Egidio Dabbeni

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Introduzione

Fra le personalità notabili bresciane la figura di Egidio Dabbeni spicca per l’alta qualità del suo amore per il fare, tipicamente lombardo, per l’austerità di una puntigliosa professionalità, intesa come dovere morale, per l’intelligenza creativa, nutrita di interessi culturali, e per la riservatezza, sdegnosa di facili appluasi, di retorici e convenienti onori, di compromissioni carrieristiche. Ingegnere e architetto, Egidio Dabbeni operò ai massimi livelli della libera professione, nel campo della progettazione di costruzioni civili: dall’edilizia all’architettura, dal settore residenziale alla tipologia industriale, dalle infrastrutture stradali a quelle idrauliche. La sua attività, grazie alla longevità e all’energia della persona, si svolse lungo sette intensi decenni, che corsero dall’Italia umbertina, attraverso la Belle Epoque e il Fascismo, sino al fermento del secondo dopoguerra. Raffinato inventore di architetture, che gli furono commissionate da generazioni della migliore borghesia bresciana, fu stimato e rispettato professionista, al quale ricorsero, per incarichi progettuali, imprenditori, privati cittadini e anche amministratori pubblici, sempre però in una logica di scelte basate sull’esclusivo apprezzamento del merito, affermato sino dalle prime opere e dalla più giovane età. Di gran lunga prevalente, per il Dabbeni, fu la committenza privata, per la quale, appunto, la qualità e la serietà erano l’unica credenziale accettata, sino a divenire moda e modello. Non casualmente al Dabbeni ci si rivolse soprattutto nel campo della residenza altoborghese. Ritenuto un maestro, al Dabbeni guardarono i giovani tecnici, che nel suo studio poterono educarsi a percorrere, su un piano di eccellenza, le vie dell’ingegneria e dell’architettura, ma anche i sentieri più informali delle attività artistiche, nei campi della decorazione e dell’arredo. Dopo avere primeggiato come pioniere nelle tecniche strutturali e nelle scelte stilistiche d’avanguardia, il Dabbeni, anche per l’espressione di una saggezza affidabile, in età matura, fu il depositario di un equilibrio progettuale di stampo elegantemente tradizionale, che giunse a divenire, nella fase della sua veneranda vecchiaia, simbolo di un modo di vivere solido e autorevole, anche sotto il profilo umano e civile. Ercoliano Bazoli, presidente dell’Amministrazione provinciale di Brescia, commemorandone la morte, di Egidio Dabbeni disse: “Veramente insigne per ingegno, per arte, per cultura, si impose all’incondizionato apprezzamento di tutti i suoi concittadini anche per la signorile dignità e la nobiltà dei sentimenti. Lavoratore geniale ed instancabile, improntò sempre ad un attaccamento sincero alle più belle tradizioni bresciane la sua arte così difficile”1.

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Dedica della committente

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capitolo primo

L’esordio di Egidio Dabbeni

La famiglia dei Dabbeni risiedeva, negli anni Settanta dell’Ottocento, nel comune di Fiumicello, uno dei cinque comuni che attorniavano la città murata di Brescia, ad essa aggregati nel 1881. La denominazione completa del comune, posto ad ovest della città, era Fiumicello Urago. Ancora oggi i due nomi sono conosciuti e utilizzati, ma per indicare quartieri urbani. Fiumicello, in particolare, si trova nel territorio compreso fra la città storica e il Fiume Mella. Era caratterizzato dalla presenza della strada per Milano, del grande cimitero vantiniano, costruito pochi decenni prima, e da diversi nuclei produttivi. Era la culla, unitamente all’area di S. Bartolomeo, a nord dell’antica Brescia, dell’industrializzazione cittadina2. Il padre di Egidio, di nome Paolo, era un falegname, nato il 7 marzo del 1829 nel paese bresciano che, all’epoca, aveva nome Oriano. Il nome fu poi mutato nell’attuale S. Paolo. Il paese si trova a metà strada fra Brescia e Cremona e, in senso est-ovest, fra Orzinuovi e Manerbio. Suo padre si chiamava Pietro e la madre Maddalena Tira. Paolo Dabbeni non svolgeva un’attività rilevante. Il suo nome non compare infatti mai negli In una mappa di Brescia di metà ‘800 alcune collocazioni salienti della vita privata e professionale di Egidio Dabbeni: n.1- Sobborgo di nascita, di Fiumicello Urago n.2- Sede dello studio professionale mantenuta per quasi tutta la vita, in Contrada delle Cossere n.3- Sede del primo studio professionale, in Via del Beveratore n.4- Abitazione del Dabbeni, nel Viale Venezia Nella pagina a fronte, un giovane Egidio Dabbeni in un dipinto del bresciano Giuseppe Ronchi. La data, con numeri romani, è incomprensibile. Potrebbe indicare il 1903.

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Tre fratelli di Egidio Dabbeni. Da sinistra, Daniele, Giuseppe e Piero.

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elenchi dei falegnami pubblicati negli anni Settanta e Ottanta. Il Dabbeni sposò Angela Pasolini, figlia di Luigi e Francesca Arrighini, nata a Pompiano, un paese che si trova nello stesso territorio di S. Paolo: a nord-est di Orzinuovi, mentre S. Paolo è a sud-est. La coppia, di condizione economica e sociale molto modesta, ebbe sei figli, quattro maschi e due femmine3. I maschi Piero e Daniele rimasero celibi ed entrambi ebbero un impiego presso l’Amministrazione delle poste. Un terzo figlio, Giuseppe, si sposò e aprì un negozio presso la Via X Giornate, al limite del vecchio quartiere delle Pescherie, distrutto per la costruzione di Piazza della Vittoria. All’inizio del secolo aveva la sua bottega per la “vendita all’ingrosso e minuto di zonofoni, fonografi, grammofoni, dischi, cilindri e punte”, ai Portici del Granarolo, “all’insegna della Bandiera”, dove vendeva anche cartoline da lui prodotte. Una delle figlie femmine aveva nome Ester. La sorella, Flaminia, sposò il notaio Gorgonio e suo figlio fu l’ingegnere Ottorino, che, negli anni Trenta, realizzò in Brescia la sede del sindacato fascista, nell’attuale Piazzale della Repubblica; palazzo che ancora è parte centrale delle architetture che definiscono il luogo. Egidio, che non era il più vecchio dei fratelli, nacque il 27 febbraio del 1873 e fu l’unico a seguire studi scolastici sino all’università. Nei primi anni Ottanta la famiglia traslocò la propria residenza da Fiumicello al centro di Brescia, nella parrocchia di S. Alessandro. Fu grazie a quella nuova abitazione che Paolo Dabbeni entrò in contatto con Giovanni Battista Piamarta, proclamato santo dal Papa Benedetto XVI nell’ottobre del 2012. Il Piamarta era curato nella chiesa di S. Alessandro, dove nacque anche la sua collaborazione con il monsignor Pietro Capretti. Fu in quel contesto che, quando i due sacerdoti attuarono la fondazione dell’Istituto degli Artigianelli, fu chiesto a Paolo Dabbeni di assumere la guida del laboratorio di falegnameria, per l’insegnamento ai ragazzi. Luigi Fossati, colto sacerdote, autore di numerosi libri sulla storia della chiesa bresciana, scrisse della collaborazione fra il Piamarta a Paolo Dabbeni, nella sua biografia del santo4. Indicazioni editoriali dell’epoca citano, per la prima volta, il nome di Paolo Dabbeni come maestro falegname presso l’Istituto degli Artigianelli nel 1892, anno nel quale la stessa pubblicazione annota, anche in questo caso per la prima volta, l’Istituto degli Artigianelli, che, però, Piamarta e Capretti avevano fondato nel 1886. L’istituto apparteneva alla schiera delle scuole sorte in Brescia con finalità religiose e sociali, come il Pio luogo degli Orfani, l’Istituto dei Derelitti, fondato nel 1854 dal sacerdote Luigi Apollonio, e il Pio istituto Pavoni, fondato nel 1821 dal sacerdote Lodovico Pavoni. In tali istituti, spesso anche convitti, i ragazzi potevano seguire alcuni corsi professionali, fra i quali non mancava mai la falegnameria. Mentre la madre moriva quando Egidio aveva solo quattro anni, il padre sarebbe deceduto il 15 giugno del 1908. Un particolare di costume e di atteggiamento etico: le lettere di quell’anno, dell’importante ingegnere bresciano, circolarono, in uffici e presso clienti importanti, listate a lutto. Proprio in oc-


Egidio Dabbeni accanto al padre Paolo, il giorno della sua laurea. A fianco, una carta intestata dell’Istituto Artigianelli di Brescia, nel quale Paolo Dabbeni fu maestro falegname, negli stessi anni in cui fu emessa la fattura raffigurata.

casione di quell’evento, Egidio Dabbeni scrisse una lettera al Piamarta rievocando la figura dell’amato padre, “venerato genitore”, ricordando la sua fede e la sua amarezza per il disinteresse religioso dei figli5. L’adolescente Egidio seguì corsi scolastici che non sono noti, anche se, in una laconica nota giornalistica di una quindicina d’anni dopo, si scriveva: “Dalle scuole di Belle Arti trasse all’Università, per uscirne colla sua brava laurea di architetto”.6 Egidio Dabbeni si iscrisse quindi alla facoltà di ingegneria dell’Università di Padova7. In seguito si trasferì a Roma per seguire corsi di applicazione in architettura. Le scuole di applicazione, ancora oggi così denominate soprattutto nell’ambito militare, si riferivano a una sorta di specializzazione operativa degli studi, con finalità, appunto, applicative, da conseguirsi dopo corsi precedenti, più teorici. La duplice serie di studi consentì al Dabbeni, secondo la normativa universitaria dell’epoca, di fregiarsi di una doppia laurea. Per alcuni decenni il Dabbeni fu l’unico ingegnere in Brescia a possedere anche una laurea in architettura, seguito in questa caratteristica, anni dopo, ma pur sempre prima della seconda Guerra mondiale, da Ghelfino Bargnani. Il Dabbeni fu anche l’unico, quindi, ad essere iscritto sia nell’Albo degli ingegneri sia in quello degli architetti e fu persino presidente sia dell’uno che dell’altro Ordine, subito dopo la seconda Guerra mondiale. Egidio Dabbeni fu l’unico bresciano della sua epoca a recarsi a Roma per gli studi universitari in ingegneria-architettura. La grande tradizione dell’ingegneria lombarda e piemontese accolse più tardivamente, fase napoleonica a parte, l’abbinamento universitario fra gli studi di architettura e i corsi di ingegneria. L’assenza di tradizione ingegneristica in Roma consentì, invece, una fondazione ex novo dei corsi universitari. Nel 1825 si ebbe la fusione della Scuola degli ingegneri pontifici con l’Università di Roma, che diede vita alla scuola di formazione di ingegneri civili e architetti. L’avanguardia nel settore ingegneristico non si sviluppò in senso modernista, dopo l’Unità d’Italia, come molti contemporanei lamentavano, ma certamente l’abbinamento ingegneria-architettura produsse effetti più adatti alla cultura dell’epoca. Se si associa questo elemento alle opportunità politico-economiche offerte da Roma capitale, si può forse individuare il motivo della scelta di Egidio Dabbeni. A Roma Egidio condusse una vita da studente molto modesta, a causa delle risicate risorse economiche, allacciando però alcune interessanti amicizie ed entrando in contatto con ambienti culturali del settore, come quello della rivista “Architettura italiana”, che ebbe a pubblicare, prima della guerra, alcuni suoi progetti. La rivista era pubblicata a Torino da C. Crudo & C., ma aveva forti agganci con Roma. Egidio fu inoltre membro della romana “Associazione artistica fra i cultori di archi-

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Due timbri dello studio Dabbeni-Moretti, con due diversi indirizzi, ma riferiti alla medesima sede. La denominazione antica della via, Contrada delle Cossere, fu mutata nel 1909, con l’intitolazione a Giulio Uberti. Ritornò all’antico nome nel 1936.

