Ritratto a carboncino di Clara Martinengo Villagana eseguito da Karl Hauner
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Clara Martinengo Villagana
TRANCHES DE VIE
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INTRODUZIONE
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Non posso fermare i ricordi, si presentano da soli, emergono lenti, rotolano nell’immaginazione, discreti dapprima e riservati. Ma poi, sempre più nitidi, si fanno avanti in tanti e pretendono, pretendono tutti di essere detti, e forse pretendono troppo da me. Qualche volta a me sembra, dopo tanti lustri, di essere tornata bambina, quando mi aprivano sul pianoforte una pagina bianca piena di troppe notine, nere formiche in fila, e io capivo che erano troppe, e troppo intrecciate tra loro per le mie mani infantili. Ma sentivo che là sotto c’era una musica che voleva essere detta e allora mi mettevo alla prova. Cominciavo con un poco di apprensione, ma poi con pazienza provavo a decifrare il misterioso groviglio: dipanare la linea del basso, far scorrere regolari le terzine della mano sinistra, e alla fine lasciar cantare il breve tema puntato: si, sol, fa, mi, re… si, sol, fa, mi, re… Kinderszenen, immagini di altri tempi, diversi e lontani, flash improvvisi, frammenti di immagine in mezzo a un alone confuso. Ma poi i ricordi prendono contorno, si chiarificano, si illuminano e adesso basta lasciarli dire: con calma, con un moto regolare e tranquillo, come fossero terzine alla mano sinistra, e allora sì, il canto del ricordo si innalza libero. Le case, le tre case del nonno Carlo: nessuno le chiamerebbe oggi, case: tre palazzi erano, tre palazzi storici, eppure sono state le nostre case, dove ho vissuto le mie Kinderszene. E sono tutte e tre, in modo diverso, qual più, qual meno, legate alla musica: poco so della prima casa, il palazzo di corso Martiri della Libertà dove nacque mio padre, ma certo vi avranno fatto musica, come in tutte le case patrizie tra Ottocento e Novecento. Quanto alla terza casa, la casa di
Arturo Benedetti Michelangeli
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Una Clara pensierosa
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Clara Martinengo Villagana con l'amico stretto, Flaminio Togni
corso Carlo Alberto, c’era addirittura un teatrino, costruito appositamente nel grande salone affrescato al primo piano, e vi si fecero concerti e rappresentazioni, di commedie e di operette. Ma è la seconda, quella sul lago di Iseo, la grande villa di Sale Marasino, quella che da giugno a tutto ottobre diventava la nostra residenza estiva, quella era destinata a risuonare di tanta musica e a diventare anzi un luogo storico per la storia della musica. Non perché mio padre vi ascoltava, spartiti alla mano, tanti dischi wagneriani, non perché io, ormai entrata nella musica, mi esercitavo per ore al pianoforte, ma perché lì arrivò nel 1943, in fuga dai bombardamenti di Brescia, come nostro ospite, Arturo Benedetti Michelangeli e vi soggiornò per più di sei mesi, suonando per ore, tutti i giorni, musiche che avrebbe eseguito nei più famosi teatri del mondo, ed anche cose che non avrebbe mai eseguito in pubblico, come il primo concerto di Tchaikovsky, che io, seminascosta sotto la grande robinia del giardino, ebbi il privilegio di sentirgli provare e riprovare. La musica era in quegli anni bui e difficili, un baluardo contro la guerra così vicina e così atroce, eppure per quanto difficile fosse la situazione, la musica si integrava benissimo in una forma di vita ancora antica e rispettosa, “composta” avrebbe detto il Maestro, con un aggettivo che per lui esprimeva il massimo della positività, una vita che scorreva lenta con un ritmo che negli anni successivi sarebbe andato perduto completamente e per sempre. Di questo desidero ancora una volta parlare, delle case, della musiche, delle molte persone che ho incontrato nella mia vita, nel lento scorrere della vita di allora. Non posso fermare i ricordi, vogliono ancora una volta essere liberati, ed io sento, ancora una volta, di doverli assecondare.
