato e un vassoio di pasticcini Carletto chiese carta e penna e trovò nuove spassose fonti ispirative. Poi i discorsi rientrarono. Si parlò dei problemi del giornalismo, del famoso settimanale umoristico “Bertoldo”, di musica. Quando si accomiatarono era già subentrato il nuovo giorno. Ogni volta, con Carletto Manzoni, era come ritrovarsi tra compagni di scuola e molto spesso non mancavano i richiami su Giovannino Guareschi di cui ero assidua lettrice e si delineava, sempre più concreto, il progetto di un incontro in quel di Busseto, cosa che, purtroppo, non si realizzò mai. E’ molto espressivo il disegno a china che Manzoni realizzò dopo le riprese cinematografiche che gli dedicammo. Creò un perfetto set con parco lampade, impalcature tecniche d’avanguardia e piattaforme di ripresa, forse per consolarci della nostra modesta attrezzatura: una scaletta casalinga che ad un certo momento crollò durante una zoomata, due sedie che sorreggevano le lampade e uno schermo di carta stagnola. Un altro incontro da ricordare avvenne nel 1974, quando Milena organizzò la Mostra dedicata agli scrittori - pittori. Carletto partecipò con una grande tela. Raffigurava uno
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scorcio di Albissola Marina, con un grande albero centrale completamente spoglio, circondato da una geometria di case. In quell’occasione, sotto l’egida del Comune e dell’Azienda Autonoma di Soggiorno di Albissola Marina, venne proiettato il nostro film sul “Cenacolo” ottenendo una vastità di consensi e di complimenti sia da parte dei protagonisti sia da parte delle Autorità e del folto pubblico convenuti. Al termine Carletto ci guidò davanti alla sua opera e ci spiegò che “quei rami nudi protesi verso l’alto volevano, d’inverno, affondare nel cielo per mettere le radici sulle nuvole”. Non avrei mai immaginato che quel lavoro pittorico, dalla costruzione così semplice, potesse contenere una poetica ed una sensibilità così rare. Arte, amicizia, allegria si intrecciavano allietate dai guizzi della fantasia che si accendevano a ogni istante. Carletto Manzoni ci ha deliziato per anni con i suoi personaggi quali il “Brambilla” e “il signor Veneranda”, incancellabili protagonisti di un’epoca irripetibile. Vivevamo giorni spensierati, sereni, creativi. A volte, nel cuore bello della mia famiglia, dicevo che, forse, la felicità non aveva bisogno d’altro. Bastava saperla riconoscere.
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DAI LICHENI AI FIORI
Camillo Sbarbaro
Seminascosta fra le belle foglie a cuore, il primo gennaio di quest’anno ho scoperto fra le piante che inondano il terrazzo di casa mia, una viola mammola. Un sorriso. Un augurio. Soprattutto un amabile ricordo colmo di affetti e di poesia. Questa violetta appartiene alle piante che, a Spotorno, coprivano il giardino di casa Sbarbaro e che mi regalò Clelia, la sorella del nostro caro Poeta. Ogni anno, con la loro fioritura, riversano in me una pienezza di sentimenti. Intorno agli anni ’70 fra Clelia, me e mio marito Pino si era intessuto un bel rapporto d’amicizia, coltivato da numerosi incontri, prima nella casa di Spotorno e poi alla “Pensione Pippo”, ravvivato, negli intermezzi, da uno scambio epistolare. A proposito della casa, ricordo quella volta in cui un comune amico fece riferimento a “Villa Sbarbaro” e Clelia con genuina modestia precisò: “Villa Sbarbaro” esiste, ma nell’entroterra di Chiavari. Mi dicono che è una borgata di contadini. Personalmente non l’ho vista mai”. Parlava sempre di “Millo” e amava raccontare episodi legati alla vita del fratello in particolare quando c’era con noi nostro
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Alberto, Clelia Sbarbaro, Maria
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figlio Alberto, allora appena adolescente, al quale voleva molto bene. Nel giugno del 1974, a chiusura dell’anno scolastico, raccomandò ad Alberto di non imitare le gesta di suo fratello che una volta, subito dopo gli esami, infilò la testa sotto un forte getto d’acqua per cancellare quanto aveva studiato a scuola. Spesso Clelia, Lina per i più intimi, parlava con accoratezza di Millo, ma quella volta sorrise. In un’altra occasione, nel dimostrare apprensione per la salute della mia mamma, mi soffermai sulla caratteristica predominante del suo carattere che l’induceva a leggere soltanto libri dalla tematica religiosa, compresa la famosa “Storia di Cristo” scritta da Giovanni Papini. Nel pronunciare questo nome mi accorsi che un certo turbamento velò il viso di Clelia. Infatti, scosse la testa: “Mio fratello conobbe Papini. Non meritava”. Appariva rammaricata, ferita anche lei dal modo altezzoso con cui Papini ricevette un paio di volte Sbarbaro nella sua casa fiorentina. In una occasione gli criticò anche il modo di vestire, ritenendolo inelegante e goffo. Lina viveva nel mito del fratello Poeta. Ed anche lei vedeva il mondo attraverso la liricità che proveniva dall’animo sensibilissimo e schivo di Camillo. Un giorno narrò che il deserto, dentro, lo provarono entrambi i fratellini, quando a soli ventisette anni si spense la loro madre Angiolina Bacigalupo. Avevano, il maggiore cinque anni di età e la bimba solo quattro. Da quel momento il ruolo materno fu assunto dalla zia Maria, sorella di Angiolina. La ritroveremo con il nome di Benedetta. I sentimenti che Clelia custodiva in cuore pareva volerli
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affidare soprattutto ad Alberto, forse nel segreto desiderio di trasmettere ad una nuova generazione il contenuto della vita e dell’opera sbarbariana. Fu immancabile il riferimento a quei versi tenerissimi dedicati da Millo al proprio genitore: “Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, fra tutti quanti gli uomini già tanto per tuo cuore fanciullo t’amerei”. Gli occhi azzurri e sofferenti di Lina si velarono di commozione. E poi fu la volta dei licheni, oggetto di continua passione da parte del Poeta, il quale li cercava ovunque e ne conosceva le caratteristiche asserendo che sapere il nome degli alberi era ovvio mentre classificare i licheni, veri pionieri nell’insediarsi in ambienti inadatti alla vita delle altre piante e capaci di svilupparsi nei luoghi più incredibili, significava riscattarli dall’anonimato, portarli alla ribalta per farli conoscere, amare, vivere. Il poeta si incantava nello studiare i licheni, nell’ammirare la varietà del disegno, delle forme, dei colori e nello stesso tempo scoprire tanti ignorati capolavori della natura. Fra i mobili, gli oggetti di casa, i quadri interessanti, passava sotto la nostra attenzione tutta la vita del Poeta, da quando la famiglia si trasferì da Varazze a Savona, prima in Via Paleocapa e poi in Via Assereto. Furono gli anni in cui il giovane Sbarbaro frequentò il Liceo Classico “Gabriello Chiabrera”, dal quale uscì con la maturità il 21 luglio 1908: ebbe otto in tutte le materie e nove in storia della cultura greca.
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I compagni del liceo, nel 1911, si tassarono equamente per provvedere alla pubblicazione di “Resine”. In quel periodo nacquero amicizie confidenziali con Angelo Barile, l’altro grande Poeta albisolese, con Giuseppe Agnino e Silvio Volta. Nel 1913 gli si rivelò opaca la vita di impiegato presso la Società Siderurgica di Savona. L’anno seguente l’Impresa venne assorbita dall’Ilva di Genova e Sbarbaro fu costretto a risiedere nel capoluogo di Liguria. Quando rievocava questi episodi, spesso gli occhi di Lina si colmavano di lacrime. Raccontava di quando Millo iniziò a dare lezioni di lingue classiche e svolse un’intensa attività traducendo, dal greco, Eschilo, Sofocle, Euripide, Erodoto, Pitagora e, dal francese, fra gli altri, Molière, Balzac, Maupassant, Zola e lei ne era orgogliosa. Sapeva che una tristezza leopardiana pervadeva l’animo del fratello perché usava toni spenti nel cantare il paesaggio ligure e i sentimenti erano privi di qualunque concessione retorica. Dominava, nel Poeta, il concetto sofferto della solitudine. Solo con accenni sfumati ne parlavo con Lina e lei annuiva, chiudendosi, anch'essa, nel ricordo. Pensavo a “Pianissimo”, a quei versi che posero Sbarbaro fra i più importanti poeti del primo Novecento. E a “Trucioli”, scritto durante le esperienze della prima guerra mondiale, dopo che il Poeta si arruolò quale volontario nella Croce Rossa Italiana. E poi a “Rimanenze”, del 1955 e alle prose dei “Fuochi fatui” del 1956 e a “Scampoli” del 1960.
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Parlavamo con Clelia di Adriano Grande, di Giorgio Caproni e delle altre frequentazioni albisolesi. In una mattina di sole, era il 6 gennaio 1975, Lina chiese a Pino ed a me di accompagnarla in macchina al cimitero. Portammo rose e narcisi. Nell’avvicinarci alla tomba di Camillo Sbarbaro, con quelle due date incise sul cippo: 12.1.1888 e 31.10.1967 nelle quali era racchiusa tutta la parabola terrena del grande Poeta ligure, guardammo la figura di Lina ferma, immobile, raccolta in una espressione di commossa tenerezza e di dolore. Clelia spiccò, con le labbra, un bacio. Sussurrò: “Fré” (fratello). Dopo qualche attimo aggiunse:“Amù” (amore). In silenzio la riaccompagnammo a casa.
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IL SINDACO POETA
Enrico Bonino
Enrico Bonino era, in quegli anni, il Sindaco di Albissola Marina e lo filmammo per il “Cenacolo”, con la fascia tricolore, nell’atto di unire in matrimonio una giovane coppia. Ricoprì la carica di primo cittadino per sei anni, nel fulgido periodo che vide le nostre Albisole come un unico centro di arte internazionale. Con la sua lungimiranza di uomo politico e la sensibilità del poeta qual era, diede impulso a numerosissime iniziative, il cui prestigio rimane intatto nel tempo. La presentazione avvenne per mezzo di Ivos Pacetti, dopo la dipartita di Angelo Barile, lo squisito amico che voleva scrivere la prefazione del mio esordio poetico. Il libro “Sole per Clizia” era pronto. La copertina era stata disegnata con un intenso profilo di donna, da Pacetti, mancava l’introduzione. Enrico Bonino, il prosecutore della voce di Angelo Barile, aderì alla richiesta con una disamina attenta e positiva. Da questo incontro nacque un rapporto di stima, di cordialità che ben presto coinvolse le nostre famiglie e si trasformò in una grande e cara amicizia. Enrico, Franca, Pino e Maria. Avevamo una simile visione
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Pino, Enrico Bonino, Alberto, Maria, Franca Bonino
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della vita, ponevamo le basi sugli stessi valori. Le serate trascorrevano in fretta con i lunghi discorsi che, con il mio carattere positivo, cercavo di rendere rassicuranti. La fede rappresentava per noi la salvezza, dava significato all’esistenza, potevamo passare da un concetto di Kant a un pensiero di Nietzsche transitando per Proust pur di scavare in profondità. Enrico parlava dei suoi tormenti interiori, del suo vissuto giovanile, di certi pensieri che gli erano ricorrenti e che lui stesso rifuggiva. Tornavano i dubbi e le paure. Scriveva: “Mi fascio i pensieri di buio,/riparo la carne tra le foglie/e lo spirito fra gli alberi, dove squittiscono scoiattoli…”. Altre volte raccontava del suo complesso impegno di sindaco, affermando che anche la persona più retta e onesta poteva finire in gravi situazioni. Si chiedeva se colui che pone al servizio del diritto e dei diritti la propria forza morale è nel giusto, perché c’è sempre chi non è soddisfatto e chi non si mostra propenso a rispettare una diversa ideologia. Assicurava: “Eppure cerco di comprendere ognuno e vado incontro alle disuguaglianze che esistono fra un individuo e l’altro, ma è impossibile soddisfare tutti”. Si creò tra noi un’intesa che sapeva di buono, tanto che il legame divenne ancora più forte quando Enrico fece da padrino di Cresima a nostro figlio Alberto. Fu una cerimonia spiritualmente molto sentita nel suo valore religioso e qualche ora dopo trovò una nota di gioiosa complicità quando insieme, padrino e figlioccio, lanciarono dalla spiaggia un grappolo di palloncini bianchi e azzurri che iniziarono a salire verso l’alto sospinti da una lieve brezza.
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Potrei narrare, in successione, una inesauribile quantità di episodi. Ci fu la sera in cui, invitati dai Bonino, ci stavamo preparando a uscire e apprendemmo dalla TV che l’editore Giangiacomo Feltrinelli era rimasto vittima dell’attentato da lui stesso ordito, rimanendo ucciso sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Era il 14 marzo 1972. I Bonino appresero l’episodio da noi e trascorremmo ore nel commentare le tristi vicende politiche che si stavano addensando sulla Nazione e a temere un tragico susseguirsi di eventi. Cosa che, purtroppo, si verificò. Era un uomo serio e prudente, Enrico. Se le telefonate con e da Franca rappresentavano la confidenza che unisce due amiche dedite totocorde soprattutto alla famiglia, le nostre uscite in coppia ci portavano ad eventi di grande prestigio, a mostre d’arte di prima grandezza, ad incontri con personaggi famosi. Eravamo tutti consapevoli di vivere un momento eccezionale e partecipavamo alle reciproche iniziative. Poeti, scrittori, pittori e scultori da una parte, rassegne di cinema, mostre fotografiche, proiezioni di film d’autore dall’altra. In quel periodo avevo ideato e conducevo “I martedì” culturali in una storica fornace albisolese e per uno di questi volli Enrico quale protagonista, con le sue liriche interpretate da Wanda e Patrizia Magnano. Affidai l’accompagnamento musicale al Maestro Pino Briasco. Mi piacerebbe ricreare con precisione lo scenario di mare e di stelle che faceva da fondale alle cene e ai falò sulla spiaggia dei Bagni Nettuno. Agenore Fabbri, Eliseo Salino, Wifredo Lam, Esa d’Albisola, Milena Milani e tanti altri artisti parteci-
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pavano con battute e risate fra una spaghettata e un piatto di cozze al verde. Il trascorrere degli anni vide sempre intatta la nostra amicizia. Fu festa per le nozze della loro Maria Fanny e vivemmo un grande giorno quando, nella Sala Rossa del Comune di Savona ci fu la presentazione del mio “Libro di Vetro” da parte di Aldo Capasso, l’illustre letterato due volte candidato al Premio Nobel. Seguì il discorso, eccellente, di Enrico Bonino, dopo parlò Costantino Bormioli. In anni precedenti avevamo fondato l’“Associazione Culturale Albisolese” di cui era Presidente un altro caro amico, il dr. Franco Cecinati, un chimico innamorato della letteratura. Nel corso degli anni realizzammo insieme tre rassegne a livello nazionale di Cinema e altrettanti Premi di Poesia facendo convergere su Albisola personaggi di rilievo notevole nei due settori. Altri eventi mirabili si intersecano nella mia mente, da Villa Gavotti dove Enrico presentò il mio poemetto “Stagioni incantate”, a Peagna, dove ci dedicarono un’unica Manifestazione letteraria conclusasi con l’apposizione di firme indelebili su piastrelle di ceramica. Sapeva alternare bene i suoi compiti di Primo cittadino con l’impegno di poeta e scrittore. Per carattere tendeva a una certa malinconia. Parlavamo a lungo soffermandoci su tematiche religiose, filosofiche, teologiche e comparavamo le nostre esperienze personali, nella continua ricerca di qualcosa di trascendente in cui credere, tanto da placare l’inquietudine che pone, ad ogni essere
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umano, l’invalicabile mistero. Lo aveva scavato dentro la lotta partigiana. Quel periodo vissuto con estrema sofferenza e lacerato da dolorosi episodi, gli si era infisso nell’anima, quasi incapace di credere che una moltitudine di giovani potesse tramutarsi nel Caino dei propri fratelli. Appartenente ad una famiglia di studiosi era orgoglioso del nonno che conosceva Alessandro Manzoni e ci mostrava, con compiacenza più che giustificata, la lettera che il famoso letterato aveva inviato al suo Avo. Amava raccontare che nel suo Casato si alternavano ad ogni generazione un poeta e uno scrittore. A lui era toccato di essere poeta. Anzi, il Poeta. Attraverso le sue liriche esorcizzava le paure, il tumulto del cuore. Il Vangelo dalle verità rivelate lo confortava. I suoi versi sgorgavano accorati:“...le mie ancore giacciono inerti/ senza speranze di approdi”, prima di proseguire per formulare una drammatica domanda:“... miei porti, i miei porti/ dove sono?”. (da “Navi alla fonda”). Approdò in quello scalo misterioso che con la mente aveva immaginato innumerevoli volte e che spesso aveva invocato nel corso degli anni, il 13 Luglio 2005, e fu un arrivo sereno perché lì il mare è fatto di cielo e, in quel cielo, si placa ogni tempesta.
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L’INVENTORE DI STREGHE
Eliseo Salino
“Chi trova un amico trova un tesoro”. Questo è stato, nel corso degli anni Eliseo Salino per tutta la comunità artistica convenuta, attratta da un misterioso richiamo, ad Albisola. Eliseo, geniale ceramista dalla fantasia illimitata, possedeva un carattere esuberante attraversato da una vivacissima vena umoristica. Espansivo e generoso, insieme con Giovanni Poggi, dava vita a giornate creative che valevano anni interi per l’inventiva, la laboriosità, la sperimentazione. L’accoglienza che offriva ad artisti noti e meno noti, italiani e stranieri, era proverbiale. La “S. Giorgio”, la fornace voluta dal binomio Poggi - Salino, era un santuario. La nostra amicizia risale alla… preistoria. Nacque spontanea, come avviene in un ordine naturale quasi prestabilito, senza neppure ricordare il momento preciso. Ci si conosceva già nella seconda metà degli anni ‘50 e non ci era sfuggita la vena umoristica con la quale Eliseo impregnava le sue creazioni. Quando da Albisola Capo si proseguiva la passeggiata fino ad Albissola Marina, era logico soffermarsi davanti a quella vetrina, rimasta immutata nel tempo, nella cui piccola dimen-
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Pino, Enrico, Carletto Manzoni, Eliseo Salino
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sione venivano esposte opere d’avanguardia. A quel punto diventava normale entrare nel negozio per ammirare da vicino quelle forme e quei colori che penetravano nella mente e trasmettevano impulsi e messaggi. La guerra era finita da poco e l’arte si svincolava dalle forme consuete del classicismo. Si cercavano e si scoprivano dinamiche nuove, esplodevano psicologie nascoste, gli artisti compivano sintesi vigorose e sicure. L’antica “tera di pignatte” acquistava un volto nuovo e Albisola era diventata meta ambita per pittori e scultori che, nella manipolazione della creta, trovavano nuove espressioni di sorprendente incisività. E Salino era lì, pronto ad accogliere Lam e Jorn, Sassu e Fontana, Luzzati e Scanavino insieme con tutti gli altri artisti che, a loro volta, erano diventati amici miei e di Pino e le giornate, a quel punto vibravano di colori, di sensazioni, di gioia in un mondo nel quale si articolavano diverse culture, ma tutte orientate verso una comune finalità. Ogni anno, seguendo un calendario preciso, con Eliseo ci incontravamo a Bordighera per il “Salone Internazionale dell’Umorismo” e mi emoziona, oggi, raccontare il fervore di quegli anni pieni di giovinezza e di sorriso, seduti ai tavolini del famoso “Chez Louis”, l’amabilità di Cesare Perfetto, il Presidente, e di sua figlia Gigia. Estro, fantasia, amicizia, allegria fra fogli da disegno che svolazzavano da un tavolo all’altro, durante le cene, con vignette piene di humor e le abbondanti pietanze cucinate dallo chef. Valentino e Valentina prendevano vita dalla penna del caro e indimenticabile Raymond Peynet, il Signor Veneranda si animava attraverso i disegni di Carletto Manzoni, volavano
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gli angioletti di Paolo Del Vaglio rincorrendo i diavoletti di Giorgio Dall’Aglio, mentre le streghe di Salino interferivano con i loro improbabili riti magici. Sono state serate indimenticabili con Sandra Mondaini, Marcello Marchesi, Guido Clericetti, Iva Zanicchi, Tonino Tubino, Gigi Caldanzano, Giorgio Cavallo, Gualtiero Schiaffino e tutta una schiera di persone veramente fantastiche. Mi piace ricordare che noi partecipammo per la prima volta al Salone di Bordighera nel 1968, quando, su invito, presentai il mio primo libro “Nuvole e ruote” e questi incontri proseguirono fino agli anni ‘80. In quest’arco di tempo avvennero molti episodi di cui anche Eliseo fu testimone. Una sera, entrammo in fila indiana da Chez Louis, il primo era Alberto, il più piccolo dei miei figli. All’interno c’era Tony Renis che quando lo vide esclamò: “Che occhi azzurri meravigliosi!”. Subito dopo fissò Enrico che seguiva il fratello e aggiunse: “ Che occhi azzurri fantastici!”. Dietro c’era Angioletta e Tony Renis pronunciò a voce alta: “Non ho mai visto due occhi di un verde così splendido!”. Subito dopo giunsi io. Il grande cantante mi guardò e dopo un altro piacevole commento aggiunse: “Signora, mi toglierei gli occhi per farmeli rifare da lei”. Dopo questo esordio avvennero le presentazioni. C’era anche sua moglie Elettra Morini. Ci soffermammo a parlare di famiglia, di arte, di America e Tony ci raccontò alcune esperienze personali con molta amabilità. Fuori chiacchieravano Pino, Salino e Cavandoli, l’autore di una celebre pubblicità televisiva. Quando entrarono, Tony Renis raccontò l’accaduto ed Eliseo non faceva che ripetere: “I nostri Cirone ci fanno onore”.
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Enrico, proprio quella sera, aveva vinto il Premio “Paul Richard” per l’umorismo e la serata proseguì in un continuo rinnovarsi di entusiasmi. Quanti giorni indimenticabili vivemmo con Eliseo e con Simonetta, sua moglie. Serate belle a casa nostra, con loro e altri amici. Una volta dedicammo uno di questi incontri alle ricette di cucina ed Eliseo ci spiegò come ottenere un’ottima salsa di noci per condire i pansotti. Bisognava ammollare le noci nel latte per togliere la pellicina marrone che ricopre i gherigli e trovammo, nella mia cucina, latte, noci, pestello, panna, pentolini e altri aggeggi, ma a me non riuscì mai di eseguire la sua ricetta più o meno segreta da lui scritta sopra un foglietto, semplicemente perché ancora adesso sarà nascosta fra le migliaia di carte che conservo fra appunti di ogni genere. Tracciava con una sveltezza incredibile streghe e demoni, gufi e civette, inventava, nella fantasia, leggende inquietanti che trasformava in abilissimi disegni. Una volta gli chiesi se vinceva il bene o il male e lui mi rispose: “L’allegria”. Gatti, cornacchie, specchi, elementi magici compongono spesso le sue opere dal tratto unico. Motivi simbolici, reminiscenze ancestrali, antiche leggende, virtuosismi suggeriti dall’inconscio diventavano racconti vivi, completi, suggestivi. Con mani robuste scalpellava l’ardesia e le sue impetuose strette di mano a volte causavano incidenti imprevisti. Accadde una volta pure a me. Amo gli anelli e ne porto spesso in ambedue le mani. Ci trovammo una sera sulla passeggiata degli Artisti, ad
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Albissola Marina e gli porsi la destra. Mal me ne incolse, perché ricambiò con una stretta così calorosa da ferirmi la pelle del dito medio con l’anello che portavo all’anulare. Al mio grido soffocato, si scusò, si mortificò e cercò di consolarmi raccontandomi di quella volta in cui, durante un ricevimento all’estero, nel salutare una signora la vide accasciarsi su se stessa, mentre lui continuava interdetto a stringerle la mano. La signora svenne, cadde ai suoi piedi e lui imperterrito le serrava ancora quelle dita dalla pelle vellutata. Quando le persone attorno accorsero per dare aiuto e riuscirono a rianimare la malcapitata con acqua prima e con un cognac dopo, si apprese che lo svenimento era la conseguenza del dolore provato alla mano da colei che aveva avuto l’occasione di stringere quella di Salino. Eliseo rideva concludendo che aveva trovato il modo di far crollare le donne davanti a sé. Una passeggiata e un gelato ad Arenzano facevano sempre piacere e una visita al Santuario di Gesù Bambino di Praga rappresentava una meta immancabile. Ci era caro quel luogo sacro per tanti motivi familiari e ci attraeva anche per la presenza di un amico dal grande carisma, Padre Anastasio Ruggero. Questo carmelitano dalla preparazione culturale notevole, possedeva una spiccata predilezione per l’arte e si intratteneva volentieri con Crippa, Bonino, Salino e con tutti noi che lo sentivamo amico. In quell’atmosfera di armonia entrammo con la nostra cinepresa e realizzammo “Uomini a Betlemme”, un documentario a colori sul grande presepio che Salino aveva realizzato proprio per il Santuario di Arenzano.
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Fu fantastico entrare in quella Betlemme immaginata da Eliseo, fatta di figure modellate con la creta negli atteggiamenti più genuini, sottolineati con bonaria ironia. Un mondo vero si accalcava attorno alla mangiatoia e il Bambino guardava, sorridente, quella schiera di uomini e donne affaccendati, dediti a tutti i mestieri possibili, immersi in una ingenuità disarmante, perché i furbi, gli intriganti, i disonesti erano rimasti nelle loro confortevoli case. Al richiamo degli Angeli si era avviata la schiera della gente semplice amata da Salino, i puri di cuore, i personaggi di ieri e di oggi, pescatori e mugnai, vasai e pastori con le greggi, frati carmelitani e bambini usciti da scuola per conoscere un Bimbo appena nato. E forse quegli scolaretti si sono distratti, tanto da stare lì, davanti ad un evento unico nella storia dell’umanità, infilandosi le dita nel naso. Quanto furono belli e divertenti quei giorni! Cercammo di inquadrare tutte le piccole debolezze con- centrate in questo piccolo popolo di ceramica e realizzammo quel nostro documentario diverso tempo prima che giungesse una troupe, con mezzi tecnici d’avanguardia, per riprendere lo stesso Presepio per conto della televisione svizzera. Qualche tempo dopo ci telefonò Eliseo: “Ho appena visto il film sul mio Presepio di Arenzano fatto dagli svizzeri. Il vostro filmato è molto più bello, mi piace di più perché avete saputo dare risalto e movimento a tutta quella gente che ho messo intorno al Bambino”. Quelle parole valsero per noi tantissimo, superarono le varie medaglie che giurie specializzate ci conferirono nei diversi concorsi cinematografici a cui partecipammo con quel film. “Uomini a Betlemme” continua a trasmettere un messaggio
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di intatta innocenza, così come all’origine voleva l’autore. Noi aggiungemmo un tono di tenerezza. Ci aiutò molto, nelle riprese, nostro figlio Alberto, per l’occasione e non solo, addetto al parco lampade. Ormai conosceva bene le tecniche da usare e agevolò in maniera notevole il nostro lavoro, arrampicandosi con agilità per raggiungere i punti strategici su cui posizionare i faretti in modo da eliminare la lucentezza della ceramica. Una sera Simonetta e Eliseo vennero da noi. Eliseo era raggiante, sprizzava gioia dagli occhi, dal viso, dai baffi. “Hanno richiesto a me di fare lo Spazzacamino per Locana, in Val d’Orco, vicino al Gran Paradiso”, proferì tutto d’un fiato. Esultammo insieme a lui. Simonetta sorrideva con quel suo modo dolce, riservato. Tutti e tre i miei figli non perdevano mai gli incontri con gli artisti in casa nostra e parteciparono con festosità all’annuncio che Eliseo ci aveva dato. “Inventiamo una storia sugli spazzacamini?”, esordì Alberto, forse memore di quanto era già avvenuto con Lele Luzzati. L’iniziativa fu accolta e si scatenò la fantasia di ognuno di noi. “Tutto mi può servire, tutto può essermi utile” esclamava Salino ad ogni versione e vennero fuori ragazzini pieni di fuliggine che scesi da un camino furono invitati al pranzo di un re. Un’altra versione volle lo spazzacamino cacciato fuori da un comignolo da una cicogna infuriata perché aveva tinto di nero le sue uova e il compagno non le riconosceva più. Angioletta lo fece scendere nell’ipotetico caminetto di casa Salino e, secondo la sua fantasia, Eliseo lo afferrò, lo portò da Poggi e lo tramutò in una statua da collocare non a Locana, ma in cima alla vetta più alta del Gran Paradiso.