tettura”, che era stata costituita nel 1890 da un gruppo di 24 cultori, residenti a Roma, fra i quali erano gli architetti Pio Piacentini, Ernesto Basile, Giuseppe Sacconi, Raffaele Ojetti, Gaetano Koch e Manfredo Manfredi. Lo statuto dell’associazione recitava, fra gli altri articoli: “L’Associazione ha per iscopo di promuovere lo studio e rialzare il prestigio dell’architettura, prima fra le arti belle, ed a questo effetto si propone: a) di consacrarsi allo studio dei monumenti che costituiscono il prezioso patrimonio storico ed artistico di Roma e dell’Italia, interessandosi alla loro tutela e buona conservazione; cosicché i membri dell’Associazione possono a buon diritto essere chiamati amici dei monumenti; b) di tenere pubbliche esposizioni di opere compiute e di progetti eseguiti da distinti cultori italiani ed esteri”8. A quell’associazione il Dabbeni rimase legato, come corrispondente, per vari anni. Ancora nel 1901 egli ne risultava “socio corrispondente”, accanto, fra gli altri, a Camillo Boito9. Il legame con l’università della capitale rimase a lungo presente nel Dabbeni, e certamente il suo favore non fu insignificante nel motivare la scelta del figlio Mario, che divenne architetto, negli anni Venti, proprio nell’università romana. Il Dabbeni, conseguta la sua definitiva laurea in Roma il 25 novembre del 1896, rientrò quindi in Brescia, dove iniziò la sua attività, della quale abbiamo i primi dati a partire dal 1895. Tuttavia la sua presenza riconosciuta nel panorama dei professionisti nel campo dell’ingegneria appare, in un elenco ufficioso degli ingegneri, solo nel 1899. In quel testo lo studio del Dabbeni era indicato all’indirizzo di Via del Beveratore. Il nome era allora dato ad un tratto dell’attuale Via Laura Cereto, il segmento fra Via Cattaneo e Via Trieste, e traeva la denominazione dall’antica fontana che ancora si vede nella piazzetta Labus, una fontana per secoli adibita anche ad abbeveratoio. Il laconico elenco del 1899 indica lo studio come cointestato a Egidio Dabbeni e all’agrimensore Francesco Moretti, di tre anni più vecchio del Dabbeni. Il Moretti, che era originario di Gardone Valtrompia, era quindi un giovane ma non inesperto geometra10. Gli agrimensori, all’epoca e in Brescia, erano iscritti allo stesso albo professionale degli ingegneri. La situazione fu mutata solo nel 1911, quando gli ingegneri, a seguito di tensioni professionali createsi con l’altra categoria, che già ampiamente operava nel terreno comune dell’edilizia, non vollero più i geometri nel loro albo. Da quella decisione derivò, nel 1914, la costituzione del Collegio bresciano dei geometri. L’associazione paritaria in uno studio di progettazione fra un ingegnere e un geometra era, all’epoca, alquanto rara. Esistevano collaborazioni, nel medesimo studio, fra ingegneri e geometri, ma nella forma del rapporto fra un titolare e i propri dipendenti. Persino nei progetti pubblicati dalla rivista nazionale “L’Architettura Italiana”, invece, i lavori sono presentati come prodotti di Egidio Dabbeni e Francesco Moretti. Non è possibile ricostruire le ragioni della scelta del Dabbeni e del Moretti, ma resta l’originalità di un rapporto che rimase sereno e proficuo per circa 35 anni, sino alla morte del Moretti , avvnuta nel 1932. Il cordiale affiatamento fra i due tecnici sfociò anche in legami coniugali fra le due famiglie. Una vecchia testimonianza del figlio di Egidio, Mario, descriveva

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Uno sbarazzino Egidio Dabbeni databile agli ultimi anni del XIX secolo.

il ruolo del Moretti come limitato alla sfera organizzativa, amministrativa ed esecutiva del lavoro. Già nel 1901 i due professionisti non operavano più nello studio di Via del Beveratore, ma risultavano avere il loro ufficio in Contrada delle Cossere n. 8. Fu quello lo studio di riferimento del Dabbeni per tutta la sua vita. La contrada delle Cossere, oggi ancora identificabile con tale nome, ebbe, invece, per molti anni dell’attività del Dabbeni, dal 1909 al 1936, il nome di Giulio Uberti, che risulta quindi nei timbri dello studio Dabbeni-Moretti per quegli anni. La collaborazione in forma associata e ufficiale tra i due professionisti ebbe due sole varianti. Un’informazione laconica e isolata, però ben ufficializzata, poiché appare nel timbro dello studio, indica, accanto ad Egidio Dabbeni e Francesco Moretti, la presenza di un ingegnere che, benché il suo nome di battesimo sia indicato con la sola iniziale, era senz’altro Sperandio Giordani. Si sono ritrovati i nomi dei tre professionisti sulla tavola di progetto dei primi capannoni di Giulio Togni, del 1903. Il nome del Giordani, la cui amicizia con il Dabbeni fu sempre intensa, non compare in nessun altro elaborato di progetto dello studio Dabbeni-Moretti. Sperandio Giordani fu un ingegnere bresciano che ebbe un’importante carriera, soprattutto come progettista di impianti idroelettrici. L’unica altra associazione professionale del Dabbeni si ebbe, dopo la morte del socio e vecchio amico Francesco Moretti, con i due figli Mario e Bruno.

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Capitolo SECONDO

Il contesto della formazione e del primo operare di Egidio Dabbeni

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capitolo secondo

Il contesto della formazione e del primo operare di Egidio Dabbeni

Un ritratto di Egidio Dabbeni all’inizio del Novecento. Nella pagina a fronte, una tavola manualistica dell’inizio del XX secolo, con particolari costruttivi fra ingegneria e architettura. Nella doppia pagina precedente, il ricco fregio liberty disegnato da Egidio Dabbeni per il Palazzo Migliorati di Brescia.

Egidio Dabbeni fu la più importante figura fra i professionisti bresciani, nel campo della progettazione architettonica e ingegneristica nella prima metà del XX secolo. Nei primi cinque lustri della sua formazione il clima generale e locale, nel settore delle costruzioni, stava vivendo una vivace evoluzione. Le coordinate internazionali, che si riflettevano, con varia intensità, nel campo editoriale ed universitario, prima che nella prassi, scorrevano lungo tre filoni. La corrente centrale e dominante era ancora costituita dalla tradizionale educazione professionale e dal consenso corrente, della stampa, della saggistica, dell’opinione e del gusto generali, riferiti all’architettura eclettica, storicistica, imitativa di stili del passato e portata ad ogni sorta di pastiche da rimescolamento ibrido degli stessi. Il secondo canale riguardava il campo ingegneristico, dove correva una via euforica e progressista, ma minoritaria, che coltivava il giovane e promettente germoglio della rivoluzione tecnologica e analitica, che aveva nelle costruzioni in ferro e nei metodi matematici di calcolo la sua punta di diamante. Ancora pionieristico era l’approccio con il cemento armato. Il terzo filone presente nell’epoca, anch’esso del tutto minoritario, si riferiva all’embrione dell’innovazione radicale in campo architettonico, che passava per i canali neomedievalistici. In essi si annidava il seme scatenante della struttura funzionale, disinteressata agli schemi delle simmetrie formali, portata all’esibizione dei materiali e dei particolari costruttivi, basata sulle strutture reticolari e nervate del Gotico e dell’edilizia in legno, dedita al culto del lavoro manuale e artigiano, propensa allo sfoltimento dell’accademia stilistica e obiettivamente protesa alla ricerca di forme organiche e primordiali, del tutto inedite. Era la via che avrebbe condotto all’Art Nouveau. I tre scenari accennati erano presenti in varia misura nell’ambiente italiano e bresciano. La cultura dell’architettura storicistica era ritenuta normale e congeniale al gusto del tempo, ad ogni livello, sia colto che popolare. La committenza, sia privata che pubblica, era assolutamente convinta della bontà di quelle scelte stilistiche, che avevano avuto come grande cassa di risonanza il Secondo impero francese, cui andava anche il merito dell’innovazione ricompositiva del repertorio storico, quale si era imposta con l’Opéra di Charles Garnier. L’Italia aveva adottato l’Eclettismo con entusiasmo anche nazionalistico, che era una delle motivazioni del recupero imitativo nell’intera Europa. Il Paese era particolarmente rappresentativo di quella congiuntura, con la sua nascita nazionale del 1861. Alcune personalità emergevano, non solo come progettisti ma anche come saggisti

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In alto, un dipinto raffigurante la fastosa hall dell’Opéra di Parigi, opera emblematica dell’Eclettismo di reinvenzione, cui si ispirarono molti architetti dei decenni successivi. Fu progettata da Charles Garnier, ritratto in basso a sinistra. A destra, un altro maestro francese seguito da innumerevoli architetti ottocenteschi, restauratore e reinventore del passato, soprattutto gotico: Eugène Viollet-le-Duc.

e insegnanti, facendo scuola. Fra questi vanno ricordati almeno Camillo Boito, Pietro Selvatico, ma anche il più locale Alfredo d’Andrade, che, in Italia e sulle orme di Eugène Viollet-le-Duc, furono i maggiori creatori della sintesi teorica fra restauro e progettazione del nuovo, all’epoca pressoché sovrapponibili. L’investitura di Roma come capitale d’Italia, nel 1871, comportò una concentrazione di attività edilizie che favorì la nascita di architetti di rango e anche il radicarsi di un ambiente universitario adatto alla crescita di nuove generazioni di progettisti. Nel 1880 era bandito il primo concorso per il disegno della tomba di Vittorio Emanuele II, il noto Vittoriano, che fu costruito su disegno dell’architetto Giuseppe Sacconi, soprattutto con marmo bresciano e con l’intervento determinante dello scultore, anch’egli bresciano, Angelo Zanelli. Nel 1882, fu aperto il primo concorso a inviti per la costruzione del palazzo sede della Banca d’Italia, infine vinto dall’architetto Gaetano Koch. Nel 1884 l’architetto Guglielmo Calderini si aggiudicò la vittoria nel concorso per la progettazione del Palazzo di giustizia, dove anche, nel cortile interno, si profuse il marmo bresciano di Botticino, mentre, nel 1882, Pio Piacentini disegnò il

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Alcuni degli intellettuali e artisti che crearono il clima nel quale si formò Egidio Dabbeni. In alto, da sinistra, Pietro Selvatico, architetto e teorico dell’architettura, soprattutto neogotica, l’architetto Emilio de Fabris, autore della facciata della preziosa chiesa di S. Maria del Fiore in Firenze, e Camillo Boito, architetto e critico d’arte. Sotto, un particolare scultoreo del fregio per l’Altare della Patria, splendida opera del bresciano Angelo Zanelli, ritratto accanto, e l’architetto Guglielmo Calderini, autore del Palazzo di Giustizia di Roma.

Palazzo delle esposizioni, che gli era stato commissionato dopo la sua vittoria del concorso di quattro anni prima. Nel 1890 si apriva a Torino la prima Esposizione italiana di architettura, che celebrava il tradizionalismo dominante. Le grandi imprese architettoniche nazionali non fecero che confermare la sintesi tra progettazione e restauro di completamento, dove poté esercitarsi la preparazione scolastica degli architetti dell’epoca, tutta nutrita di insegnamenti stilistici, basati anche sulla grande abilità pittorica coltivata nelle accademie d’arte. Il quadro storicistico ebbe, in quei decenni, ampia risonanza nelle grandi occasioni di completamento delle facciate di chiese fondamentali dell’architettura italiana, come il Duomo di Milano (al concorso del 1886 partecipò anche il bresciano Antonio Tagliaferri), la basilica bolognese di S. Petronio, nel 1887, o S. Maria del Fiore in Firenze, con il concorso del 1867, per non parlare della più tarda ricostruzione del crollato campanile di S. Marco, in Venezia, ad opera dell’architetto Luca Beltrami. Roma si configurava come capitale dell’architettura nazionale, il che motivò alcuni architetti, che ebbero poi fama e occasioni professionali importanti, a convergere, da varie province, nella capitale. Si pensi al fiorentino Gino Coppedè, progettista del noto quartiere romano che porta il suo nome, o all’architetto Manfredo Manfredi, piacentino, autore del Palazzo del Viminale, oppure a Giuseppe Sacconi, progettista del Vittoriano, originario di Montalto delle Marche, o al perugino Guglielmo Calderini, ideatore del cosiddetto Palazzaccio, il Palazzo di giustizia romano. L’attrattiva romana si sarebbe confermata qualche anno dopo, con la mano del siciliano Ernesto Basile delegata a vivi-

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In alto, tre protagonisti della creazione architettonica che guidò la formazione del giovane Egidio Dabbeni. Da sinistra, Gaetano Koch, eminente interprete della Roma postunitaria, Giuseppe Sacconi, progettista del Vittoriano, e il bresciano Antonio Tagliaferri, personalità di statura nazionale. In basso, progetto presentato al concorso per il monumento a Vittorio Emanuele II, in Roma, dall’architetto bresciano Antonio Tagliaferri.