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1. PapĂ Fernando con la
figlioletta Clara tra le braccia 2. Clara e Carla e i tetti di Arezzo 3. Il maestro Lessona con gli allievi 4. Clara con le trecce
Il maestro al pianoforte con vicino gli adorati mughetti
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Il gruppo di studio ad Arezzo negli anni '50
La casa avita di Sale Marasino
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IL MAESTRO
Si può amare un ritratto appeso alla parete? Si. Mio nonno: folta capigliatura, barba e baffi roani, naso aquilino, panciotto e nel taschino il suo orologio d’oro. Un bel signore seduto su una comoda poltrona. A Maria lo legavano una corte discreta dolce, il rispetto per i genitori di lei, il desiderio di unire i suoi genitori con quelli della futura sposa, insomma la nobiltà della sua educazione e, soprattutto, del suo animo gentile verso il quale mi sento così attratta senza averlo mai visto né conosciuto: infatti è morto nel 1914 mentre io nasco nel 1931. Unitosi a Maria, abitava con Sciarra, suo fratello, nel palazzo che diventò poi sede della Banca San Paolo. Uno scalone portava alle loro stanze. In una grande sala da pranzo si riunivano: per consuetudine condividevano pranzo e cena, parlando di comuni interessi, degli amici e, più sporadicamente, delle beghe con i contadini, i problemi di confine, l’acqua di irrigazione dei terreni e l’uso dei fossi. Al pianterreno la cucina, grande, spaziosa, luminosa con i paioli di rame che davano luce alle pareti. La gente, che camminava fuori, nel corso, poteva, saltando, vederla tutta. Al primo piano le mie zie Carolina ed Emilia, con l’istitutrice signorina Romano, affacciate alla finestra: Carolina, capelli biondi in una lunga treccia ed Emilia, più timida e riservata, all’ombra della sorella così vivace e brillante. Il mio papà Ferdinando era nato li, in quella casa: fratello più giovane, coccolato dalle sorelle. Era vivace, elegante, charmant, portava le ghette. Macchine da corsa e motociclette le sue passioni: amante del rischio e del gioco si lasciava trascinare dall’entusia-
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smo per la vita. Giù il portone si apriva sul corso Martiri della Libertà e le carrozze entravano nel cortile. Da una porta, di fronte, la famiglia andava in giardino: grandi alberi, cedri del libano ed un fresco gradevole nelle giornate più calde.
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Altre cose, altra casa. All’inizio dell’estate il nonno Carlo organizzava la spedizione per Sale Marasino sul lago di Iseo: si portavano le cose di tutti i giorni, vestiti e oggetti di uso quotidiano, tutto sulla carrozza perché la famiglia si sarebbe fermata là fino al due novembre. Il viaggio era realmente un avvenimento: 30 kilometri. L’ansia, la gioia dei ragazzi Ferdinando, Carolina, Emilia con i genitori, vedere l’acqua con i suoi colori, le grandi isole piene di fascino, con le loro ombre, i fasci di luce ed i tramonti: Montisola. E nel cielo le grandi nuvole orlate di luce. Il nonno Carlo sedeva sul muretto del lago avanti la casa con le persone al suo servizio: ascoltava le loro richieste e, perché no, offriva loro un buon bicchiere di vino… Lungo tutta l’estate, a tarda sera con il suo cameriere Francesco, preparava per il 15 agosto i fuochi d’artificio dei quali fanno ancora memoria i ganci appesi alla facciata. Le barche dei villeggianti, il 15 agosto, guardavano le ruote colorate girare: tripudio di festa! Mio papà Ferdinando affittava un battello con un’orchestra (idea moderna per allora). Gli ospiti tutta la notte vagavano su questa grande barca piena di musica, di danze,
di tavole imbandite. In Corso Carlo Alberto mio nonno Carlo comprò ed abitò una casa, la terza casa. Sembrava che trovasse il danaro nei cassetti. Era vestito modestamente (toppe sui pantaloni) timido, intelligente, leggera balbuzie, preferiva vivere tra le mura domestiche con la sua famiglia, ma la passione per la cultura e per la musica soprattutto, lo indusse a suddividere un grande salone affrescato dal Teosa e dallo Zuccarelli in due parti. Costruì un piccolo teatro che funzionava a meraviglia: luci, sipario dipinto con fregi dell’epoca, quinte e quanto era ancora necessario compresa la buca per il suggeritore. C’era, nella casa, a pianterreno, una stanza piena di strumenti: il portavoce che era una specie di armonium, un organo, poi donato alle Suore Poverelle (le canne ci stavano perché la sala aveva il soffitto fatto a cupola) ed un pianoforte viennese. So che nel 1929 papà fece il regista di un’operetta. “Il ventaglio di Cuscinà” : musica, balletto e recitazione. Uscivano ad un certo punto, dalle quinte, delle poltroncine con un teoria di bambole che mi ricordavano un quadro di Campigli: erano nostre amiche con dei costumi bellissimi fatti fare a Milano presso una nota sartoria. Papà sapeva fare anche dei giochi di prestigio per intrattenere gli ospiti e divertire i bambini. Ricordo una specie di tavolo tutto a spigoli, rivestito di specchi: all’interno doveva sistemarsi il cameriere, la cui testa spuntava fuori ed il corpo non si vedeva. Mio papà diceva: “Sei tu, Francesco?”. Silenzio generale. “Sé, sior cont” e giù tutti a ridere. Quella del teatrino fu un’iniziativa importante per la vita della famiglia. Era divenuta un’attrazione e vi partecipa-