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Venne il momento di fargli fare l’attore, l’interprete di se stesso da inserire nel Cenacolo ed Eliseo fu simpatico, disinvolto, spontaneo come era nella vita. Modellò, dipinse, scolpì l’ardesia dando precisi colpi di mazzuolo con mano sicura e polso forte. Le riprese non ebbero bisogno di rifacimenti o di accorgimenti speciali. Il suo carattere esuberante trionfava anche sulla pellicola. Seguirono giorni di festa, dalle nozze d’argento mie e di Pino al matrimonio di sua figlia Patrizia con Franco. Qualche tempo dopo scambiarono il loro “Si” davanti all’altare anche la mia Angioletta con Francesco. Auguri, confetti, bomboniere, ceramiche in una amplificazione di eventi che rimbalzavano gioiosamente da una famiglia all’altra. Furono anni meravigliosi, punteggiati di aneddoti spassosi e attraversati da amicizie indimenticabili. Eliseo e Simonetta sono rimasti proprio nel cuore.
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IL POETA DELLA BELLA BREZZA Angelo Barile
Lo conoscemmo subito, il poeta della “bella brezza”, quando Pino ed io, appena sposi, scegliemmo di abitare ad Albisola , in questo paesino di Liguria, formato allora dal borgo antico di Superiore e da quello di Capo, lambito dal mare e reso pittoresco dalle secolari fornaci dove veniva lavorata la creta. Gli stringemmo la mano per la prima volta, una domenica mattina sul sagrato, dopo aver ascoltato la Santa Messa nella Chiesa Stella Maris posta a pochi metri dalla sua casa, un elegante palazzotto con una terrazza aperta sul mare e ornata con snelle colonnine. Lui, alto e magro nella persona, con gli occhiali da vista che gli ombravano il viso pensoso, era l’avvocato - così lo chiamavano tutti - e poeta Angelo Barile. Lo accompagnavano due signore, la moglie Giuseppina e la sorella Susanna che parevano figure senza tempo, con i capelli grigi raccolti a crocchia sulla nuca, gli abiti severi e un’espressione intransigente sul viso. Solo in un secondo tempo conoscemmo Germena, l’altra sorella, con il marito Mario Bianchi. Allora ero giovanissima, affascinata culturalmente da quel personaggio illustre ultrasessantenne, cantore di una visione spirituale della vita, illuminata dalla profondità della fede.
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2-Angelo Barile, 3-Salvatore ScarfĂŹ
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A volte sostavamo nel negozio di ceramiche, prospiciente la via Aurelia, che l’avvocato gestiva insieme al cognato Bianchi e, mentre Pino amava soprattutto ascoltare, personalmente cercavo di conoscere il più possibile quel mondo che mi regalava nuove esperienze. Ebbi così modo di raccontargli l’incanto che provavo già da bambina, nello scrivere poesie e la felicità di fissare su qualunque pezzo di carta, pensieri, emozioni, racconti, poesie. Angelo Barile mi incoraggiò a proseguire in questa innata passione. Anzi, la potenziò, perché dopo aver letto una raccolta di miei versi, mi suggerì di pubblicarli raccogliendoli in un libro di cui lui stesso avrebbe scritto la prefazione. Ero raggiante, mi sentivo onorata di ricevere un così illustre consenso, ben conoscendo il valore e il prestigio racchiusi nel nome del grande poeta di Liguria. Quando i miei genitori si trasferirono e ci raggiunsero in Albisola, mio padre, dal carattere aperto e gioviale in brevissimo tempo divenne amico di Angelo Barile che lo vedeva con evidente simpatia. Si incontravano quasi ogni giorno con un immancabile scambio di cordialità. Avvenne in quel periodo un episodio che mi emozionò in modo particolare. Un pomeriggio d’autunno, sull’imbrunire, mio papà ed io incontrammo l’avvocato Barile all’altezza del bar Ghersi. Sostammo per un breve saluto, ma poi i discorsi si ampliarono. Con la mia solita spontaneità confidai: “Sono assetata di poesia”. L’insigne amico mi trasmise, al di sopra degli occhiali, uno sguardo che, subito, definii “infinito”.
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Dopo alcuni lunghi attimi di tempo, quasi sottovoce, pronunciò:“ Lei è una donna molto ricca”, mentre un primo refolo di vento ottobrino parve avvolgere attorno a me quelle parole. Poi le sue labbra accennarono un sorriso. Pure mio padre avvertì la particolarità di quel commento e, a sera, ne parlammo a cena con tutta la famiglia. Non ho mai dimenticato quell’espressione così sincera e quello sguardo “infinito” che leggeva nell’anima. Pino ed io seguimmo anche le vicende letterarie e artistiche che coinvolgevano continuamente le due Albisole e nel 1957, simile ad una musica ricca di suggestioni, mi scesero in cuore i suoi versi. Ci aveva regalato con dedica il suo libro “Quasi sereno”. Sobria, misurata, la poesia di Angelo Barile riusciva a commuovere. L’avvocato e mio papà divennero veramente amici. Condivisero un profondo sentimento religioso, che li accomunò nel sostenere con vigore gli “Uomini dell’Azione Cattolica”, l’Associazione che in Albisola Capo, era nata per volontà del sacerdote Cesare Silvio Mascarino, il 7 febbraio 1946 in un salone adiacente alla chiesa Stella Maris. L’illustre cittadino albisolese si iscrisse il 26 giugno 1947 e quasi subito avvenne un suo moderato contrasto nei confronti di alcune tesi sostenute dal parroco. Così si legge nei verbali del tempo, a firma di Giovanni Marenco. Mio papà entrò nel Gruppo il 15 novembre 1953, quattro mesi dopo il trasferimento ad Albisola. Trascorso pochissimo tempo ne divenne il segretario.
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Ho tutti i verbali di quegli incontri che, di volta in volta, trattavano tematiche importanti e di piena attualità, dalla “Rerum novarum” di Leone XIII alle dottrine materialistiche del capitalismo e del marxismo, dalla figura del Cristo presentata nei Vangeli, alle Verità rivelate da Gesù stesso. Il 3 marzo 1958 si commenta con l’avvocato Angelo Barile, conoscitore delle leggi, la sentenza del Tribunale di Firenze, a carico del vescovo di Prato Mons. Pietro Fiordelli, accusato di diffamazione nei confronti di Loriana Nunziati e Mauro Bellandi, per averli definiti “pubblici peccatori e concubini” in quanto uniti solo dal matrimonio civile. “Il commento fatto dai presenti è stato vagliato in tutti i particolari del caso, addivenendone nella convinzione di una ingiusta condanna nei riguardi del vescovo che ha difeso il diritto della morale cristiana”. Così è esattamente riportato nel verbale di quella riunione. Si trattarono argomenti epocali come la prima impresa spaziale compiuta dall’astronauta russo Yuri Gagarin, l’assassinio del Presidente John Fitzgerard Kennedy, la morte del Papa Buono, Giovanni XXIII. Il 1 dicembre 1964 si parla del viaggio di Paolo VI per l’India, motivo di orgoglio anche per la comunità albisolese in quanto il Pontefice sarebbe stato accompagnato dal Colonnello francese Maurice Roux da anni residente ad Albisola e appena nominato “Cameriere d’onore di cappa e spada di Sua Santità”, carica di notevole prestigio nelle gerarchie vaticane. In quei quaderni, con frequenza quindicinale, veniva tracciato un quadro preciso dell’epoca grazie ad argomenti molto diversi che passavano dalla morale cristiana, dalla sacra liturgia e dalla storia della Chiesa, alle Colonie marine, alla spiaggia
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deturpata dalle mareggiate, alla legge Merlin. Era ogni volta presente Angelo Barile, pronto a esprimere il proprio pensiero. Non mancava mai suo cognato Mario Bianchi. Fin dagli inizi, Angelo Barile seguì, con crescente interesse, l’attività cineamatoriale che Pino ed io avevamo intrapreso con indubbio successo e si rallegrava ad ogni nostro premio ottenuto nei Festival Nazionali ed Internazionali. Espresse molto consenso quando iniziammo il film a 16 mm. sulle Casse del Venerdì Santo che si trovano in diverse chiese di Savona. Si tratta di pregevolissime sculture lignee alcune delle quali sono opera di Anton Maria Maragliano (1664-1739) e di Antonio Brilla (1813- 1891) e trovò molto appropriato il commento sonoro da me scritto e interpretato dalla voce del Canonico Don Giuseppe Formento, sacerdote di vasta cultura e suo amico. E fu una serata indimenticabile quella passata al Cinema Natale Leone di Albisola Capo, quando mediante una lampada ad arco, riuscimmo a proiettare il nostro film “ La strada degli ulivi”. “Avete onorato la religione, l’arte e la città di Savona”, affermò il grande poeta di Liguria, nello stringerci calorosamente le mani. Mentre tanta armonia legava noi all’illustre Poeta, rapporti molto più formali si erano stabiliti con la moglie e la sorella Susanna, limitati a poche frasi d’occasione. Quando a 79 anni , il 20 maggio1967, Angelo Barile lasciò la sua vita terrena, il rimpianto fu unanime sia nel mondo della cultura sia fra la gente più umile del paese. In noi lasciò l’accoratezza che si prova quando si perde un amico caro e prezioso.
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Dentro di me, ripetei più volte quei suoi versi così profondi e struggenti: Uscire dalla vita come quando s’esce di chiesa in un finale d’organo: s’avventa l’anima a scale prodigiose, trova il piede sulla soglia un bianco che vi palpita: e la luce è nuova. Ma uscire non è dato in rapimento. Ch’io possa almeno lasciarmi dietro la mia stanza, un poco volgendo il capo a riguardarla, alfine pulita, sgombra d’ogni discordia, in ordine sereno come la chiesa ora vuota: le croci fanno una chiara ombra sul pavimento. (Angelo Barile: Uscire dalla vita)
Tre anni dopo iniziammo le riprese cinematografiche del “Cenacolo” ed essendo Angelo Barile uno dei ventotto personaggi raffigurati da Virio nel suo quadro, ritenemmo logico rivolgerci alla moglie ed alla sorella che vivevano insieme nel palazzetto dei Barile, per realizzare il filmato da inserire nel contesto. Le due signore ascoltarono con attenzione lo scopo culturale del documentario. Laconicamente ci risposero: “Dobbiamo pensarci”. Dopo alcuni giorni le chiamai per telefono e mi rispose la
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sorella in maniera stringata: “Bisognerà parlare con mia cognata” e mise giù il telefono. Poiché era urgente per noi procedere nel lavoro filmico, alcuni giorni dopo, ricomposi il numero telefonico. Questa volta riconobbi la voce della moglie e con grande gentilezza le esposi nuovamente i motivi che mi sospingevano a rinnovare la richiesta. Con enorme sollievo mi sentii dire che stava decidendo in maniera positiva. Fu lei stessa a telefonarmi dopo due giorni e si mostrò ancora molto perplessa. Seguì una settimana intera senza notizia alcuna. Raccontai quanto stava avvenendo all’amico Enrico Bonino e fu lui stesso a volere aggirare l’ostacolo: “State tranquilli, dirò alle signore Barile che anch’io sono raffigurato nel Cenacolo e che avete già provveduto a riprendermi per il film. Con la confidenza che c’è tra noi, tutto si risolverà subito”. Accadde l’imprevisto. Questa volta fu la sorella a mostrarsi contrariata e apostrofò Enrico con fare duro e deciso: “Sono fatti nostri e ci penseremo noi”. Non nascondo che Enrico ed io ridemmo di fronte a questo strano modo di agire. Dopo qualche ora la moglie di Barile si decise sconfessando la cognata: “Vi aspetto domani alle 15 esatte”, ci comunicò con voce sollevata. Esultammo. Preparammo parco lampade, schermi argentati, cavi, fili e tutto ciò che poteva essere necessario per le sospirate riprese. L’indomani c’era il sole e già ci predisponemmo mentalmente alle inquadrature da fare nello studio del poeta tra le sue carte, le sue penne, i libri, gli oggetti amati e dalla terrazza
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prospiciente il mare, lo splendido panorama. Alle 14,30 squillò il telefono. Ebbi un presentimento. Mi giunse una voce incolore e distante. Era la signora Barile.“ Ci abbiamo pensato questa notte. Non si sa mai, non sappiamo che cosa può succedere, i tempi sono pericolosi e quindi vi chiedo di non venire. Questo film non si può fare”. Mi sembrava di parlare con la versione femminile di Don Abbondio. Avrei urlato. Pino e i nostri tre figlioli mi guardarono e scoppiarono a ridere. Fu così che, nel “Cenacolo”, l’unico personaggio veramente albisolese da tramandare ai posteri non c’è.
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L’IPOTETICO CANONICO
Mario De Micheli
La moglie di Virio era un’ottima cuoca. Le piaceva stare attorno ai fornelli e amava riunire molti commensali alla sua tavola. Allora i Virio abitavano nel Palazzo di Vetro di Albissola Marina e con Milena Milani dividevano lo stesso pianerottolo, tanto da farli sentire residenti in un’unica casa. Milena e Cicci Palloni, il suo amatissimo felino, giravano da un’abitazione all’altra e fu in uno di questi momenti che ci trovammo tutti riuniti a pranzo, insieme con Ada e Mario De Micheli, pronti a gustare le prelibatezze che Ines faceva presagire attraverso i profumi che dilagavano per la casa. A tavola si parla, si ride, si scherza e De Micheli si rivelò subito un vivace conversatore. Quel giorno segnò il nostro primo incontro con il grande critico d’Arte. In seguito avvennero altri pranzi con i De Micheli, sia dai Virio sia dai Cirone. Ricordo una volta, a casa nostra, in cui mi sbizzarrii, dalle cozze ripiene, apprezzatissime, a una pietanza con ovuli, così graditi dagli imperatori romani tanto da prendere il nome di amaniti cesaree, giuntimi freschi freschi dai boschi di Sassello. Furono sempre incontri piacevolissimi. Aumentò la conoscenza. In seguito divenne amicizia e tante
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serate estive ci videro al Bar Testa, centro esclusivo di incontri irripetibili nella loro intellettuale opulenza e, nello stesso tempo, improntate a grande semplicità. Ci furono i momenti più confidenziali. Una volta Ada abbassò le palpebre quasi strizzandole sugli occhi e accennò a quel terribile bombardamento che le tolse entrambi i genitori. I dolorosi eventi vissuti anche da Mario erano impressi nella loro anima e facevano ancora male. Quei racconti servivano da valvola di sicurezza. Virio, a sua volta, rievocava la tragica ritirata sul Don, di quello spettrale riparo a Verchnij Mamon, in un’ansa del grande fiume, e le sue drammatiche vicende fra le nevi implacabili e silenziose della Russia che troppo spesso non lasciavano scampo. De Micheli raccontava le traversie della lotta partigiana e Pino si inseriva narrando il drammatico episodio che lo vide protagonista durante un rastrellamento a Genova. Grazie al tesserino universitario che teneva in tasca riuscì a salvare la propria vita. Qualche volta assistemmo a dispute politiche o artistiche che diventavano vere battaglie verbali. Una sera, durante una cena a casa mia, fu Virio a stuzzicarlo: “...ma tu non volevi farti prete?”. In quell’occasione Mario parlò della sua famiglia umile, della madre che si alzava all’alba, ogni mattina, per allestire la bancarella di frutta e verdura appena colte da vendere ai paesani e del padre che riparava le scarpe con scrupolo, perché a quei tempi le scarpe rappresentavano un lusso e dovevano durare il più a lungo possibile. Bisognava conciliare gli scarsi mezzi finanziari della famiglia con il suo desiderio di studiare al meglio senza
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affrontare spese straordinarie. “Entrai in seminario per studiare senza spendere soldi”, spiegava Mario con candore “tale era il mio bisogno di conoscere, di aprire orizzonti culturali alla mia mente affascinata dai libri e lì ce n’erano tanti”. Poi con una grande risata aggiunse: “Con l’aspetto che ho potevo anche diventare un ottimo canonico”, e continuò a ridere allegramente. Proseguì: “Adesso sono in competizione con Davide Lajolo. Ognuno di noi due cerca di accrescere le rispettive biblioteche che ormai contengono più di ventiquattromila libri”. Furono grandi incontri, pomeriggi e serate memorabili. Sembra impossibile che il tempo sia riuscito a portarseli via.
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IL GIOCOLIERE DELLA FANTASIA
Lele Luzzati
La conoscenza avvenne nell’antica fornace di Lino Grosso, ad Albisola Capo. Il mare, quasi lambiva le vecchie case del borgo e il mio papà scendeva ogni giorno sulla battigia, mai sazio di quella distesa azzurra, lui che aveva comandato la Squadriglia della Finanza di mare in diverse città italiane. Proprio accanto alla fornace di Lino Grosso, sotto la galleria del treno, papà tirava a secco la sua barca, modesta consolazione da pensionato. E non mancava di entrare da Lino per l’immancabile saluto quotidiano. Di conseguenza diventammo amici anche noi ed era normale incontrare tutti gli artisti che lavoravano la creta, la laceravano sotto le loro dita, la modellavano, la plasmavano a seconda della genialità e del temperamento di ognuno. Un giorno trovammo lui, Lele Luzzati e non ci lasciammo più. Stava imprimendo sulla materia ancora greggia, la sua inconfondibile impronta. Ricordo. Era un grande vaso e narrava una storia di principi e dame, me ne ero incantata e quando decisi di comperarlo subii una profonda delusione. Era stato acquistato un’ora prima. Ma l’amicizia con Lele era nata. Ci affascinava quest’uomo schivo e sapiente, con un sorriso dolce, quasi da bambino.
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Alberto, Maria, Emanuele Luzzati
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Luzzati, come uomo, pareva impacciato, timido e invece quando si impossessava della creta incidendola con segno preciso, diventava un gigante. Era meraviglioso vederlo lavorare. Spesso stavamo in silenzio per non sciupare con le parole il momento creativo dell’artista. E, in quell’atmosfera, mi è rimasto impresso il fischio e lo sferragliare del treno quando passava sui binari a pochi metri dalla fornace di Lino. Si creò subito, fra noi, un profondo legame. A Lele piacevano le mie poesie. “Sono piene di luce” commentava. Tutto questo avveniva agli inizi degli anni ‘60. Una mattina Albisola si svegliò piena di sole ma bianca per la neve caduta il giorno prima. Lo scenario era veramente da favola, con il mare azzurrissimo e la spiaggia innevata. Accompagnai il mio papà nella sua rituale passeggiata tenendo per mano la mia bambina e sostammo da Lino Grosso come da consuetudine. C’era lui, il Maestro. Si parlò dello spettacolo insolito, il mio papà intrattenne tutti, come sua abitudine, grazie al carattere aperto ed espansivo che possedeva. Improvvisamente Lele prese per mano la mia piccola Angioletta, la portò all’aperto, sulla scala di pietra laterale alla fornace. “Guarda che cosa faccio per te” le disse sorridendo. Prese alcune manate di neve, le sovrappose, compose un pupazzo diverso dai soliti. In quel momento scese dalla sua casa il caro Nico Colombo, il giovane farmacista amato da tutto il borgo. “Posso passare senza distruggere il capolavoro?” pronunciò ridendo e si fermò anche lui a osservare l’artista. Angioletta guardava perplessa. Ad opera finita apparve un candido re e la bambina chiese: “Lo posso portare a casa?”. Lele le spiegò che il sole l’avrebbe presto mutato in acqua e che quell’acqua si sarebbe trasformata in una nuvola capace di
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giocare con il sole. Iniziò così una specie di favola che la mia piccina accolse con serietà. Infatti, a sera, mi domandò: “Il mio pupazzo di neve è fatto di neve o di sole? ”.“E se lo ponessimo sopra una stella?” proposi, tanto per continuare sul filo della fantasia. Chissà cosa sognò quella notte la mia bimba. Forse Lele che cuoceva nel forno di Lino Grosso pupazzi di neve. Iniziò così un’amicizia cara con un uomo e artista favoloso, dal carattere mite, discreto, capace di dare vita, con rapidi tratti, a storie incantevoli di fate, principi e principesse, di personaggi capaci di vivere in un sogno beato d’infinito candore. Una volta gli raccontai delle innumerevoli fiabe che quotidianamente inventavo per i miei bambini, quasi tutte ambientate fra gli animaletti dei boschi e lui sorrise dicendomi che “la fantasia non ha limiti e basta regalare ali di farfalle all’infanzia per crescere i figli in un mondo di poesia.” E poi aggiunse.“ Vorrei che le mie storie entrassero nel cuore dei piccoli e anche dei grandi, per dare ovunque un sorriso”. Una mattina entrò nella fornace di Lino Grosso un medico di Milano, il dr. Vittorio Giancola, frequentatore estivo con tutta la sua famiglia di Albisola. Era da tempo nostro amico. Guardò Lele al lavoro e poi, a voce alta esclamò: “Questo signore è ebreo”. L’artista non mosse ciglio e continuò a dipingere una ceramica. Guardai il Giancola con un’espressione di disagio, ma il signore in questione continuò: “Lo vedo dalle sue mani”. Immediatamente mi inventai qualcosa per cambiare argomento. Però mi rimase la curiosità di sapere quale fosse l’elemento capace di far riconoscere, dalle mani, un discendente della stirpe di David. Forse questo avvenne per un inconscio senso di rispetto, ben ricordando la volta in cui Lele sfiorò appena, con amarezza, il
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racconto dei fatti avvenuti nel periodo delle leggi razziali che lo costrinsero a lasciare Genova per cercare, con i suoi familiari, salvezza nella neutrale Svizzera, a Losanna. Fu in questa città, narrava sdrammatizzando, che si iscrisse all’Ecole des Beaux Arts, frequentata da un altro ragazzo desideroso di diventare ingegnere. Era Aldo Trionfo, colui che sarebbe diventato il suo inseparabile regista. Un giorno Lele ci volle nella sua casa in via Caffaro a Genova. Ci attendeva l’ascesa di novantuno scalini, contati ad uno ad uno, con una certa allegria fino al trentesimo e, dopo, con meno entusiasmo per il fiato piuttosto in crisi. Soffiava un vento gelido di tramontana. “E’ questione di abitudine” precisò il maestro quando giungemmo in cima abbastanza provati. Entrammo nel lungo atrio e con l’ascensore salimmo fino al quarto piano. Il maestro ci fece strada, aprì una finestra:” Non esiste una veduta simile. Amo Genova perché sa essere regina e popolana, prestigiosa e umile. Con i suoi colori, i suoi mattoni, le sue pietre, racconta secoli di storia”. Guardavamo affascinati quella sua visione di Genova. “E’ anche la mia città”, sussurrai e lui, l’amico, si volse verso di me con quel suo sorriso pieno di sfumature, annuì e rispose: “Siamo figli di una magnifica madre”. Immaginavo lo studio di Luzzati vasto, pieno di tavoli sui quali lavorare per rendere vivi i suoi pensieri d’artista. Invece lo spazio era piccolo, limitato in una stanzetta leggermente rettangolare. Il fulcro era rappresentato da un vecchio bancone tipografico pieno di cassettini per contenere i caratteri di stampa e ora traboccanti di forbici, taglierini, pennelli di ogni dimensione, colori di ogni tipo, colle, carte e cartoncini pronti a tramutarsi in magiche forme. Attorno aleggiava un fascino indicibile.
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Sapevamo che le note di Mozart e di Rossini creavano, nella mente di Lele, immagini gioiose e ispirative. Pino gli chiese di spiegarci la sensazione che gli permetteva di tramutare le musiche di questi grandi compositori in personaggi scenici, in fantastici disegni. Rispose con semplicità: “ E’ quella stessa che provano i bambini”. In quel momento l’avrei abbracciato. Sopra una sedia c’erano tanti pezzi di stoffa, scampoli da mercatino e tappeti di finto velluto. Tutto, sotto il suo estro, diventava sontuoso, ricco, inimitabile. Attingo ai ricordi e ne riemergono tanti altri. Rivedo un giorno di pioggia mentre andavamo insieme a prendere un the nel bar di fronte alla Rinascente. “Queste gocce potrebbero diventare coriandoli o fiori”. Lo disse con il suo solito sorriso a volte velato di malinconia, che pareva sfumare tra la realtà e il sogno. Lele e Pino avevano una straordinaria intesa dovuta al carattere mite e semplice dei due, uniti dalla passione per il cinema che condividevano appieno. Non si trattava dei film da vedere, ma di quelli da ideare e da realizzare inquadratura dopo inquadratura, dall’elaborazione del titolo al tradizionale “FINE” che per noi non era mai tale, infatti avrebbero potuto continuare ancora per giorni e per notti, perché certe storie non dovrebbero terminare mai. E’ bene precisare che Pino lavorava sempre insieme a me. Eravamo complementari. A me apparteneva la parte creativa mentre la tecnica, il montaggio e la sonorizzazione della pellicola erano opera sua. Mai, da sola, sarei stata capace di vedere in concreto quanto la fantasia mi suggeriva. Solo grazie al paziente e sapiente impegno di mio marito potemmo giungere ai Festival Internazionali
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del Cinema e a conseguire i più prestigiosi premi. Parlammo a lungo con Lele quando fu il momento di averlo come interprete di se stesso nel “Cenacolo di Albisola” e ci volle a Genova per iniziare il film. Era il 6 gennaio 1972. “Il mio studio, lo sapete, è troppo ristretto. Riprendetemi in questa mia città che conosco nell’anima, che fra qualche anno sarà distrutta nella sua parte più genuina. Amo troppo la nostra città” e si rivolse verso di me che lo guardavo con complice assenso: “Voglio respirare, nel film, l’aria di Genova”. Pronunciò proprio queste parole. Le riprese incominciarono dalla funicolare di Castelletto e poi scendemmo per le creuze, sui lastricati di mattoni antichi e Lele guardava quei rossi calpestati da miliardi di passi appartenuti a gente semplice e a soldataglia, a uomini illustri e a portatori di guerra e di violenza. Mio figlio Alberto, allora undicenne, era già un addetto ai lavori. Guardava e ascoltava, incantato, il maestro, questo suo amico dai capelli grigi e dallo sguardo capace di entrare nell’arcano mondo dei sogni. Ricordo che durante una pausa delle riprese, dispiegarono le ali, sopra di noi, una coppia di colombi. “Possiamo inventare una storia insieme”. Lanciò Lele rivolto verso Alberto: “Da dove provengono questi uccelli dal collo iridescente?”. “ Da un castello assediato” replicò immediatamente Alberto che aveva appena studiato, a scuola, il Medioevo. Il viso dell’artista si illuminò :“Bravo, anch’io vedo le mura, i merli, gli armigeri, i signori del castello. Ma dove si trova tutto questo?” chiede divertito Luzzati “ Sopra un’isola al largo di Genova”, azzardò il ragazzino. “Va benone”, asserì il Maestro sempre più divertito. Continuarono a giocare con la fantasia e su quell’isola,
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novella Fernandea, ci furono nitriti di cavalli, calci di ronzini, dame sventolanti veli coloratissimi dai merli del castello costruito sopra un’aspra roccia, cavalieri fasciati dall’usbergo e quei due colombi che arrivavano nei momenti più determinanti per mutare le sorti dell’assedio, in quanto avevano convinto una moltitudine di pesci a fare barriera contro le navi i cui equipaggi volevano impadronirsi di quella terra emersa, per poi saccheggiare Genova. Più o meno la vicenda si articolava così. “Il Cenacolo” da noi realizzato gli piacque moltissimo. Venne a vederlo a casa nostra e fu un’occasione bellissima perché si soffermò su ognuno dei suoi amici raffigurati nel quadro ispiratore e osservammo che guardava tutti con occhio benevolo e affettuoso. Assentì molte volte durante la proiezione e si mostrò commosso nel vedere Jorn in particolare. Sapevamo che una grande amicizia legava questi due grandi artisti. “Racchiude tutta Albisola e non solo”- commentò alla fine “perché c’è anche Genova proprio come la volevo io. Avete fatto un film importante che fermerà nel tempo quest’epoca”. Era stato profeta. Ci invitò più volte al Teatro della Tosse che aveva fondato nel 1975 insieme con Tonino Conte e Aldo Trionfo. Voleva farci vedere il suo “Ubu re” ma non riuscimmo mai a regalarci quelle ore speciali. Erano troppi gli impegni familiari e professionali di quel periodo. Gli anni si inseguivano e fu facile trovarci anche a Celle, da Marcello Mannuzza, in quella fornace che si affaccia anch’essa sul mare di Liguria aperto fino all’orizzonte, in una molteplicità di azzurri spesso rilucenti di sole.