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ficare il Palazzo di Montecitorio con il nuovo corpo della splendida aula per la Camera dei deputati, ornata dal bassorilievo di Davide Calandra, dal fregio del grande pittore Aristide Sartorio e dal fastoso velario di Giovanni Beltrami. Si accenna a questo dato poiché esso riguardò anche Egidio Dabbeni, insolitamente allontanatosi da Brescia, come nessun suo coetaneo fece, per seguire i corsi universitari a Roma. Lo schietto spirito ingegneristico del Dabbeni era avido di cultura architettonica e il clima informe degli studi e delle specializzazioni bene si prestava a dare spazio alle sue tendenze. Si era in una fase in cui l’attività dell’architetto era molto genericamente regolata. In Brescia Carlo Melchiotti non possedeva alcun titolo universitario e Antonio Tagliaferri aveva semplicemente studiato presso l’Accademia di Brera, di Milano, come un artista, possedendo, peraltro alte capacità pittoriche, che esibì nelle splendide tavole di molti suoi progetti. Nel Collegio degli ingegneri e architetti di Brescia, che fu costituito nel 1881, erano solo due gli architetti presenti: Antonio Tagliaferri e Luigi Arcioni. La questione del titolo universitario per la professione di ingegnere e architetto era peraltro sul tavolo della discussione culturale e politica, e rimaneva alquanto incerta. Si andava dall’obbligo, anche per gli architetti, di seguire corsi di ingegneria, con specializzazione in architettura, come fece il Dabbeni, al riconoscimento ufficiale del titolo di architetto, per soli titoli, come spesso decideva il ministero nei confronti di progettisti di una certa fama, che avevano seguito esclusivamente i corsi di Accademie di belle arti. Ancora nel 1909, su una rivista italiana del settore si scriveva: “E accade non di rado che là dove un Municipio od un altro ente qualsiasi esige la firma di un ingegnere sotto ad un progetto, l’autore, se anche vinse importanti concorsi, se anche ha il suo nome legato


Tre edifici che si posero sotto gli occhi del giovane Egidio Dabbeni, nell’ambiente bresciano, fra eclettismo imitativo e storicismo innovativo. Dall’alto in basso, il villino Tonelli, di Coccaglio (Brescia), disegnato dall’architetto Antonio Tagliaferri, del 1885, la stazione ferroviaria di Brescia, dell’ingegnere Benedetto Foà, del 1853, e il casello daziario di Porta Pile, poi Porta Trento, opera dell’ingegnere Luigi Morelli, del 1889.

a più d’un edifizio importante, se pure ha una lunga carriera in questo ramo speciale d’arte, bisogna che ricorra per la firma alla compiacenza d’un amico ingegnere, magari elettricista od idraulico”. E ancora: “I tribunali non hanno ancora stabilito una giurisprudenza uniforme e stabile perché talvolta non vollero riconoscere che si potesse chiamare architetto chi non aveva conseguito il diploma presso un Politecnico, una Scuola di applicazione, o dal Ministero per titoli, tal’altra non riconobbero usurpazione del titolo in chi pacificamente aveva esercitato da più anni tale arte, ed una Cassazione ha persino sentenziato che ingegnere è colui che si ingegna”. Il quadro era, quindi, assai incerto. In Brescia, nei decenni della formazione e dell’esordio professionale di Egidio Dabbeni, il clima culturale nel campo delle costruzioni era assolutamente allineato alla situazione nazionale. Alcuni architetti emergevano negli incarichi, ma anche qualche ingegnere. Fra questi ultimi spiccava Antonio Taeri, prima libero professionista e poi capo dell’ufficio tecnico del comune di Brescia. Egli fu attivo anche nel campo architettonico. Suo, ad esempio, è il palazzo di Via S. Martino della Battaglia n. 8, costruito a metà Ottocento e noto come Palazzo Mazzola-Perlasca, dal nome della banca che fu uno dei più noti proprieta-

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Il quadro dell’architettura bresciana nei primi anni del Novecento, nel quale si inserì Egidio Dabbeni. In alto, la chiesa valdese di Via dei Mille, in Brescia, opera dell’architetto Beniamino Serri, e, sotto, il progetto per il cimitero di Verolanuova (Brescia) dell’architetto Angelo Albertini.

ri del palazzo, unitamente all’erede Unione Bancaria Nazionale. Il Taeri fu anche il progettista del porticato che ancora si vede nel piazzale della ex Porta Cremona, allo sbocco meridionale del Corso Cavour, nato come Mercato del vino. Altro ingegnere impegnato anche nella produzione architettonica fu Luigi Morelli, del quale il Dabbeni poté vedere il casello daziario merlato, in stile trecentesco, di Porta Trento (oggi Piazzale Cesare Battisti), costruito nel 1889. Anche altri ingegneri si erano fatti notare come progettisti di architetture e restauri. Arnaldo Trebeschi, solo di qualche anno più anziano del Dabbeni, iniziava un’attività tecnico-ingegneristica, comprendente anche il nascente cemento armato, abbinandola alla progettazione architettonica, che lo portò, nei primi anni del Novecento, a disegnare il Teatro Sociale riformato. Fra le opere eclettiche che il Dabbeni poté conoscere in Brescia, vi erano anche la Stazione ferroviaria, di metà Ottocento, e, più tardi, nel 1914, la chiesa valdese di Via dei Mille, disegnata dall’architetto salodiano Beniamino Serri. Coetaneo del Dabbeni fu l’ingegner Andrea Cassa, un ottimo creatore di architetture, con qualche capolavoro degli anni Trenta, come la Villa Ferrari di Via Amba d’Oro, mentre di una decina d’anni più anziano era l’ingegnere Giovanni Tagliaferri, anch’egli spesso coinvolto in operazioni architettoniche, che con il Dabbeni condivise l’interesse per l’antico palazzo del Broletto. Gli specialisti ufficiali della scena architettonica erano, in Brescia, i pochi professionisti di formazione accademica. Si trattava dell’architetto Antonio Tagliaferri, il più noto e apprezzato, cui si affiancavano pochi altri nomi, come Luigi Arcioni, Luigi Tombola e Carlo Melchiotti, che operarono in diversi settori e in anni leggermente sfalsati fra loro, essendo il Tagliaferri vissuto fra il 1835 e il 1909, il Melchiotti fra il 1839 e il 1917, l’Arcioni fra il 1841e il 1918 e il Tombola fra il 1863 e il 1956. L’ambito d’azione dei quattro professionisti non si allontanò mai dall’Eclettismo, applicato alla

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Uno dei massimi esempi dell’Eclettismo in terra bresciana, filone che anche Egidio Dabbeni praticò: la neogotica Villa Borghese dell’Isola di Garda, opera dell’architetto milanese Luigi Rovelli.

nuova progettazione e, ovviamente, anche agli interventi di restauro. Il Tagliaferri fu tra i partecipanti al concorso per il Vittoriano e ha lasciato in Brescia opere come il santuario di S. Maria delle Grazie e la facciata della sede centrale del Credito Agrario Bresciano, nella Piazza Paolo VI. Dell’Arcioni si ricordano i restauri del Broletto (la Loggia delle grida) e del Duomo vecchio, nonché la nuova chiesa dell’Istituto degli Artigianelli. Del Melchiotti abbiamo l’importante intervento, condiviso con il Tagliaferri, per la ricostruzione del Castello Bonoris di Montichiari e svariati interventi per la costruzione o il rifacimento di chiese, come la facciata della chiesa cittadina di S. Alessandro, mentre di Luigi Tombola si possono ricordare il piccolo castello nell’isoletta di Loreto, entro il Lago d’Iseo, o la villa di Via dei Mille 24, in Brescia. Estraneo all’ambiente bresciano, ma assimilabile al tipo di ambiente culturale bresciano, fu il milanese Luigi Rovelli, attivo soprattutto in Liguria, autore della fastosa villa neogotica dell’Isola di Garda. Il settore ingegneristico, che pure appartenne, in termini essenziali, alla figura di Egidio Dabbeni, viveva, dalla metà del secolo, una rapida evoluzione. Dalle prime forme di utilizzo inglese della ghisa per strutture costruttive, della fine del Settecento, si era transitati, a inizio Ottocento, attraverso la riscoperta del calcestruzzo e la messa a punto dei primi metodi matematici di dimensionamento delle strutture. La metà del secolo aveva portato le prime esperienze di costruzioni con forme a telaio in ghisa e i primi esperimenti di utilizzo del calcestruzzo armato con barre di ferro. Lo sviluppo delle strutture reticolari in metallo fu tumultuoso e clamoroso, soprattutto in Francia, anche grazie alle grandi opere propagandistiche, come la Tour Eiffel, i Palais de l’industrie, le Halles o le Galerie des machines. La pratica delle costruzioni in ferro non ebbe uno sviluppo paragonabile, in Italia, anche se non mancano gli esempi. Si ricorda, per restare in Lombardia, il ponte ferroviario di Paderno d’Adda, progettato nel 1889 dall’ingegnere svizzero Jules Röthlisberger, o la copertura della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, dell’architetto Giuseppe Mengoni, costruita fra il 1865 e il 1877. Anche nel Bresciano, che pure sulla lavorazione del ferro andava basando il suo successo economico moderno, figlio di antichissime radici, non si ricordano particolari applicazioni della nuova tecnica costruttiva, se si esclude la copertura a volta dei binari nella stazione ferroviaria cittadina, del 1878, o il progetto, anch’esso del 1878, di Antonio Tagliaferri per la copertura della Loggia, mai realizzato, come quello, assai simile, dell’ingegner Attilio Franchi, per lo stesso fine, del 1911, peraltro caldeggiato anche da Egidio Dabbeni. Gli esordi dell’altra era costruttiva, quella del cemento armato, dopo i primi passi fran-

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L’avanguardia ingegneristica lombarda nelle strutture in ferro. In alto, la celebre Galleria Vittorio Emanuele II, in Milano, con la sua copertura metallica, dell’architetto Giuseppe Mengoni. L’ingegneria delle moderniste strutture applicata al ponte ferroviario di Paderno d’Adda, opera progettato nel 1889 dall’ingegnere svizzero Jules Röthlisberger.

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cesi e dopo un’importante estensione in area tedesca, dal 1884, erano sbarcati nell’Italia del Nord attraverso la via dell’autopromozione del grande inventore-imprenditore francese François Hennebique che, nel 1892, aveva brevettato in Belgio il cemento armato, benché preceduto sostanzialmente di 14 anni dal connazionale Joseph Monier e da altri parziali pionieri. L’opportunità Hennebique fu colta, in Italia, dall’ingegnere Giovanni Porcheddu, che, nella terra ponte fra Italia e Francia, il Piemonte, per primo capì l’importanza, anche economica, del possesso della nuova tecnologia. Nel 1896 il Porcheddu acquisì l’esclusivo sfruttamento in Italia del brevetto Hennebique. Le date sono interessanti, anche per identificare la posizione di Egidio Dabbeni. Hennebique aveva gettato la sua prima soletta in conglomerato cementizio con annegate aste di ferro nel 1879 ed elevò nel 1892 il primo fabbricato residenziale con la stessa tecnica. Nel 1894 lanciò il primo ponte in cemento armato, in Svizzera. Giovanni Porcheddu, invece, in Italia, realizzò i primi manufatti in cemento armato (silos per il grano a Genova) fra 1899 e 1901 e nel 1906 costruì, con lo stesso materiale, lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato. Nel 1911 diede forma all’opera che costituì il maggiore suggello storico italiano alla nascita del cemento armato, per la sua evidenza e per la collocazione: il ponte del Risorgimento in Roma, che ha una luce di oltre 100 metri. L’ingegnere milanese Daniele Donghi, laureatosi a Torino e divenuto, nel 1900, direttore della filiale del Porcheddu a Milano, aveva concretizzato il suo interesse per il cemento armato, progettando nel 1898 l’asilo notturno “Umberto I” di Torino. Il quadro italiano, nel campo dell’ingegneria e nell’epoca di esordio di Egidio Dabbeni comprendeva anche il debutto dell’immenso fenomeno elettrico. Nel 1883 nasceva, a Milano, la prima officina capace di produrre energia elettrica. Era la prima


La rivoluzionaria tecnologia del cemento armato e l’abbinamento dell’ingegneria all’architettura classicheggiante: temi prediletti da Egidio Dabbeni. Tavole del manuale di edilizia di Carlo Formenti.