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vano molte persone, ognuno contribuendo agli spettacoli a modo proprio. Nel 1948 facemmo “Il mio cuore è sugli altipiani” di William Saroyan. Io recitavo con Giacomo Colli, Guido Berlucchi suonava il pianoforte, Piero Merlo il clarinetto. Marino Marioli ed Aldo Ragazzoni erano i nostri insostituibili e pazienti registi. Per mio padre era dunque naturale che anche la casa di Sale Marasino si colmasse di musica. Aveva l’abitudine di ascoltare dischi con la vecchia Phonola –una bella radio per quei tempi-. La facciata della casa cinquecentesca aveva al centro due colonne ed un portico che formavano una nicchia. Qui mio padre poneva l’apparecchio: l’acustica del portico era buona e la musica risuonava fino al centro del lago. Quand’ero bambina, amavo nuotare e mi allontanavo dalla riva ascoltando. Ricordo Tannhäuser e la Walchiria, mio padre teneva il volume alto perché sosteneva che Wagner andasse sentito così. Sentirmi immersa nell’acqua e nella musica mi dava un senso di felicità vera e profonda. Quell’atmosfera densa di musica catturò anche il Maestro. Giunse da noi nel settembre del 1943 e vi rimase fino al bombardamento del novembre 1944 che segnò la fine di una reciproca famigliarità. Si era appena sposato a Borgonato, in Franciacorta, a pochi chilometri dal lago mentre era ospite dei Berlucchi. Ad essi era molto legato: era amico di Guido, di cui apprezzava la spiccata attitudine di pianista jazz; e fu la signora Vittorina Uberti, madre di Guido, Laura e Lina, ad organizzare il matrimonio (tempi difficili!). Nel ’43, a Sale, il Maestro venne per la prima volta con la moglie in bicicletta. Stava ritirato a suonare, studiava
tutto il santo giorno, ma io potevo entrare nella stanza. Forse i capelli lunghi, l’abito ed il nastro tra essi, che potevano ricordargli la sorellina morta anzi tempo, mi concedevano il libero accesso. Egli stava in calzoncini, camicia e, ai piedi (lunghi piedi!), gli zoccoli da spiaggia di mio fratello. Ma pareva sempre in frac, come in concerto, mai rilasciato, sempre composto, l’aggettivo che usava perché vi si riconosceva. Eravamo dunque sfollati, con sette pianoforti che andavano: il grancoda del Maestro a pianterreno, nella excappellina che era ormai in disuso ma rimaneva il luogo più sacro della villa; c’era poi un Rönisch verticale, mio, ed ancora in fondo al portico, un pianoforte verticale della cara amica Bianca Brivio Montanari, anche lei ospite della casa. Al piano superiore c’erano due pianoforti Bösendorfer e Pleyel, dell’avvocato Bozzi, nella galleria corta; in quella lunga un altro verticale su cui studiavo io la mattina; infine un secondo verticale nella bella sala d’angolo della zia Lina. La voce di quei sette pianoforti era rassicurante per gli abitanti della casa: per la signora Bianca era un mezzo per difendersi dal grande dolore che la morte del padre le aveva procurato. Suonare l’album della gioventù di Schumann era liberatorio per lei. A Sale avevo le mie lezioni regolari e quando il Maestro mi cambiava libro erano salti di gioia, era il segno del mio progredire. Per me la musica rappresentava una difesa dalla realtà esterna: la guerra, che per la mia giovane età avevo toccato così da vicino, mi faceva paura, anche se non riuscivo a comprendere completamente il perché di molte cose. I miei fratelli erano dovuti partire: Mario mandato in Jugo-
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slavia (dove aveva imparato l’unica parola che gli era preziosa in quei luoghi sperduti: goshpudishna, che vuol dire ‘signorina’) e poi in Germania, Carlo in Russia e dopo l’otto settembre con i partigiani sulle montagne. Quattro lunghi anni di guerra - io, a casa vicino a mia mamma. Quando Carlo tornò dalla Russia mia madre quasi non lo riconobbe, alla stazione: pesava quarantaquattro chili e non aveva più i bei capelli dì quando era partito. Per Giuliana il pianoforte significava suonare a prima vista, sfogliava i libri e leggeva una pagina dopo l’altra, velocemente. Esterina Comini, sul piano a coda del fratello, l’avvocato Enrico Bozzi, che veniva talvolta a