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Fra quelle antiche volte di mattoni vedemmo nascere, sotto i nostri occhi, generazioni di Pulcinella, teatrini traboccanti di fantasia, tavole rotonde, consessi di rabbini, dame e cavalieri, principesse sognanti. E lui lavorava, traeva dalla creta nuovi capolavori. Vorrei ricreare l’atmosfera fantastica vissuta da noi a quei tempi. Un incontro con Lele, con questo genio rimasto fanciullo, ci inondava mente e anima di poetica bellezza. Ci fu dato il privilegio di vivere intensamente questa amicizia fatta di condivisione, di intensa partecipazione. E di stima e di affetti reciproci. E’ stata un’esperienza che germinava continue meraviglie. Qualche critico aveva accostato Lele a Chagall, ma il Maestro scrollava il capo con imbarazzo. La fantasia dell’uno e dell’altro era dissimile pur se in comune, i due Artisti, potevano avere l’elegante semplicità e l’efficacia del linguaggio pittorico. Rammento il periodo in cui Lele disegnò le favole dei fratelli Grimm e il Candido di Voltaire, per poi proseguire in altre fantastiche storie. Sostavamo ammaliati di fronte alle tavole del “Milione” tanto diverse dalle famose pagine miniaturate del “Livre des merveilles du monde” della Biblioteca Nazionale di Parigi, diventate, quelle con la firma di Luzzati, un’opera di irraggiungibile grandiosità. Tanta immaginifica sfarzosità occupava mente e cuore, tanto quest’opera è viva, sgargiante, mutevole, fantastica ancora adesso. Stare in compagnia di Lele o vederlo lavorare significava lasciare la quotidianità, il mondo circostante, per inoltrarsi
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oltre i confini di un coloratissimo sogno ed era lui a condurci per mano, a guidarci tra cavalli frementi e gazze ladre, fra dame sontuose e damigelle che odoravano di primavera. Sapevamo che sabato 27 gennaio 2007 Genova si preparava a festeggiarlo, ricambiando quell’amore che Lele donava da sempre a piene mani alla sua splendida città. Gli avrebbero conferito il “Grifo d’oro”, l’importante riconoscimento della Città di Colombo per i suoi cittadini più illustri. La sera prima, mentre stavamo guardando un programma in TV, apprendemmo con stupefatto dolore, la sua scomparsa terrena. Pareva impossibile. Eppure, in quel momento, la mia mente si affollò di nobiluomini a cavallo che vagavano disorientati, di Pulcinella che avevano smesso di pescare perché i loro occhi bruciavano di salino. Immaginai ingioiellate castellane, sgargianti donzelle, figure luccicanti in lacrime e tanti Arlecchini vestiti di cenci multicolori con la mascherina bagnata di pianto. Centinaia di personaggi lasciarono il palcoscenico senza tirare le tende del sipario e si unirono agli altri, a quelli che si staccavano dalle tele e dai banchi dei ceramisti. Tutti insieme accompagnarono Lele Luzzati, il loro creatore, in quella sera del 26 gennaio fra salti, capriole, singhiozzi. Se ne era andato all’improvviso sul discendere della sera, nel tepore della stessa casa dove era nato, posta così in alto, in cima a quei novantuno scalini che una volta contammo a uno a uno mentre il vento di tramontana sgombrava il cielo dalle nuvole.
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UN ALTRO GRANDE Nino Strada
Non lo abbiamo conosciuto di persona ci eravamo soffermati, in casa di amici che abitavano in Corso Italia, a Savona, davanti alle sue opere pittoriche e trovavamo ogni volta qualcosa di nuovo,di diverso da ammirare. Ci attraevano quei quadri appesi alle pareti di una grande sala piuttosto in ombra e alcune sue ceramiche disposte sui mobili. Quell’atmosfera li rendeva più preziosi, più riservati. I padroni di casa avevano conosciuto l’autore e ce lo avevano descritto con i capelli neri, il volto lungo, spigoloso, solcato da due lunghe pieghe verticali, gli occhi attenti e scrutatori e con le dita mobilissime nell’impasto della creta o nell’usare, con eccezionale maestria, la matita. Lo ritenevano inesauribile nell’ideare forme nuove, dotato di grande ingegno, pronto per le avanguardie, geniale nel modellare le argille già ai tempi del Futurismo. In quel periodo pieno di nuovi fermenti regnava una grande animazione nella bottega di Giuseppe Mazzotti e il figlio Tullio aveva assimilato le nuove idee divulgate da Marinetti. L’epoca era propizia e il talento dell’artista milanese Nino Strada si evidenziò immediatamente. I nostri amici rievocavano volentieri quegli anni di ardite esuberanze che potevano coinvolgere o scandalizzare, ma
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erano pur sempre sinonimo di novità. In questo clima Albisola visse la sua grande stagione e al momento di dover inserire l’estro creativo di Nino Strada nel “Cenacolo” ci interessammo alla sua vita pur conoscendolo già di fama. Nacque a Milano nel 1904 e sentì ben presto che la sua esistenza non sarebbe stata circoscritta dentro limitati confini. Era figlio d’arte, essendo già suo padre uno scultore di talento. Questi lo indirizzò verso gli studi a Brera per offrirgli basi culturali tali da consolidare le sue innate qualità artistiche. Il giovane vedeva nel suo cognome un segnale preciso, una “strada” da percorrere con sicurezza e fu così che l’artista iniziò a seguirne tante, attraverso l’Italia in cerca di fornaci dove l’Arte della ceramica acquistava maggiore prestigio. A ventisei anni gli fu assegnata una medaglia d’oro e questo incitò il giovane a proseguire per la via intrapresa. Lavorò ad Umbertide presso la manifattura “Rometti” e poi alla “Richard Ginori” acquisendo esperienze diverse sulla materia e sui nuovi indirizzi estetici, ai quali impresse le caratteristiche della propria inventiva. Ma Albisola, con le sue botteghe e il suo mare, lo attraeva in modo particolare e Ivos Pacetti lo introdusse nel suo laboratorio “La fiamma” dandogli assoluta fiducia, consapevole com’era delle capacità non comuni del giovane artista. Un’affermazione di alto prestigio giunse a Nino Strada nel 1937, quando ottenne il Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi per il grande pannello in ceramica realizzato insieme con Tullio Mazzotti, il grande Tullio d’Albisola. Mai stanco di esperienze l’artista si prodigò tra la fornace I.L.S.A. di Albisola e la C.I.M.A. di Deruta.
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C’era anche la prodigiosa moltiplicazione delle Albisole con fabbriche suddivise fra Marina, Capo e Superiore in un crescente fermento artistico che portò quest’angolo della nostra riviera a primeggiare in Italia e all’estero. Dopo altre esperienze fra cui quelle di Faenza, Mozzate, Lodi, Udine, rientrò nell’amata Albisola, accolto con il calore che si riserva alle persone speciali. Negli anni ‘60 Strada tornò a collaborare con la “San Giorgio” la famosa fabbrica di Salino e Poggi, nella quale sostavano tutti gli “illustrissimi” dell’Arte italiana e straniera. Seguirono altri viaggi, nuove esperienze, proficui incontri. Le sue opere uscivano, dopo il battesimo del fuoco, per donare significativi contributi alla ricerca di innovative forme di gusto raffinato. Negli stessi anni, con squisita abilità, illustrò i testi scritti da Tullio e “Medeo”, “Le streghe” e “L’asino di Carlinetto”, pubblicati in edizione limitata, divennero ben presto una rarità. Speravamo in un’occasione propizia per conoscerlo di persona, ma Nino Strada, spesso in viaggio e impegnato in nuove esperienze artistiche non si trovò mai sul nostro stesso cammino. L’artista si spense a Milano nel 1968, quando l’idea del “Cenacolo” non era neppure allo stato embrionale. Al momento di inserirlo nel nostro film, furono i nostri amici di Corso Italia a offrirci il materiale necessario. Pur se Nino Strada era famoso per le sue ceramiche, noi preferimmo riprendere un suo dipinto ad olio, perché era un’opera intensa, piena di suggestioni, struggente. Forse l’artista voleva essere ricordato così.
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L’UOMO RE
Franco Assetto
Tutto ebbe inizio al “Ciacolon”, un noto ristorante di Torino ove erano d’obbligo trentatré antipasti, a cui faceva seguito una lunghissima lista di prelibatezze. All’interno le pareti erano tappezzate con quadri che incorniciavano tantissimi tovaglioli disegnati e firmati da artisti famosi. Da tempo chiedevo notizie di Franco Assetto, del quale si raccontavano l’estrosità e la gaiezza. Sulla parete accanto al mio tavolo trovai appeso un tangibile segno della sua fama di buongustaio, attestante il suo passaggio dal “Ciacolon”. In cornice c’era il solito tovagliolo con disegno e firma dell’Artista. Proprio la sua, “Franco Assetto”. Eravamo andati a Torino, Pino ed io, perché a quei tempi mi era venuta la velleità di dipingere e, al Concorso, avevo presentato due oli ricevendo, nell’insieme, quattro premi, fra cui un ombrello. Viste le mie … preclari virtù pittoriche, il direttore del ristorante mi inviò un cameriere recante un tovagliolo candido. Mi pregavano di aggiungere la mia firma con relativo schizzo, alla loro galleria di celebrità. Risi cordialmente. Però chiesi al giovane addetto al nostro tavolo notizie su Franco Assetto. Era
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Franco Assetto, Maria
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in America, mi raccontò, e diventava una specie di “primula rossa” spostandosi di continuo fra un continente e l’altro. Mi venne in mente di scrivere un biglietto da consegnare all’Artista nell’eventuale occasione di un suo rientro in Torino, con relativa sosta al “Ciacolon”. Il cameriere promise un sicuro recapito. Passarono i mesi. Tanti. Ormai non pensavo più a quell’episodio. Una mattina mi giunse una telefonata. Una voce tonante, serpeggiante curiosità e allegria, parlò di quel mio scritto appena ricevuto e fissava la data per l’incontro. Devo precisare che in quel periodo Pino ed io stavamo lavorando al cortometraggio sugli Artisti più famosi che gravitavano, in quegli anni d’oro, su Albisola. E Assetto era fra questi. Ci accolse, come d’accordo, nella sua casa torinese, sbracciandosi sulla porta mentre, all’interno, una sua gigantografia recava un grande “Welcome”. Così soleva dare il “benvenuto” questo Artista estroverso e geniale. Franco si prestò volentieri a svolgere il nuovo ruolo di protagonista. Fu spontaneo e solare come sempre, poi, si mostrò così nel corso degli anni. In quell’occasione conoscemmo la particolare felicità d’ingegno che era la qualità primaria di Assetto, la sua gioia di vivere, di creare, di ideare. Era riuscito a scolpire l’acqua, lasciando al liquido elemento la sua primordiale libertà. Aveva impresso il suo entusiasmo nelle strepitose modellazioni paretali che ebbero un esaltante successo in America. Ci parlò delle opere apposte sulle facciate di prestigiosi edifici di Los Angeles, della
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Cattedrale di San Basilio, posta nel Wilshire Boulevard, per la quale modellò 5000 chili di creta in 28 giorni, creando, nel 1968, le 14 Stazioni della Via Crucis e, per contrasto, realizzò anche la fontana dell’Università dove fece zampillare 400 ettolitri di vino. Quel giorno nacque fra noi un’amicizia eccezionale. Subito dopo partì per Beverly Hills. Iniziò così una ricchissima corrispondenza. Franco ci documentava sui suoi lavori spesso tecnicamente e fisicamente molto impegnativi. Riempiva quelle lettere di racconti e di disegni dai colori splendenti, capaci di trasfondere appieno i suoi sentimenti improntati di bellezza, di festa interiore, di vitalità. Ci documentò sul suo fastoso periodo surrealista alla Dalì, con dipinti dove la seduzione della figura si estrinsecava in tutto il suo fascino. Poi passò al barocco ensembliste. Non si era mai drogato, amava sottolineare con un profondo senso di soddisfazione e non assumeva allucinogeni perché era stato dotato di una fantasia così frenetica alla quale era impossibile aggiungere altri stimoli. Si compiaceva per le sua intima conoscenza di donne famose e di Elizabeth Taylor, a quei tempi diva incontrastata di Hollywood. Ci inviò le foto delle “Piazze pazze”. Facevano parte di un “divertimento” architettonico: la follia veniva intesa come liberazione dell’inconscio e da questo concetto scaturiva un impianto geniale di accesa teatralità. È impossibile compendiare la vita di Franco Assetto, descrivere i suoi ottant’anni di vita a partire da quel 1911 in cui nacque. Con grande giocondità descriveva la sua infanzia,
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scherzando al ricordo della propria madre, donna eccentrica e bellissima, sempre presente negli ippodromi sfoggiando bizzarri cappelli sormontati da cascate di tulle, piume e fiori, vezzeggiando, inoltre, la scimmietta che portava sulla spalla. Franco l’accompagnava, vestito alla marinara e, annoiandosi profondamente, già sognava la disinvolta cameriera di casa che lo sollazzava diversamente. Un centinaio di lettere, accuratamente da noi conservate, documentano il vissuto vulcanico, esaltante di un Artista che seppe cogliere anche l’aspetto ludico di quanto ci circonda, in un Niagara di adrenalina. Sottolineava: “Se so che cosa avverrà fra un quarto d’ora, non mi diverto più”. Diede significato ad ogni istante della sua vita. Elaborò, lui farmacista, una serie di opere che apparivano quasi una dilatazione delle catene chimiche, con quegli esagoni e quelle forme geometriche insistenti sull’angolo acuto, colorate di rossi, verdi, azzurri vivacissimi, impreziositi d’oro. Si divertì nel periodo del “The big Candy”, in una profusione di budini e caramelle non certo svincolati da quel senso di “golosità” che Franco sapeva estrarre dal suo modo quotidiano di vivere. Ma conobbe anche l’ansia e la sofferenza quando subì un intervento al cuore verso gli inizi del 1984 ed allora non scherzò più, perché cercò nel profondo dell’animo e trovò il fulgore della Fede. Si era immedesimato nel mistero del dolore, sublimandolo. Sono lettere speciali, quelle che c’inviò in quel periodo, aperte sulle grandi tematiche della religione. Ci trasmise la sua esultanza quando a Frontino, cittadina marchigiana posta fra la Massa Trabaria e il Montefeltro in uno scenario incantevole dove natura, storia e arte si fondono mira-
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bilmente, gli dedicarono un Museo per contenere parte delle sue opere. Troneggia, sopra una grande parete “L’Uomo-Re”, da cui traemmo il titolo per il nostro documentario. Già in un periodo precedente, a Frontino, una monumentale fontana dedicata a San Francesco era stata realizzata da Franco Assetto in meno di due mesi, con simboliche sculture d’acqua inserite fra quei valori universali rappresentati dal sole, dalla luna e dalle stelle. Lavorò con particolare gioia a quell’opera nel ricordo di quando, appena quindicenne, voleva vestire il saio francescano e chiudersi in convento. Nello spazio di qualche giorno fu ben presto distolto da immediate e meno caste pulsioni. Sarebbero da approfondire i moltissimi altri aspetti della prodigiosa fertilità artistica di questo illustre Maestro, dal carattere esuberante e lieto. Fu autore di leggendari scherzi tra gli amici del celebre Bar Testa, quando accendeva d’inventiva le fornaci albisolesi. Ci inviò i bozzetti preparati per la costruzione della statua più grande del mondo che avrebbe realizzato in onore di Cristoforo Colombo, approvata dal Governo americano, da edificare sopra un’isola offerta dal Giappone. Il 14 ottobre 1989 ci scrisse a proposito di questo enorme progetto: “La strada è lunga e complicata e per di più è entrata la mafia di Cuba. Dove c’è denaro tutti si prenotano, tutti pretendono, tutti chiedono, tutti ricattano. Sono nauseato. Eppure tutto va avanti in positivo. Domani torno in USA e così potrò capire meglio come dirigere questa nave così difficile da guidare”. Purtroppo non riuscì a compiere la sua straordinaria opera, perché si spense, quasi all’improvviso, il 29 dicembre 1991. Mi dispiace che le leggi sulla privacy impediscano la pubbli-
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cazione di questo nostro epistolario, in cui c’è trasfuso tutto il Suo essere più intimo e segreto. Ma forse è meglio così. Franco aveva donato a Pino e a me la confidenza, la sincerità del Suo animo, tantissimi ricordi personali, l’ebbrezza prodigiosa della Sua fantasia. E il Suo affetto indelebile.
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LA ROSA D’ORO
Esa d’Albisola
Quando ci incontrammo, la prima volta, diventammo subito amiche. A quei tempi eravamo giovanissime. I suoi occhi magnetici parevano divorare tutto. Voleva vedere e cogliere ogni aspetto della vita per impadronirsene, possederlo, renderlo suo. Poteva trattarsi di un granello di sabbia o di una goccia d’oro fuso, come avvenne molti anni dopo, nel suo laboratorio di Via Santa Maria Maggiore a Savona, di fronte all’Istituto Scolastico delle Suore della Neve da dove, a volte, proveniva un lento salmodiare. Oppure si impadroniva dei personaggi che la circondavano e degli altri che aveva conosciuto quando era bambina, accanto allo zio Tullio, al grande Tullio d’Albisola. E lei stessa era diventata grande per età e intelligenza. Visse con passione. Riusciva ad animare tutto intorno a sé, a imprimere ardore a ogni suo pensiero, a ogni sua realizzazione. Era affascinata dalla vita. Le piaceva il luogo dove trascorreva i suoi giorni, la palazzina disegnata dall’architetto futurista Nicolay Diulgheroff nella quale continuavano a fremere storia e ricordi. Si entusiasmava davanti alle anfore, ai piatti, ai vasi che uscivano dalla fornace retrostante per essere poi esposti nelle
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Maria, Alberto, Esa d’Albisola, Pino
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ampie vetrine che si affacciano sulla Via Aurelia. Ricordo, esposta, la “bomba atomica” di Carlo Cardazzo, grondante sangue, simbolo di atrocità e di dolore. Esa si sentiva quasi una vestale, depositaria dell’epoca in cui il futurismo diede una forte impronta anche ad Albisola, con quei “folli” che si riunivano accanto a Tullio e si chiamavano Marinetti, Fillia, Nosenzo, Acquaviva, Balla, Farfa tanto per citarne alcuni, e ognuno di loro portava un verbo nuovo, con l’estrosità fulminante della nuova corrente. Fu qui che nacquero le idee futuriste da imprimere sulla ceramica con forme e volumi mai osati prima. E’ qui che si ideò per poi prendere forma il celebre “Libro di latta”. Esa raccolse tutte le essenze di quanto avveniva nella sua famiglia, le assimilò, le conservò con la sacralità delle reliquie per non disperdere un patrimonio di cultura unico e non più ripetibile. Riordinò lettere, documenti, fogli, fotografie, appunti e li riunì in libri il cui contenuto rappresenta un tesoro per gli studiosi del Futurismo che vi trovano i personaggi di quell’epoca nella grandiosità di artisti ma anche nella loro fragilità umana. Sento ancora la passione che Esa imprimeva ai suoi racconti. Ebbe il privilegio di conoscere Pablo Picasso a Vallauris e ci raccontava, con lo sguardo pieno di allegria, come “donavano” al volto del più celebre fra gli spagnoli, gli orecchini di ceramica che lei aveva modellato ad Albisola. La ricordo, durante le feste notturne in spiaggia, con indosso una grande mantella blu, mentre passeggiava da sola a piedi scalzi sulla battigia, fra le spume merlettate della risacca, al chiarore della luna.
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Sapeva essere un personaggio. Di grande efficacia risultarono le riprese cinematografiche che Pino le dedicò nello studio orafo di Savona. Quelle salette fornirono un set ideale e lavorammo in un’atmosfera piacevolissima tanto fu spontanea e raffinata l’interpretazione che Esa diede di se stessa. Come accadeva spesso, nostro figlio Alberto era presente come tecnico delle luci ormai specializzato. Esa, lei stessa mamma di Giovanni, ragazzino adolescente come il mio, fra una ripresa e l’altra gli spiegò il procedimento attraverso il quale la cera ammorbidita dalla fiamma servisse nella modellazione dei gioielli. Gli regalò alcune strisce di cera rosata e lo pose davanti a un becco di Bunsen acceso. Lavorarono, o meglio, giocarono insieme e formarono fiori e altre forme aggraziate. Ad un certo punto esclamò: “E’ il metodo necessario usato da due categorie di professionisti: gli orafi e i dentisti”. Scherzammo sulle professioni future che avrebbe potuto esercitare Alberto. In seguito, per uno strano caso del destino, il mio terzogenito si trovò di fronte ad un bivio che prevedeva l’una e l’altra delle professioni. La scelta avvenne e Alberto oggi è odontoiatra. Furono splendidi i tempi in cui, a Villa Faraggiana, veniva assegnata la “Rosa d’oro” che con capacità e sapienza lei modellava dopo aver estratto dal crogiolo il più prezioso dei metalli. Questo premio venne assegnato per primo a Tullio d’Albisola e negli anni successivi a Lucio Fontana, ad Agenore Fabbri fino ad Adriano Grande. Le narrazioni di Esa avevano una particolare freschezza.
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Possedeva un repertorio di episodi avvincenti che provenivano dai protagonisti di un’epoca che piano piano si stava allontanando nel tempo e lei voleva conservare intatta l’atmosfera che l’aveva circondata già dalla nascita, per merito di Tullio, il suo geniale zio. Conosceva la mia passione per i presepi e mi regalò una Natività, da lei modellata, di singolare bellezza e tre Re Magi nelle cui mani posò una rosa d’oro. Ceramica e oro formarono due attività complementari e ricche di possibilità creative ed emotive. Era nel pieno della salute quando giunse il suo giorno nefasto. Si era recata sul “Pennello” che è formato da un prolungamento di scogli e pietre costruito quasi di fronte alla loro fabbrica, per guardare il mare quasi a deporvi una manciata di pensieri e di ricordi, una manciata di perle e di ametiste. Inciampò, cadde. Poche ore ancora e giunse la fine. Mi era molto cara, Esa. Sentiva in me e in Pino un’amicizia profonda, vera. E per questo non mancò mai di esprimerci la sua gratitudine.
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IL FIAMMIFERO DI LAM
Wifredo Lam
“E’ solo un fiammifero svedese, rosso e piatto, conservato gelosamente in una di quelle scatoline dentro le quali gli orefici depongono medagliette e collanine. Lo accese una sera, in casa nostra, Lam. Anzi Wifredo Oscar de la Concepcion Lam y Castilla. Visionammo insieme il film che Pino ed io gli avevamo dedicato, si complimentò con noi e si rafforzò quello stato di grazia che permette il fluire dei ricordi e delle confidenze. Erano presenti, appena adolescenti, Angioletta, Enrico e Alberto, i figli sempre compartecipi della nostra vita. Lam iniziò con le analisi di quel suo mondo interiore dal quale traeva ispirazione per le opere che dipingeva e scolpiva, risalendo al proprio padre, il cinese Lam Yam, che lo generò ad ottantaquattro anni con la giovane moglie Serafina Castilla di origine metà spagnola e metà africana. Precisò la sua data di nascita, l’8 dicembre 1902, avvenuta a Born in Sagua la Grande, nell’isola di Cuba. Descrisse, con una vena di allegria e nostalgia nella voce, la figura della sua balia e madrina Mantonica Wilson, la “strega” impareggiabile e fantasiosa che trasferì nell’immaginario del piccolo Lam quelle figure magiche, potenti, demoniache capaci
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Angioletta, Enrico, Alberto, Wifredo Lam, Pino
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di affascinare e impaurire ma anche di seminare germi fantastici per il futuro dell’Artista. Il sorriso attraversava il volto che pareva anch’esso scolpito nella creta albisolese e noi seguivamo, incantati, il tessuto prezioso delle esperienze che in quel momento Lam ci voleva trasmettere e donare. Ci parlò con naturalezza degli uragani di Cuba e della volta in cui, tenendola fortemente per i piedi, riuscì a trattenere e quindi salvare una bambina che il ciclone aveva già sollevato da terra prima di schiantarla al suolo. E poi indugiò, dopo aver acceso con un fiammifero svedese un sigaro dal piacevole aroma, sulla volta in cui, dopo il periodo trascorso all’Avana, i suoi trasformarono in monete d’oro una parte dei loro averi e le rinchiusero in una cintura che gli consegnarono, prima di vederlo partire per Madrid, con queste parole: “Sii sempre in guardia contro pirati e truffatori”. Entrò nei particolari della sua vita, dei suoi amori, della sua prima moglie Eva Piris che sposò nel 1925 e che vide morire due anni dopo di tubercolosi, insieme con il loro bimbo di pochi mesi affetto dalla stessa malattia. Fece passare, davanti alla nostra mente, i furori della guerra civile spagnola alla quale partecipò. Dopo quel periodo cruento conobbe Manolo, al secolo Manuel Huguet, figura dominante nel suo incontro con Picasso. E Picasso gli divenne padre, per i vent’anni di età che li separava, fratello per il calore con cui si prodigò nei suoi confronti, maestro per l’esperienza artistica che possedeva, amico per la sincerità del loro rapporto. Nel 1939 esposero insieme a New York. Iniziarono i trionfi. Le vicende della seconda guerra mondiale lo condussero al castello di Bel Air dove c’erano Marc Chagall, Renoir, Max Ernst, Masson, Léger. Rappresentava un divertimento riunirsi
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un paio di volte la settimana per effettuare insieme esperimenti “medianici”: uno di loro iniziava un disegno o un dipinto e poi passava la mano all’amico seduto vicino. Ogni pennellata d’artista trasformava i segni precedenti in un’altra immagine interpretativa fino alla conclusione dell’opera. L’idea di base era quella di formare, attraverso il talento di ognuno, il supercapolavoro. Ma poi tutto rimase in una allegra fase sperimentale. Parlò del francobollo che gli dedicò Fidel Castro. In un fluire di ricordi, narrò di Elena Holzer, la dottoressa tedesca diventata sua moglie e poi di Lou Laurin la terza bellissima sposa svedese. Lam, in Italia, sognava l’Adriatico, forse attratto da Remo Brindisi. Roberto Crippa gli suggerì Albisola, la terra delle cera- miche aperta sul mare di Liguria. Sulle alture fece costruire la sua splendida villa con piscina e la circondò di totem, tra i quali giocavano i suoi tre figli. Un fiammifero...Wifredo Lam…e il bellissimo ricordo della sua amicizia che continuò, con molti altri incontri, nel tempo.” Questo è un articolo che avevo dedicato a Lam e pubblicato sulla rivista “Pigmenti”. Ma moltissimo altro ho da narrare a proposito di questo nostro amico illustre e carissimo a iniziare dalle serate nella sua villa sempre affollata di gente lieta, con Lou accanto e quei loro tre ragazzini che sfrecciavano fra l’uno e gli altri dei numerosi ospiti. Si viveva in uno stato di grazia eccezionale, erano le stagioni della creatività, della festa, del benessere fisico e morale che
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pervade quando si è sereni e appagati nelle proprie aspirazioni. Albisola, trasformata in una “piccola Atene”, come amava dire Milena Milani, riuniva gli artisti più famosi dell’Arte mondiale e, in casa di Wifredo e di Lou, era normale incontrare tanti di loro, a cominciare da Jorn. In quell’atmosfera realizzammo il film dedicato ai coniugi Lam da inserire nel “Cenacolo degli artisti” fra le risate e gli spruzzi d’acqua che Timour, Eskil e Jonas provocavano con i loro continui tuffi in piscina. Trascorremmo una serata indimenticabile al “Cantinone” di Spotorno, un tipico ristorante allora molto in voga. E Pino, fra una portata e l’altra fu quanto mai brillante, lui che in genere appariva piuttosto riservato. I tavoli attorno a noi erano tutti occupati ma il nostro pareva formare un’isola in mezzo agli altri. Fuori l’aria calda di fine giugno profumava di mare. Un’altra volta, a casa nostra, delineò il mio viso sopra un foglietto di carta, ora in cornice, suscitando l’attenzione dei miei figli che cercarono al lungo di decifrare, in quei segni dallo stile inconfondibile, il passaggio fra l’immagine reale e il filtro geniale dell’artista cubano. Ogni anno, trascorsa l’estate, Lou e i ragazzi tornavano a Parigi e Lam rimaneva ad Albisola, pur compiendo numerosi viaggi a raggiera nel mondo. Ad ogni ritorno si immergeva nel lavoro dando forma ai suoi totem interiori, al suo mondo magico e primitivo, alle angosce remote, alle lotte e ai drammi vissuti, agli orrori della guerra civile, ai coinvolgimenti politici che erano stati determinanti per la sua vita di uomo e di artista. Mantonica Wilson continuava a suggerirgli tematiche ancestrali. Presente e passato si fondevano in un’unica stagione creativa.