realtà del genere in Europa, accanto ad un piccolo esempio inglese. Nello stesso anno, anche nel Bresciano, si costituiva il primo nucleo di produzione dell’energia elettrica, come piccola struttura interna a un’industria: il cotonificio Hefti di Roè Volciano. Nel 1894 l’energia elettrica sostituì il gas nell’illuminazione pubblica di Brescia, mentre nel 1905 nasceva l’importante Società Elettrica Bresciana. Il nuovo e fondamentale settore innescò rapidamente, in una terra che si prestava come il Bresciano, la diffusione di impianti idroelettrici, che costituirono un settore di intervento importante per gli ingegneri. Contemporaneamente, era già progredita la realtà ferroviaria, che aveva visto Brescia collocarsi tra le prime nella gemmazione italiana del settore, sino dagli anni Quaranta. Anche in questo campo gli ingegneri erano protagonisti, avendo contribuito, con idee, proposte e progettazioni, alla proliferazione di linee ferroviarie, o tranviarie, che, in Brescia, avevano esordito nel 1881 con il primo binario provinciale, fra il capoluogo e Orzinuovi. Nel 1885 fu la volta della ferrovia Brescia-Iseo e di seguito si ebbe una vistosa ramificazione a raggiera, fra numerose località della provincia e il capoluogo. Era un’infrastruttura storicamente tempestiva, che denotava un tessuto economico in crescita, capace di porsi, soprattutto grazie al nascente campo industriale, tra i primi e più promettenti in Lombardia e quindi in Italia. Gli ingegneri bresciani, che avrebbero innervato la realtà produttiva con grande concretezza ed efficienza, negli ultimi decenni dell’Ottocento erano ancora prevalentemente impegnati nei settori edilizi tradizionali, nel campo idraulico, legato all’agricoltura, ma anche alle nuove infrastrutture urbane, nella branca agrimensoria, nel settore stradale e nelle amministrazioni patrimoniali. Le personalità cui il Dabbeni poteva guardare, che andavano operando nei settori tradizionali o innovativi, come quello idroelettrico, erano i Tobia Bresciani, i Federico Ravelli o i Carlo Tosana. Fra i più giovani ricordiamo gli ingegneri Antonio Berlucchi e Sperandio Giordani. Ma vi erano anche outsider scientificamente visionari, come l’ingegner Luigi Gussalli, precursore dell’esplorazione spaziale, o gli ingegneri imprenditori, come Giovanni Conti, Attilio Franchi, Cesare Deretti e Francesco Ceschina.

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Capitolo Terzo

Le Prime opere e il travolgente avvio professionale

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capitolo terzo

Le prime opere e il travolgente avvio professionale

Cartolina intestata della ditta del commerciante di formaggi Carlo Migliorati, committente del Dabbeni per il palazzo di Via Trento, raffigurato nel disegno. Nella pagina a fronte, la scala che scende nel cortile del Palazzo Migliorati, di Via Trento 3, in Brescia. Nella doppia pagina precedente, particolare della facciata del Palazzo Migliorati.

La personalità di Egidio Dabbeni risultò subito caratterizzata da una vivace intelligenza, da spirito innovativo e anche da una fremente volontà di affermazione. Come tale fu subito percepito dall’ambiente bresciano. Nel 1904 si definiva il Dabbeni, sulla stampa locale, “bello e aitante giovane, dalla folta barba nera, dallo sguardo scintillante, dalla fisionomia arguta”. All’immagine modernista si sovrappose, in seguito, una stima più meditata e argomentata, che accompagnò, crescente, il Dabbeni per tutta la vita. Lusinghiero e ponderato fu, ad esempio, l’apprezzamento rivolto ad un Dabbeni maturo, da parte di un illustre sacerdote, Luigi Fossati, che nel 1949 aveva avuto la possibilità di verificare su un’intera vita la statura del Dabbeni. Il Foresti, in una lettera rivolta al Dabbeni, riferendosi ai progetti stesi dall’ingegnere per chiese, altari e monumenti religiosi, ebbe a scrivere: “La fede e l’ideale spirituale sono al fondo di ogni anima e brillano negli occhi nerissimi e intelligentissimi del di lei volto, che ha la maestà di quegli antichi uomini che nella storia lasciarono un solco”12. L’energia innovativa del Dabbeni emerse ancora prima della laurea. Fu nel 1895 che egli iniziò a studiare il palazzo commissionatogli da un commerciante e produttore di formaggi, di Brescia, Carlo Migliorati. Il Migliorati disponeva di un’area lungo l’antica via che, dalla Porta Montana, poi detta Porta Trento (attuale Piazzale Cesare Battisti), conduceva al Borgo Pile (attuale Borgo Trento), alla Valle del Garza e poi alla Valle Sabbia e, quindi, a Trento13. All’epoca non esisteva la parallela, ad est, Via Monte Suello, sull’altra riva del Garza. L’area era attraversata da una piccola via privata, chiamata Strada privata dottor Pace, poi denominata Via Bredina. A monte e a meridione di quella via il Migliorati costruì due palazzi. L’edificio a sud di Via Bredina, con ingresso al n. 3 di Via Trento, doveva costituire anche la sede della ditta. Una veduta del palazzo compare, infatti, in una carta intestata del Migliorati. L’edificio si sviluppava su un perimetro rettangolare, con cortile interno, ma solo l’ala parallela a Via Trento possedeva la consistenza e la dignità di un’alta qualità. Come si vede nel prospetto tracciato dal Dabbeni nel febbraio del 1898, per la documentazione presentata all’ufficio comunale, allegata alla richiesta di autorizzazione a costruire, l’impianto della facciata e anche gli elementi singoli, sono assoluta-

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Progetto del Palazzo Migliorati, firmato da Egidio Dabbeni, del 1898.

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mente improntati a grande classicità. Si veda una più dettagliata descrizione nella scheda di pagina 228. La personalità innovativa di Egidio Dabbeni si trova altrove. Gli elementi decorativi, modellati nel cemento bianco, sono disegnati in forme baroccheggianti, costituite da cascate di frutti, fiori e fogliame, da nastri che si snodano e intrecciano e anche da qualche viso femminile. A tratti sono inseriti dei cartigli. Lo spirito è però già liberty. Il concetto delle tortuosità intricate dell’Art Nouveau si nota anche nelle porzioni di sculture più classiche, ma esso trionfa, nella sua più schietta originalità, nell’alta fascia a bassorilievo della struttura d’angolo. Interessante è anche l’andamento curvilineo della scala esterna, posta nel cortile. Accanto alle caratteristiche decorative, intrise di modernismo, sta la peculiarità principe di questo edificio: la struttura in cemento armato. La progettazione del palazzo può essere collocata, in base ad alcuni riferimenti documentali, al 1895, ma, comunque, il 1897 è una data di ovvia certezza, se si considera l’inequivocabile data di presenta-


Veduta generale del Palazzo Migliorati, oggi. In primo piano, lo smusso fra le vie Trento e Bredina.

zione della richiesta di licenza al comune di Brescia, che è il 18 febbraio 1898. Una progettazione di struttura in cemento armato per un edificio residenziale, con queste date, costituisce, in Italia, un primato. Le date che sono state qui esposte per le prime realizzazioni di strutture in conglomerato cementizio armato in Italia sono il 1899, per i silos per Genova del Porcheddu, e il 1898 per l’asilo notturno “Umberto I” di Torino, di Daniele Donghi. Si trattava di utilizzi parziali e industriali del nuovo materiale. Antonio Brencich, specialista di ingegneria strutturale, analizzando le origini dell’uso italiano del cemento armato, scrive: “Le prime strutture “monolitiche” furono limitate ai solai portati da murature: a Genova un tipico esempio è costituito dagli edifici universitari di S. Martino, secondo una tecnica che sarebbe stata impiegata in modo piuttosto vasto anche per edifici borghesi di civile abitazione di modesto livello (alcuni si ritrovano nella zona di Sturla). I primi esempi di struttura portante interamente in cemento armato compaiono intorno al 1910”14. Nel 1904 Daniele Donghi collocava orgogliosamente la sua casa costruita in quell’anno, in Via Nizza, a Torino, fra “i primi fabbricati italiani in cui fu unicamente applicato il moderno sistema costruttivo in calcestruzzo armato”. In anni molto vicini alla costruzione del Dabbeni, nel 1904, su un quotidiano bresciano si scriveva, parlando del progettista: “È sua la magnifica Casa Migliorati, fuori Porta Trento, il primo edifizio che sia costruito in cemento armato in Italia”15. L’edificio di Via Trento 3 meriterebbe, quindi, di entrare nei libri di storia dell’ingegneria16. Ma neppure in Brescia questo primato è noto e nessuna targa sul palazzo indica la qualità straordinaria dell’opera del giovane Egidio Dabbeni. All’epoca l’edificio destò stupore e incredulità, tanto che il proprietario, che non riusciva a trovare inquilini per gli appartamenti dei piani superiori, a causa della diffidenza diffusa, implorò il suo tecnico Dabbeni di offrire una prova personale di fiducia. Al sorgere del nuovo secolo l’ingegner Dabbeni si era sposato con Angelina Prandelli, una ragazza di famiglia lumezzanese. Il padre di lei era un impiegato delle poste, mentre due sorelle della giovane erano farmacista e maestra. Nel 1902 la coppia ebbe la prima figlia, Angiola Maria. Per provare la solidità del Palazzo Migliorati, il Dabbeni, con la moglie e la figlioletta, andò ad abitare nell’edificio, per diversi mesi, avendo inoltre caricato le solette degli altri piani con sacchetti di sabbia. Si era, quindi, almeno nel 1902 e il palazzo, da tempo finito, era ancora sfitto. All’epoca dei primi utilizzi del palazzo si lamentava, e stavolta con ragio-

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Una delle rare tavole pervenuteci di progetto per cementi armati, di Egidio Dabbeni, settore nel quale l’ingegnere fu pioniere in Italia. Progetto per il Palazzo Pisa, del 1912.

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ne, il pessimo isolamento acustico interno, causato dal getto di solette massicce, che inglobarono nella cartella anche il pavimento alla palladiana. Il palazzo è ancora oggi in ottime condizioni di stabilità, mentre si sono deteriorati solo i legni del cornicione. Invece si è intervenuti sul palazzo, una ventina d’anni fa, per ricavare mansarde nel sottotetto. Con riferimento agli aspetti stilistici inerenti al Liberty, si ricorda che l’importantissima creazione del Liberty, in ambito inglese, ebbe i suoi esordi intorno ai primi anni Ottanta, ma solo nelle arti decorative e non in architettura, la cui prima opera compiuta è generalmente identificata con la casa Tassel di Victor Horta, a Bruxelles, del 1893. Solo nella seconda metà degli anni Novanta lo stile si diffuse nell’architettura belga, francese e anche austro-tedesca. In Italia il nuovo stile non si manifestò se non nei primi anni del Novecento, dopo la cassa di risonanza dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna, svoltasi a Torino negli sfarzosi padiglioni disegnati, con il Liberty di Raimondo D’Aronco, nel 1902. I maggiori protagonisti del Liberty italiano iniziarono


Disegno di progetto per i caselli di ingresso della ditta di Angelo Bossi, poi demoliti, ma eretti circa al numero 7 di Via Trento, in Brescia. Si notano le decorazioni liberty e la straordinaria soluzione del parapetto e del cancello.

ad esprimersi nelle nuove forme solo nel 1899 (Villa Igiea, di Ernesto Basile, a Palermo), nel 1901 (Palazzo Castiglioni, di Giuseppe Sommaruga a Milano) e nel 1902 (Casa Fenoglio, dell’ingegnere Pietro Fenoglio, a Torino). Le forme grafiche del Liberty, applicate all’editoria, alla ceramica, all’ebanisteria, ai ferri battuti, erano già circolate negli anni precedenti e certamente il Palazzo Migliorati del Dabbeni risente di quella prima versione del nuovo stile, limitato com’è alla decorazione piatta della fascia di sommità e alle ringhiere della scala, e non certo ai volumi e neppure alle aperture del palazzo. Tuttavia la data del 1897, ma ancora più, della probabile ideazione, ad anni vicini al 1895, pone il Palazzo Migliorati a maggior ragione su un piedistallo d’avanguardia anche per la scelta stilistica. Per spiegare la precocissima creazione del Dabbeni ci si può riferire alle informazioni, anche internazionali, che il Dabbeni aveva, grazie agli studi e grazie alla sua avidità libraria. La biblioteca personale che egli costruì nella sua vita fu imponente. Tuttavia può essere non trascurabile l’interessante presenza in Brescia