trovarci e a trovare i suoi amati strumenti “sfollati” nella nostra casa, amava la Sonata di Edvard Grieg, difficiletta e adatta alle signore della sua generazione. Lei ed Esterina Togni, a me tanto cara, erano le due pianiste di quel tempo. Un’allieva del maestro Bettoni, l’altra del maestro Landi: chissà, forse erano rivali, le due Esterine... Ma per certo so che tutte due si compiacevano dei loro salotti musicali, dove aleggiava il profumo del bel tempo antico. Sopra tutti, appartato nell’angolo sud della casa, dominava il grancoda Steinway del Maestro: lui, fedele e tenace ci lavorava giorno e notte. Ascoltarlo mi dava sicurezza, gioia. Era una luce. Nella grande tragedia della guerra, quello strumento delimitava l’unico spazio incontaminato e puro. Su di esso, dopo il bombardamento furono allineati i cinque morti di casa nostra: quattro nostri e un ragazzo che passava per strada. Erano la contadina Pierina, con la sua bambina stretta tra le braccia e le due vecchiette che sta-
vano nella piccola casa a lato del portale, Enrichetta e Giovannina. Due persone che parevano balzate fuori da un dipinto di maniera, una con la tabacchiera, l’altra uscita direttamente dal secolo scorso. Durante quell’apocalittico momento, la Stefania, amica della signora Bianca, si era rifugiata sotto lo strumento del Maestro, pensando che lì, non potesse capitarle nulla. Fa diesis!: la porta della camera del Maestro si aprì e si richiuse di colpo, improvvisa e inattesa, una mattina, a correggermi la nota sbagliata durante le mie ore di studio.La casa era quella in cui gli antenati avevano trascorso i momenti gai, dando la carne al diavolo - secondo il detto e l’uso prima di ritirarsi in penitenza nella chiesina della Madonna della Neve, a metà montagna. Dare, alla fine, le ossa a Dio non era solo opportunismo, poteva essere necessità. C’erano una trentina di stanze, un giardino e tanti animali. Tra questi un’oca che Michelangeli faceva correre a perdifiato con l’intento di provocarle un collasso cardiaco, perché non la sopportava. Il collasso ci fu. L’oca fu divorata a tavola, senza rimorsi, da Ghigo Cortonesi, amico e compagno d’armi di mio fratello Mario. Era campione di dama: le sue pedine volavano sulla scacchiera, cadenzate e veloci - pam, pam, pam! - divorando quelle degli altri, specialmente le mie. Faceva il pugile, peso gallo, era di larghe spalle (la piega della sahariana gli stava spalancata sulla schiena ampia) e di grosso appetito; si divertiva, a tavola, a gonfiare il bicipite che mostrava al Maestro con un “noi” compiaciuto: “La nostra arte”, diceva. Mio fratello era tornato a casa dopo l’otto settembre. Mia madre gli era andata incontro. Poi, nei mesi successivi aveva raggiunto i partigiani in montagna; tornava a
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casa solo di notte a prendere vettovaglie. In una di quelle notti, Mario andò dal Maestro che stava suonando: “Ciro, - gli disse - mi suoni uno studio di Chopin?”. Egli lo esaudì senza dir nulla e mio fratello ascoltò con un senso di beatitudine, poi si diresse alla porta, uscì nel buio e risalì in montagna. Mi ricordo di tutto. Mi ricordo, anni dopo, il colore dell’acqua. Eravamo in barca noi due, il Maestro e io, quasi al tramonto, sotto Montisola; avevamo con noi un grammofono a tromba, posato sul fondo della barca e Michelangeli cantava a squarciagola: 18
Quanta pace mi inebria il cuor. Se tutto tace, parla il mio amor. Più pallida si fa la luna in ciel... Sapevo di sapergli star vicino, come quando studiava nella stanza di pianterreno. Sotto la grande robinia del giardino, nei pomeriggi, sulle sedie poste a semicerchio, si fermavano mia madre col suo lavoro, la moglie del Maestro e Bianca Brivio con la sua bambina, che talora aveva Michelangeli come compagno di giochi, nel salto della corda. Una limoncina entrava dalla finestra a grata del pianoterra, dove lui lavorava. Egli ne strappava le foglie e, odorandole, quasi le metteva nel naso; io, da fuori, seduta sul bordo dell’aiola, lo ascoltavo “raddoppiare” per ore. Suonava tutto il giorno e, quando si interrompeva, usciva per poco dalla sala, ma non parlava mai. Continuava a suonare anche la notte. La luna invadeva il giardino con