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Tutto pareva destinato a sfidare le leggi che regolano la vita umana. Fu uno sconvolgente passa parola la notizia dell’ictus che aveva colto l’artista a Milano nell’agosto del 1978 e tutti pensammo all’immancabile declino. Invece giunse da Lam una reazione imprevista degna del grande uomo che era. Con una enorme forza di volontà pur essendo semi paralizzato e costretto sulla sedia a rotelle, partecipò alle numerose manifestazioni che erano in corso per rendergli onore in diverse parti del mondo. Tornò a Cuba più volte per ritrovare il calore della propria terra d’origine e noi seguimmo con gioioso sollievo i riconoscimenti e le notevoli affermazioni che gli giungevano di continuo dai più prestigiosi Centri culturali di carattere internazionale. Ma la malattia, implacabile, continuava a seguire la sua preda e Lam concluse la sua esistenza terrena a Parigi, l’11 settembre 1982. Il grande Astro del cielo albisolese e dei cieli incommensurabili dell’Arte esiste ancora. Continua a risplendere e la sua luce è destinata a non spegnersi mai.
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GLI ALBERI E L’ATOMO
Mario Rossello
Con Mario Rossello, i nostri rapporti furono improntati da una normale cordialità. Pino e Mario si conoscevano già dall’immediato dopoguerra, quando abitavano in due palazzi quasi adiacenti, ma frequentavamo amici diversi, conseguenza logica di quei tre anni di differenza che giocavano a favore di Mario, il più giovane. Seguì un periodo di crescita individuale, in cui ognuno cercava di plasmare il proprio avvenire in maniera sicura. Quando ci sposammo, Pino ed io, ponemmo le basi per edificare la nostra meravigliosa famiglia, mentre Mario Rossello raggiunse Milano, per proseguire nelle sue ricerche d’artista. Le nostre strade si intersecarono nuovamente ad Albissola Marina, in un pomeriggio estivo, verso la fine degli anni ‘60. Bevemmo insieme un bicchiere forse d’aranciata, sulle scalette di Pozzo Garitta. C’era anche Giuliana, sua moglie. La mente mi riporta, all’improvviso, un episodio collaterale, avvenuto ad Albisola Capo, in una calda giornata di prima estate. Tutta la popolazione del circondario era a conoscenza che, alle ore 16, si sarebbe spalancata la platea all’aperto del Cinema Doria, per donare uno spettacolo speciale alla cittadinanza: Mago Zurlì avrebbe divertito piccoli e grandi con uno spettacolo.
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Mario Rossello, Maria
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Accompagnai i miei Angioletta, Enrico e Alberto esultanti, prendemmo posto e, a brevissima distanza di tempo, giunse Milena con due bambine. “Sono Daniela e Silvana”, precisò subito, forse nel notare un interrogativo nel mio sguardo. “Sono le figlie di Mario Rossello” aggiunse, mentre riusciva ad occupare tre sedie, proprio dietro di noi. Ci scambiammo pareri, allegria, qualche risata e ci domandammo chi fosse quel ragazzo con i capelli rossi, il viso pienotto e l’aria alquanto imbambolata che coadiuvava Mago Zurlì. Si chiamava Claudio Lippi. Quando fu il momento, per i ragazzini presenti, di creare una frase, una poesia con la parola GELOSO, Milena ed io ci prodigammo per aiutare i nostri entusiastici fanciullini. Ad Alberto, il più piccolo, suggerii un acrostico. Vinse un registratore Geloso, un miracolo di tecnica, per quegli anni, un certo Andrea, lo ricordo benissimo. Neppure una scrittrice ormai celebre come Milena Milani, riuscì a strappare per le due piccole Rossello, l’ambito palmares. Le opere di Mario acquisivano sempre più forza e valore, perché seguivano una tematica precisa, parlavano dell’uomo robotizzato, atomizzato, vittima della propria scienza e di un’epoca in cui l’elemento umano subiva costrizioni devastanti, estese anche al mondo circostante che ne assorbiva le conseguenze. L’artista seguiva un preciso percorso. Il suo era un grido d’allarme contro la civiltà che stava sacrificando i valori più importanti, che stava annientando i beni più preziosi. Pur se abituato a mostre nazionali e internazionali, a esposizioni come la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma, era felice quando esponeva nella sua città.
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Molta attenzione ottenne la Mostra che Mario realizzò nella chiesina di San Michele, a Savona. Nei suoi occhi si leggeva la soddisfazione di essere seguito e capito dai propri concittadini, dagli amici che, numerosi, partecipavano a questi incontri di coinvolgimento intellettuale e umano. Tutti volevano cogliere, anche attraverso la ricerca grafica e cromatica, quella forma di intimismo severo e vigoroso che sembrava scaturire dalla profondità della sua coscienza. Era in pieno sviluppo la tematica degli alberi che rappresentava un innovativo percorso per l’artista il quale, credendo fortemente nella “Nuova figurazione”, lanciava un messaggio di coinvolgente attualità. Ed ecco, allora, l’albero, simbolo ideale della vita con le sue radici nascoste nella terra per dare linfa al tronco, ai rami, alle foglie, emblema di stabilità e di sicurezza. Con la nostra cinepresa riprendemmo Mario a Pozzo Garitta, nel mitico cortile dove aveva rilevato lo studio di Lucio Fontana la cui porta spiccava, per il suo verde brillante in quello spazio prestigioso. Appoggiammo le sue tele sui muri che trasudavano incontri, feste, mostre e i banchetti che ispirarono Virio da Savona per il “Cenacolo”, con le cozze cucinate da Efisio, il cuoco sardo e i limoni appena staccati dall’albero. Attorno, le due scalette traboccavano di fiori, di tralci d’edera, di vite americana e le finestrelle adiacenti ricordavano l’infanzia di Santa Maria Giuseppa Rossello che vi abitava da bambina. Non ho mai saputo se ci fosse un legame di parentela fra
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loro, data l’identicità del cognome e la ristretta zona di provenienza. Si tratta di un cognome che, comunque sia, ha donato una Santa alla vastità del mondo cattolico e un pittore al mondo dell’Arte. Per noi, da fissare sulla pellicola disegnò un uomo atomizzato. Concluse le riprese con un primissimo piano sugli occhi espressivi di Mario, Pino ripose la sua Paillard e il materiale necessario e ci soffermammo a parlare con Rossello. Era assolutamente ovvio, e il luogo lo esigeva una volta di più, far convergere i discorsi su Lucio Fontana prima di passare ad altri argomenti. Inatteso, giunse Virio, in compagnia del fabbro che gli aveva appena risolto un problema alla serratura di casa e dei coniugi Michela e Giuliano Califano, lui giornalista de “La Stampa” di Torino. Califano, uomo piuttosto chiuso e severo, ci aveva appena salutati, quando volse lo sguardo verso il muro, sulla destra di chi entra nella piazzetta di Pozzo Garitta, dove erano affissi i quadri di Mario. Si era scostato da noi e guardava, osservava con attenzione non le opere dell’Artista ma una fila di formiche nere, di quegli insetti sociali più grandi del normale, che salivano e scendevano, in riga ordinata, sull’intonaco scrostato. “Che cosa guardi?”, lo scosse con la sua voce, Virio. “Da molti anni non ammiravo uno spettacolo di questo genere”, rispose a tono basso, Califano. Virio sorrideva e, come un maestro che si rivolge ai propri alunni: “Si tratta delle lasius niger “, spiegò calcando volutamente sul nome scientifico e proseguì: “Se riuscissero gli
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uomini ad essere così organizzati e disciplinati, il mondo funzionerebbe meglio. Si suddividono in classi sociali molto ben costituite, tanto da fornire un esempio anche a noi”. Tutti osservammo Virio abbastanza stupiti. Nessuno di noi aspettava una lezione sulle formiche. Con un sorrisetto malizioso, proseguì: “Come le api, anche le formiche formano una società-modello. Lo sapete che, per accoppiarsi, le formiche- regine si concedono un solo e piccolo volo nuziale con i maschi, planano a terra dove avviene l’atto riproduttivo e, subito dopo, il maschio muore sfinito?”. Come era da prevedere, i signori uomini presenti iniziarono a fare battute, a loro avviso, spiritose, ben rilanciate da Michela, Lina per gli amici, e da me considerando che le formiche ci erano state appena indicate quale modello per il genere umano. Il fabbro andò via per fare un altro lavoro nei dintorni. Salutammo Rossello e raggiungemmo, con Virio, la sua casa, insieme con i Califano. Ines ci volle a cena e ricordo un piatto di pesciolini fritti che gustò anche Cicci Palloni, il gatto di Milena. Quel giorno, per me, rappresentò una conquista epocale. Avevo indossato il mio primo paio di jeans.
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LA DEA DEL NORD
Lou Laurin Lam
Ha inserito solo tre donne,Virio, nel suo dipinto: Milena, Esa e Lou. Lou Laurin Lam. La rivedo giovane, alta, bella, con una cascata di capelli biondi e mamma di tre ragazzini dalla pelle ambrata come quella del padre. Ci si incontrava spesso soprattutto lungo la Passeggiata degli Artisti e diventava una scena piuttosto insolita vedere due madri, lei ed io, che parlavano circondate da sei bambini. C’erano i suoi Eskil, Timour e Jonas che insieme ai miei Angioletta, Enrico e Alberto si rincorrevano e si nascondevano tra le palme e le sculture di Lucio Fontana. Altre immagini mi riportano a villa Lam che dall’alto della collina dei “Bruciati” dominava la spaziosità del mare fino all’orizzonte. In quell’incanto dal grande respiro Lou era una sorridente padrona di casa, attorniata dai numerosi amici e amiche, tutti personaggi estrosi e creativi che si avvicendavano di continuo. In tanti momenti di allegria si percepiva la voce della loro radio Marelli identica, nella marca e nel modello, a quella che troneggiava in casa dei miei. Rivedo in particolare Irene Dominquez, la fuoriuscita cilena che ballava, cantava, dipingeva e trasformava ogni momento in una festa. Aveva
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trovato in Lou un’amica brillante. Immancabile era la figura di Adelita, pure lei cilena, sempre pronta, con la macchina fotografica a inquadrare persone e paesaggi. Una volta Lou, era appena giunta da Parigi per vivere la pienezza dell’estate albisolese, mi portò a vedere le sue opere. Ricordo un grande dipinto con un Garibaldi capovolto dai rossi accesi e altre tele sulle quali aveva delineato forme, dilatazioni di animali, impressioni del subconscio, perché anche Lou dipingeva. Non era certo in soggezione nei confronti del suo famosissimo marito. D’altra parte la sua fama di pittrice era già nota ancora prima di incontrare Lam. “E’ una dea del Nord” disse una volta Virio ammirando la sua bellezza. Franco Leone, bravissimo pittore di Tortona e nostro grande amico, trascorreva con la moglie Wanda le estati in Albisola. Una mattina, dopo aver visto Lou uscire dal mare dopo una nuotata, esclamò: “E’ una sirena fosforescente. Persino i pesci vengono in superficie e rimangono a bocca aperta per guardarla”. Proseguì: “Rimangono senza ossigeno e muoiono felici” concluse facendo ridere anche l’interessata. Era molto piacevole la sua compagnia e aveva suoni musicali la sua voce, nella quale si erano impresse le sfumature derivanti dai luoghi dove aveva vissuto, dalla nativa Onsbacken in Svezia a Parigi, da Cuba a New York. Un pomeriggio, seduti attorno alla loro grande piscina ci raccontò, tra una sigaretta e l’altra, il suo primo incontro a Parigi, nella Galleria du Dragon con Lam, in un fine giugno 1955,
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durante un vernissage in cui esponevano artisti latino-americani e assicurò che non influirono negativamente gli oltre trent’anni di età che li separavano e neppure i precedenti matrimoni dell’artista cubano, comprese le sue numerosissime relazioni. Le gorgheggiava una risata in gola quando raccontava l’arrivo di Lam in Svezia con il pretesto di partecipare ad una collettiva presso la Galleria d’arte “Colibrì” di Malmo. In quell’occasione Wifredo si presentò a casa di Lou con un equipaggiamento di maglioni, cappotti pesantissimi, sciarpe e berretti di lana degni del Polo Nord geografico in pieno inverno. Invece era settembre, uno dei mesi più miti per chi vuole visitare, in condizioni favorevoli, la terra scandinava. Fu così che l’artista innamorato fu ben lieto di alleggerire il proprio abbigliamento in vista di dover conoscere il futuro suocero, un altissimo ufficiale dal carattere severo con la relativa famiglia. Mentre indugiava su quei momenti basilari della propria vita, con i suoi occhi chiari guardava l’uomo che le stava accanto, il padre dei suoi figli, l’artista che aveva saputo estrarre dalla profondità del proprio essere quel mondo dagli ancestrali richiami, ammirato nei più grandi musei del mondo. Lam ascoltava e, all’improvviso, la racchiuse tra le sue braccia.
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OLTRE LE BARRIERE
Mauro Reggiani
Il nostro incontro con Mauro Reggiani avvenne tardi, ma sapevamo bene l’eccezionale percorso artistico del Maestro dell’Informale. Ne parlava con schietto interesse Virio, lui così diverso nel rappresentare sulla tela la verità attimale della vita, perché diceva di ammirare l’inflessibile equilibrio razionale che portava Reggiani a rappresentare il “suprematismo astratto”. Spiegava, Virio, gli effetti lineari che l’artista aggiungeva ai cromatismi: “E’ come estrarre dalla tastiera dell’anima note sempre diverse”. Con queste premesse ci avvicinammo a colui che nel 1934 aveva sottoscritto insieme con Virginio Ghiringhelli e Oreste Bogliardi, il primo “Manifesto dell’astrattismo italiano” con il quale intendevano affermare la validità di un’arte che doveva superare la metafisica per giungere all’astrattismo geometrico. Anche Milena Milani ci parlava di Reggiani, ricordando che era stato scoperto da Carlo Carrà per poi giungere, dopo diverse Biennali di Venezia e Quadriennali di Roma, a livelli di prima grandezza internazionale, con mostre a New York e a San Paolo del Brasile, prima di approdare al museo Guggenheim.
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Mauro Reggiani, Pino.
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Ines, la moglie di Virio, trasmise attraverso il macellaio dal quale si serviva, l’invito a Mauro Reggiani, per un giovedì pomeriggio da trascorrere a casa loro dove ci saremmo stati anche noi. Tutto si svolse come Virio aveva previsto. Ero curiosa di conoscere il Maestro e mi accorsi subito, appena entrò, che la sua salute mostrava qualche cedimento. Reggiani aveva già 75 anni e alcuni suoi tic non erano un buon preludio. Pur mostrando il carattere riservato che ci era in anticipo stato descritto, Reggiani fu molto gentile con noi e apprezzò l’iniziativa di essere ripreso per quel nostro particolare film. Fissammo un appuntamento e in una chiara mattina d’agosto, ci accolse nel suo appartamento di via Stefano Grosso. Lo studio appariva lindo, accogliente con una finestra dalle persiane di legno dipinte con un verde brillante e si apriva proprio lì, nelle vicinanze della Chiesa Parrocchiale di Nostra Signora della Concordia. E quando, a mezzogiorno, le campane presero a squillare per il richiamo dell’Angelus, Pino volse l’obiettivo verso il campanile e riprese quel momento di invito alla preghiera. Una giovane allieva di Reggiani ci offrì, subito dopo, una fresca bibita alla menta. Interrompemmo il nostro lavoro per tornare il giorno dopo. Ci interessavano alcuni particolari da aggiungere. Fra una ripresa e l’altra, parlammo della sua lunga attività pittorica e Reggiani accennò ai suoi incontri con Arp e Kandinsky. Non esaltava quegli amici perché, me ne accorsi subito, era normale trovarsi tra geni.
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Cercavo fatti, aneddoti, avrei voluto conoscere tante peculiarità sui due famosi artisti per coglierne meglio l’aspetto umano e gli chiesi di Hans Arp. Dopo alcuni attimi di riflessione ottenni un semplice commento: “E’ difficile evocare quel tempo. Arp raccoglieva dall’inconscio”. Capii che mi aveva detto tanto, in quel particolare momento. Poi si concentrò sul lavoro da eseguire durante le riprese. Di conseguenza tralasciai Kandinsky. Pensavo che ci sarebbe stato, in seguito, il tempo per approfondire con più calma quanto mi piaceva conoscere. Ma non ci furono altri incontri. A fine mese ripartì per Milano e la sua salute tendeva al declino. Però, in quella seconda giornata di riprese, riuscii a dialogare con il Maestro, volevo comprenderne l’animo e il pensiero. Sfiorammo tanti argomenti. Mi rimase impressa la descrizione del suo paese piccino, Nonantola, nel modenese, con poche case seminate in mezzo ai campi che cambiavano colore ad ogni stagione ed erano abitate da tanta gente buona. Parlò con visibile amarezza dei suoi genitori, possidenti benestanti, che lo ostacolarono in tutti i modi nella sua carriera d’artista, perché lo volevano sacerdote o, in alternativa, ragioniere. Invece Mauro aveva scoperto la propria vocazione nell’osservare, da ragazzino, alcune oleografie esposte alla fiera del paese e vedendo un contadino di suo padre disegnare alcune figure sopra la carta da pacchi. “Ero un prepotente”, aggiunse, “e andai alla Scuola di Belle Arti di Modena”. Mi accorsi che stimava poco chi dispensava giudizi critici nel suo ambiente e mi ripeté un suo aforisma:“ Quelli che si
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intendono di letteratura sono pochi, quelli che si intendono di scultura ancora meno, di architettura ne troviamo pochissimi, ma di pittura se ne intendono tutti. E perchÊ? PerchÊ non capiscono proprio niente�. Gli chiesi il permesso si segnarmi questa frase e la trascrissi. La riporto oggi in suo ricordo.
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UN LINGUAGGIO SEGRETO
Giuseppe Capogrossi
La presentazione avvenne per mezzo di Aligi Sassu. Eravamo nella Galleria Pescetto di Albisola Capo per il vernissage di una delle tante mostre che si susseguivano a quel tempo. Un fresco venticello di tramontana alleggeriva il caldo di quel tardo pomeriggio di luglio e c’erano tutti, o quasi, i grandi artisti che componevano quella comunità di geni sommi dell’Arte, da Lucio Fontana ad Agenore Fabbri, da Lam a Jorn. Da Milano era appena giunto Giuseppe Capogrossi. E, proprio di Capogrossi, Pino ed io stavamo parlando con Sassu. Ero incuriosita, da parecchio tempo, del percorso compiuto da questo artista romano e del motivo che lo aveva portato a semplificare la sua pittura figurativa fino a tracciare quel segno riconoscibile, forte e nero, che lo poneva fra gli Informali. “Questi sono i miei amici Cirone” pronunciò all’improvviso Aligi Sassu e rivolto a noi:” Questo è Giuseppe Capogrossi”. Non attendevo altro. Quella stretta di mano ebbe esiti di grande cordialità. Si avvicinò anche Virio e i discorsi presero a volteggiare, nel riassunto di tante esperienze. Ci fu un cenno su Parigi, sullo scrittore Antonio Aniante e su quell’epoca giovanile che permise loro di vivere accanto a
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De Chirico, De Pisis, Campigli, una stagione vorticosa e scanzonata. Ma il mio interesse sull’opera di Capogrossi rimaneva inesaudito. La luce estiva gradualmente decresceva. Ci portammo tutti all’esterno della Galleria, insieme al Ministro Carlo Russo e a sua moglie Elena e potei chiedere finalmente a Capogrossi il motivo del suo cambiamento artistico. Mi rispose che era frutto di una ricerca stilistica innovativa, passata prima attraverso il linguaggio del colore. Pur andando contro corrente non gli nascosi la mia ammirazione per la sua pittura figurativa e lui mi guardò con un sorriso quasi complice. Poi facendosi serio aggiunse:” Bisogna guardare in avanti. Il futuro darà molte sorprese”. Avanzava verso di noi una coppia a braccetto, Rodolfo Maccari con la moglie. Lui aveva perso la vista da ragazzino per lo scoppio di un ordigno bellico, avvenuto sulla spiaggia di Capo sul finire della guerra. In paese era conosciuto e stimato da tutti come uomo e come musicista. Riconobbe il nostro saluto e ci sfiorò con un cenno cordiale prima di allontanarsi. Capogrossi lo seguì a lungo con lo sguardo. Pareva commosso. Sassu lo guardava con attenzione. Come riscuotendosi da un lontano pensiero, Capogrossi, si sentì in dovere di spiegare, forse per la presenza del Ministro. “Ero un bambino, frequentavo ancora le elementari, quando mia mamma mi portò a visitare un istituto per bambini ciechi e ne vidi alcuni intenti a disegnare, malgrado la loro grave menomazione. Tracciavano dei segni forti, precisi, disegni che non avrebbero mai visto ma che provenivano dalla loro profonda identità. In quei tratti c’era il mistero di chi vive senza conosce-
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re le forme e i colori del mondo ma quei bambini esprimevano un loro alfabeto, il loro linguaggio segreto. Bambino io stesso, rimasi molto colpito da quei caratteri provenienti da un mondo ignorato da tutti. Ripetere i segni è diventato per me il modo di riprodurre gli aspetti in apparenza inesplicabili dell’inconscio dopo le mie esperienze precedenti. Non è facile arrivare allo sfrondamento del realismo per giungere all’informale. Avevo stampati in me i segni di quei bambini ciechi e trovo un senso di liberazione quando ripeto i miei ideogrammi”. Ascoltammo con emozione. Il Ministro Carlo Russo annuiva con il capo.“ Questi miei simboli grafici sono uguali ma sempre differenti. Saranno impronte indelebili nell’arte contemporanea”, concluse Capogrossi. Questa volta fummo noi ad assentire e a leggere in maniera più chiara, quell’alfabeto dell’anima. Posso ora aggiungere che fu una serata indimenticabile. In seguito ci furono diversi altri incontri. Uno, inatteso, avvenne nel Comune di Albissola Marina, quando stavano allestendo la “Passeggiata degli Artisti” ideata da Aligi Sassu. Capogrossi portò all’Assessore di allora alcuni rilievi su un qualcosa legato alle piastrelle di vetro-ceramica che l’I.L.S.A. di Carcare aveva inviato in una recente spedizione. Ogni anno, nella prima settimana completa di luglio, Pino ed io seguivamo a Montecatini il Festival Internazionale del Cinema e, nelle pause dei lavori, frequentavamo le mostre d’arte, nostra insopprimibile passione. Ci soffermammo, sotto i portici del “Gambrinus”, nella Galleria che esponeva le opere degli artisti più famosi.
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Trovammo in cornice, un disegno tipico di Capogrossi, meno grande di una cartolina. Il prezzo era esorbitante. Quando rientrammo in Albisola e ci incontrammo una sera sul lungomare ne parlammo per caso. Lui si accigliò: “E’ strano il rapporto fra l’Artista e il mercante d’arte. Viaggiano su due rive opposte”. Nell’ottobre del 1972, prima che iniziassimo le riprese che lo riguardavano, apprendemmo la sua fine avvenuta a Roma, nella città che gli diede i natali. Decidemmo allora di effettuare il filmato riprendendo dall’alto di un palazzo il tratto di passeggiata degli artisti firmata da Giuseppe Capogrossi e con inquadrature particolarmente efficaci, Pino, diede risalto all’opera del grande pittore. Sapevamo che il suo segno “a pettine”, a forma di elefantino come per gioco sostenevo io, era diventato il simbolo che i critici internazionali avevano definito essere “di interiore organizzazione spaziale”, dando onore e vanto a tutte le Gallerie del mondo. Era un grande, Giuseppe Capogrossi. Dimenticavo. In tanti lo chiamavano “l’avvocato”.
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IL MITO
Tullio d’Albisola
Tullio d’Albisola. Il grande, il mitico Tullio. Albisola, a quei tempi, possedeva un fascino incontaminato. Il paesaggio era lineare, con l’orizzonte azzurro e lontano, il mare con i suoi languori e le sue irrequietezze, la spiaggia, il ponte della ferrovia e i treni sbuffanti che si preannunciavano con l’inconfondibile fischio in prossimità della stazione. Marina, Capo e Superiore, con i loro borghi, i negozietti e le fornaci dei vasai parevano adagiate nella quiete. Il fiume Sansobbia creava una divisione. Le acque che fluivano verso il mare, allora come oggi, lambivano rigogliosi canneti ospitanti piccole comunità di anatre. A partire dalla riva destra iniziava Albis(s)ola, quella con le due esse. Ecco, lì a fianco, la palazzina progettata dall’architetto bulgaro Nicolaj Diulgheroff, che continua a rappresentare un’ emblema della concezione futurista. Diversa dalle altre costruzioni, rispecchiava un simbolo dei tempi nuovi, dotata di una modernità audace che risaltava nel paesaggio preesistente. Le ampie vetrine erano un costante richiamo per i passanti e per i turisti dell’epoca. Quando entrai per la prima volta in quel luogo pieno di fascino evocativo, con l’intento di acquistare un vaso, sapevo
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che forse avrei intravisto quel personaggio che recava tanto prestigio a tutta la comunità albisolese. C’era. Appoggiato ad un tavolino posto sulla sinistra di chi entra, Tullio Mazzotti stava leggendo un giornale e non distolse la propria attenzione. Mi venne incontro una signora, era sua sorella Vittoria, la madre di Esa. Le chiesi del vaso che mi piaceva, lo paragonai ad altri, poi decisi di comperarlo. Non era un “vecchia Savona”, ma si presentava lucente, con il colore del rubino o del frutto che, aperto, offre il melograno, con disegni in perfetta art-déco. Tullio continuava a leggere, dietro agli occhiali dalle lenti spesse. Al momento di andare via con il mio vistoso pacco fra le braccia, osai avvicinarmi a lui e mormorai un timido “Maestro”. Alzò gli occhi sorpreso e, tutto d’un fiato, mi presentai, spiegandogli che da poco ero venuta ad abitare in Albisola e che conoscevo il suo nome per fama. Lo vidi piacevolmente interessato. Lo pensavo burbero, scostante. Fu gentile, amabile. Gli spiegai che un mio recente esame presso l’Università di Cagliari si era basato sul Futurismo, ma una cosa era esporre le idee di un movimento letterario studiato in maniera quasi astratta sui libri e ben diverso era conoscere, come avveniva in quel momento, uno dei più grandi protagonisti di quella straordinaria corrente che abbracciava tutte le arti. Il mio discorso lo interessò. “Di quale periodo?”, chiese subito. “Del primo Futurismo”, risposi, “perché la prova si accentrava sul documento scritto da Corrado Pavolini riguardante Marinetti”. Vidi lo sguardo di Tullio concentrarsi su di me con un’attenzione che non avrei mai immaginato.