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Soprattutto nella sua vita giovanile Egidio Dabbeni fu personalità vivace nell’ambiente intellettuale bresciano. Qui è ritratto (ultimo a destra), da Mario Bettinelli, nel 1909, in una caricatura che lo accomuna a noti artisti e scrittori.

di un singolare tecnico toscano, ingegnere capo dell’Ufficio tecnico comunale: Cosimo Canovetti, personalità eclettica e anticonformistica, che, anche per i suoi rapporti con Parigi, maturati durante gli studi universitari e una fase di lavoro nell’ambiente delle grandi operazioni urbanistiche di Eugène Haussmann, portò in Brescia informazioni e sperimentazioni altrimenti improbabili17. Nel quadro della presenza liberty in Brescia il Dabbeni emerse con prepotenza18. La vivacità culturale del giovane Dabbeni, che tanto si manifestava nell’innovativa competenza ingegneristica e nella creazione stilistica, ebbe modo di esprimersi anche nella partecipazione alla più dinamica vita cittadina, anche con spirito critico. Nel 1897 appariva, sul giornale bresciano “La Sentinella Bresciana”, un articolo del Dabbeni, nel quale egli annunciava, decantandola, la formazione di un cenacolo di cultori delle scienze naturali, rivolto alla formazione di un museo cittadino. La società, che si diede il nome del noto studioso bresciano Giuseppe Ragazzoni, faceva però fatica a decollare, per carenza di aiuti economici e culturali. “È un fatto doloroso ma indiscutibile questo – scriveva tranchant Egidio Dabbeni – che Brescia non ha mai procurato alla scienza quella produzione abbondante di uomini atti a farla progredire, della quale si vantano alcune provincie circonvicine: Mantova, Milano, Como, il Trentino. Le ragioni di questo ripeteranno forse la loro origine da qualche oscura deficienza di questa nostra razza cenomane, che, indubbiamente incapace di astrazione, è forse anche sprovvista di quelle facoltà d’osservazione che sono indispensabili allo studio della scienza e di quella potenza di sintesi che sola permette di trarre da notizie raccolte con pastorale pazienza, le grandi luminose generose verità. [...] Se vi sono ancora bresciani che delle cose dell’intelletto si occupino, non dovrebbe essere difficile in una provincia popolata di mezzo milione di uomini non del tutto barbari, ricca di industrie e di commerci, con centocinquanta milioni in risparmi, racimolare quelle due o tre migliaia di lire delle quali abbisogna la società Giuseppe Ragazzoni per regalare a Brescia un Museo di Storia Naturale che serva di modello e di esempio a molte città d’Italia e d’Europa. Altrimenti – concludeva il Dabbeni, senza mezzi termini – sarà giuocoforza convenire con coloro che, guardando alla attuale produzione scientifica e letteraria delle terre cenomane assicurano che Brescia è la Beozia d’Italia”19. I freschi studi universitari, i soggiorni di studio a Padova e Roma, i contatti con ambienti dinamici della cultura nazionale avevano evidenziato agli occhi del Dabbeni

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Particolari del progetto per i caselli Bossi.

una Brescia operosa e progredita, ma carente sotto il profilo culturale. Era una visione che fu ribadita nei decenni successivi e che, ancora oggi, è condivisa da molti. Anche il committente della prima opera importante di Egidio Dabbeni, si pone come emblema del clima storico in cui veleggiava l’innovazione ingegneristica e stilistica: un commerciante di formaggi. Difficile pensare ad una personalità meno aulica e, al contempo, più rappresentativa di quella borghesia operosa e benestante che guidava lo sviluppo economico e culturale dell’Italia, come di tutto il mondo occidentale. Il giovane ingegnere, quindi, intercettava un tipo di clientela nuovo, dinamico e informale, che sapeva accettare, e anzi, voleva caratterizzare i propri fabbricati con elementi innovativi, anche a fini promozionali. Questa lettura è confermata da un secondo progetto, stavolta di molto minore entità, che il Dabbeni eseguì per un commerciante di legname, Angelo Bossi, che gli commissionò un fabbricato che si voleva erigere poche decine di metri a nord del Palazzo Migliorati. Il disegno prevedeva due edicole, simmetriche, sul ciglio stradale, collegate da una balaustra con cancello centrale. Il disegno dei piccoli fabbricati ha un carattere classico, con un timpano in sommità, ripreso da un minore esemplare posto sopra la porta. Tuttavia vi è, al centro della facciata, una poco comprensibile innovazione, forse comprendente anche un’insolita apertura. Ma la porzione geniale sta, oltre che nelle decorazioni del fabbricato, nel disegno della balaustra e del cancello, che sono profondamente liberty, del migliore stile floreale belga o parigino. Il disegno presentato al comune è di inizio 1900, il che presuppone un progetto stilato a fine 1899. La documentazione è lacunosa, ma risulta evidente che il disegno non piacque alla Deputazione all’ornato, che chiese al Dabbeni di correggere il progetto, rassegnandosi in seguito ad approvarlo, ma alquanto malvolentieri. I membri della commissione, l’architetto Carlo Melchiotti, l’ingegnere Giovanni Soncini, il direttore della Pinacoteca Tosio Martinengo, Luigi Cicogna, e l’architetto Luigi Arcioni infatti scrivevano: “La Deputazione, esaminato il nuovo disegno presentato, quantunque non possa formarsi chiara idea di ciò che intendesi fare, perché anche il dettaglio non è sufficiente, tuttavia, per non mo-

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Egidio Dabbeni intervenne sul palazzo di Via Gramsci 18 e 20, in Brescia. In alto un primo progetto di ristrutturazione del palazzo, quando apparteneva ancora a Lorenzo Galli. In basso il progetto del Dabbeni, del 1898. A destra l’intervento sulla piccola porzione sud, al numero civico 20, che comportò la demolizione di architetture del Seicento.

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strarsi contraria a novità, si dichiara disposta ad accettare il disegno dei due casinetti progettati. Non esprime però voto relativamente alla cancellata che unisce i casinetti medesimi perché non può farsi sufficiente criterio al suo modo di costruzione. Solleva dubbio sulla sufficiente difesa e sulla tenuta di essa cancellata”. Il tono è chiaramente di sufficienza e di sfiducia nei confronti della stravagante scelta estetica e tecnica, avvertita come “novità”, alla quale i commissari non intendevano dimostrarsi avversi, come essi stessi dichiaravano, pur essendo evidente che essi decisamente non la condividevano. Malauguratamente, del fabbricato Bossi non è rimasta traccia. La piccola contesa fra il Dabbeni e la pubblica amministrazione, per il caso Bossi, faceva seguito ad altra, ben più dura, sorta


Nella porzione del palazzo Capretti, al n. 20 di Via Gramsci, Egidio Dabbeni diede sfogo al suo modernismo liberty, con elementi di grande invenzione, sia nelle parti in cemento che in ferro o legno.

per l’intervento del Dabbeni su un palazzo di proprietà di Giuseppe Capretti, nella Via Larga, l’attuale Via Gramsci. Oltre la cronica contesa fra uffici comunali e progettisti, l’episodio rivela l’ambiguo atteggiamento della cultura dell’epoca nei confronti della nuova architettura. Queste le parole della delibera di giunta del novembre 1898: “Il Signor Giuseppe Capretti, rappresentato dall’Ing. Sig. Dabbeni, ha incominciato il rinnovamento della facciata della sua casa in angolo fra la via Ospital Donne [nome già all’epoca superato dalla nuova denominazione di Via Larga, l’attuale Via Gramsci] e la via S. Lorenzino distruggendo la precedente disegnata dal Bagnadore, prima di avere avuto l’autorizzazione da questa Amministrazione e dalla Commissione d’Ornato, la quale anzi si è riservata ogni giudizio fino alla produzione per parte dell’Ing. Dabbeni di un progetto più completo e dettagliato dei già presentati”. Il progetto era già stato bocciato dalla Deputazione all’ornato nel maggio del 1899, con sospensione dei lavori avviati nel 1898, anche perché la nuova facciata, in conseguenza della rettifica del vecchio muro, occupava un certo numero di metri quadri di suolo pubblico. I rapporti del giovane ingegnere con l’Amministrazione pubblica non furono quindi tranquilli, all’inizio della carriera professionale. Di contro, il palazzo di Via Gramsci 20 diede occasione al Dabbeni per un’altra prova di qualità del suo modernismo. Forse in sostituzione di un’architettura di Pietro Bagnatore, di cui poco si sa, fu creata una piccola facciata gioiello, che può rientrare fra i capolavori del Liberty italiano, anche per la sua data di progetto, il 1898. La soluzione, sia pure nell’angustia e nella marginalità degli spazi, si gioca ancora quasi totalmente su un unico piano e quindi su una soluzione grafica. La piccola facciata non poneva, infatti, alcuna opportunità di terza dimensione, salvo soluzioni ancora troppo impensabili, sia pure nel clima dell’avanguardia. Tuttavia Egidio Dabbeni quella terza dimensione la creò nell’inferriata del tratto di recinzione, con muro e pilastrini, che si trova a sinistra del portone. Purtroppo quell’inferriata è oggi scomparsa, sacrificata, come molte altre, al dono del ferro imposto durante il

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Fascismo. Ma possediamo il disegno di progetto. Con un colpo d’ala creativo, che molto raramente fu adottato, anche negli anni successivi e fino all’oggi, i ferri non giacevano solo sul piano bidimensionale verticale, ma si animavano, andando a sporgere anche sulla terza dimensione, sporgendo, cioè, verso la strada. Solo nel Barocco si vide qualcosa del genere in questo particolare costruttivo, come nelle balaustre di alcuni balconi, le cosiddette ringhiere inginocchiate, o nelle inferriate di alcune finestre, peraltro motivate da ragioni funzionali, legate alla possibilità offerta ai residenti di affacciarsi oltre lo specchio della finestra, cosa impossibile in presenza di un’inferriata piana tradizionale. La facciata è ricca di bassorilievi, ma anche di teste femminili a tutto tondo. Molto elegante e innovativa è la porzione terminale dell’architettura, che mostra una trave traforata, nella quale si snoda un viluppo di sapore orientale, così come nella testa del pennone, dove trionfa una sorta di intricato bocciolo in cemento. Si comprende come un contemporaneo, Arnaldo Gnaga, così scrivesse del Dabbeni: “Sdegnoso di pedisseque imitazioni e tormentato dalla ricerca di forme nuove, egli è certo prossimo ad armonizzarle in un suo proprio stile a cui però troppo scarse ed impari occasioni si presentarono finora di esplicarsi completamente. Dalle sue opere conviene menzionare il palazzo Migliorati, anche perché in esso al bel disegno architettonico va associata la perizia tecnica dell’ingegnere, essendo questo palazzo il primo

Nelle due pagine, l’intera tavola e particolari del disegno liberty di progetto della parete del Palazzo Capretti di Via Gramsci 20, in Brescia. In questa pagina il progetto dell’originale ed elegante inferriata, asportata, e la trave di sommità, con il fregio intagliato nel calcestruzzo. Nelle due pagine successivei, altre porzioni del disegno.

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Nelle due pagine, particolari del disegno liberty di progetto della parete del Palazzo Capretti di Via Gramsci 20, in Brescia.

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Particolare del rosone centrale del portone del Palazzo Capretti di Via Gramsci, in Brescia.