la sua luce, giocava con le ombre degli alberi, si rifletteva sul lago e sulla ghiaia. Una sera il Maestro uscì per chiedere a Bianca, seduta sul muretto in riva al lago, se poteva girargli le pagine. Cambiava la diteggiatura per poter realizzare un passaggio più veloce e insisteva sul pedale, usato con frequenza, ma solo quando tutto il resto era già a posto. Il pedale, il polmone del pianoforte, come sempre diceva. Ricordo di averlo visto una volta andare a letto con un nuovo spartito in mano. Dormiva in quella che chiamavamo la “stanza degli spiriti”, perché da generazioni si raccontava che fosse frequentata dai fantasmi e forse a volte era proprio qualche spiritello dispettoso a tenerlo sveglio la notte. Lesse quella musica prima di addormentarsi, poi, il mattino seguente, appena alzato, andò al pianoforte e la eseguì per intero. Era la Ballata per pianoforte e orchestra di Frank Martin, che poi suonò in prima esecuzione italiana al Festival di Venezia nel 1948. Tutto il suo essere aveva l’assetto e la struttura adatta allo strumento: il fisico ne era modellato, con fasci muscolari che mi impressionavano senza piacermi. Mia madre riusciva ad organizzare cibo per tutti: cibo di guerra, naturalmente. Riso rosso e asciutto, polpette croccanti con poca carne; nell’angolo della sala, il Maestro teneva le sue provviste di marmellate e sottaceti. Come più tardi avrebbe avuto lo scrignetto dei suoi sigari. Non sentivamo mai la sua voce, a colazione, se non per una breve osservazione: Studiato bene, stamattina. Il silenzio lo ha circondato come un alone avvolgente fino all’ultimo: guardare il giardino e gli alberi, gli uccelli che si muovono tra foglie ed erba, e intanto pensare. “Penso, penso a...”
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pronunciando il nome di un amico o di un allievo. Giocavamo ad anelli sul pavimento di mattonelle della stessa sala. Doveva vincere sempre, in ogni caso: si doveva lasciarlo vincere. In piena coerenza con la stessa logica, il mio gatto era scemo, non certo la sua gattina di cui rifaceva movenze e miagolii, dandole un linguaggio. I suoi comportamenti parevano dettati da un carattere umorale, che gravava su di lui e si manifestava in diversi modi. Con le persone poteva provare un senso di immediata empatia, o, al contrario, di insensibile indifferenza. I suoi bis preferiti erano pezzi piccoli e poco noti, Mompou o Grieg - Canto delia culla e Mélancolie, che poesia! -, li sceglieva perché lo divertivano. Giuliana lo invitava: “Ciro, balla con le bambine!”. Attraversava allora la stanza a grandi passi - erano passi di danza - per ballare con noi. “Gran Maestro, però...” - diceva la zia Lina - perché si presentava a tavola in ritardo. Mangiava compunto (anzi: composto) il suo prosciutto, prendendone le fette una ad una con le mani e lasciandole come calare in bocca. I miei fratelli brontolavano per il fatto che da lui si accettasse tutto. La nostra villa aveva l’aspetto del fortilizio, a ferro di cavallo. Fu per questo che gli alleati la presero di mira? Dal bombardamento, che interruppe la convivenza continua di quei mesi indefinibili, emerse la zia, come un’apparizione, tra fumo e polvere. Scendendo “lo scalone” e vedendo la sua casa per metà distrutta, si preoccupava delle persone. Nella confusione del momento, gridava: “Dove siete?”. In casa rimase una bomba inesplosa; dentro allo squarcio era scivolata una gamba del pianoforte, quello del Fa
diesis! detto all’improvviso dal Maestro. Se la bomba fosse esplosa, la casa si sarebbe sventrata e sarebbe crollato tutto. Vennero più tardi gli artificieri a disinnescarla, ma il fusto è sempre rimasto a Sale. Un’altra bomba cadde sul portale d’ingresso. Avevo visto mia madre ritta in piedi proprio lì, in cima alle macerie, e l’avevo sentita urlare il mio nome, terrorizzata che io fossi là sotto. Io invece stavo tornando dal paese, in compagnia di Giuliana. Era una mattina piena di sole; chissà per quale ragione, feci la comunione dopo la messa, mentre la moglie del Maestro continuava a sollecitarmi, “Su, andiamo, devi studiare!!”, mi diceva. Quell’indugio di pochi minuti fu provvidenziale. La Madonna col Bambino, in quella grande pala sopra l’altare contornata da un’enorme cornice barocca, ci salvò la vita, perché quella volta ritardammo il ritorno. Giunte a un centinaio di metri da casa, assistemmo all’inferno. Una dozzina di aerei posti a raggiera si stava buttando in picchiata puntando proprio verso la nostra abitazione. Fu un attimo di terrore: un inferno di fumo e polvere che impregnò l’atmosfera di un caratteristico odore di acido fenico e zolfo. Noi ci riparammo in una piccola casa dove abitavano due vecchietti con la polenta sul fuoco - era quasi ora di pranzo. Giuliana mi pose al riparo sotto un muretto e continuava a gridare: “Ciro! Ciro! Dov’è Ciro?”. Io ero terrorizzata. Anche il Maestro si salvò per una fortunata coincidenza o, chissà, davvero per un miracolo. Quando passavano gli aerei, lui usciva sempre in cortile e li contava; ma quella mattina era andato a Sale - la bicicletta era il suo mezzo preferito. Il paese distava circa un chilometro da casa, e tor-
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nando vide anch’egli cosa stava accadendo. Avevo tredici anni.