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“ Pavolini?”, ripeté, “Certo”, proseguii. E mi piacque ricordare il commediografo, scrittore e regista fiorentino, oltre che direttore di “ITALIA LETTERARIA”, spiegando che avevo studiato sulla sua opera “Cubismo, Futurismo, Espressionismo”, proprio in vista di quell’esame. Tullio aggiunse:“ Pavolini scrisse pure “La croce del Sud””. Dentro di me esultavo. “ Lei ha trovato un professore abbastanza particolare, perché nel dopoguerra si creò una tendenza molto limitativa verso il Futurismo”. Assentii. Continuai a raccontare e descrissi quel mio professore, Ignazio Tolu, che veniva considerato da tutti un originale, perché a lui piaceva rendere “le idee elastiche” come affermava spesso e considerava il Futurismo “la più vivace corrente mai apparsa prima nel corso dei secoli”. Assicurava: “Il Futurismo è nel futuro”. Sorrise anche Tullio. Ricordo che mi sollevò molto accorgermi di possedere un argomento sul quale dissertare ed espressi la teoria futurista come la sintesi e la logica risultante di un periodo artistico troppo a lungo statico, secondo quanto Corrado Pavolini scrisse nel 1924. Mi parve di fare una bella figura, ma dentro di me scattava una vena d’ironia, perché allergica come sono alle date, ricordavo questa semplicemente a causa di un caro legame familiare. Sono certa che Tullio si accorse del mio desiderio di cogliere ogni particolare sul mondo ricchissimo che Albisola mi offriva. Vissi molti giorni nel gaudio intellettuale di quell’incontro. Non nascondo che ancora adesso provo una notevole simpatia per Corrado Pavolini. Il suo nome contribuì senza dubbio a
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farmi entrare, per quanto possibile, nel vissuto eccezionale di Tullio d’Albisola. Fu da Tullio che per la prima volta sentii pronunciare il nome del capitano Vincenzo Nosenzo, il proprietario della“Lito-Latta”, lo stabilimento con sede a Zinola (SV) dove, nel 1934, venne studiato e realizzato il famoso “Libro di Latta” dal titolo “Anguria lirica”, con i testi poetici dello stesso Tullio e i disegni di Bruno Munari. Allora ero lontana anni luce dal pensare che un giorno saremmo diventati amici dell’ingegnere Riccardo e di Nadia, il figlio e la nipote del capitano Nosenzo e che con i loro ricordi avremmo realizzato un film dal titolo “Il Libro di Latta”, lavoro più volte premiato nel settore del cinema d’Autore e, al Festival di Salerno, a livello Internazionale. Nel corso del tempo continuammo ad incontrarci con Tullio ed Esa ora al Bar Testa, spesso alla Galleria Pescetto e, nel susseguirsi di tante manifestazioni, a Pozzo Garitta. In un pomeriggio di fine estate Tullio ci accolse nel suo negozio con l’amabilità che si riserva a chi si stima veramente e ci donò il suo libretto “Medeo”, ballata del vecchio portuale con i disegni di Nino Strada e la leggenda paesana intitolata “L’asino di Carlinetto” anche questo illustrato dal grande pittore. Poco tempo dopo ci regalò “A.A.A. 500000 Urgonmi “ poema d’amore, con prefazione di Marinetti. Adesso sono io a scrivere un’inserzione da pubblicare su tutti i giornali del mondo:
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A.A.A. 500000 urgonmi parole per raccontare ancora le meraviglie della nostra antica, cara Albisola guidata, impreziosita, onorata da Tullio Mazzotti, il Mito.
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QUEL CARO RAGAZZO
Enzo Fabiani
Comperavo il settimanale “Gente” per leggere gli articoli di Enzo Fabiani e di Luciano Garibaldi. Ero ben lontana dall’immaginare che un giorno saremmo diventati amici dell’uno e amici fraterni dell’altro. I loro articoli mi affascinavano, quelli di Fabiani mi lasciavano un segno dentro, vibranti com’erano di immagini d’arte e di suggestioni sempre nuove e diverse, dovute alla poesia e alla spiritualità che l’autore sapeva imprimere nei suoi articoli. Garibaldi, invece, rappresentava la storia, quella vera, senza fraintendimenti, priva di contaminazioni e di concessioni di parte. Ma le nostre vie erano destinate a incontrarsi. Dovevamo completare il film sul Cenacolo e prendemmo appuntamento per incontrare Enzo Fabiani, anche lui raffigurato da Virio nel celebre quadro, nella sede del suo giornale, a Milano. Cosa per noi rarissima, decidemmo di andare in treno. Volevamo ritrovare il fascino dei vagoni, i sedili di velluto con il centrino bianco ove appoggiare la nuca, il fischio all’arrivo nelle stazioni. Eravamo lieti nell’animo. E’ probabile che, seduti accanto, Pino ed io, ci tenessimo per mano. Accadeva spesso, era normale fra noi.
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Maria, Enzo Fabiani
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Una figurina deliziosa, d’altri tempi, era seduta di fronte. Ad un certo punto, quando il paesaggio invernale si illeggiadrì di un tenue raggio di sole, ci rivolse la parola: “Siete in viaggio di nozze?”. Sorridemmo sorpresi e le parlammo dei nostri venticinque anni di matrimonio, dei tre figli già grandi, dei nostri impegni professionali. “Andiamo a Milano - soggiungemmo- per incontrare Enzo Fabiani”. Si illuminò tutta e gli occhi di un indimenticabile celeste splendettero: “Oh, quel caro, caro ragazzo!”. Sapeva tutto, ricordava tutto, Elena Pirovini, di quel giovane toscano nato a Fucecchio nel 1924, che voleva fare il giornalista a Milano e già allora si esprimeva, da grande letterato e poeta. Frequentava gli artisti che ruotavano intorno a Brera e sorseggiava la fragrante cioccolata calda in quel locale gestito da papà Pirovini, così caratteristico e così autentico nel cuore della vecchia Milano, in Via dei Fiori Chiari. Ci fu tempo, durante il viaggio, di ascoltare i suoi ricordi su Crippa, Dova, Fontana, Quasimodo, Buzzati e su tanti altri artisti, poi diventati famosi, che approdavano nel suo locale per un piatto di lenticchie e cotechino. E su questi argomenti conservo due lunghissime e splendide lettere di Elena Pirovini. Purtroppo, dopo qualche tempo, me ne giunse un’altra, firmata da una sua nipote, la giornalista Maria Pia Rosignoli, in cui mi comunicava con tristezza che sua zia Elena non c’era più e che avendole, la zia, parlato così a lungo di quel nostro incontro in treno, si sentiva in dovere di informarmi del ferale evento.
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Provai un grande dolore. Si era veramente spenta una grande luce. Appena giunti in Via Solferino e introdotti nello studio di Enzo Fabiani, dopo i primi convenevoli, parlammo della dolce, delicata signorina Pirovini e sentimmo, nella voce del giornalista famoso, un’eco di commozione. “E’ una persona tenera”, ci confermò lo scrittore, “insieme alle sorelle, nella trattoria di famiglia, si prodigava per il benessere di tutti i giovani studenti d’arte che approfittavano della loro generosità per sopravvivere. In cambio di un piatto caldo, mostravano di essersi redenti grazie ai loro pii consigli e giuravano che mai avrebbero varcato i due portoni adiacenti, dove esistevano frequentatissime case del peccato”. Anche per merito della dolcissima amica di Via dei Fiori Chiari, fra noi e il giornalista si stabilì un’intesa umana e spirituale come raramente avviene, soprattutto in un primo incontro. Enzo iniziò a raccontare dei suoi anni giovanili, della fame autentica spesso attenuata proprio dalla pia famiglia Pirovini, dell’incertezza che lo struggeva, del suo impensato incontro miracoloso con Salvatore Quasimodo che, nello spazio di poche ore, gli trovò un luogo dove sostare e un lavoro nel quale credere. “In un attimo avvenne la grande svolta”. Ci avvicinò la parola “miracolo”. E quando parlammo delle sofferenze e delle ansie che non risparmiano nessuno nel corso delle vicende umane e ci soffermammo su episodi recenti e personali, sentimmo Enzo Fabiani proteso verso un travagliato percorso religioso, nel quale era facile sentire la sua sete d’infinito.
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Volle portarci a Erba, con la sua macchina, per il pranzo. Sostammo in un locale di cui ricordo ancora la tovaglia a rigoni bianchi e blu e il risotto alla milanese con l’osso buco. Anche a tavola Fabiani ci parlò dell’importanza, per l’essere umano, di compiere un cammino spirituale verso la salvezza. Creò una profusione di immagini nel rievocare il Dio Bianco degli Incas che divenne il peggiore degli uomini, ci tracciò il percorso di Jacopo della Quercia, con la sua vita e i suoi peccati. Passò poi a Rembrandt che incise sopra una lastra “con tratto commosso”, precisò, la sua giovane moglie dormiente. Forse per associazione di idee creava un’elegia d’amore per la sua bellissima moglie. Le ore trascorsero in fretta. Eravamo incantati. Tornammo ancora a Milano per le riprese e fu un altro incontro indimenticabile. Ricavammo tanto materiale filmico da inserire nel “Cenacolo degli artisti” che riuscimmo a realizzare un altro film, dal titolo “Oro di notte”, con l’introduzione di un personaggio femminile, interpretato dalla giovanissima Maria Grazia Virio, quale filo conduttore. In seguito, nuovi incontri avvennero in Albisola e una sera, a casa nostra, continuammo i nostri “discorsi di ricerca spirituale” come li avevamo definiti, nella consapevolezza che certe risposte possono giungere solo dalla fede. La figura di Clemente Rebora lo affascinava, la portava ad esempio di un travagliato percorso di vita. Ci trovammo in un’altra occasione, a Villa Faraggiana e c’era con noi Giorgio Caproni che, nei giorni precedenti, avevo presentato sullo schermo di TeleSavona. Fu una conversazione
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indimenticabile che si protrasse a lungo fra i viali della nobile dimora che ispirava motivi di poesia. Ma parlammo anche di numeri, scoprendo che Caproni ed io condividevamo lo stesso giorno e mese di nascita. Ebbe il I Premio, Enzo Fabiani, quando l’Associazione Culturale Albisolese presieduta dal dr. Franco Cecinati indisse il Premio di Poesia “Alba Docilia” e anche in quella occasione Villa Faraggiana offrì uno splendido scenario. Incontri importanti. Dialoghi d’anima. Ideali. Grandiosità spirituali che si intravedono in Sant’Agostino e in San Tommaso, ma che esistono anche nell’innocenza di un bambino, in una vetta stagliata contro il cielo, in un fiore appena schiuso, nell’onda che si adagia sulla riva. E negli sconfinati prati della poesia.
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IL NOBEL DI SICILIA Salvatore Quasimodo
Vittorio Venturino, amico da sempre di Pino e per qualche tempo anche suo collega all’ INPS di Savona, ci invitò ad una festa che si sarebbe svolta ai Piani d’Invrea, dove Annaviva, la sua compagna, dirigeva la galleria d’arte “Orizzonte”. Attendevano quale ospite d’onore, Salvatore Quasimodo, il poeta che aveva ricevuto dalle mani del re di Svezia il Premio Nobel nel dicembre 1959. In quel periodo avevo seguito tutte le polemiche, le critiche, le provocazioni che si erano accese dopo quell’evento e ricordo di essermi indignata per un articolo di Mario Apollonio quando disponeva Quasimodo al terzo posto dopo Ungaretti e Montale. Invece condividevo il pensiero di Carlo Bo e di Francesco Flora che ponevano il poeta di Modica al primo posto della triade, per la componente ellenica di Quasimodo che mancava negli altri due. E’ indescrivibile, quindi, la gioia che provai nell’attesa di quell’evento. Finalmente potevo conoscere di persona il grande uomo di Sicilia che ammiravo, studiavo, sentivo nella profonda ricchezza dei suoi versi. Non solo, sapevo che aveva in comune con i miei genitori bambini, l’immane tragica esperienza del terremoto di Messina che il 28 dicembre 1908, causò centoventimila vittime e apoca-
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littiche devastazioni. Forse, ai margini delle possibilità, avrei ottenuto qualche suo ricordo perché mi risulta che, in quei frangenti, mio nonno Francesco Scarfì, sottufficiale della Guardia di Finanza di mare e il padre del poeta, Gaetano, funzionario delle FFSS, si fossero conosciuti durante le operazioni di soccorso. Ogni tanto i nomi di Sciarrone, La Fauci, Quasimodo, Zanghì, ricorrevano nei racconti di mio nonno Francesco per l’aiuto che portarono ai sopravvissuti. Tutto pareva predisporsi nel migliore dei modi, ma all’ultimo momento, un serio imprevisto ci tolse quella felice occasione. Per compensare la delusione, Vittorio ci regalò la registrazione audio di quella serata. Rimase in noi la speranza di un successivo incontro, sapendo che il grande poeta di Sicilia era tanto legato alla nostra Albisola. Ma questo, non avvenne più. Quando il 3 dicembre 1988 ad Albisola “l’Associazione Culturale albisolese” e il “Sodalizio Siculo- Savonese L. Pirandello” con i rispettivi Presidenti, il dott. Franco Cecinati e il no-taio dott. Enzo Motta, indissero il simposio “Dalla SICILIA alla LIGURIA con Salvatore Quasimodo e Angelo Barile” chiesero un mio intervento. Mi espressi così: “ La Sicilia e la Liguria: sui punti opposti di questa ideale linea geografica, sintesi di moltissime differenze storiche, culturali, linguistiche troviamo l’esperienza poetica di due autori illustri: Salvatore Quasimodo e Angelo Barile. Qui, in questa Albisola da me scelta per far mettere profonde
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radici alla mia famiglia appena creata, ho avuto modo di conoscere, di apprezzare, di stimare sia per la garbata signorilità dei tratti sia per l’autenticità dei suoi versi, l’ avv. Angelo Barile. Era il 1952 e per me, appena trapiantata nella Liguria che pur mi aveva dato i natali, Angelo Barile con il suo quasi quotidiano saluto, era un punto fermo, una sorridente certezza. E’ quindi, per me, un incontro ricco di vibrazioni interiori, quello che stiamo per fare questa sera, in omaggio a questi due nostri insigni poeti che, pur non possedendo molti punti per carattere e per stile di vita, hanno in comune incommensurabili valori: l’amicizia che li ha uniti e la grandezza della loro poesia. Diceva il Manzoni che “far poesia è cercare la verità nel cuore dell’uomo”. E questo è avvenuto nella appassionata, struggente, spesso lacerante vicenda umana ed artistica di Salvatore Quasimodo. Pur se molti testi anche autorevoli danno a Siracusa il privilegio di avergli dato i natali, in verità il poeta nacque nel 1901 a Modica, nella città di origine fenicia ricordata da Cicerone, Plinio, Tolomeo e costruita - direbbe Bufalino in “Figura di Melagrana”- sopra uno sperone roccioso che si eleva fra due valloni sedi di fiumi. Aveva pochi mesi, il piccolo Quasimodo, quando avvenne una terribile alluvione e la famiglia si trasferì a Gela. Risalgono a quel periodo i primi ricordi, i densi umori della terra, gli intensi profumi delle zagare in fiore, gli ardenti silenzi, gli spazi rilucenti di sole. E mentre insieme percorriamo il cammino umano di colui che onorerà in sommo grado la poesia, in Italia e nel mondo, mi permetto di aprire un inserto che fa parte del mio più intimo patrimonio emozionale.
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I miei genitori, e molti di voi li hanno conosciuti, erano ambedue messinesi e dalla loro voce ho sentito raccontare tante volte le atroci fasi del tragico terremoto di Messina, avvenuto esattamente 80 anni addietro: il 28 dicembre 1908. Posso aggiungere, per creare meglio l’atmosfera e per la storia stessa, che erano le 5,40 del mattino e piovigginava. La prima scossa tellurica fu sconvolgente: la città, i paesi intorno, la Calabria, in pochi secondi “interminabili” divennero un ammasso di rovine. Ci furono 120.000 morti. Il mare si apriva all’improvviso ed in mezzo alle onde apparivano colonne di fuoco: questo spettacolo affascinava ed impauriva il mio papà bambino. La popolazione che si era salvata viveva nelle barche da pesca poste lungo il litorale devastato, a sua volta, dal susseguente maremoto. Intanto si ripetevano i terremoti di assestamento. In questo scenario allucinante giunse il piccolo Salvatore Quasimodo, in quanto il suo papà ferroviere doveva prendere servizio alla stazione di Messina, con decorrenza dal 1° gennaio ormai imminente. Aveva sette anni, tanti quanti ne aveva la mia mamma e non è difficile immaginare le emozioni che può aver provato un fanciullo particolarmente sensibile ed intelligente, al contatto di una simile “irreale” realtà. Non ebbe una barca per casa come la ebbero i miei cari genitori allora bambini, ma un vagone ferroviario. In quel periodo prese contorni precisi e vigorosi la figura paterna che poi troveremo paragonata a quella del gallo, molto probabilmente a causa di quel berretto giallo o rosso che distingueva coloro che hanno ruoli ben specifici nell’am-
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bito delle Ferrovie. Il futuro Premio Nobel per la Letteratura compì studi tecnici ed accettò lavori non certo esaltanti, prima di essere assunto nel Genio Civile. Era avido di vita. L’inquietudine, le necessità del vivere quotidiano lo portarono ben presto lontano da casa: gli rimarrà sempre nell’animo il dolore per aver lasciato la madre, insieme al rimpianto per l’Eden perduto. I ricordi, decantati dalla memoria attraverso il passare degli anni si trasformeranno in liriche di alta suggestività e di rara bellezza. Nasce il mito in una forma di immaginario ascensionale che coinvolge la ricerca preziosa della parola, i valori musicali del verso, il palpito della più alta emozione, inteso ogni volta quale fatto non più ripetibile in tutto l’arco della vicenda umana. Canterà “Mater dulcissima” con accorata invocazione di perdono, come fosse una preghiera. I versi si snodano con semplicità d’espressione, con una metrica volutamente spezzata per dare alla lirica un tono familiare, raccolto. Non c’è mai una parola inutile. L’uomo isolano spazia con il verso che, alieno dall’enfasi, trae ineguagliate esperienze nella spiritualità della Grecia antica e perenne. Simile all’architettura di un tempio greco è “Tindari”: gli stessi versi sorgono alla pari delle barene emergenti dal mare violetto. Vibrano modulazioni delicatissime che sfumano in un tremito musicale. La perfezione classica riprende e sublima il senso universale della bellezza. Intanto Quasimodo si sposta lungo la penisola e a Firenze conosce il primo fra gli illustri liguri che gli saranno amici: Eugenio Montale. Siamo negli anni 1929-30 e viene pubblicata
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la prima raccolta importante del poeta: “Acque e terre”. Nel 1931 giunge in Liguria. L’uomo espansivo del sud trova amicizia, affetto, attenta partecipazione alle sue ansie artistiche in letterati schivi e riservati: sono Camillo Sbarbaro, Angiolo Silvio Novaro, l’indimenticabile Adriano Grande, l’illustre albisolese Angelo Barile, l’insigne critico letterario e scrittore Aldo Capasso. Ed Albisola vive un momento di grandi fermenti culturali che si estendono in tutto l’arco della Liguria. Per non disperdere questo considerevole patrimonio storico-culturale e nell’intendimento di realizzare un’opera pittorica di vasto respiro, alcuni lustri addietro il nostro caro amico Virio da Savona, per strana coincidenza coetaneo di Quasimodo, riunì in un Cenacolo simbolico i personaggi più illustri dell’arte contemporanea che avevano trovato rispondenza in Albisola. L’opera, acquistata qualche tempo addietro dalla Cassa di Risparmio, mostra una grande tavola conviviale attorno alla quale, fra pittori e scultori celebri, sono raffigurati i poeti illustri: Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Salvatore Quasimodo, Adriano Grande, Enrico Bonino. E’ stato l’omaggio di un egregio pittore all’arte e agli uomini che maggiormente l’hanno esaltata e la esalteranno nel tempo. Leggo in uno scritto apparso su “Risorse” che l’epistolario intercorso fra Barile e Quasimodo aveva delle particolarità: mentre il poeta albisolese scriveva quasi sempre a macchina, Quasimodo si avvaleva della sua chiarissima scrittura a penna. Ebbene, trovo in una lettera d’amore inviata da Quasimodo a Sibilla Aleramo, questa frase: “Non ho una macchina da scrivere a mia disposizione; dovrei rivolgermi al dattilografo, e qui sarebbe lo stesso che affiggere un’ordinanza podestariale”.
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La vita sentimentale di Quasimodo è stata tumultuosa. Il poeta spesso sfuggiva alle realtà drammatiche del vivere quotidiano per dedicarsi a numerosi amori. Noi abbiamo soltanto il dovere di registrare questi dati di verità dai risvolti anche abbastanza dolorosi. Ed a questo punto ecco il trasferimento in Sardegna, l’equivalente di un allontanamento, di una punizione. Il poeta vive con una certa mortificazione questa esperienza; ma trova in quell’isola solenne e biblica nuovi motivi di canto poetico, riscatto di una solitudine psicologica e metafisica. Si acuisce il senso del drammatico e del tragico in un’accorata visione dell’infelicità umana. La frustrazione dell’esistenza si trasforma nei più alti accenti, nel momento in cui scatta la scintilla della delusione e, a volte, della disperazione. Ed è a questo punto che l’infanzia e la terra di Quasimodo si confondono in un unico sogno, in un desiderio struggente e mai appagato di spirituale verità: la stessa Sicilia serve al poeta per spiegare il mondo con le sue tenebre e le sue luci. Riemerge, nell’intensità del sentimento, il mito antico che corrisponde, per tacita simbiosi a quello di Seféris, in una dimensione di vasto respiro lirico. Quindi, con “Oboe sommerso”, raggiunge il nucleo poetico più profondo: contrappone alla perduta felicità dell’età dell’oro, il decadimento senza salvezza. Il poeta vuole riuscire a resuscitare la sua primitiva condizione di figlio del Sole. La vita è latomìa, gelida cava di pietre, prigione, fatica. E’ nella consapevolezza della propria caducità che lo scrittore sente “il nuziale germe della morte”, il destino segnato.
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Quindi sceglie un ideale “luogo” di primitività incorrotta, mito insieme, di vita e di cultura: la Grecia antica. Ed esprime tutto questo in un linguaggio rigoroso ed aristocratico nello stesso tempo. Gli amici liguri si stringono ancora intorno a Quasimodo e grazie all’interessamento di Angiolo Silvio Novaro, il poeta siciliano può stabilirsi finalmente a Milano. Qui sembra ritrovare il suo ambiente naturale, tra gli artisti che si riuniscono al Biffi o al Salvini, impegnati in discussioni fervide e feconde. Ci sono Arturo Martini, altro figlio spirituale di Albisola, Cantatore, Sinisgalli, Persico, Aligi Sassu, anche lui assiduo frequentatore delle fornaci albisolesi. Ma c’è pronto un altro “esilio” in Valtellina, dove Quasimodo trova “un capo che non sopporta i poeti”. Comunque torna spesso a Milano, richiamato da profonde esigenze culturali e letterarie, oltre che dal desiderio di essere vicino agli amici. Stanco per i continui trasferimenti Quasimodo lascia il Genio Civile, lavora come segretario di Zavattini e quindi diventa redattore del “Tempo”. Traduce i lirici greci con dinamicità di linguaggio e di stile, acquistando una perfezione tale da dargli grande prestigio presso i più attenti critici. Ma subentra la guerra del 1940. Nuovi orrori incombono sul mondo. Ritornano alla mente le macerie viste nell’infanzia. Il poeta vive a Milano i momenti peggiori, conosce il sapore istintivo e primordiale della paura; ma riesce a trasformare questa angosciosa esperienza in poesia epica, a testimonianza
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di un impegno etico e civile che lo vedrà in primissimo piano. L’ “io” individualista diventa “noi”: si apre ai problemi collettivi, alle tematiche sociali. Un ufficiale, al rientro dalla prigionia, gli raccontò che ogni mattina, nel triste campo tedesco, leggeva una poesia tratta da “Acque e terre”. Era un avvocato. “Ma gli avvocati non leggono versi”, commentò testualmente Quasimodo. “Nei campi di concentramento...a quanto pare...sì”. La sua poesia era stata motivo di incomparabile conforto e di speranza per tanti uomini vessati e privati del più sacro dei diritti: la libertà. E’ per questo che ritengo opportuno rendere omaggio al Poeta insigne, in una rievocazione che oggi è quasi un miracolo: dalla viva voce dell’Autore ascoltiamo queste due liriche: I soldati piangono di notte e Ride la gazza nera sugli aranci “Gli avvocati non leggono libri di versi”: forse aveva dimenticato, anche solo per un attimo, che il suo amico albisolese Angelo Barile era avvocato, scriveva versi e...leggeva quelli degli altri. Ci sono momenti poetici che avvicinano, sia pur parzialmente, i due scrittori ed appartengono all’intimismo religioso. Alla fede tersa di Barile fa riscontro la tormentosa invocazione di Quasimodo: “Del peccatore dei miti, ricorda l’innocenza, o Eterno, e i rapimenti, e le stimmate funeste. Ha il segno del bene e del male…”. Soffre per le macerie del proprio cuore.
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E si diparte anche qui la dicotomìa presente sempre nella poesia quasimodiana che contraddistingue vita e morte, l’aspirazione ad un mondo felice e la realtà che quasi in assoluto annulla ogni edonismo, l’immenso amore per l’esistenza nell’insieme di tutti i suoi valori e l’annullamento dell’essere. Dare ed avere. Compresenza di Caino e Abele anche nell’uomo d’oggi. Ed è possibile, a questo punto, una comparazione fra due poesie suggerite dalla stessa tematica sulla condizione finale dell’uomo: “Uscire dalla vita” e “Ed è subito sera”. Nei suoi versi Barile crea, con dolcezza, con levigata serenità quel voler uscire dalla vita come quando si esce dalla chiesa in un finale d’organo. E mi commuove il ricordo di tutte quelle S. Messe domenicali ascoltate insieme, nella Chiesa Stella Maris di Albisola Capo ed il giorno in cui apprendemmo che il nostro Concittadino non c’era più. In contrapposto c’è la sovrumana bramosia di sole di Quasimodo, il suo struggente amore per la vita pur se spesso questa è resa amara dalla solitudine e lo straziante rimpianto nel sapere che, per quanto lunga possa essere l’esistenza, “é subito sera”. Venne “sera”, per l’appassionato siciliano, in maniera inattesa, durante un soggiorno su quella Costiera amalfitana così ricca di intense suggestioni. Era il 1968. Si rinnovava in quel momento il mito di Fetonte, dell’audace figlio del Sole che voleva attraversare la volta del cielo guidando il carro trainato dai cavalli immortali. Aveva dimenticato di essere una creatura mortale e cadde colpito da una folgore di Zeus.
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CosÏ avvenne per il figlio della Sicilia, bramoso di sole, assetato di luce, insignito nel 1959 del premio Nobel per la Letteratura. Anche il Poeta cadde, all’improvviso, trafitto da un raggio di Sole".