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in Italia costruitosi per intero in cemento armato, sebbene rivestito signorilmente di pietre conce e coronato di stucchi”20. Nella tavola di progetto del Palazzo Capretti il Dabbeni parla, come accennato, di stucchi, per i rilievi, e anche di affreschi, dei quali però non vi è traccia. Le prime opere del Dabbeni erano di per sé ampiamente promozionali per la sua attività professionale. Tuttavia, può capirsi che un giovane architetto si adoperi per andare oltre le opere commissionate, per dilatare la visibilità del panorama delle proprie capacità, proponendo progetti non richiesti, magari gratuitamente e non raramente per fini umanitari. Nel Bresciano la questione sanitaria era acuta, come in molti altri territori dell’epoca, ma la città era ai primi posti dell’incidenza di patologie tipicamente urbane. Era un problema ampiamente dibattuto dai medici, dagli amministratori, dall’opinione pubblica. Fra le malattie devastanti dell’Ottocento e della prima metà del Novecento vi era la tubercolosi, che falcidiava vite, senza che esistesse un rimedio, se non qualche debole speranza affidata al trattamento climatico dei sanatori e al pneumotorace chirurgico. I sanatori si basavano sull’elementare convinzione che il respirare aria pulita e ossigenata dai boschi di montagna favorisse, se non la guarigione, almeno un rallentamento della malattia. L’Ateneo di scienze, lettere e arti di Brescia, cui si affiancò la Società d’igiene, lanciò la proposta che ci si adoperasse per creare un sanatorio a Brescia. Fu Egidio Dabbeni a passare alla fase materialmente propositiva, presentando un suo progetto di sanatorio, che egli, supportato da una filantropica e reale donazione d’area, intendeva costruire a un chilometro dal borgo di Mompiano, a mezza costa, fra il Colle di S. Giuseppe e il Colle della Maddalena. Nonostante i precursori alberghi per tisici, voluti soprattutto dagli Inglesi in Svizzera o nell’Italia calda del Mediterraneo, il primo sanatorio medico italiano fu costruito solo fra il 1902 e il 1903, nella pineta di Sortenna, presso Sondalo, in Valtellina. Il progetto di Egidio Dabbeni, aveva quindi, ancora una volta, il carattere di un’idea d’avanguardia, anche sotto il profilo tipologico. L’area su cui il Dabbeni collocava il suo sanatorio, fra il bosco e un vigneto, si trovava una cinquantina di metri sopra la strada di Mompiano e pare di capire, dalle laconiche notizie, che fosse in quella che oggi chiamiamo Valle di Mompiano, ben riparata dai venti. L’andamento planimetrico, a semiluna, nonché la graziosa serie di balconcini e le due torrette centrali, molto elaborate secondo stilemi liberty, con la scalinata di base, a due rampe, danno al


Due tavole di progetto, di Egidio Dabbeni, e un’immagine del capannone costruito per l’industria Togni nei pressi del cimitero vantiniano di Brescia, del 1903.

fabbricato l’aspetto di un Grand Hotel di lusso, più che di una clinica. Il progetto rimase inattuato. Si veda la scheda a pagina 249. Se la presenza innovativa del Dabbeni poteva risultare in Brescia ingombrante per alcuni, non altrettanto risultava per altri. Era sempre la borghesia produttiva a rivolgersi al giovane ingegnere, che ebbe incarico di progettare lo stabilimento del calzificio Ambrosi e le officine Togni, tra il 1900 e il 1903. Si trattava di grandi aziende cittadine che certamente riconoscevano al Dabbeni un’importante capacità professionale. Entrambe le sedi industriali sono state in seguito demolite e solo i capannoni del Togni sono noti attraverso qualche fotografia e un disegno progettuale. Erano strutture con testate in cui si inseriva l’ampio portale, in forma di semicerchio, quasi allusivo della produzione di grandi tubi che si praticava nell’azienda Togni. Il calzificio Ambrosi, una delle maggiori realtà industriali della Brescia dell’epoca, si trovava nell’area compresa fra le attuali vie Solferino e Saffi. Di quell’architettura abbiamo solo un piccolo disegno, certamente approssimativo, riportato da una carta intestata dell’azienda, e una rara e parzialissima fotografia. Qualche cenno d’epoca ne parlava come di un’architettura di stile nuovo e quindi liberty, con interessanti inferriate. Rapidamente venne, per Egidio Dabbeni, il massimo riconoscimento ufficiale. Nel 1900, nell’ambiente del Circolo commerciale e industriale, si iniziò a pensare ad una grande manifestazione che promuovesse l’economia bresciana: un’Esposizione di forte respiro, che ambiva a riprendere i modelli delle numerose Esposizioni universali, sia pure adattati alla scala delle minori, che s’infittivano in ogni Paese e ogni provincia. Del grande evento bresciano furono promotori il sindaco Carlo Fisogni e il futuro sindaco Dominatore Mainetti, che guidava la Camera di commercio, mentre veniva nominato un gruppo di pianificatori dell’evento. Nel 1903, in quel comitato, erano delegati alla scelta del progetto architettonico dell’Esposizione gli ingegneri Arnaldo Trebeschi, Luigi Gadola (anch’egli futuro sindaco di Brescia) e Giovanni Conti. I tre scelsero il Castello come sede della manifestazione, che pure ancora non era di proprietà comunale, e contribuirono, nonostante la possibile rivalità professionale, alla scelta di Egidio Dabbeni come progettista generale dell’Esposizione. Il Trebeschi, ad esempio, proprio in quegli anni progettava la nuova sede del Teatro Sociale, un

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Tre immagini della scomparsa architettura disegnata da Egidio Dabbeni per il calzificio Ambrosi, nei pressi dell’attuale Via Saffi, in Brescia. Le immagini dell’edificio, in alto, sono tratte da carte intestate della ditta e sono le uniche disponibili con riguardo all’intero complesso, che era molto ammirato per la sua estetica. La rarissima foto in basso mostra l’angolo sud-est dell’edificio.

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elegante ambiente liberty nel cuore di Brescia. Ciò significava che anche i colleghi riconoscevano nel Dabbeni, che allora aveva trent’anni, l’uomo capace di assegnare all’evento quel carattere di brillante novità che ci si aspettava, anche per rendere eclatante, e quindi attrattiva, l’Esposizione. Non era estranea l’esigenza tecnica di avere stand leggeri ed effimeri, come voleva la logica dell’evento, ma anche piuttosto resistenti, perché si evitasse il rischio, incontrato in simili evenienze, di padiglioni scoperchiati da un fortunale, con le merci, raccolte all’interno, gravemente danneggiate o distrutte. Non erano meno insidiosi gli incendi, anch’essi protagonisti della lunga stagione delle Esposizioni, alla cui prevenzione e al cui controllo doveva accortamente provvedere il progettista. Gli stand richiedevano, insomma, accanto alla più brillante fantasia creativa sotto il profilo del modernismo architettonico, anche un’oculata sapienza ingegneristica. Confrontando il nuovo volto dei luoghi architettonici con lo squallore del Castello appena pochi mesi prima dell’Esposizione, così come fu trovato in seguito al plurisecolare utilizzo militare, un giornale cittadino scriveva: “Ebbene: si è trovato subito l’uomo che con una rapidità meravigliosa di ideazione e una non meno meravigliosa rapidità di esecuzione,


Due immagini del cantiere dell’Esposizione Bresciana del 1904. In basso l’immagine celebrativa dei protagonisti dirigenti dell’evento, fra i quali è raffigurato, a destra, l’ingegner Dabbeni. Al centro, in alto, il sindaco Federico Bettoni, in basso Dominatore Mainetti, futuro sindaco della città e ideatore dell’Esposizione, a sinistra l’ingegner Arnaldo Trebeschi, libero professionista come il Dabbeni.

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La facciata del principale stand dell’Esposizione Bresciana del 1904, emblema del disegno liberty scelto da Egidio Dabbeni per l’intero complesso.

ha compiuto il miracolo di quella trasformazione. Ha tratto la vita da dove era la morte, ha improvvisato palazzi, ha scavato viadotti, ha mascherato o messo in luce questa e quella parte, ha, quasi a colpo di magica bacchetta, fatto sorgere una nuova città, bizzarra e squisitamente artistica, ha costituito nel successo che si preparava del contenuto il successo brillantissimo del contenente. Diamo il primo posto all’ing. Egidio Dabbeni, l’architetto dell’Esposizione, il papà intellettuale della fantasmagorica trasformazione del diruto, squallido Castello in ridentissimo regno del lavoro. L’ing. Egidio Dabbeni è bresciano, e del bresciano ha la fermezza de’ propositi e il fervido amore del lavoro, come degli artisti nostri, che lasciarono di sé così fulgida traccia, ha ereditato la genialità e l’arditezza della composizione, accoppiando il rigore della tecnica alla felice improvvisazione di tutto un piano di lavori. Nato da modesta famiglia, si è fatto, giovanissimo ancora quale egli è, un posto al sole da sé, a furia di buon volere e d’ingegno perdurando bravamente in sacrifizi d’ogni fatta, pur di completare la propria educazione artistica, e dalle scuole di Belle Arti trarre all’Università, per uscirne colla sua brava laurea di architetto”21. Fu in quell’occasione che il giornale aggiungeva queste osservazioni sulla personalità, sia professionale che umana: “La genialità di un architetto pieno di verve ci ha davvero trasportati in un mondo fantastico, nel quale, seguendo quel lunghissimo giro a saliscendi cui è obbligato il visitatore, ogni senso di stanchezza scompare perché

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Panorama dei principali volumi architettonici dell’Esposizione Bresciana del 1904, inserito nel fregio del diploma stampato per il riconoscimento dei premi ai vari concorrenti. In basso, una veduta fotografica da sud del complesso espositivo tracciato dal Dabbeni.

l’occhio è accarezzato dalla vaghezza e dalla continua varietà delle nuove linee, dalla diversità degli aggruppamenti di edifizi, che, ad ogni svolto, s’affacciano con bello e razionale adattamento d’ogni spazio e d’ogni costruzione. [...] L’ing. Dabbeni è un bello e aitante giovane, dalla folta barba nera, dallo sguardo scintillante, dalla fisionomia arguta. È un artista che fa onore a Brescia e, a buona ragione, un gruppo d’amici suoi ha pensato di offrirgli, per pubblica sottoscrizione, una medaglia d’oro, a ricordo dell’opera da lui compiuta fra tanta ammirazione del pubblico”22. Non si ha notizia di una medaglia d’oro ma un’elegante targa è ancora nella casa degli eredi del Dabbeni,

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Nelle due pagine, ritratti di Egidio Dabbeni nei primi anni del secolo. La fotografia della pagina a fronte fu diffusa dai giornali che favorirono la fama raggiunta dal Dabbeni per la progettazione di stand e chioschi dell’Esposizione Bresciana del 1904.

con la dedica “Egidio Dabbeni della mostra sul Cidneo architetto geniale questo geniale augurio de’ suoi concittadini MCMIV”. Gli apprezzamenti per l’opera del Dabbeni furono unanimi. Così scriveva un altro giornale, che si aggiungeva al coro, qui solo parzialmente esemplificato: “Con una genialità d’artista e una preparazione di studi e un lavoro continuo, giovane ancora si è procurato nella nostra città una invidiabile riputazione e già attese alla costruzione di opere che gli fanno onore. L’ingegnere Egidio Dabbeni fu l’architetto che trasformò del nostro Castello quanto le esigenze della Esposizione richiedevano, costruendo nuovi edifici e gallerie eleganti con gusto di modernità e con semplicità di linee. È un giovane che ha fatto molti passi nella via che lo conduce a mete che si conquistano solo dopo aspre battaglie dell’ingegno e della volontà”23. Gli stand dell’Esposizione furono caratterizzati da grandi aperture a omega, con lesene rastremate e curve. Il padiglione centrale, che si apriva sullo spiazzo del baluardo di S. Faustino, oggi detto Piazzale della locomotiva, ebbe l’onore della copertina della celebre rivista “Illustrazione Italiana”24. Le grandi Esposizioni, e prime fra tutte le Esposizioni universali, furono, nell’Ottocento, ma anche, in parte del XX secolo, occasioni per sperimentazioni e clamorose performance di architettura, fatte per stupire. Tuttavia si pensi che, alla grande Esposizione universale di Parigi del 1900, l’Italia fu presente con un palazzetto eclettico, miscuglio fra le imitazioni della Basilica di S. Marco e del vicino Palazzo Ducale, di Venezia. Novità erano invece venute dalle Esposizioni di Parigi, del 1900, e di Torino, del 1902, e sarebbero giunte anche dall’Esposizione del 1906 di Milano. In quel panorama la bella architettura liberty del Dabbeni per Brescia resta un ottimo esempio della cultura modernista del tempo. Per l’illustrazione di altre architetture dell’Esposizione si veda la scheda a pagina 230. La carriera del Dabbeni, dopo l’Esposizione, veleggiò ad alta quota, anche dal punto di vista dell’entità economica degli incarichi. Appena sposati i coniugi Dabbeni abitarono nella frazione di S. Eufemia e si ricorda che la famiglia non era in condizione agiate, tanto che le sorelle della moglie si premuravano di portare un po’ di legna dalla valle, quando si recavano in visita alla nuova famiglia. Durante l’apertura del cantiere per l’Esposizione il Dabbeni abitò, con la famiglia, in un fabbricato del Castello, la cosiddetta Caserma Pisani, un fabbricato posto sul retro dell’ingresso alla fortezza, oggi scomparso, e lì nacquero tre dei suoi quattro figli. I Dabbeni abitarono in quell’edificio sino al 1908. Invece, nel 1911, Egidio Dabbeni poteva progettare la sua abitazione, lungo il Viale Venezia, in Brescia, ai numeri civici 122 e 124. In quella casa egli abitò tutta la vita. Nel 1907 fu l’importante Società Elettrica Bresciana (Seb), da poco costituitasi, ad affacciarsi alla soglia dello studio dell’ingegner Dabbeni. Aveva l’esigenza di edificare la propria sede, lungo l’attuale Via Leonardo da Vinci, appena oltre le mura cittadine, all’epoca in via di demolizione. Per il progetto si affidò al Dabbeni, che disegnò un grande palazzo del quale si parlerà più avanti. La società era nata con una grande forza imprenditoriale sul fronte di un mercato dalle grandi prospettive. Aveva acquisito il servizio di fornitura dell’energia elettrica alla città di Brescia e possedeva la linea di trasporto intercomu-