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Dopo il bombardamento mia madre prese in mano la situazione; mandò al sicuro la zia Lina in un alloggio a metà montagna, e me ospite in casa di Esterina Comini a Meano, un paesino della Bassa bresciana vicino a Zurlengo, dove anche noi avevamo una casa. Tutti coloro che erano sfollati da noi cercarono un altro alloggio, e anche Michelangeli si trasferì con Giuliana a Gussago, presso Esterina Togni. In questo periodo i generosi amici Fonzar gli offrirono una seconda famiglia. Il Maestro un po’ l’abbiamo perso, allora. Era l’inverno tra il 1944 e il 1945; c’era la neve. Cominciarono i “mercoledì di Roncadelle”, alle porte di Brescia, perché era lì che raggiungevamo Michelangeli per la lezione da Meano, dove dividevo giornate e studiavo con Isabella, figlia di Esterina che ci teneva inquadrate. Isabella e io ci alternavamo sull’unico pianoforte e si faceva una passeggiata dopo colazione. Il mercoledì, partivamo che a malapena albeggiava per essere a Corzano verso le cinque, facendo un tratto di strada a piedi, fino al tram, tra pericoli reali e la densa paura dei bombardamenti. Si arrivava al castello dei Guaineri a Roncadelle al sorger del sole; ci venivano a prendere con un biroccio per gli ultimi due chilometri di strada.Facevamo a tempo a ripassare le nostre lezioni - una volta abbiamo scoperto un giovane cameriere che ascoltava dietro una porta -, prima che arrivasse il Maestro da Gussago, con la solita bicicletta dal manubrio piatto e grossi guanti a manopola, imbottiti di pelo, a proteggergli le mani. Anche allora il suo abbigliamento era sempre impecca-
bile, e sembrava quasi che dettasse involontariamente una moda: pantaloni alla zuava, che indossavano anche i miei fratelli, giacchetta attillata con una piccola martingala che stringeva dietro la vita e, anche con il freddo più intenso, solo l’impermeabile (non ho mai visto Michelangeli con un cappotto; possedeva solo impermeabili?). Stringeva la cintura e alzava il bavero. Sotto, il famoso “dolcevita” che poteva essere grigio scuro, cammello e nero. Anche in seguito usava indossare giacche piuttosto lunghe, a quadretti piccoli pied-de-poule, con spacchetti laterali, sopra ad un paio di pantaloni grigi. Negli ultimi anni, a Lugano, metteva spesso dei cardigan e, in viaggio, giacche impermeabili pesanti. A volte si vestiva completamente di nero. A Roncadelle andavamo alle lezioni sempre abbastanza preparate: almeno due studi, Bach e Bertini o Heller, portati un po’ veloci su un pianoforte verticale. Poi le colazioni, in cui alla fine si servivano sempre dolci caramellati, lunghi parallelepipedi difficili da tagliare, e tutti stanno a guardare come te la cavi. Si andava poi insieme in giardino. C’erano dei cavalli; il Maestro ne era intimorito, non se ne fidava del tutto, e i ragazzi se ne accorgevano, scherzavano tra loro su questo suo essere impacciato tra animali grandi. Maria e Scipione Guaineri, con Esterina, facevano in modo che avessimo ore serene, fatte di parole nell’aria e scherzi coi cani fino all’imbrunire. Brescia la si vedeva sullo sfondo e, quando cadevano le bombe a pioggia sulla città, si finiva in rifugio. Poi si ritornava: Il tram era più sicuro verso sera. E si arrivava a Meano, coi libri sottobraccio su cui erano annotate
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le parole e i pedali e le diteggiature del Maestro. Il lavoro di una settimana.