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IL MERCANTE DI VENEZIA
Carlo Cardazzo
“Cardazzo si innamorò di Albisola per fare dispetto a Milena”. Così sosteneva Tullio Mazzotti nel descrivere la figura di Carlo Cardazzo mentre Milena lo saettava con occhi ridenti. Sapevamo del dualismo Genova - Venezia esistente tra il gruppo dei nostri artisti liguri e il veneziano Carlo Cardazzo e delle loro accese dispute al bar Testa, nella Piazzetta della Palma, con il vanto per le rispettive squadre: Giovanni Caboto e il savonese Leon Pancaldo per Genova e Marcantonio Bragadin e Ferdinando Isola per Venezia. E non sfiguravano, per le due fazioni, Niccolò e Vettor Pisani contro i Lamba Doria. Questo accadeva in quelle indimenticabili sere d’estate quando i più grandi artisti del ‘900 facevano corona attorno a Carlo Cardazzo, il più noto gallerista e collezionista d’arte del tempo oltreché autore, egli stesso, di opere destinate a ricoprire uno spazio importante nei più prestigiosi musei. In quel periodo, nella mia famiglia, lievitavano i figli, con le nascite a breve distanza l’uno dagli altri e le voci mi giungevano di riflesso, tramite gli amici che venivano a trovarci. Noi intravedemmo Carlo Cardazzo una sola volta, in macchina, all’altezza delle Funivie di Savona, mentre con accanto
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Piatto di Carlo Cardazzo. Collezione privata
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Milena, guidava la sua Giulietta bianca verso Marina. Pino, era al volante della nostra Prinz blu, targata SV 39911, con me a fianco, diretti in città. Nella frazione di un attimo, Milena ed io ci scambiammo un cenno di saluto con la mano e mi rimase, nella mente, la figura imponente e protettiva del suo compagno. Fu quella l’unica volta in cui, di sfuggita, potei cogliere un’immagine del gallerista di cui conoscevo l’amore incondizionato per Milena. Lo sapevamo dotato di un’intelligenza vivissima che, unita ad una lungimirante sensibilità artistica, lo portava verso gli autori di un nuovo linguaggio pittorico, dallo spazialismo all’astrattismo, all’informale, diventando il mercante italiano d’arte più qualificato dell’epoca. La “Galleria del Cavallino”, a Venezia, la “Galleria del Naviglio”, a Milano, la “Galleria Selecta”, a Roma, rappresentavano tre fulcri di massimo prestigio nel nome di Carlo Cardazzo, dove si incontravano i personaggi più eletti dell’arte, della letteratura e della poesia mondiale. E’ ancora da Tullio che io sentii una frase indimenticabile a proposito di Cardazzo: “ Ebbe una vita trionfale, tiepolesca eppure seppe mischiarsi con i più umili lavoratori della creta, con i piattai dei tempi antichi e volle modellare “pezzi” che rimarranno nella storia dell’arte”. Ricordo la “Bomba atomica” di ceramica che fu per lungo tempo esposta nella vetrina di Tullio, forgiata come emblema della mostruosità di cui l’uomo è spesso portatore, frutto velenoso di una nuova scienza empia che, con una formula chimica, è in grado di distruggere l’umanità. Carlo Cardazzo grande con Milena, Milena Milani grande
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con Cardazzo. Insieme formavano una coppia ineguagliabile per l’apporto che, in stretta collaborazione e con unità di intenti, imprimevano alle loro giornate. Milena percepiva, capiva, prevedeva e a volte inventava con l’intuito della donna vogliosa di vita piena, ricca di curiosità esistenziali che la portavano a scandagliare gli umori più segreti della gente comune e, soprattutto di quella non comune come poeti, scrittori, letterati, filosofi, pittori, scultori di fama internazionale. Spesso li proponeva a Cardazzo, li sospingeva verso le fornaci di Albisola, li catturava con un istinto sicuro. A sua volta Carlo esaltava le qualità di Milena essendo lui stesso persona di vastissima cultura e dotato di capacità e competenza eccezionali. Riponeva nella sua donna una fiducia piena, ammirava la sua impetuosità, abbracciava le sue convinzioni, consapevole delle sue scelte sicure. Insieme condivisero esperienze eccezionali e divennero non solo una forza, ma anche un’eccellenza nel campo dell’arte. Due intelligenze complementari l’uno all’altra diedero vita a un’epoca esaltante. Viaggiarono, conobbero, acquisirono esperienze che solo a pochi è dato di vivere. Milena fu sempre discreta accanto a Cardazzo. Voleva che i meriti delle scoperte fossero attribuite a lui, al suo uomo, a quel veneziano doc troppo prematuramente scomparso, a colui che si innamorò di Albisola, perché Albisola era il cuore di Milena. Cercammo di imprimere tutto questo, quando inserimmo Carlo Cardazzo fra i commensali del “Cenacolo”.
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LETTERA A MILENA
Albisola Sup. 10 luglio 2013
Carissima Milena, in tempo reale, ieri, mi è giunta una telefonata: “Milena non c’è più”. Ho provato la sensazione di un altro strappo doloroso nell’animo. Poi, una profonda commozione ha preso il sopravvento. E sono affiorati una miriade di episodi, di piccoli e grandi momenti vissuti insieme in quella fantastica repubblica delle Arti che tu, in particolare, animasti con il fascino della tua personalità, con la sapienza delle tue scelte. Ti rivedo con quel tuo sorriso a volte ironico, incurante di ogni critica soprattutto all’epoca dei famosi processi per i tuoi libri “scandalosi”, allora, quando la morale si misurava con il metro dell’ipocrisia. Eri dotata di una bellezza particolare, con il corpo asciutto e il viso carico di espressività nei tratti segnati da una vaghezza di indios. Eri umile o superba? Semplice oppure altera? Eri come volevi essere e non certo capace di adeguarti agli altri o di sottometterti alle critiche sulle quali passavi con un senso di compiacimento. E gli amici ti amavano veramente. Mi sento assalire dalla nostalgia. Possibile che quegli anni ricchi di fervori si siano allontanati per sempre? Possibile che siano rimasti solo i ricordi da salvare, da parte di chi ha condiviso quell’epoca meravigliosa e irripetibile?
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Milena Milani, Maria
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E’ una specie di fuoco artificiale quello che mi torna alla mente e a volte c’erano davvero, in quei cieli notturni estivi, le esplosioni pirotecniche accese di colore. Tutti i nostri giorni fulgevano di idee nuove e le fornaci albisolesi cuocevano ceramiche che sarebbero state ammirate nei Musei più famosi del mondo, mentre c’era chi indugiava con inchiostro e penna a scrivere poesie, da Camillo Sbarbaro a Salvatore Quasimodo. C’erano pure quelle accensioni nel mondo albisolese. Tu avevi accanto Carlo Cardazzo, l’espressione massima del tuo amore, quello totale, travolgente. E poi, dopo, cercasti di esorcizzare il dolore per la sua perdita spargendo semi di malizia, divertita nell’essere osservata, criticata, chiacchierata. Tanto, quella ferita non la vedeva nessuno. Perché, lo sai, cercavo di scandagliarti nell’animo e tu me lo permettevi. A volte ci chiedevi: “Perché proprio io su questa terra? Per quale scopo?”. Con Pino e con me diventavi l’altra Milena, quella delle confidenze più vere, quella che voleva una parola in più nell’intento di chiarire i dubbi che assalgono ogni essere umano. Volevi riflettere e comparare i sentimenti più profondi. Quando presentai in una fornace albisolese il tuo libro “Soltanto amore”, dicesti in pubblico che nessuno aveva proposto la tua opera in maniera così spirituale, come avevo fatto io, abituati tutti com’erano a cercare nelle tue pagine quella sessualità su cui si taceva, in tempi ancora preclusi, obbligati dalla morale e dalla religione più rigorosa. Anche un sacerdote aveva disquisito su quelle pagine, ma non era riuscito a centrare il filo sottile, e il più importante, almeno per me, che attraversava il tuo lavoro. Quando ti inserimmo nel film “Il Cenacolo degli Artisti”, studiammo le inquadrature giuste, per esaltare la tua perso-
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nalità di donna straordinaria pure nel fisico, rimasto giovane, malgrado tu fossi allora ultracinquantenne e ti stagliammo sul pennello dei Bagni Sant’Antonio, contro il cielo, dopo un disinvolto e pubblico cambio d’abito. “Milena è sempre una Nereide”, commentò un critico nel visionare il nostro film, ad un Concorso Internazionale. E non sapeva di quella volta in cui molti anni prima, eri emersa dal mare con un costume color carne e il popolo dei bagnanti, a Marina, allibì, tacque per alcuni secondi e poi si diede a vorticosi commenti, a piccanti chiacchiere, ad aspre critiche che ferirono il giovane pediatra savonese che da mesi ti corteggiava. Quando scrivesti “M’innamorai a Mosca” esaltasti, in quelle pagine, mio figlio Enrico e Mariassunta Rossello, già in precedenza interpreti, a teatro, di quell’opera così avvincente. Le loro voci giovani ed espressive avevano trovato le vibrazioni giuste per lasciare un segno nell’animo degli spettatori. Unanimi erano stati i consensi. Rivivo le serate al bar Testa, uniche, indimenticabili di una lunga stagione fatta di tante stagioni. L’estate era piena di quel caldo che proveniva dal sole, dalla sabbia infuocata già al mattino, dalle fornaci accese per dare l’impronta finale alle opere di Sassu, di Scanavino, di Fabbri, di Salino, di Lam, di Jorn. Mi torna alla mente quanto ridemmo insieme quella volta in cui, lo scanzonatissimo Franco Assetto, urtò volontariamente il cameriere del bar che arrivava con un vassoio di gelati e di bibite fredde, calcolando il momento e l’angolazione giusti per far finire il tutto dentro la generosa scollatura della compagna di un pittore, dotata di straripante seno. Il volto di Franco assunse
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il tono compito e convinto dell’ingenuo ma, conoscendo il suo carattere, nessuno gli credette, a cominciare dalla signora che, molto indispettita, lasciò la compagnia fra un turbinio di proteste e di invettive in cui emergeva la parola “risarcimento”. “Zingarate”, si sarebbe detto nel film di Monicelli, molti anni dopo. Ci fu anche la volta in cui tagliai e cucii buffe mini mutandine che tu autografasti e che qualcuno tiene in cornice nel proprio studio ancora adesso. Apprezzavo di te il particolare dono della sincerità con cui ti avvicinavi a tutti, da Maria Josè regina d’Italia al ragazzo del gas. Me lo confermasti un giorno quando, appena tornati da Scarperia, ti narrai i fasti di quei cinque giorni e di quelle cinque notti di feste rinascimentali che mi avevano dedicato nella gemma del Mugello, a sigillo del mio libro “L’albero e le stelle” coniando il fiorino con il nome della mia Casata, spendibile in quei giorni e la cartolina con l’annullo postale. Vidi brillare i tuoi occhi di gioia e tanti piccoli soli ti si accesero dentro. Poi mi rivolgesti molti apprezzamenti e aggiungesti: “Il mio ramo toscano, quello di mio padre, proviene da Scarperia. Mi hai fatto venire la voglia di ritornarci”. Rivedo il tuo sorriso e proprio perché ti voglio sempre viva, raccolgo le pagine inedite della nostra amicizia. Ecco, riaffiora un altro episodio. Avvenne una sera d’estate e con Rachele, suo marito Tullio, la baronessa Melodia e un giornalista di Torino decidemmo di cenare alla Conca Verde. Volevamo goderci qualche ora di frescura. Raggiungemmo il ristorante ed il Carlini ci venne incontro con fare desolato: “Mi dispiace tantissimo, ma questa sera non posso accettare clienti.
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Un notissimo sarto di Bologna ha affittato tutto il locale per sé e per la signora che lo accompagna, sapete, questi artisti sono tutti stravaganti. Lui è famoso, è anche un grande collezionista d’arte e lei è una scrittrice … sì a voi lo confido, si tratta di Milena Milani ”. Gli amici che erano con noi si stizzirono. Pino ed io liberammo la delusione in un’allegra risata. Per una strana combinazione della vita, il sarto bolognese Guido Bosi, personaggio estroso oltre ogni limite, sia pure alla lontana rientra fra le persone affini alla mia famiglia e sapevo che aveva cucito gli abiti per tutto l’Olimpo della cultura, dell’arte e dell’imprenditoria tra cui Gianni Agnelli, Marc Chagall, Joan Mirò, Rudolf Nureyev, Silvana Mangano, Franco Corelli, Lucio Fontana al quale impose i pantaloni a quadri poi diventati un “cult” e non solo. Possiamo aggiungere il suo grande amico Giuseppe Capogrossi di cui conserva ancora i sandali, Man Ray, Walter Chiari, Giorgio Strehler. Ci fu il momento in cui mi proponesti di fondare insieme un giornale. Avrebbe dovuto intitolarsi “ PUNTO FERMO”. A Pino sarebbe andata la parte amministrativa e tecnica, noi due avremmo curato l’impostazione del contenuto che veniva esteso ai vari collaboratori. In quel periodo ci frequentammo quasi quotidianamente ed eravamo entusiasti per l’impresa che ci attendeva. Occorrevano gli sponsor. Trovammo qualcosa, ma non in maniera adeguata. Dopo un periodo di fervori fummo assorbiti da altre problematiche e quel nostro sogno proseguì, in maniera sempre più rarefatta nel tempo fino ad esaurirsi. Conservo
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ancora le prime stesure di quello che doveva essere il “nostro” giornale. Spesso arrivavi a casa nostra con Anna, la tua mamma. E quando venivamo da voi, come dimenticare Cicci Palloni, il vostro amatissimo gatto? Una volta assistemmo ad una tua litigata con il prof. Seghini, primario di ortopedia e tuo amico. Avvenne all’Ospedale San Paolo di Savona, quando il nosocomio era ancora in Corso Italia, così rassicurante, così importante nel centro della città. Ti avevano investita con una macchina e dalle radiografie non risultavano fratture. Tu, davanti a noi, dicesti a Seghini che le avevi dentro e le sentivi. Abbastanza infuriata aggiungesti che lui e tutta l’equipe erano “incapaci e incoscienti”. Il Professore replicò che la scienza è infallibile e che eri tu ad essere insofferente. Alla fine si convinse e ti sottopose ad altri accertamenti. La seconda lite con Seghini, avvenne quando giunsero i risultati. Le fratture c’erano, come sostenevi tu, da parecchi giorni. Gli rinfacciasti un mucchio di sue presunte debolezze passate, presenti e future. Per arginarti, il luminare, tentò di abbracciarti. Prima ti schermisti, poi tutto finì in un tuo mezzo sorriso, in verità poco convinto. Mi sovviene l’indimenticabile estate del 1973. Eravamo ai primi di agosto, quando compisti uno dei tuoi capolavori con l’allestimento della Mostra Nazionale per gli “Scrittori che disegnano e dipingono”, al Museo della Ceramica in Albissola Marina. Era la prima nel suo genere da noi e tu facesti venire da Londra Sandro Paternostro che giunse trafelato, ci raccontò,
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dopo una deviazione in quel di Trento. Si rilevò subito un personaggio simpatico e divertente. Riuscisti a convincere Ennio Pouchard che non era per niente difficile lasciare New York per partecipare alla tua manifestazione ed egli arrivò in un crescendo di entusiasmi che espresse brillantemente a fine serata. Ma fu anche la nostra serata, perché venne proiettato il nostro film “Il Cenacolo degli Artisti”. La mente, pur se a distanza di tanti anni, mi trasmette quell’atmosfera lieta, brillante, con le tantissime signore dalla pelle fragrante di creme, di sole e di mare, con eleganti abiti lunghi che scivolavano su corpi ancora giovani e con i capelli freschi di parrucchiere, sapientemente cotonati per esaltarne i visi. Gli uomini amavano tenere le camicie aperte sui petti villosi e abbronzati. C’era, palpabile, una grande gioia di vivere e tu, con un foulard in testa che ti raccoglieva i capelli e ti copriva parte della fronte, assumevi un’aria “piratesca” e la mia definizione ti fece piacere. Quella sera il sorriso non ti abbandonò mai, passavi dall’on. Paolo Bemporad, nostro amico, ad Antonio Siri, convinto che le sue lune portassero fortuna a chi le possedeva, da Renzo Aiolfi, fracassone e divertente come al solito, al monsignore che si muoveva con disinvoltura fra tante bellezze femminili vestite in maniera non esattamente sobria per l’epoca. Erano i tempi in cui un politico italiano, diventato poi Presidente della Repubblica, centrò con uno schiaffone il volto di una stupefatta signora, rea di indossare, ad una festa, un abito ritenuto da cotanto gentiluomo, troppo “scollacciato”. I ricordi s’inseguono, lambiscono la mente e rivedo quei
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giorni trascorsi a Milano, era il 18 aprile del 1974, lo stesso giorno in cui i brigatisti rossi rapirono il giudice Sossi a Genova. Quel pomeriggio proiettammo alla Galleria “Il Vertice” il nostro film “Il Cenacolo degli artisti” in concomitanza con la Mostra di Virio. C’era una parte della Milano che conta, dalla soprintendente alle Antichità e alle Belle Arti Bianca Maria Scarfì, a me legata da vincoli parentali, ai miei cari amici Rizzini del “Corriere della Sera”. E non ti sfuggirono la prestanza fisica e gli occhi verdi “abbaglianti” di mio cugino Lino Rando venuto da Catania per l’occasione, il quarto di sette fantastici figli maschi messi al mondo da mia zia Maria e da zio Giovannino, cosa che ti divertì e ti interessò moltissimo. “Siete tutti così belli?”, continuavi a chiedere: “Sei tu il migliore?” ammiccavi sorniona. Le battute proseguirono a cena e parecchie furono piccanti come quegli spaghetti al sugo con peperoncino ardente, gustati tutti insieme in un ristorantino che da sempre era frequentato dagli artisti in Via dei Fiori Chiari. O dei Fiori Scuri, perché ho sempre confuso le due vie attorno alle quali si intrecciavano le vite dei giovani artisti, già dai tempi della Belle Epoque. Non mancava “Briciola” di Brera, al secolo Enrico Boetti, un ragazzo minuto ed esuberante che si univa sempre a noi, quale fedele aggregato. Continuano ad affluire i ricordi di quegli anni magnifici, Milena cara, mentre stai veleggiando in quell’arcano di fede e di mistero che da poche ore ti ha condotto là, dove ci sono tanti amici ad attenderti, fra angeli svolazzanti e cherubini intenti a suonare la cetra. Cerco di imbrigliare i pensieri che si accalcano nella mia
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mente e li concentro su quella serata da favola trascorsa a Fondi, in casa del pittore Domenico Purificato, invitati Pino e io da questo altro grande Maestro dell’Arte italiana, senza sapere che ci saremo incontrati con te e fu un abbraccio gioioso, il nostro, anche per la sorpresa. Poi ci separammo in altri gruppi, tu ti allontanasti con Nanda Primavera la brava attrice che Alberto Sordi volle in parecchi suoi film, e noi ci intrattenemmo con Nino Manfredi, “invidioso”, perché scoprì che il mio matrimonio era più felice del suo e Erminia, sua moglie, volle sapere quale era il nostro segreto. Nella primavera del 1977 mio figlio Enrico già premiato al Festival dell’Umorismo di Bordighera, allestì una mostra al “Circolo Europa ‘80” in Via Pia a Savona per esporre le sue opere grafiche e volesti fargli tu da madrina con il discorso di inaugurazione. Pranzi, feste, mostre d’Arte. Ed ogni volta c’erano motivi nuovi di dialogo. Nello snodarsi del tempo condividemmo anche i dispiaceri, quando mancò la tua mamma, quando mancarono i miei genitori. Può apparire irrispettoso, ma comprendemmo i reciproci sentimenti per il vuoto lasciato in te da Cicci Palloni e in noi da Napoleone che non era un micio come il tuo, ma una cinciallegra vissuta in casa nostra dieci anni, alla quale mancava solo la parola e che anche tu conoscesti. Mi appare un altro flash, quando presenziammo alla mostra “Azzurro e melodia”, nella primavera di un probabile 1979, a Milano, nella galleria “Il dialogo”, posta sull’angolo della celeberrima Via della Spiga. C’erano tutti i grandi, a cominciare dallo stilista Giulio Mantovani.
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So che avevi molto affetto per Pino, che apprezzavi quel suo modo d’essere dolce e discreto. Glielo dicesti una sera, a cena, allo “Splendid Hotel Venezia” di Cortina. Appoggiasti una mano, con gesto fraterno, su quella di Pino e gli sussurrasti: “Hai una famiglia unica”. Era il 20 agosto 1998. Il giorno prima Rosanna Ghedina, Rolly Marchi, Giuseppe Tedeschi, Giorgio Soavi avevano presentato il mio “Libro di Vetro” e il libro di plexiglas di Nadia Nosenzo. Era seguita la proiezione del nostro film “Il libro di Latta”. Fantastico fu l’intervento di Rolly, dell’uomo eccezionale che, messa da parte la sua laurea in giurisprudenza, diventò scrittore, alpinista e appassionato sportivo, ideatore della 3 -Tre e di altre gare che videro sulle piste da sci campioni come Gustavo Thoeni, Deborah Compagnoni, Alberto Tomba, Katja Seizinger, Marc Girardelli. Usò per me parole indimenticabili di stima e di tenerezza, chiamandomi ad un certo momento “la bambina di vetro”, tanto aveva intimizzato il mio ideale di limpidezza morale e di trascendenza, cose che, spiegò, si possono ottenere solo conservando un’estrema purezza. Continuò il suo discorso per sottolineare la gioia e l’emozione che possono dare i sentimenti che nascono dalla luce interiore per poi tramutarsi in arte. Sostammo tre giorni con te e fu buffo il tuo incontro gelido con una signora della politica italiana di nome Rosy, che passeggiava per Cortina. Non più in ordine cronologico rammento la spensieratezza di quell’altra sera a Voze, insieme con un altro favoloso dell’arte, Ercole Pignatelli e suo padre Giuseppe, principi di Strongoli per il Gotha dell’aristocrazia e nobili veramente di intelletto e di cuore.
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Andammo su, con la Bentley bianca di Ercole e diverse altre macchine, a mangiare focaccette squisite e a bere un frizzantino rosato, fresco al punto giusto, parlando di cozze e di presepi prima di giungere, oltre a tante altre confidenze personali, a Innocenzo XII, loro antenato, Papa di capacità politiche, diplomatiche, teologiche. Da quell’incontro nacque una bella amicizia, ci scrivemmo per lunghissimi anni con Giuseppe Pignatelli, fino alla conclusione della sua parabola terrena. Neppure un mese addietro, quando sono andata alla mostra di Aurelio Caminati, ho letto sul catalogo il tuo scritto e ne avevo riportato un forte turbamento. Lo spirito era quello di sempre nel descrivere lontani corteggiamenti con lieve ironia. E concludevi: “... ti voglio bene. Nelle Praterie del Cielo sarà più bello parlare insieme”. Allora, cercai la data. Dopo il tuo nome, con una stretta al cuore lessi “ Ospedale San Paolo, 5 giugno 2013”.“No, no, no” gridai dentro di me. Avevo intuito che eri consapevole dell’addio. C’è un grande vuoto, oggi nelle nostre Albisole. Ora starai passeggiando con Caminati in quelle infinite Praterie punteggiate di fiori d’oro e ci saranno anche loro, Cardazzo, Lam, Jorn, Sassu, Scanavino, Quasimodo, Luzzati, Virio, Bonino, Grande, Salino, Tullio ed Esa d’Albisola, Assetto, Capogrossi e troverai certamente lui, il mio Pino dolcissimo che, con una cinepresa divina, starà riprendendo la storia dell’eternità. Con il bene di sempre Maria
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IL BIONDO VICHINGO
Asger Jorn
BELLO. Indubbiamente bello con quegli occhi azzurri, chiari, brillanti, con capelli e barba biondi ad incorniciargli il viso, il sorriso spontaneo appena velato di malinconia e la struttura fisica dell’uomo venuto dal Nord. Il biondo danese in Liguria. POVERO. Indubbiamente povero quando, dopo tre mesi trascorsi a Milano, giunse ad Albisola lasciandosi alle spalle il suo stesso vero cognome Jorgensen insieme a dolori, a ribellioni, all’ossessiva religiosità della mamma Maria, alla dramma- tica e duplice esperienza giovanile del sanatorio, comprese le crisi esistenziali, la depressione. RICCO. Indubbiamente ricco per la mirabile componente artistica che possedeva, per la fantasia irrefrenabile, per la creatività innovativa che lo condusse dal figurativo all’astrattismo. A quei tempi, era il giugno del 1954, in paese si vociferò di una famigliola straniera attendata di notte sotto un’arcata del torrente Sansobbia con un capofamiglia identico all’artista danese. Di sicuro si sa che Asger e famiglia trovarono una precaria sistemazione a Grana, in una specie di magazzino sprovvisto di tutto, appartenente, un tempo, alle tenute del marchese Faraggiana, aperto davanti ad un frutteto composto, in prevalenza, da alberi di albicocche.
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Pino, Asger Jorn, Maria.
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E quei frutti di alabastro ripieni di sole, succosi e saporiti, furono il cibo ideale per i quattro ragazzini che non conoscevano simili delizie. Ad arredare l’interno provvide Lele Luzzati con due sedie grandi e quattro piccine. Poi ci fu la solidarietà degli artisti e di qualche vicino. Noi conoscemmo per la prima volta l’artista danese alla San Giorgio ed Eliseo Salino, per l’occasione, si profuse in elogi che parevano rimbalzare come una pallina da ping pong dall’uno agli altri, al punto che divenimmo curiosi tutti di frequentarci e di diventare amici. Asger era tutto preso da quella nostra prima conoscenza e dal fatto che i discorsi si erano avviati partendo in maniera insolita, dalle origini, e mi piacque raccontare che avendo i miei avi radici in terra di Sicilia, e più precisamente a Messina, nella mia famiglia esistevano, così come si narrava da sempre, innesti vichinghi. Lo testimoniavano la carnagione molto chiara di alcuni di noi, gli occhi azzurri o verdi e altri parenti biondissimi, compreso mio nonno materno Giuseppe Rando. L’artista parlò dello Jutland, del suo paese Vejrum e di quell’angolo di Danimarca, mentre i suoi occhi filtravano tristezze lontane. Ci ritrovammo qualche sera dopo, al Bar Testa. Si parlava di musica e Jorn accennò sottovoce un canto in lingua danese. Fu suggestivo per tutti noi. Piacque anche a Roberto Crippa di solito portato verso altri argomenti mentre
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Virio ripeteva: “ E’ eccezionale, ha talento in tutto”. Un paio di sere dopo ci invitò a casa sua. Salimmo su, alla “bicocca” dei Bruciati, insieme con una dozzina di persone. Portammo due bottiglie di “Barbera” e aggiungemmo una bottiglia di cedrata Tassoni, bibita insolita da offrire ad un uomo del nord Europa, cosa che servì per riparlare della Sicilia e dei suoi fragranti agrumi. Poi Jorn decise di suonare e comparve quel suo ormai mitico violino dimenticato in treno durante la sua discesa in Italia e ritrovato all’Ufficio Oggetti Smarriti della stazione di Milano, quando le speranze parevano essersi volatilizzate. Trasse note dovute alla propria ispirazione rendendo indimenticabile quella serata che lasciava intravedere le prime stelle. Viso, mani, violino erano un insieme di vibrazioni, di effetti particolari che davano emozioni e pareva di vivere un momento unico perché, infatti, era così. Non volle applausi, fermò tutti con un cenno della mano. Passò alla cornetta, a quello strumento a fiato che richiede studio e bravura. Pino ascoltava con attenzione, sapeva “leggere” la musica meglio di me e lo vedevo compreso, perché c’era qualcosa fuori dal consueto che apparteneva a conoscenze diverse dalle nostre. In casa, sul tavolo di marmo, c’erano bottiglie, salame e olive. Strano a dirsi, ma si vuotò anche la bottiglia di cedrata. Mezzo bicchiere lo bevve anche Jorn, annuendo, ma sono certa che la “Barbera” gli piacque di più. Da quel momento ci si incontrò più spesso. Pino ed io fummo testimoni, una volta, di una delle tante battaglie politiche accesasi all’improvviso fra gli artisti abitu-
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dinari del Bar Testa e, non nascondo che osservai con interesse la veemenza, l’impeto degli uni opposti agli altri quasi scesi “a singolar tenzone”, e fu uno spettacolo per le tesi portate avanti, da ognuno, con estrema passione. “Guardate Picasso” pronunciava con toni infiammati Jorn “Esiste un simbolo più grande di lui? In Pablo c’è il significato di tutto, c’è la tragedia degli oppressi, la lotta per la libertà”. Agenore Fabbri pareva emettere scintille: “La libertà deve trionfare, ma quel tempo è ancora lontano. I popoli devono reagire, bisogna finirla con l’umiliazione, con la schiavitù, con gli oppressori dei popoli”. “Le guerre - proseguiva Asger - sono un trionfo per le canaglie che vendono armi”. C’erano gli altri artisti, i moderati o quelli che avevano abbandonato un vissuto lacerante e ancora presente, perché la guerra era terminata da diversi anni, ma esistevano ancora molti problemi sociali e morali irrisolti. Aligi Sassu, con il suo vissuto, accendeva altri fuochi. Il padrone del Bar Testa seguiva, ascoltava ed era certo che, quella sera, tutti si sarebbero dimenticati di ordinare un gelato o un caffè. Fu durante una di queste serate estive che Asger mi confidò: “Ho tante malattie, dentro di me, che non guariranno mai”. Questa frase mi rimase scolpita con un segno indelebile perché racchiudeva tutta la sofferenza dell’artista che estraeva materia viva dalla sua anima. Fu lui a scrivere sopra un nastro di ceramica affisso nella sua dimora: “Pace avrai se pace darai”. E quando giunse il momento di realizzare il film su di lui, fu proprio quella frase a incoronare quasi la figura del grande danese.