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Egidio Dabbeni associato ad una sua ipotetica tavola di progetto nel disegno del 1989 di Marco Bolla. Sotto, veduta di alcuni stand dell’Esposizione Bresciana, pubblicata in una cartolina dell’epoca. Nella pagina a fronte, la targa regalata al Dabbeni dai suoi ammiratori nel 1904.

nale con tram, fra Brescia e Cellatica. Nel 1907, lo stesso anno della costruzione della sede di Via Leonardo da Vinci, il comune di Brescia indisse un referendum per far decidere ai cittadini se il servizio dei tram urbani dovesse essere assunto direttamente dal comune. La Seb, per impedire la soluzione municipalizzata, attivò ogni forma di pressione e di propaganda. Mise in campo anche un periodico, “Il Risveglio economico”, sul quale si pubblicarono interventi importanti sotto il profilo imprenditoriale e urbanistico. La battaglia referendaria fu senza esclusione di colpi e sul quotidiano dei post-zanardelliani, “La Provincia di Brescia”, favorevole alla municipalizzazione, non si risparmiarono fendenti alla Seb, al suo giornale e anche all’ingegner Dabbeni, che sul “Risveglio” si era pronunciato a favore della liberalizzazione dei trasporti urbani. Il giornale “La Provincia” scrisse un pesante attacco al periodico dell’azienda elettrica, accusando anche il Dabbeni “di essersi venduto alla Seb con i suoi pareri sulla municipalizzazione”. Nel febbraio del 1907 il Dabbeni reagì molto energicamente contro il giornale che, essendo schierato a favore della gestione pubblica dei trasporti, lo aveva offeso. La sconfitta della Seb nel referendum fu il

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In alto, la zona di ingresso dell’abitazione di Egidio Dabbeni, progettata dal medesimo architetto, lungo il Viale Venezia, in Brescia. In basso, l’elaborato stemma aziendale disegnato da Egidio Dabbeni per il palazzo della Società Elettrica Bresciana eretto in Brescia lungo la Via Leonardo da Vinci.

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preludio alla costituzione dell’Azienda dei Servizi Municipalizzati, che vide la luce l’anno successivo. Il Dabbeni, che non tese mai a porsi in lizza politica, evitando compromissioni anche con il regime fascista, non fu però assente dal dibattito delle idee, soprattutto tecnico-architettoniche, né fu accomodante sul piano ideologico. Risolutamente laico, egli era anche repubblicano. Ne pare una conferma la familiarità, nei primi anni del secolo, fra Egidio Dabbeni e il foglio bresciano “il Fascio”, dichiaratamente repubblicano. È tramandato nella sua famiglia l’aneddoto di un ostentato rifiuto di Egidio, nonostante il suo ruolo centrale nella nascita dell’Esposizione, di incontrare il re Vittorio Emanuele III che era giunto in visita all’Esposizione bresciana del 1904. Una testimonianza giornalistica, di una cinquantina d’anni dopo, ricono-


Due vedute del grande complesso progettato da Egidio Dabbeni per il palazzo sede della Società Elettrica Bresciana, ancora esistente in Brescia, lungo la Via Leonardo da Vinci. Nella foto in alto la situazione generale prima dei recenti interventi di riconversione.

scendo al Dabbeni l’attributo di “socialista”, oltre che di “repubblicano”, così descrive l’episodio: “Una volta (fu nel 1904, all’inaugurazione della famosa Esposizione in Castello) per la paura che gli giocassero il tiro di una pur meritata onorificenza, piantò in asso Vittorio Emanuele III ed il banchetto cui doveva partecipare come ordinatore di tutta la mostra. Indarno lo mandarono a cercare: era salito a Lumezzane, a controllare una costruzione. Che ci avrebbe mai fatto, lui socialista e repubblicano, in mezzo a tanti salamelecchi per Sua Maestà?”25. Si dice che egli preferì andare altrove a passeggiare, con gli amici e sodali Gaetano Cresseri, pittore, e Costantino Zatti, ebanista, entrambi importanti protagonisti del Modernismo bresciano. In particolare con il Cresseri Egidio Dabbeni instaurò una solida amicizia, che si manifestò anche in una frequente collaborazione. Quando il Cresseri andava affrescando le pareti dello scalone del Teatro Grande, nel 1914, chiese al figlio del Dabbeni, Mario, che allora aveva dieci anni, di fargli da modello. Lo si vede, sulla parete di destra per chi sale, mentre trattiene, con un guinzaglio, una possente tigre. Il Dabbeni, secondo la diffusa concezione modernista dell’integrazione delle arti, così ampiamente coltivata dal movimento neomedievalista e poi Art Nouveau, coinvolse molto spesso artisti nella sua progettazione, sia nella forma interna, avvalendosi

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Alcune soluzioni architettoniche per finestre del complesso industriale della Società Elettrica Bresciana, lungo la Via Milazzo. Nella pagina a fronte, una tavola di progetto per il Palazzo Pisa di Corso Magenta 29, pubblicata da una rivista. Nelle due pagine precedenti, una porzione della facciata della sede Seb lungo via Leonardo da Vinci, in Brescia, e un particolare del pilone del cancello di ingresso, con l’acronimo aziendale al centro della ghirlanda.

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della creatività di suoi dipendenti per la decorazione intrinseca all’architettura, sia in forma esterna, invitando committenti e artisti ad inserire opere d’arte nelle sue architetture. Il Cresseri era anche il responsabile artistico, con Ugo Mazzolari, dell’Esposizione e, alla fine del primo decennio del secolo, la sua collaborazione fra l’artista e il Dabbeni si fece intensa. Anche sul tema dell’amicizia e della stima con il Cresseri, Egidio Dabbeni ebbe ad incrociare i guantoni metaforici di una tensione non insignificante nell’ambiente bresciano, a conferma della sua energia, anche polemica, nella fase centrale della sua carriera e anche della sua vita. Il casus belli si legava all’edificio che il Dabbeni progettò per l’impresario Pietro Pisa, lungo il Corso Magenta, al numero 29, costruito nel 1909. Il palazzetto, di un sobrio disegno classico, con bugnato e un timpano sulla portafinestra del balcone, prevedeva un’ampia fascia decorata, all’ultimo piano. Tra le finestre rimanevano riquadri che, invece che con il bugnato in pietra, erano finiti con intonaco liscio, sul quale era prevista una pittura ad affresco. Di quegli affreschi il Dabbeni incaricò l’amico Cresseri, così come delle quattro lunette che erano presenti nell’androne del palazzo. In queste ultime il pittore creò le allegorie dei quattro elementi: la terra, l’acqua, il fuoco e


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Tavola di progetto, del 1907, per il Palazzo Pisa di Corso Magenta 29, firmata da Egidio Dabbeni.

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Particolare del fregio di gronda del Palazzo Pisa di Corso Magenta 29, con i dipinti di Gaetano Cresseri, che destarono aperte critiche per l’audacia dei nudi femminili. Gli affreschi risentono di recenti restauri.

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Veduta dalla fascia alta della facciata del Palazzo Pisa di Corso Magenta 29.

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l’aria. Sono dipinti privati, dei quali quasi nessuno si accorse. La città vide, invece, con sorpresa, i dipinti che il Cresseri tracciò sulla fascia di sommità dell’edificio, i quali, per la loro evidenza pubblica, entrarono a far parte del paesaggio urbano e quindi del bersaglio contro cui l’opinione pubblica ama scagliarsi. Non furono immagini innocue. Il Cresseri, infatti, nei riquadri che si alternano ad altri con decorazioni floreali, che sono anche di sfondo alle figure, dipinte da Domenico Coccoli, creò quattro nudi femminili, molto espliciti, in visione frontale e senza alcuna velatura. Effettivamente si trattava di una scelta bizzarra e inattesa, più consona alla cartellonistica degli ammiccamenti sensuali di qualche tabarin, in base ai parametri del costume e della mentalità dell’epoca. Per non pochi cittadini che, sia pure nel clima di un certo laicismo mondano, tipico della Belle Epoque, mantenevano un quadro culturale e morale tradizionale, quelle immagini, anche perché poste proprio di fronte all’ingresso di una scuola, parvero fuori luogo. Si fece interprete della critica il giornale cattolico “Il Cittadino di Brescia”, che, nell’ottobre del 1909, definì quei nudi “figurine da Kri-Kri che insudiciano sfacciatamente un edificio bresciano”26. “Cri-Kri” era un settimanale umoristico illustrato con disegni caricaturali e anche ragazze vagamente discinte. Egidio Dabbeni, dalle pagine del giornale “La


Due vedute d’epoca del Palazzo Pisa in costruzione e del fabbricato che lo precedette e che dovette essere demolito.

Provincia di Brescia”, si levò indignato per l’accusa e, sotto il titolo Per un artista indegnamente oltraggiato, ribatté: “Per quanto il nome e il valore del Cresseri non abbiano bisogno di essere difesi, non posso a meno di protestare contro questo tentativo di gettare del fango sopra un artista che tutti gli amici più fedeli del Cittadino stimano e apprezzano per i dipinti che illuminano di luce radiosa le chiese di Collio, di Verolanuova, di Gussago. [...] Ebbene: per il cronista del Cittadino, questo lavoratore indefesso, parco, virtuoso, tutto immerso in visioni pittoriche, che della vita e dell’arte ha un senso equilibrato ed alto, non è che un pittore di figurine da Kri-kri, che sfacciatamente insudiciano gli edifici bresciani”27. Poiché l’occasione del diverbio era la scelta di un artista per gli affreschi con cui decorare il cosiddetto Pantheon del cimitero vantiniano, “Il Cittadino”, rincarando la dose delle accuse di favoritismo al Cresseri, associato al Dabbeni, minacciava: “Se però, per mera ipotesi, si dovesse avere il risultato con sistemi che puzzano di sacrestia massonica lontano un miglio, allora noi insorgeremmo con tutta la nostra anima bresciana che è fiera delle sue gloriose tradizioni artistiche”28. L’accusa era ingenerosa e falsa. Il carattere laico e la posizione antireligiosa di Egidio furono molto equilibrati e tolleranti. Nell’ambito familiare egli consentì che i figli fossero battezzati e avessero un’educazione cattolica. Egli si dedicò senza preclusioni alla progettazione di chiese, di altari e di cappelle funerarie, ricevendo riconoscimenti

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Nelle due pagine, tavole di progetto, del 1909-1910, del secondo Palazzo Pisa, posto sull’angolo fra Corso Magenta e via Crispi, in Brescia. Nella foto attuale, una porzione della facciata sud. Per un approfondimento sui Palazzi Pisa di Corso Magenta si veda la scheda a pagina 232.