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Tornai a stare con la mia famiglia dopo che tutti si erano trasferiti nella casa di Zurlengo, dove c’era un torrione in cui si diceva avesse dormito Gastone di Foix. Mia madre aveva fatto costruire una trincea in cortile e quando, in genere verso le 11, si sentivano le fortezze volanti passare, entrava concitata in casa, prendeva per mano me che studiavo e il professore che in quel momento mi dava lezione e ci portava in trincea. Ricordo la grande paura di quei momenti. Mio fratello Mario aveva organizzato nella Bassa i partigiani: aveva la barba, gli occhi azzurri luminosi e un cappello. Sembrava una figura del Risorgimento. Poi la guerra finì e arrivò il 25 aprile: tutti gridavano, cantavano, erano allegri e proprio in quel giorno mia zia Lina moriva, assistita da mia madre. Il Maestro nel 1946 si trasferì in città in casa Cottinelli in via Marsala, dove abitavano i suoi genitori e dove rimase fino al 1956. Era un palazzo con la facciata barocca, due faccioni enormi ai lati del portone. Sopra la scala c’era un grande salone con un enorme lampadario del Settecento che veniva acceso quando facevamo lezione e durante le feste. In un altro salotto più piccolo studiavamo noi ragazzine per ore intere, a volte con qualche interruzione. Andavo alla finestra e sollevavo le tendine. Vidi una volta nella casa di fronte un ragazzo bruno e serio che mi guardava. Cominciò allora l’epoca delle feste e delle Ferrari nel cortile. Per le lezioni fummo affidate ad Agostino Orizio e Michelangeli cominciò ad andare per concerti. Ci sentiva solo quando tornava. Di quel tempo è rimasto il suo grancoda, che ora sta nel-
la grande sala di buona acustica del Seminario. A Sale siamo però ritornati in anni pacifici: Nel 1956, quando porgendogli la grossa chiave della villa, mia madre disse al maestro, reduce da un malore: “Resti qui quanto vuole, la mia casa è sua”. Ricordo che portava con disinvoltura, quando faceva il bagno nel lago, per non bagnarsi i capelli, la cuffia della zia, tutta a roselline. Ci raggiunse un’amica di Napoli, allevata a Poggio Imperiale, appartenente a quella nobiltà che forniva, a quel tempo, le Guardie Nobili al Papa; infatti il fratello di lei gli camminava attorno in lattuga e pantaloni a sbuffo: tutto un altro pianeta rispetto alla nostra nobiltà di provincia. Lei era una gran signora: begli abiti e grossi smeraldi portati con gran naturalezza. Mi era piaciuto un abito visto in una vetrina - era nero, con una fantasia a spiga di grano -, avevo detto: “Che bello!” e lei, subito, era entrata nel negozio e me lo aveva comprato. Era molto generosa, ma il Maestro brontolava sempre con lei, senza un motivo preciso. Sembrava quasi un’insofferenza per il suo modo di parlare. Lei, naturalmente, ci pativa, ma anche le mie timide proteste (“Maestro, la lasci stare!”) non servivano a nulla. Quando venimmo a sapere che in un paese vicino a Sale viveva un prete che era un famoso esorcista, l’amica suggerì d’impeto: “Portiamolo a benedire!”. Non so come, riuscimmo a convincere Michelangeli ad andare da lui. Partimmo così in auto, noi tre, e raggiungemmo la canonica. All’arrivo la perpetua ci accolse scambiandomi per la sorella di Michelangeli; anche se la somiglianza si riduceva forse e appena all’ovale del viso. Il prete era all’altare.
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Sono andata a tirarlo per la pianeta. “C’è il Maestro!”, gli dissi d’impeto, come se tutto fosse lecito. Sembrò darmi retta cercando di concludere alla svelta la celebrazione. Si ritirò allora con il Maestro, mentre noi due rimanemmo in chiesa ad aspettare. Passò una buona mezz’ora, un’ora, e ancora altro tempo. Io, come se fossi lì per difenderlo dal male, cominciai ad agitarmi. Mi decisi ad entrare, raggiungendo la stanza in cui si erano appartati. Ne uscivano urla, colpi , schiamazzi senza freno. Spalancai la porta all’improvviso e vidi il prete e Michelangeli, seduti l’uno di fronte all’altro. Sul tavolo in mezzo a loro una bottiglia di un qualche fernet o rosolio fatto in casa, e loro che bevevano ascoltando le registrazioni degli esorcismi. C’era un grosso registratore - quel Geloso di una volta, con le due bobine e il nastro che si faceva sempre fatica a sistemare: le bobine giravano imperturbabili, troppo lente per le urla e gli improperi che ne uscivano, e loro ascoltavano senza dir nulla, bevendo. A casa l’amica napoletana, grande ammiratrice del Maestro, si prendeva cura di lui e della casa. Anche della cucina. Faceva preparare delle zuppiere di cioccolata al cognac in cui erano immerse delle pere: una cosa che faceva ingrassare solo a guardarla. E il Maestro insisteva con me: “Mangia!”; io mangiavo e ingrassavo, ma poi lui mi faceva arrampicare sugli alberi divertendosi, se mi vedeva in difficoltà. A volte era di buon umore. Una mattina comparve baldanzoso sotto il portico, e con entusiasmo ci trascinò sulla sua macchina: “Forza, andiamo!”, disse, proprio come faceva mio padre, quando all’improvviso diceva ai miei fratel-