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Asger Jorn ci guidò in quel suo percorso umano e artistico con un fare amabile, mentre l’azzurrino del fumo usciva dalla sua pipa. Camminammo fra i terrazzini e i giardini disposti ad arte usando le regole della fantasia, perché è il genio creativo che inventa e trasforma, frantumando ceramiche, inserendo stalattiti, conchiglie, sassi, reinventando aiuole fra le disposizioni degli alberi. Piccoli incanti struggenti e segreti davanti a quel mare aperto a distesa, dove c’era spazio fino all’orizzonte per un incrocio di navi, di vele, di barche e di lampare quando scendeva la notte, in una prospettiva grandiosa, di illimitata bellezza. “Nel ristrutturare questa casa ho provato un senso di pace indescrivibile e anche di riconciliazione” ci confidò Jorn. Azzardai: “E’ vero che questa fu l’antica casa ove trascorse l’infanzia e l’adolescenza il grande Giulio II, il Papa di Michelangelo e di Raffaello?”. Scherzò: “Li vorrei avere tutti qui, per bere insieme un bicchiere di Nostralino”. Pino proseguiva nelle sue riprese e, a proposito devo parlare del rammarico che provo nel vedere, molto ridotto rispetto all’originale, il filmato eseguito in quell’occasione. La memoria mi sta riportando proprio l’immagine di quel bicchiere colmo di vino nella mano destra di Jorn mentre gli dicevo: “ Sembri un lupo di mare”. “Lo sono, ma navigo in un mare di pesci rossi” pronunciò accennando alla grande cisterna del suo giardino piena in quel momento di cerchi concentrici. Subimmo, in quel periodo, due episodi che ci procurarono un forte dispiacere: prima in un laboratorio ci bruciarono una bobina di pellicola e poi avvenne che due altre pellicole Kodak furono inviate per lo sviluppo in Inghilterra e lì rimasero per-
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ché non se ne ebbe più notizia. In uno di questi eventi si perse proprio una parte del filmato dedicato a Jorn. Si trattava del percorso interno dell’abitazione con riprese anche verso l’esterno, effettuate dalle finestre del piano superiore che offrivano scorci di paesaggio e un cielo e un mare da leggenda. Subito dopo l’obiettivo rientrava nella quotidianità dell’artista e nel suo mondo surreale del quale faceva parte anche il suo famoso violino. Tutto questo manca. Inquadrammo anche una giovane donna che stringeva fra le braccia un piccino di circa sei mesi, il figlio di Jorn, un bimbo dalle guance rosee e dagli occhi azzurri, l’ultimo della nidiata. Era alla sua terza compagna, il biondo vichingo, e voleva ufficializzare con giuste nozze questo importante e definitivo amore. Fu Nanna Enzensberger a dargli quel bambino e il matrimonio ebbe luogo nei primi giorni dell’aprile 1973, in tempo appena, perché la vita del caro, del grande Asger Jorn si spense pochi giorni dopo, il 1° maggio 1973. Quel giorno mio papà compì 74 anni.
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UN GIORNO DI SETTEMBRE
Emilio Scanavino
Aveva fama di essere introverso, piuttosto cupo, specialmente in quel periodo in cui alcuni problemi di salute gli erano stati poco generosi. E invece la giornata iniziò in un’atmosfera di simpatica allegria. Mostra dopo mostra, nel corso degli anni si era creata, fra Emilio Scanavino e noi, una buona amicizia. Discreta, riservata, fatta di stima prima che di consuetudine. E, un giorno, il Maestro ci invitò a Calice Ligure, nel suo buen retiro. L’occasione era piacevole, in quell’inizio di settembre che già smorzava, nella campagna, i colori eccessivi dell’estate. Naturalmente andammo insieme con i nostri tre figli, allora adolescenti. Quell’incontro avrebbe fatto parte, in seguito, del loro patrimonio intellettuale di ricordi. Scanavino ci venne incontro, riunendoci tutti e cinque, nello sguardo. Ricordo ancora l’espressione di quel viso che pareva scolpito e svincolato dalle suggestioni naturalistiche che aveva intorno. In giardino c’erano un paio di persone. Qualcuno entrò dal cancello e, proiettandosi verso un signore che sostava poco distante da noi, gli tese le mani rivolgendogli un entusiastico:“Maestro!”.
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Emilio Scanavino, Pino, Maria, Enrico, Angioletta
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Guardammo incuriositi. Lo pseudomaestro si schermì, ritrasse la mano che l’altro gli scuoteva entusiasticamente e mormorò: “ Veramente … io sono il fotografo”. Trattenemmo il riso. Scanavino strinse la bocca con un certo disappunto e, portando la mano al viso, si passò le dita sul naso come era sua consuetudine. Poi si accese una sigaretta. Immediatamente dopo entrò una signora piuttosto robusta, con gonna a fiori e vistosa camicetta verde. “Maestro!!!!”, esclamò con una vena di emozione nella voce, mentre si dirigeva verso il signore che aveva appena chiarito la sua professione. La matura visitatrice gli afferrò la mano e questi, con chiaro disagio, ripeté: “ Ma io non sono il maestro Scanavino, sono soltanto un fotografo!”. I miei figli non mostrarono tatto alcuno e le loro risate fanciullesche parevano inarrestabili. Anche noi non evitammo di sorridere alla buffa scenetta, mentre Scanavino scuoteva la testa fra il seccato e il divertito. “Anche questo mi doveva accadere”, pronunciò con un pochino di fastidio e, accarezzandosi nuovamente il naso, proseguì: “ E, per giunta, a casa mia”. Intervenne la coppia che risultò composta da marito e moglie. Erano due ammiratori del Maestro, in veste di possibili acquirenti. Si scusarono e riscusarono per l’equivoco. Rossi in volto, apparivano contriti e umiliati. Si tennero da parte e Scanavino si dedicò a noi. Salimmo, dal giardino, sulla terrazza e sostammo vicino al grandissimo emblematico uovo modellato dall’artista. Con l’immancabile cinepresa documentammo quell’incontro che, in verità, ci rimase in cuore per la spontaneità dell’Artista che,
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in quel momento ci apparve come l’espressione di un uomo desideroso di essere capito nella sua “realtà assoluta”. Ricordo nettamente queste sue parole. “E’ malato d’ansia e di angoscia”, aveva affermato di Emilio Scanavino un nostro comune amico. Noi trovammo il Maestro disponibile e dal dialogo abbastanza sereno. Fra una sigaretta e l’altra ci raccontò di quando, subito dopo la fine della guerra, entrò in contatto con gli artisti dello Spazialismo milanese giungendo alla liberazione interiore che lo condusse all’Arte Informale. Questa esperienza culminò nel 1950 con la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia. Aveva allora 28 anni. Apparteneva già alla corrente “Segnica”. Pino gli chiese quale carica emotiva gli provenisse da quell’inesauribile tracciato rigoroso legato al segno, simile ad una specie di implicazione astratta dei sentimenti. La spiegazione giunse quasi accorata: “Esprimo la mia verità, incombente e autonoma”. Poco dopo segnai, sopra un foglietto, quelle parole. A mia volta nel guardare le opere disseminate nel suo studio, gli confessai il mio personale rapporto negativo con il colore nero e l’Artista genovese colse appieno il significato di quel mio segreto sgomento con queste precise parole: “Il nero è il segno deciso dove la luce non può arrivare”. Si fermò per uno spazio di tempo che a me parve interminabile. Riprese: “I tratti del bianco sono l’unico mezzo per scavare meglio nell’essere”. Ci eravamo compresi sull’esigenza di quelle sue tramature e, a volte, travature così intense e drammatiche, prese a simbolo del destino comune dell’uomo, accentuate spesso da macchie rosse o nere di emblematico impatto. Veri sigilli di dolore. Eravamo all’interno dello studio. Bronzi, tele,
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ceramiche, cartoni, legni e corde testimoniavano l’ampio spettro dei materiali di cui si appropriava il Maestro, mentre ogni opera compiuta, esaminata singolarmente, trasmetteva la psicologia scanaviniana, dominata da una esasperata sensibilità e da una profonda angoscia esistenziale. Ascoltammo il suo soffermarsi sull’amico Francis Bacon, conosciuto a Londra, ritenuto da lui “artista di una capacità impressionante”. Lo ammirava in modo particolare, ritenendolo estroso e geniale perché divenne, dopo avere iniziato a dipingere senza studi regolari, uno dei più sapienti capiscuola della Nuova Figurazione. Non mancarono neppure i riferimenti ai nostri amici Agenore Fabbri, Gianni Dova, Asger Jorn, Roberto Crippa, Aligi Sassu e all’indimenticabile Tullio d’Albisola, del quale ricordammo il fertile apporto dato al Futurismo in Liguria. Venne il momento di accommiatarci. Passammo accanto alla coppia ancora in certosina attesa e facendoci cenno con il capo, il grande Scanavino pronunciò sottovoce: “Mi scambiano anche per un fotografo”. Ci accompagnò al cancello. Era abbronzato, tatuato, vestito di blu. Alberto, il più piccolo dei miei figli, forte dell’esperienze culturali dei fratelli maggiori Angioletta ed Enrico, lo salutò con un lieto: “Oh capitano! Mio capitano”, dal celebre verso di Walt Whitman. Emilio Scanavino lo guardò con sorpresa intensità, si sfregò il naso e atteggiò le labbra ad un sorriso.
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I CAVALLI DAL CUORE D’ARGENTO
Aligi Sassu
Vedo ancora le mie dita impegnate a formare il numero sopra un apparecchio telefonico di bachelite nera. Composero il prefisso 039, per proseguire con quel 948… che mi avrebbe messo in comunicazione con lui, con il grande Aligi Sassu. Molti erano stati i nostri incontri precedenti, ma questa volta si trattava di rendere concreto il suo invito a Monticello Brianza. Il viaggio fu piacevole, lungo un percorso che ci concedeva i primi presagi della primavera fra peschi e meli in fiore. Era il 20 marzo del 1974. Pino aveva preparato l’inseparabile cinepresa e un notevole numero di pellicole. Quel giorno speciale doveva tramutarsi in un documentario divenuto poi, con il trascorrere del tempo, un vero documento per l’efficacia e l’irripetibilità del contenuto. Immancabile in quel periodo, con noi, nostro figlio Alberto. Era l’addetto alle luci e all’allegria. Pino possedeva una specie di “navigatore satellitare” innato e pur senza gli attuali elementi di precisione che oggi facilitano la nostra esistenza , fermò la “Giulia” bianca proprio davanti al cancello. Il Maestro ci accolse con grande affettuosità in una fastosa dimora ove tutto splendeva all’impronta della perfezione. Si
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Josephine Holivares, Maria, Aligi Sassu, Pino
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scusò per l’assenza di sua moglie Helenita Olivares celebre cantante impegnata nella stagione lirica a Sassari. Iniziammo subito a scherzare sui colori reciprocamente intonati del suo e del mio abbigliamento e sull’estrosità del completo che indossavo dai netti richiami futuristi. Ridemmo per l’accostamento al “Manifesto della moda femminile” che più o meno declamava di usare la forbice per ottenere decolletés a zigzag, maniche diverse l’una dall’altra e scarpe di colore e di altezza differenti. Commentammo divertiti che l’andatura delle donne avrebbe creato mezza umanità di strane creature ondeggianti, traballanti, anomale rispetto al passo dinamico e sicuro dell’uomo. Le scollature stravaganti si potevano in parte accettare. Le asimmetrie delle maniche colorate mi appartenevano e differenziavano anche i pantaloni. Fu allora che Aligi indossò, davanti ad un caminetto acceso, un poncho rettangolare color fucsia a righe azzurre e rosse e Pino iniziò le sue riprese proprio con questa inquadratura mentre Sassu si pavoneggiava in allegria. Ci sovrastavano, dalle pareti del salone opere di grandiosa potenza. “I cavalli innamorati” ci portarono ai versi che gli aveva dedicato Raffaele Carrieri: “…i cavalli dal cuore d’argento/ non si voltano a guardarmi./ Più allegri degli zingari/ alla fine di un bottino/ se ne vanno i cavalli/ sentendo da lontano il mare/ come gli zingari il rame…”. Fra una ripresa e l’altra ci raccontò di quando, appena tredicenne, lavorò come apprendista in uno piccolo stabilimento litografico frequentato dal Natoli, il noto pittore che lavorava anche per il “Corriere della Sera”. Si rivolse ad Alberto: “Impara, già da ragazzo, a impadro-
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nirti di ogni mestiere possibile”. Mai una frase fu rivolta alla persona più giusta. Alberto, prima di diventare un valente professionista, durante le vacanze estive, riuscì a fare, e sempre nel migliore dei modi, tutti i mestieri disponibili, dal panettiere al fiorista, dal muratore all’elettricista, dal bagnino al commesso e non solo, traendone esperienze altamente formative. “Ah, le primule”, osservò Sassu quando mi avvicinai ai vasetti fioriti appoggiati sopra un tavolo. “A Palma di Maiorca e a Minorca tutti i fiori hanno i colori più accesi, i petali sono più grandi, le corolle appaiono ingigantite rispetto alle nostre e, in particolare, sono densi di profumi. Ecco, cerco di interpretare tutto questo quando li dipingo” e accennò ad un “nudo di giovinetta” alla nostra sinistra, fra i fiori e gli archi che delimitano il mare. Di fronte ad uno squisito piatto di lasagne al forno, parlammo, come già era avvenuto in incontri precedenti, della bellezza sacrale della Sardegna, dove io stessa vissi tredici incantevoli anni fra l’infanzia e l’adolescenza. Fu allora che ci parlò di suo padre Antonio, con una nota calda nella voce, della passione politica che gli trasmise essendo stato uno dei fondatori del Partito Socialista a Sassari e della passione per l’arte che gli infuse, accompagnandolo spesso a visitare le Mostre d’arte nel periodo esaltante del Futurismo. Era piacevolissimo ascoltarlo. Quasi “dipinse” con la parola, l’esplosiva, esaltante figura di Marinetti. Poi, accentrò i ricordi sull’impegno antifascista che svolse a Milano durante la guerra di Spagna, insieme con Raffaele De Grada, Renato Guttuso e Gabriele Mucchi. La gioiosità del mattino ora sfumava nella rievocazione di episodi gravi e dolorosi. Ci parlò di quando, a ventisei anni, fu detenuto a Regina Coeli, del processo subìto
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per la sua conclamata avversione al Governo e della conseguente condanna a dieci anni di reclusione che iniziò a scontare in una cella di isolamento nel carcere di Fossano. Ancora una volta intervenne il padre Antonio, che ottenne la grazia per il proprio figlio, già apprezzatissimo pittore, dal Re Vittorio Emanuele III di Savoia. Tornammo poi a parlare di Albisola, di tutti gli amici artisti, del Bar Testa, di Pozzo Garitta, di ceramica, di vicende private. Intanto fra Aligi e Alberto era scoccata la scintilla della più simpatica amicizia. L’età non conta. Al rientro dal ristorante, Pino riprese a considerare le luci, a studiare le nuove inquadrature con quella precisione che lo distingueva mentre Sassu e Alberto parlavano lietamente tra loro. Aligi prese un foglio grande e, a carboncino, con l’infallibilità del tratto, iniziò il ritratto del suo giovanissimo amico. E poi ci fu un particolare divertente. Una certa peluria sopra le labbra segnalava il momento adolescenziale di Alberto. L’artista l’accennò con la matita e attenuò il segno con la propria saliva. Risulta che, in quell’opera, c’è la più assoluta autentica: il DNA di Aligi Sassu. La conversazione fluiva ricca, affascinante. Ad un certo momento mi fu spontaneo chiedergli che cosa fosse per lui la felicità. Mi guardò per un attimo, pensoso. Pronunciò: “Mah… per quanto mi riguarda l’uomo vuole sempre superare se stesso e quindi non è facile raggiungere la felicità al compimento di un’opera… però, sì, sono felice quando canta Helenita…” e, nel pronunciare queste parole, accarezzò, con gesto delicato, il pianoforte. Il rientro in Liguria rappresentò il prosieguo della giornata, tante erano state le reciproche e diverse emozioni provate da
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ognuno di noi, attraverso la sensibilità soggettiva. ognuno di noi, attraverso la sensibilità Anche in seguito Aligi ci invitò soggettiva. ad andare, nel periodo Anche in seguito Aligi ci invitò ad periodo estivo, nella sua casa di Minorca, làandare, dove inelfiori erano estivo, nella sua casa di Minorca, là dove i fiori opulenti, le piante lussureggianti, gli uccelli avevanoerano canne opulenti, gli ogni uccelli avevano d’organoleinpiante gola, illussureggianti, mare si sposava giorno con ilcanne sole e d’organo in gola, il mare si sposava ogni giorno con il sole e i cavalli dal cuore d’argento correvano sugli orizzonti infiniti i della cavalli dal cuore d’argento correvano sugli orizzonti infiniti fantasia. dellaPurtroppo fantasia. lo sognammo soltanto. Purtroppo lo sognammo soltanto.
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IL GAROFANO DI SABBIA
Lucio Fontana
Quella mattina, l’incontro con Milena Milani ad Albissola Marina, fu del tutto casuale. Noi tornavamo a piedi dopo aver compiuto una piccola commissione, lei si avviava verso Pozzo Garitta. Dopo i primi convenevoli, fu decisa: “ Venite con me. Sto andando da Lucio Fontana”. Conoscevamo già di persona “il mito”, ma in maniera piuttosto formale, per esserci salutati alcune volte alla “Galleria Pescetto” di Albisola Capo. Quella coincidenza non poteva essere più propizia. Mi piace soffermarmi sull’atmosfera, sulla luce di quella mattina a Pozzo Garitta con il verde dei rampicanti sulla celebre scaletta, l’intonaco sbrecciato, le pietre antiche, la donna alla finestra che scrollava lo straccio della polvere, la gatta gravida che attraversava il cortile con solenne lentezza. E lui, il grande fra i grandi, ci accolse con un sorriso ampio, cordiale. Un attimo dopo entrò il ragazzino del fornaio, con un pacco di focaccia caldissima, che il genio dell’Arte divise immediatamente con noi. Il sapore di quella inaspettata colazione fa ancora parte di quelle specificità che la mente riesce a cogliere e a conservare
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nel tempo in maniera indelebile. Guardavo attorno tutte le tele sparse mentre dalla piccola finestra sulla parete di fronte penetrava una trasparenza di verde, filtrata da un particolare gioco di luci che si formava attraverso le foglie palmate di un fico, e lui, Lucio Fontana, era incorporato in quell’ambiente che sprigionava qualcosa di sospeso nell’aria. Tutto sapeva di una realtà, perché tale era, irreale. Osservavo le numerose opere appoggiate per terra, tele con lo sfilato in alto, come facevamo noi ragazze durante la preparazione del corredo. Glielo dissi e scoppiammo a ridere: “Quelle tele rappresentavano il vostro futuro di spose”, pronunciò con cadenza quasi musicale nella voce: “Le mie esprimono tempo, spazio e altro ancora” aggiunse ammiccando verso Milena: “I galleristi sanno fare bene il loro lavoro”. Avvenne un secondo incontro, sempre ad opera di Milena e questa volta, prima di entrare nello studio di Fontana, sostammo qualche minuto nel cortile di Pozzo Garitta. C’erano tanti fiori nei vasi, nelle latte disseminate in quel perimetro e sulle scalette. Nel muovere un tralcetto, questo si ruppe e mi rimase in mano insieme al profumatissimo garofano rosso sbocciato in cima. Entrati nello studio, vidi un secchiello pieno di sabbia e lo posi dentro. “Che piacevolezza”, commentò Fontana “due elementi insoliti fra loro riescono a diventare una vera opera d’arte, la intitolerei < Il garofano di sabbia >”. Ero raggiante, Milena e Pino sorridevano, c’era una palpabile armonia fra noi. Una frase monella, pronunciata da Milena, ci portò ad altri discorsi. “Perché non insegni il tango a Maria?”, lanciò con aria
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divertita Milena, “Il garofano rosso è in tema”. Non me lo aspettavo. Non ho mai saputo muovere un piede, figuriamoci due. Mi sentii avvampare. Lucio mi venne incontro, Pino si rabbuiò. “Un’altra volta, un’altra volta, adesso è tardi, fra due ore devo andare a scuola”, esclamai per trarmi fuori da quella strana situazione. Lucio mi fece un piccolo inchino rivolgendomi uno sguardo divertito. Sembravamo quattro compagni di scuola spensierati.
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L’ULTIMA SPIRALE
Roberto Crippa
Era noto, di Crippa, il suo sentirsi bello. Guai a dirgli che Gianni Dova, il suo collega pittore, impersonava un fascino superiore al suo. Reagiva con l’inconfutabile verità di essere stato convocato per fare da partner a Sofia Loren nel film “La donna del fiume”. Ci si conosceva da tempo, grazie alle frequentazioni artistiche albisolesi, e ogni incontro diventava motivo di simpaticissimo dialogo. Una sera ci sorprese rivelando una sua particolare competenza in fatto di diamanti. Ci descrisse tagli, luci e costi, improvvisando una specie di lezione sulla gemmologia. Stupiva sempre, sia quando inseriva fogli di sughero o fogli di carta metallizzata diversamente sagomati nelle sue opere astratte sia quando narrava le sue spettacolari imprese aeree. E gli incidenti occorsigli. Con un finale quasi comico, raccontava, era stato, nel 1956, il suo precipitare con un piccolissimo aereo da addestramento, all’interno di un campo nomadi attendato accanto alla pista di Linate. Si trovava a bassa quota, forse ad una sessantina di metri da terra e si soffermava soprattutto nel descrivere
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Roberto Crippa - Monolito. Collezione privata
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l’espressione allibita di quelle donne e di quei bambini dagli abiti pittoreschi, quando se lo videro piombare addosso, sano e salvo, fra una miriade di frantumi, schizzati via da ogni parte, mentre gli uomini accorrevano per guardare da vicino quella specie di alieno integro, piovuto dal cielo. Prese, come portafortuna, uno di quei piccoli rottami e gli attribuì poteri straordinari quando, nel novembre del 1962, si schiantò a Bresso sopra un biplano da acrobazia Bucker. Commentò: “Quei momenti furono unici. Se avessi potuto disporre della mia spatola e dei miei colori avrei dipinto le spirali più esaltanti della mia vita”. A Crippa rimasero numerosissime ferite stampate sul proprio corpo e anche un’altra, nell’anima, perché perse la vita l’ingegnere Ludovico Moro che lo accompagnava in quel disastroso volo. Ormai erano trascorsi quasi dieci anni da quel drammatico episodio. Pino ed io, durante un incontro, gli chiedemmo di potergli dedicare un documentario per il “Cenacolo”. Accettò con un largo sorriso e, insieme predisponemmo il lavoro. Stabilimmo la data. Ricordo la luminosità di quel giorno di febbraio, nella pineta di Arenzano. La sontuosità del paesaggio sfolgorava nello smalto dei colori. Roberto, che in verità si chiamava Gaetano ma aveva ripudiato questo nome, ci venne incontro con il viso rabbuiato. La sua mamma non stava bene e, di conseguenza, sarebbe rientrato d’urgenza a Milano. Ci avrebbe telefonato. Mantenne la promessa due settimane dopo, chiedendo di raggiungerlo all’aeroporto di Bresso la vicina domenica 19 marzo. Ci teneva ad essere ripreso sul suo aereo e, soggiunse, con una nota allegra nella voce, gli sarebbe piaciuto farci provare l’ebbrezza del volo.
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Accettammo con entusiasmo. Il nostro documentario si sarebbe avvalso di inquadrature impensate, speciali e, non nascondo, particolarmente ambite. Mi recai, per il consueto incontro quotidiano, dai miei genitori e, con aria gioiosa, riepilogai il dialogo telefonico appena scambiato con Crippa. La mia mamma, dotata di carattere molto severo, intervenne con una certa veemenza: “No. Voi vi fermerete a casa, perché il 19 ricorre la festa di San Giuseppe, è l’onomastico di Pino e questa è una giornata da vivere in famiglia”. Cercai di insistere, imbastii motivazioni, aggiunsi che avremmo portato Alberto con noi, così da alleggerire il loro compito di nonni. Non ci fu verso. Mia madre rimase irremovibile. Giunse il 19 marzo. Trascorremmo tutti insieme la giornata e il pomeriggio passò fra i compiti del nostri tre figli e gli spettacoli televisivi in bianco e nero. Gli uomini di casa si godettero la partita di calcio in programma fra il Milan e l’Inter a San Siro, che terminò in pareggio 1 a 1 con goal di Benetti per i rossoneri raggiunti, a pochi minuti dal termine, da una mezza rovesciata di Boninsegna. Lo stesso pomeriggio la ruota di Eddy Merckx colse la vittoria a San Remo. Cominciò ad imbrunire. Ad un certo punto il notiziario televisivo trasmise la tragica notizia che ci impietrì. Roberto Crippa si era schiantato alle 16,15 con un apparecchio “Zlin 526 F”, di fabbricazione cecoslovacca, sull’aeroporto di Bresso, insieme al suo amico e pilota Sergio Crespi durante un volo acrobatico. L’artista aveva cinquantuno anni. Non riuscivamo ad articolare parola, mentre la mente trasmetteva un martellio di dilemmi. La nostra presenza a Bresso,
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avrebbe mutato il destino di Crippa? Saremmo saliti con lui sull’aereo? Oppure soltanto Pino con lui? Sì quasi certamente quel volo sarebbe stato più semplice, meno rischioso. Il pilota non avrebbe azzardato certe acrobazie pur di consentirci di eseguire belle inquadrature. Avremmo fatto solo riprese da terra? Quasi impossibile conoscendo il nostro carattere. Crippa, uno dei più importanti pittori del ‘900 poteva essere vivo se si fosse fermato a terra con noi, ma poteva anche accadere qualcosa di irreparabile a tutti. L’angoscia di quel pomeriggio è indimenticabile. Ci proponemmo, comunque, di onorare l’impegno preso, dedicandogli quanto, in quella tragica sera, ci fu possibile fare. Piazzammo cavalletto, cinepresa e registratore davanti al video. Fu Tito Stagno, nel telegiornale delle h. 20, a dare la tristissima notizia a un più vasto numero di ascoltatori. Registrammo le immagini e la voce accorata del giornalista, partecipe al di sopra del consueto controllo professionale. Nei giorni seguenti, ancora dolorosamente increduli, completammo il nostro lavoro con quadri, giornali e materiale di repertorio. Ancora oggi mi ricorre il pensiero su ciò che sarebbe potuto avvenire, non sappiamo se in bene o in male e per chi di noi, senza l’imposizione subìta. L’artista diceva: “Mi piace inventare, disegnare, vivere le mie spirali durante il volo per poi concretarle in studio attraverso i colori delle mie emozioni”. Negli ultimi istanti, forse, si rese conto di quanto stava per avvenire. E, purtroppo, fu quella l’unica spirale che non poté mai dipingere.