sinceri da parte di sacerdoti, ordini religiosi e autorità ecclesiastiche. Monsignor Luigi Fossati, che, come accennato, dimostrò per il Dabbeni grande stima, espressa anche nei suoi libri, in una lettera privata del 1949, indirizzata all’ingegnere in risposta ad un suo augurio per il proprio venticinquesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale, scriveva: “E la debbo ringraziare per aver disseminato in tutta la nostra diocesi chiese, altari, monumenti religiosi, che oltre attestare la sua indiscussa autorità tecnica e artistica, sono documento di una fede e di un ideale spirituale che è al fondo di ogni anima”. Egli concludeva, quasi scusandosi per le lodi espresse: “Perdoni se timidamente un prete le ha detto tutto ciò. Un prete che sa che lei non ha La Fede, ma sa che è un uomo in cui, per la sua rettitudine, si può e si deve sempre aver fede”. Nella sua biografia di S. Giovanni Battista Piamarta, Luigi Fossati scrive: “Egidio Dabbeni possedeva la luce? Ne sono sicuro. Forse intuì da gentiluomo nell’amicizia di preti che gli facevano costruire chiese e altari, nel silenzio delle tombe da lui costruite, nel ricordo lontano del Piamarta e nell’amicizia intima di Lonati, umile sapiente poeta. Si era allontanato da un Dio politicizzato; forse ne sentiva il fascino nelle anime semplici che aveva avvicinato e nella innocenza di prime Comunioni. Il 4 maggio 1938 alla nipotina Eva (ora sposata Bonicelli) che faceva la prima Comunione e si sarebbe accostata alla Cresima, scriveva una lettera così fine e delicata [...]. Cara Eva, dunque domani, nello stesso giorno, farai la tua prima Comunione e sarai cresimata; da bambina diventi una fanciulla che conosce e sa distinguere quello che è bene da quello che non lo è, ed è responsabile delle sue azioni dinanzi a Dio e dinanzi alla propria coscienza”29. La rigorosa e vivace personalità del Dabbeni ebbe altre occasioni di confronto pubblico polemico, che confermano il carattere forte e la passione culturale. Le trattazioni biografiche, anche quelle inerenti ad Egidio Dabbeni, rischiano di rimanere agiografiche e ripetitive, soprattutto se non portano in superficie i tratti intimi e veri del carattere delle personalità, che sono poi le sorgenti del successo di uomini cui si guarda, per il solo fatto che se ne scrive, come a riferimenti notabili. Rientra nella capacità di fascino e nella valenza di modello anche la complessità delle persone, contraddizioni comprese, che le rende reali e confrontabili con l’esperienza comune. È, ad esempio, interessante isolare alcuni episodi, sinora sconosciuti, della vita professionale e civica del Dabbeni, episodi che ne confermano lo spirito sanguigno, associato all’atteggiamento culturale dell’attenzione alla qualità architettonica e alla difesa dei valori storici. Non possiamo,

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con la sensibilità odierna, evitare di rilevare contraddizioni in tali atteggiamenti, se pensiamo alle vicende dell’intervento liquidatorio sul Palazzo Capretti di Via Gramsci, dove si cancellarono architetture secentesche del Bagnatore, o della demolizione, causata dalla costruzione di un palazzo della famiglia Pisa, dell’antico palazzo di Corso Magenta, angolo Via Crispi, che risaliva almeno al XVII secolo, quando fu dei Maggi, essendo poi passato alla proprietà dei Luzzago, per concludere la sua vita nella proprietà dei nobili mantovani Bagno. Nel 1915 Egidio Dabbeni, transitando nella Via Trieste

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In questa pagina e in quella a fronte, disegni di progetto e foto d’epoca della Casa comunale con le scuole di Cizzago (Brescia).

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vedeva i risultati di un intervento per la creazione di un’apertura commerciale al piano terra del Palazzo vescovile. Giunto nel suo studio, anche nel suo ruolo di membro della Commissione igienico-edilizia, della quale era entrato a far parte nel 1909, succedendo al deceduto architetto Antonio Tagliaferri, prendeva immediatamente carta e penna per scrivere una lettera all’ingegnere dell’Ufficio tecnico comunale Lodovico Cassa. “Ora lo stipite è in cemento invece che in pietra da taglio, come approvato dalla Commissione igienico-edilizia, inoltre non solo non è d’accordo colle finestre soprastanti, anche questo imposto dalla Commissione, ma è semplicemente mostruoso. Penso essere necessario per il decoro della città, per rispetto della sede vescovile, di ordinare la rimozione dello stipite, la sua sostituzione e frattanto la sospensione dei lavori”30. Ben più risonante fu la presa di posizione di Egidio Dabbeni su un intervento comunale che, a suo dire, interferiva pesantemente con un bene architettonico facente parte del grande patrimonio storico di Brescia: il Castello. La fortezza, che da pochi anni era stato strappata ad una plurisecolare proprietà estranea alla città, sempre sede di forze militari non raramente ostili, era sul tavolo delle più sentite opportunità di utilizzo e valorizzazione. Il Dabbeni era inoltre stato quasi il padre della nascita civile del Castello, con la sua traboccante architettura dell’Esposizione bresciana del 1904. Molto più dimessa era stata l’architettura dei padiglioni dell’Esposizione internazionale di applicazioni dell’elettricità del 1909, disegnati dall’ingegnere Luigi Gadola e dall’ingegnere capo dell’Ufficio tecnico comunale, Vittorio Toccolini. Il Dabbeni era stato coinvolto, subito dopo la chiusura della seconda


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Foto d’epoca dell’insieme e di una porzione della torretta attuale, inerenti alla villa commissionata ad Egidio Dabbeni dal notaio Angelini, in Chiari. Nella pagina a fianco, tavola di progetto per la Villa Negri, costruita sui demoliti spalti delle mura di Contrada Gioco del Pallone, oggi Via Calatafimi.

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Piante interne della palazzina di abitazione del direttore dell’industria Metallurgica Bresciana, progettata da Egidio Dabbeni.

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Esposizione, nei lavori di una commissione incaricata di elaborare progetti di valorizzazione del Colle Cidneo e del Castello. Da quelle elaborazioni era scaturita anche la costituzione del primo giardino zoologico di Brescia e la conferma dell’insediamento di due musei entro la cinta della fortezza: il Museo del Risorgimento e il Museo di storia naturale. È una fase di cui si parlerà in seguito. Qui basti accennare a questo precedente, che vide un forte interesse della cittadinanza, delle forze politiche e degli intellettuali per la realtà culturale e di neofunzionalità del Castello. In tale contesto va collocata la vicenda che vide protagonista il Dabbeni. Si stava procedendo a costruire la seconda linea dell’acquedotto che in Brescia aveva visto, dalla fine del secolo, l’intervento storico sulla rete idrica, per la prima volta presa in mano dagli ingegneri, dopo due millenni di strutture idriche in gran parte risalenti all’epoca romana, con qualche appendice di epoca longobarda. La seconda fase costruttiva, che attingeva le acque da sorgenti triumpline, consentiva di collocare un serbatoio a quota elevata, così da potere ottenere una distribuzione dell’acqua anche ai piani più alti delle case. L’esigenza della quota convinse i progettisti dell’Ufficio tecnico del comune a collocare il secondo serbatoio entro la fossa antistante il lato sud del baluardo di S. Faustino, un’area, cioè, appartenente alla facciata del Castello, poiché adiacente all’ingresso principale. Il giornale “La Sentinella Bresciana”, nel marzo del 1913, quando gli scavi per il serbatoio erano iniziati, uscì con un articolo critico, che coglieva l’occasione dello scavo idraulico per tempestare di critiche la giunta comunale e il sindaco Girolamo Orefici, avverso alla parte politica dei liberali moderati, rappresentati dalla “Sentinella Bresciana”, allora diretta dall’avvocato Marziale Ducos. Immediatamente rispose il giornale avverso alla “Sentinella”, schierato con il sindaco. La “Sentinella”, il terzo giorno dell’accanito scontro giornalistico che subito era divampato, pubblicò una lettera dell’ingegner Dabbeni, nella quale egli condannava energicamente gli scavi e l’inserimento del serbatoio nella fossa della fortezza31. La diatriba coinvolgeva senza ritegno anche l’azione globale del Dabbeni e l’occasione offrì anche la possibilità di un giudizio contrapposto sul suo operato. La “Sentinella”, ad esempio, rispondendo alle insinuazioni contro il Dabbeni, definiva il professionista elencando le sue opere più apprezzate: “Autore del palazzo Pisa, del palazzo Togni, del palazzo della Società Elettrica e di moltissima parte dell’edilizia moderna bresciana (di moltissima parte di quell’edilizia, almeno, che merita considerazione e non tramanderà ai posteri, come l’altra, sconci esempi di indecorosità”32. Anche con riguardo alla maggiore o minore fortuna giornalistica di cui il lavoro del Dabbeni poté godere va segnalata la realistica osservazione della “Sentinella”: “Abbiamo già detto che non vogliamo


rimpicciolire questo uomo intelligente e valoroso assumendone le difese: l’uomo e l’artista si difendono assai bene da sé; ed è del resto, tra l’ing. Dabbeni e la Provincia, tutta la gran massa dell’opinione pubblica la quale forma un baluardo insormontabile anche per la furia aggressiva del giornale bloccardo [dalla denominazione politica “blocco popolare”]. Ma è inteso: l’ing. Dabbeni ha espresso liberamente un suo convincimento, ha denunciato al pubblico un’offesa fatta con leggera incoscienza al patrimonio storico della città: rimarrà per questo uno scomunicato. Egli non avrà più lodi dalla provincia e potrà costruire il Partenone, la Basilica Augusta, S. Marco o un altro monumento al Padre della Patria, che non ne comparirà ormai il più piccolo cenno nel giornale popolare”33. Ricordiamo che direttore del giornale “La Provincia di Brescia”, era allora Giuseppe Boselli e che gran parte delle personalità interne all’ambiente della “Provincia” traghettò poi nel Fascismo, a partire dal redattore Alfredo Giarratana, ingegnere, che proprio nello studio del Dabbeni si era formato, per poi divenire una della maggiori, e più intelligenti, personalità del Fascismo bresciano e nazionale, per finire ad Augusto Turati, che divenne segretario nazionale del partito mussoliniano. Di contro, sono rivelatrici di un apprezzamento ormai generalizzato, se non per arroccamenti politici preconcetti, nonché rivelatrici del carattere di Egidio Dabbeni, saldamente radicato fra asettica obiettività ingegneristica e vivace correttezza democratica, le parole spese sulla “Sentinella” nei suoi confronti, a conclusione dello scontro e delle offese: “Con tutto ciò l’architetto Egidio Dabbeni gode la migliore salute e sopra tutto gode la stima e la considerazione migliori: egli rimane un cittadino che ha un altissimo senso d’arte e un artista che ha un altrettanto alto sentimento di cittadino [...]. Un uomo che si è imposto a tutti coll’ardita ed elegante sua genialità”34. Ancora nel 1913 la verve polemica di Egidio Dabbeni ebbe modo di esprimersi su una nuova questione: la copertura del fiume Garza lungo la Via Fratelli Ugoni, decisa dalla giunta comunale. Un’obiezione sollevata da un anonimo lettore, e pubblicata dalla “Sentinella”, provocò una nuova reazione del giornale avversario, “La Provincia”, che, avendo creduto di riconoscere nell’autore della critica l’ingegner Dabbeni, si scagliò contro di lui, con veemenza offensiva35. Il Dabbeni fu allora costretto ad intervenire, ma non è escluso che davvero l’anonimo critico fosse proprio lui. Di fatto la posizione del Dabbeni, molto tecnica, con una centrale ricaduta sul piano economico, fu esposta in un articolo pubblicato dalla “Sentinella” dal titolo I problemi edilizi cittadini e le questioni personali della “Provincia”36. Egidio Dabbeni, da professionista capace di grande lucidità e mezzi analitici, sollevava critiche di tipo ingegneristico ed economico. Tuttavia egli non poteva che additare in modo esplicito l’astio che l’ambiente politico del sindaco Orefici gli manifestava. Rivolgendosi al direttore del quotidiano, il Dabbeni scriveva: “Vorrei rettificare il cumulo di inesattezze della Provincia di stamane a proposito della inopinata copertura del Garza tra via Cairoli e via Fratelli Bronzetti, e non già per occuparmi degli attacchi alla mia modesta persona che costituiscono ormai un tic nervoso della Provincia, o più precisamente, della fraterna Orefici che ne è ispiratrice e padrona”37. Il Dabbeni si poneva anche con indignazione civica, riferendosi alla svalutazione implicita nella posizione della giunta, che, attribuendo all’ingegnere la protesta degli anonimi cittadini, mostrava di ritenere i medesimi incapaci di un pensiero e di una critica autonomi: “Mi permetto di protestare contro la ingiuriosa convinzione, anche a nome di tutti i concittadini, che devono essersi persuasi oramai che questa organica incapacità di cui sono accusati, di avere occhi, cioè, ma per organica incapacità non vedere, occorre precisamente cercarla fra quelli che si credono veggenti in terra di ciechi”38. Il Dabbeni non rifiutava quindi la contesa culturale e democratica, ritirandosi, però, subito dopo, sul terreno di sua competenza, quello tecnico

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Capitolo QUARTO

RESTAURI E COMPLETAMENTI ARCHITETTONICI IN EDIFICI ANTICHI

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