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IL FUOCO DELLA LIBERTA’
Agenore Fabbri
Mi è rimasto in cuore, di quel periodo, il grande sole che avvolgeva Albisola, che penetrava mare, sabbia, barche, alberi, viuzze, case antiche del borgo di Capo in un impasto esclusivo, denso di fulgore insieme con la grande luce che, ad ogni risveglio, illuminava la mia anima in attesa del giorno nuovo che stavo per vivere. Appartiene a quel periodo il primo incontro con Agenore Fabbri. Avvenne nella piazzetta del Talian, mentre Pino ed io seguivamo i giochi dei nostri bambini fra i gozzi in secca e le reti stese ad asciugare. Alberto, il più piccino della nostra nidiata, si diede all’inseguimento di un gatto non consenziente alle sue carezze e franò, felino compreso, fra le gambe di un signore che stava scendendo verso la spiaggia. Ci precipitammo per dipanare il viluppo, con imbarazzate parole di scuse e un cenno speranzoso di sorriso. Seguì una stretta di mano per l’opportuna presentazione. Sì, era lui, Agenore Fabbri, l’Artista che noi conoscevamo già di fama e di vista. I discorsi si avviarono su quel gatto mezzo bianco e mezzo nero che, nel trambusto era sparito a velocità supersonica fra le vie del paese.
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Pino, Maria, Agenore Fabbri, Alberto
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Era una domenica mattina lieta di primavera e nacque un’amicizia che durò per sempre. In quel periodo venne inaugurata la “Galleria Pescetto” proprio sotto la casa di Agenore e gli incontri divennero molto frequenti sia con lui sia con tutti gli altri amici della colonia artistica albisolese. Rivedo l’animarsi dei discorsi di fronte ai nuovi linguaggi quali l’astrattismo e lo spazialismo e le conversazioni prendevano guizzi fantastici anche grazie alla verve di Milena Milani, all’impeto di Mario De Micheli, all’esuberanza di Eliseo Salino. Fabbri era spesso presente con la sua bellissima Caterina. Una sera, invitato da me e da Pino, Agenore venne a casa nostra con Ivos Pacetti. E’ impossibile descrivere il fare scanzonato di quei due toscani doc e la loro inesauribile vena di estrosità. Ci raccontarono a due voci le loro imprese giovanili a partire dalla scettica frase che papà Fabbri lanciò come una freccia quando capì che il suo quattordicesimo figlio voleva fare lo scultore: “Ovvia, che ‘un c’è già stato Michelangelo a fare l’artista che ce voi ora proprio tu…”. Nel ricordare la sua famiglia Agenore con una allegra risata, esclamò: “A casa mia c’erano più gambe che teste”. I miei figli partecipavano affascinati. Spesso dicevo a Pino che stavamo preparando per Angioletta, Enrico, Alberto un ricco patrimonio di ricordi. Nella stessa serata i due artisti rievocarono l’arrivo di Agenore ad Albisola su invito di Ivos e la gratitudine per aver ottenuto ospitalità da Pippetto Pescetto, generoso mecenate di quel gruppo di giovani magri e sempre affamati. Erano tempi di speranza, povertà e, a volte, di paura.
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Soffocata, quest’ultima, dall’impeto della giovinezza e dal desiderio di aggredire la materia, di impregnarla con la loro anima creativa in quell’aria di assoluta libertà che Albisola, anzi le Albisole con una o due “s” sapevano dare. Avevano anche voglia di ridere, di giocare e spesso si dedicavano, nelle ore notturne, a compiere “zingarate” come avvenne quella volta in cui decisero di cambiare le insegne a tutti i negozi di quella manciata di case antiche che formava, allora, Albisola Capo. Fu così che nelle ore antelucane, il fornaio cominciò ad urlare nella via che la sua bottega inalberava l’insegna del macellaio, mentre quella del macellaio era stata sostituita con l’altra del calzolaio e il vasaio issava il cartello del lattaio. Si salvò solo la chiesa perché, era risaputo, “bisognava giocare con i fanti ma mai con i santi”. L’indomani, mentre sgattaiolavano furtivi fra le vie del paese, sentivano, divertiti, i commenti delle donnette: “ Mia lì cuss’emu da vedde….chissà chi l’è stetu, cun tutti sti matti che gian da u Pescettu…” (Guarda cosa dobbiamo vedere...chissà chi è stato, con tutti questi matti che girano da Pescetto). I danneggiati si scambiavano le scale per rimettere a posto i loro primitivi cartelli. Fu il colmo, per i “matti”, quando trovandosi tutti insieme a pranzo da Pescetto, questi commentò il fatto dando una sospettosa occhiata intorno e aggiungendo: “Se li trovo io quei mascalzoni….” poi si avviò verso la cucina. Fra il gruppo serpeggiò l’idea che Pippetto avesse compreso la verità. In un’altra serata a casa nostra, Agenore ci raccontò di quella volta in cui andò di notte a pesca di acciughe, nell’intento di guadagnare qualcosa.
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C’era molto freddo e indossava la seconda giacca che possedeva, leggera, vecchia, sdrucita con sotto un maglione rattoppato. Una forte influenza non si fece attendere e, trovandosi da Pescetto, prima si lasciò andare in un irrefrenabile starnuto quasi sul viso del suo mecenate e poi gli si rivolse con questa frase: “Vedi cosa mi è successo per andare a pescare le acciughe? Adesso me ne vado a letto e portami una tazza di latte bollente con un bel po’ di cognac dentro”. Non lo avesse mai detto! “Fannullone, mangiapane a tradimento, ti mantengo, non mi paghi e vuoi che ti porti il latte a letto con mezza bottiglia di cognac in aggiunta? Vuoi anche una ballerina?”. Pescetto quella volta si infuriò davvero e uscì sbattendo la porta. Agenore ci confessò: “Me ne andai mortificato, mi rannicchiai sul pagliericcio disfatto e mi venne in mente il profumo della trippa con le croste di formaggio che cucinava mia mamma”. Prima, nel narrare l’episodio, rideva. Alla fine, quell’intimo sapore di famiglia e di tenerezza materna lo portò inconsapevolmente a stringere le labbra. Ci parve commosso. Ci invitò a casa sua in un particolare giorno di festa. Era il 15 agosto 1971. Ritrovo ancora intatti il sole di quel giorno, l’aria odorosa di pesto alla genovese e quell’azzurrità abbagliante che entrava dalle finestre e dal balcone spalancati sul mare che, a pochi metri di distanza lambiva la spiaggia. In quell’occasione ponemmo le basi per il film che gli avremmo girato qualche giorno dopo e scaturì, anche dai racconti, l’impetuosità del suo modellare la materia sotto un impulso rapido e tormentato sospinto dal bisogno interiore di eviden-
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ziare il dramma e il dolore dell’umanità attraverso squarci impietosi, ribellione e accusa di fronte all’ingiustizia e alla violenza. Ho ancora alcuni appunti presi dopo quell’incontro. Segnai questa sua frase: “Provo un’esigenza indomabile quando affondo le mani nella creta, è una specie di frenesia che si scatena dentro di me”. Qualche giorno dopo tornammo per le riprese e mentre tentavo di trarre alcune note da una sua balalaika, Agenore prese un foglio e con mano vigorosa tracciò forme, impose colori e spiegò ad Alberto che “I disegni e i colori portano alla luce l’urlo nascosto del pittore mentre la gente normale urla davvero” e fece cenno ad un gruppo di bagnanti che sotto casa avevano spezzato la quiete della strada con le loro voci assordanti. Quando terminammo le riprese i discorsi, lo sappiamo bene, possono prendere voli inattesi e, nel vedere la nostra sintonia di coppia Caterina ci chiese dove e come Pino ed io ci fossimo conosciuti. Con entusiasmo e con dovizia di particolari briosi, tornai al 28 giugno che segnò il nostro incontro savonese. Allora abitavo in Sardegna e mi trovavo per la prima volta nella Liguria dove ero nata. Descrissi l’avventura tragicomica che ci fece ritrovare in treno, a Roma, il 28 giugno dell’anno successivo, foriero del fidanzamento avvenuto una dozzina di giorni dopo in Sicilia. Seguì l’insieme di particolari che ci condussero all’altare il 28 giugno dell’anno seguente a Cagliari. Ne conseguì il racconto del loro primo incontro, avvenuto a Milano in casa di Aligi Sassu, in una sera di tempesta.
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Fabbri si sentiva male, aveva trascurato un forte raffreddore, ma non voleva mancare a quell’incontro fra amici organizzato da Sassu, suo grande amico. Se una parvenza di sgangherato ombrello lo proteggeva parzialmente, non altrettanto si poteva dire delle calzature. Queste, infatti, erano state un dono munifico di Stefano Cairola, mercante d’arte, gallerista e anch’egli toscano, consapevole del notevole potenziale artistico di Fabbri. L’unico problema, a proposito di quel paio di scarpe, era rappresentato dal numero. Gli scarni piedi di Agenore vi stavano dentro in maniera proporzionale al battacchio nella campana. Risultavano troppo grandi. Però era facile rimediare e con abbondante carta di giornale inserita all’interno, le estremità dell’artista potevano procedere con passo sicuro. Non era prevista quella rovinosa pioggia che smollò le scarpe e si introdusse all’interno, inzuppando completamente la carta. Quando arrivò da Sassu il suo umore era nero. Tossiva e si portò più volte alle labbra una bottiglietta ormai semivuota. Una voce femminile lo richiamò all’atmosfera che aveva intorno. “Non abusi con il whisky”, consigliò con fare preoccupato Caterina Barbieri. “E’ sciroppo comperato in farmacia”, rispose con suoni gutturali, l’artista. L’intuito femminile aiutò Caterina, perché chiese subito, al padrone di casa, un termometro. Sassu, per fortuna, ne possedeva uno e quando trascorsero i minuti d’attesa, ci si accorse che il mercurio segnava 39°. “Non potevo lasciarlo in quelle condizioni”, confermò Caterina, “fu così che divenni la sua infermiera anche nei giorni a venire. Ci accorgemmo subito che non ci saremmo lasciati più”. “Come avrei fatto senza di lei?” proseguì Agenore.
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Dopo una piccola pausa quasi di commozione, che non ho più dimenticato, riprese: “Non possedevo una lira, a quei tempi, pensavo solo a lavorare con una specie di furia e di rabbia unite insieme. Non pensavo al matrimonio pure se toccavo i quarant’anni. Sentii che Caterina poteva aiutarmi e capirmi e ...suvvia...l’amore è amore”. Completò la frase con una larga risata dando una manata sul tavolo, facendo sobbalzare quanto c’era sopra. Aggiunse:“Riuscimmo a sposarci grazie a centomila lire che una ditta per la quale lavoravo mi diede in parte per saldarmi quanto avevo già fatto e, in acconto, per il resto che avrei compiuto”. Pino ed io scoppiammo a ridere. Ci eravamo sposati negli stessi anni, pur essendo molto più giovani rispetto a loro e pure per noi ci furono centomila lire, ricevute quale dono di nozze da un caro parente, che ci giunsero sommamente gradite. Trascorremmo insieme una giornata fantastica. Ci descrissero i tempi in cui anche Caterina frequentava l’Accademia di Brera e con lei c’erano Gianni Dova e la sua giovanissima Maria Grazia diventata mamma appena diciottenne, l’esuberante Roberto Crippa, Cesare Peverelli legato allo Spazialismo, il siciliano Renato Guttuso e ancora Bruno Cassinari e Ennio Morlotti. Pino ed io assimilavamo quel mondo affascinante che ci proveniva da amici molto speciali, dai personaggi più illustri dell’Arte contemporanea che ci trasmettevano le loro confidenze, i ricordi più cari e la magia straordinaria proveniente dalla loro giovinezza trascorsa negli anni del dopoguerra, in un periodo difficile, quando il mondo era da ricostruire dopo
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l’immane vicenda della guerra e le sue tragedie. Un’altra volta con Agenore ricordammo il Caffè fiorentino delle “Giubbe Rosse”. Era il tempo in cui Pino ed io stavamo raccogliendo materiale importante all’Archivio di Stato, nei registri parrocchiali e comunali di Firenze, di Pisa, di Scarperia e di tante altre località toscane per costruire con basi storicamente sicure, il mio libro “L’albero e le stelle”, sulle gloriose vicende dei miei Avi fiorentini. Era diventata consuetudine, a Firenze, frequentare quel celeberrimo bar, dove sostarono i più illustri fra i nostri artisti italiani, da Filippo Tommaso Marinetti a Carlo Carrà, da Eugenio Montale a Carlo Emilio Gadda, da Elio Vittorini a Salvatore Quasimodo, da Ottone Rosai a Mario Luzi, compreso il nostro Agenore Fabbri. I suoi occhi acquistarono, in quei momenti, uno sguardo quasi velato da una segreta nostalgia, pareva proiettato indietro nel tempo, smarrito nei numerosi ricordi. “Appesi alle pareti ci sono i momenti della nostra gioventù”, pronunciò con una sfumatura di rimpianto, “C’era la speranza degli anni giovani, allora, e il fuoco era acceso nelle vene”. Ci fu un periodo in cui l’ira di Agenore giunse al culmine, con esplosioni di inarrestabile veemenza e fu quando un assessore del Comune di Albisola Marina, Martinengo, denominò “sanguisughe” gli artisti che formavano la comunità albisolese. La reazione, immediata, suscitò non poche preoccupazioni perché tutti gli artisti si mostrarono decisi ad abbandonare Albisola e a trasportare altrove i loro studi.
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Li rivedo come allora, infuriati, indignati, offesi, decisi a portare le loro ragioni davanti alla Magistratura. La querela venne presentata da un folto gruppo di firmatari e si attese, con crescente fiducia, la sentenza. Non è facile a questo punto descrivere in maniera appropriata cosa avvenne il giorno in cui il Pretore di Savona decise di assolvere l’assessore Martinengo dal reato di diffamazione. Quella sera mi appoggiai le mani sulle orecchie per non udire le accese esternazioni di Agenore nel commentare la sentenza. Insieme con Pino ho avuto il privilegio di veder nascere le opere più espressive e lacerate di Fabbri. Vivemmo un periodo di irripetibile bellezza per l’anima, per la mente, per l’attesa, spesso, di vedere subito quelle opere calde di forno, come se il fuoco volesse imprimere il proprio marchio indelebile su quelle crete squarciate dall’Artista, intrise di pathos, urlanti contro l’oppressione e la violenza. Uomini, donne, animali esprimevano la condizione di chi non ha voce. Non nascondo che vedevo anche tanta poesia nel dramma umano e crudele che Agenore denunciava non solo modellando la terra dei nostri vasai, ma attraverso il ferro, l’acciaio. E il bronzo, che da semplice materia prendeva forma nelle fonderie di Milano, per lanciare al mondo intero quel grido di sofferenza estrema e di denuncia contro ogni tipo di sopraffazione, in un anelito universale di libertà. “Sei un grande uomo”, pronunciai un giorno, quando iniziammo le riprese per inserirlo nel nostro “Cenacolo”. “Sono un ragazzo di Barba che è riuscito a fare quello che voleva”, replicò con un fermezza.
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Spesso, quando si inizia un lavoro cinematografico - e a quei tempi esisteva solo la pellicola - si è consapevoli che le scene vanno ripetute più volte. Nel caso di Fabbri, tutto funzionò a meraviglia, tanto era sicuro l’artista negli atteggiamenti da assumere, seguendo alla perfezione i suggerimenti che gli davo. Le inquadrature risultarono efficaci, il nostro racconto filmico si svolse con estrema linearità. Erano giorni mirabili. Volevamo fare, Pino ed io, un documentario d’Arte. Con il trascorrere degli anni ci accorgemmo che il nostro film era diventato un documento storico, unico, irripetibile per la grandezza dei contenuti, non ultimo quello di vedere ancora vivi, veri, i più grandi rappresentanti dell’Arte contemporanea accanto ai loro capolavori. In quei giorni ci avvalemmo, come addetto alle luci, del nostro Alberto ormai cresciuto. Fra una ripresa e l’altra venne fuori anche la storia dell’inseguimento del gatto, avvenuto tanti anni addietro e diventato un piacevole ricordo. Seguirono tanti altri incontri. Poi ci fu il grande evento che coinvolse tutta la città di Savona e questo avvenne quando Agenore realizzò la grande scultura in bronzo da porre in Piazza Martiri della Libertà. Impiegò pochi giorni, appena una quindicina, per modellare la figura che cerca di liberarsi dalle sbarre che lo opprimono, in un ulteriore urlo da propagare fra i popoli in cerca di riscatto. Di Agenore parlavamo spesso, a Salerno, durante i lavori annuali del Festival Internazionale del Cinema, con un nostro comune amico Massimo Rendina, uomo straordinario per cultura e intelligenza. Fu Capo di Stato Maggiore della I Divisione
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Garibaldi, direttore in Rai del primo Telegiornale, giornalista al “Resto del Carlino” e poi a “l’Unità”, amico di Aldo Moro, di Papa Paolo VI e dell’allora Cardinale Wojtyla nonché del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A Massimo piaceva ascoltare di Albisola, del grande patrimonio che usciva ardente dai forni dei vasai rimasti accesi, negli anni, per volontà di tanti artisti divenuti famosi. E fra questi c’era il suo amico Agenore Fabbri, l’artista che, con la sua straordinaria figuratività tagliente, con le sue sculture di grande vitalità aveva indotto Picasso ad esclamare: “Fabbri, con <La donna del popolo> ha realizzato l’opera che meglio di ogni altra rappresenta questo nostro particolare momento storico”. Questo aneddoto lo inserì Massimo nei nostri discorsi. Ogni anno portavamo a entrambi scambievoli saluti. Quando la vita decise che non c’era più tempo da regalare ad un uomo che aveva donato al mondo l’eccezionalità di un’Arte dal valore universale, fu per noi tutti un grande dolore. Pochi giorni dopo ci trovammo a Salerno con Massimo Rendina. In quei suoi occhi aguzzi, quasi di falco, leggemmo un drammatico “perché” per il quale non esisteva risposta. Ci chiese di fargli avere un “qualcosa” di Agenore, per averlo sempre accanto. Tornammo in Albisola con la promessa che ci saremmo rivisti il mese successivo a Roma. Mi rivolsi a Balestrini, il titolare dell’omonimo Centro Cultura Arte Contemporanea, il quale si prodigò con estrema gentilezza, tanto da esaudire la nostra richiesta. Giunti a Roma Massimo ci venne incontro. Prese l’involucro,
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l’aprì, lo guardò. Nel suo abbraccio sentimmo l’intensità della sua emozione. Pochi giorni addietro sono passata da Via Colombo. C’è una lapide apposta sulla casa di Fabbri che lo ricorda. Sparsi sulla facciata, stonano alcuni cartellini verdi con la scritta: “VENDESI”. E’ un colpo al cuore. “Vendesi”. Ci sarà un nuovo proprietario, sensibile o meno, amante dell’arte o meno, conoscitore di certi valori o meno. La casa di Agenore e Caterina non sarà più quella, vivrà un’epoca diversa, sarà animata da altre voci, conoscerà una storia nuova, ancora da vivere. A pochi passi, il Ristorante Pescetto è stato trasformato in residence con garages e una gelateria che hanno mutato ogni sembianza alla strada di allora. La modernità procede. Un gatto rosso ha attraversato la strada. Non lo dico per chiudere il racconto con un simpatico richiamo letterario. E’ la verità. E’ corso veloce, insinuandosi fra le case inanimate del borgo. Non c’è più neppure il mio Pino. Ho cercato inutilmente di nascondere le lacrime.
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IL PREZZO DELLE IDEE
Garibaldo Marussi
Era amico di Virio. Il pittore del “Cenacolo” ci raccontava di Marussi e di quel nome rivoluzionario, ”Garibaldo”, che il padre Giovanni gli aveva scelto al momento della nascita. “Non poteva essere diversamente”, commentava Virio. Infatti lo scultore Giovanni Marrussi possedeva un animo acceso e professava idee politiche irredentiste. Originario di Fiume, si ribellava al dominio austro-ungarico ed era stato segnato dalle condanne a morte inflitte ai patrioti Guglielmo Oberdan, Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, ritenendo queste esecuzioni un orrendo delitto. Erano tutti giovani colti, desiderosi di un’Italia libera, portatori del più nobile ideale. Tanto per delineare meglio il carattere di Giovanni, aggiungiamo che fu accanto a D’Annunzio durante l’impresa fiumana meritandone gli elogi personali. Garibaldo mostrò presto una spiccata propensione per le materie letterarie. Aveva ventisei anni quando fondò una rivista aperta verso le tematiche proposte dai paesi dell’Est creando un interessante scambio con la cultura italiana attraverso edizioni bilingue. “Era un ragazzo che lavorava con idee chiare”, spiegava
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Virio. Cercammo di rintracciarlo per impostare il lavoro filmico che lo riguardava, ma si frapposero notevoli difficoltà. Un giorno Virio ci raccontò la tragedia che colpì i Marussi nel 1948, quando il Governo jugoslavo di Tito sequestrò tutti i beni di loro proprietà e Gianni, il fratello di Garibaldo, venne crudelmente ucciso dai “titini”. Questo tragico episodio risultò decisivo per le scelte future del giovane scrittore e poeta che lasciò la sua amatissima città per trasferirsi a Milano. Qui Garibaldo esplicò appieno le proprie qualità fondando la rivista “Le Arti” e, appena possibile, scendeva ad Albisola, rigenerandosi in riva al mare che gli ricordava quell’altro mare legato ai ricordi dell’infanzia e della giovinezza. Marussi tornava a Milano rinnovato anche dalle amicizie che si era conquistato nella nostra piccola “Repubblica delle Arti”. Lo cercammo ancora ma da qualche tempo aveva diradato le sue visite in Riviera. Era il 1973. Dovevamo presentare il nostro lavoro al Festival del Cinema che ogni anno si svolgeva a Montecatini nella prima settimana completa di luglio e ci riservammo di proseguire, in seguito, le riprese mancanti. La vita terrena di Garibaldo Marussi si fermò pochi giorni dopo, il 3 agosto. C’è un vuoto nel nostro film perché quel tempo non venne mai.
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Pino, dolcissimo amore, appare impossibile la velocità con cui trascorre il tempo. Ho scritto d'impeto, come sempre, queste pagine che riassumono anche la nostra vita e mi guardo attorno, perché penso di vederti, di averti ancora qui con me. Forse sei nello studio, accanto al computer per portare avanti il mio prossimo libro, ma gli occhi mi si colmano di lacrime, perché la realtà è un'altra e non esistono le illusioni. In questi anni recenti continuo a dire che voglio tramutare il mio dolore in luce e questa raccolta di cari ricordi fa parte del mio progetto perché narro di noi, dei nostri meravigliosi ragazzi e di quelle giornate ricche di festa, di gioia, soprattutto di condivisione. Era l'armonia dell'anima a donarci tutto questo. E' vero. Abbiamo avuto il privilegio di vivere accanto a persone straordinarie, di trascorrere le nostre giornate con i più grandi Artisti di fine Millennio, ma tu sei riuscito, pur se abbiamo lavorato tutti insieme, a darci una immagine viva di ciascuno di loro, fissando sulla pellicola quel gesto, quel tratto, quello sguardo. Ho concluso "Il garofano di Sabbia" nel tuo nome e con grande commozione. Pino, amore mio immenso, è proprio con questa sensazione di un bene incommensurabile che esula dal tempo e dallo spazio che ti ho nel cuore e nella mente. Risplenda su di te ogni stella del Cielo MARIA
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Ringraziamenti particolari e affettuosissimi a mia figlia Angioletta e a mio genero Francesco Melgari per la valida collaborazione..
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INDICE PRESENTAZIONE
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UN VERO SIGNORE, UN GRANDE AMICO - Virio da Savona ...................... 17 NELL’ORTO DEI FRATI - Adriano Grande ............................................................................ 27 L’UOMO DAI BAFFI - Carletto Manzoni .................................................................................. 33 DAI LICHENI AI FIORI - Camillo Sbarbaro .......................................................................... 37 IL SINDACO POETA - Enrico Bonino ........................................................................................... 43 L’INVENTORE DI STREGHE - Eliseo Salino .................................................................... 49 IL POETA DELLA BELLA BREZZA - Angelo Barile ............................................... 59 L’IPOTETICO CANONICO - Mario De Micheli ............................................................ 69 IL GIOCOLIERE DELLA FANTASIA - Lele Luzzati ............................................... 73 UN ALTRO GRANDE - Nino Strada ............................................................................................. 83 L’UOMO RE - Franco Assetto ..................................................................................................................... 87 LA ROSA D’ORO - Esa d’Albisola ....................................................................................................... 95 IL FIAMMIFERO DI LAM - Wifredo Lam .......................................................................... 101 GLI ALBERI E L’ATOMO - Mario Rossello ........................................................................ 107 LA DEA DEL NORD - Lou Laurin Lam ................................................................................... 113 OLTRE LE BARRIERE - Mauro Reggiani .............................................................................. 117 UN LINGUAGGIO SEGRETO - Giuseppe Capogrossi ........................................ 123 IL MITO - Tullio d’Albisola .......................................................................................................................... 127 QUEL CARO RAGAZZO - Enzo Fabiani ............................................................................ 133 IL NOBEL DI SICILIA - Salvatore Quasimodo ................................................................. 139 IL MERCANTE DI VENEZIA - Carlo Cardazzo ......................................................... 151 LETTERA A MILENA ................................................................................................................................. 155 IL BIONDO VICHINGO - Asger Jorn ..................................................................................... 167 UN GIORNO DI SETTEMBRE - Emilio Scanavino ................................................ 175 I CAVALLI DAL CUORE D’ARGENTO - Aligi Sassu .................................... 181 IL GAROFANO DI SABBIA - Lucio Fontana .................................................................. 187 L’ULTIMA SPIRALE - Roberto Crippa ...................................................................................... 191 IL FUOCO DELLA LIBERTÀ - Agenore Fabbri ........................................................... 197 IL PREZZO DELLE IDEE - Garibaldo Marussi .............................................................. 211
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DELLA STESSA AUTRICE Nuvole e ruote - Narrativa - Ed. Sabatelli, 1966 Sole per Clizia - Poesie - Ed. Le Esperidi, 1968 Con la cinepresa nel mondo della scuola – Didattica-Ed. Le Esperidi, 1969 Tutti temi - Didattica - Ed A. Signorelli, 1972 Un brivido di luce - Poesie - Ed. Le Esperidi ,1975 Il mio pane azzurro Poesie - Ed. Le Poesie - Ed. Le Esperidi,1976 Il segreto del colibrì - Poesie - Ed. Le Esperidi, 1977 D’aprile a Parigi - Poesie - Ed . Le Esperidi, 1979 Il quaderno del Vietnam - Poemetto - Ed. Le Esperidi, 1980 L’eden dei fiori d’oro - Romanzo - Ed. Le Esperidi, 1981 Quando il mare è un canto - Poemetto - Ed . Le Esperidi, 1983 Stagioni incantate - Poemetto - Ed . Le Esperidi, 1985 Mizuko Kuyo - Poemetto - Ed. Le Esperidi, 1988 Così fragile - Poesie - Ed. Le Esperidi, 1989 Cronache di un matrimonio - Romanzo - Ed. Le Esperidi, 1991 L’anima delle cose - Poesie - Ed .·Le Esperidi, 1993 Ritratti di donna - Biografie - Ed. Le Esperidi, 1995 Il Libro di vetro - Poesie - Ed. Le Esperidi, 1996 L’albero e le stelle - Romanzo storico - Ed. Sabatelli, 1997 Bentu de soli - Poesie - Ed . Le Esperidi, 2000 Praga dei sogni - Poemetto - Ed. Le Esperidi, 2001 Il mare dell’aria - Racconti - Ed. Le Esperidi, 2002 L’isola d’argento - Poemetto - Ed. Liguria, 2004 Il ponte di corallo - Romanzo storico - Ed. Liguria, 2004 Spighe nel deserto - Romanzo epistolare - Ed. Le Esperidi, 2006 L’odore selvaggio della notte - Biografia - Ed. Cappello, 2011 Nel cerchio dei pini un velo di luna – Poesie – Ed. Cappello 2011 Nel paese delle oche bianche – Poemetto – Ed. Cappello 2011 Dei riflessi e delle trasparenze – Racconto – Ed. Lizea 2015
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