li: “Saltate in macchina, andiamo a mangiare le fragole a Sanremo”; e via, con la sua Alfa Romeo. Loro impazzivano di gioia. L’amica di Napoli e io salimmo sul coupé del Maestro, una Lancia Aurelia 2500 che allora era un’auto da sogno. Non c’erano posti dietro, ma un unico divano anteriore su cui ci sistemammo tutti e tre: Michelangeli mi volle vicino a sé, così che dovevo tirarmi in là ogni volta che doveva manovrare la leva del cambio. Ci portò su per le montagne, sui passi del Tonale e della Mendola, correndo come un forsennato e facendo stridere le gomme ad ogni curva. Sembrava si divertisse a farci provare il brivido della velocità, e più lo imploravo di andare piano, più accelerava. Avevo fin le lacrime dalla paura. Giunti a Bolzano, pensò di fermarsi a pernottare, ma siccome l’amica riteneva sconveniente che una ragazza dormisse fuori casa, si convinse a ripartire. Era già notte e, sempre a una velocità pazzesca, tornammo percorrendo la Gardesana; ricordo ancora come un incubo la strada che sfrecciava sotto la luce gialla dei fari. Arrivammo nella nostra casa sul lago d’Iseo che albeggiava, gli occhi sbarrati dalla paura e dalla stanchezza. Di quel periodo trascorso a Sale resta memoria in un biglietto (mezzo foglio di carta lino): “Con la nostra affettuosa riconoscenza”, la firma per esteso e una data sommaria: “Giugno 1956”. Una parola di più avrebbe certamente rotto la compostezza mai tradita dal Maestro. Questo messaggio accompagnava un magnifico televisore, autentica novità per quei tempi, dono suo e di Giuliana. Ma la frequentazione che il Maestro ha avuto della nostra casa è continuata negli anni, anche se con lunghi intervalli.
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Ciro era il nome con cui lo chiamava da piccolo suo padre. Allora i Benedetti Michelangeli abitavano in via Milano, in una casa al secondo piano. Lì sono rimasti fino all’inizio della sua adolescenza. Cioè fino al primo concorso importante. La madre, altissima, matematica di formazione, mi ha dato una volta lezione di solfeggio stando sempre in piedi; un comportamento insolito che mi colpì, come la sua straordinaria magrezza e gli occhi azzurri, che teneva aperti e quasi sbarrati. Non erano gli occhi scuri del Maestro. Eravamo in cucina, in pieno sole. Lei portava un boa svolazzante attorno al collo dal quale mi pareva si levassero sbuffi di polvere. Il padre, avvocato, simpatico, piccolo, con il naso aquilino, dava invece interminabili lezioni di storia della musica, di teoria e di armonia, fumando di continuo. Anche da lui presi lezione, quattro o cinque ore per volta, senza peraltro che lui mi insegnasse quello di cui avevo veramente bisogno, in quel momento, cose la cui importanza ho capito solo più tardi e che pure in seguito mi sono servite. Mi disse una volta: “Possibile che una che suona così benino non capisca niente di quinte e ottave nascoste?” Adolescente, Michelangeli dava lezione ad un’allieva del padre, la signorina Tretti. Un giorno, arrivando, lei incontra il padre, cioè il suo maestro, sulla porta d’ingresso del palazzo mentre sta uscendo, all’ora della lezione: “Sali, - le dice - c’è mio figlio. Ti farà lezione”. Era un ragazzo allampanato, mi raccontò Carla Tretti. Ai piedi un paio di scarpe da ginnastica senza lacci. Riluttante, lei si mette al pianoforte e comincia la Patetica. Il ragazzo la ascolta fino in fondo, muto, a braccia conserte
- una posizione che si trova in alcune foto e che gli era abituale. Poi con un delicato colpo di gomito la toglie dalla tastiera e gliela fa risentire tutta, da cima a fondo. Strabiliata, lei torna a casa dicendo che ha sentito un grande pianista. Restano degli spartiti con le annotazioni di mano del Maestro giovanissimo: Cristallino o Studia qui. Il denaro che riceveva per le lezioni, Ciro lo consegnava, senza neppure guardarlo, ai suoi genitori, che avevano capito il talento eccezionale del figlio. Egli si sentì quasi costretto a rispettare la loro volontà e a sobbarcarsi un lavoro massacrante. Non si poteva non rimanere stupiti dell’eccezionale talento musicale che dominava la famiglia intera, nonostante la diversa formazione del padre e della madre. All’origine Ciro era violinista, mentre il fratello Nanni si era dedicato al pianoforte. In un secondo tempo si erano scambiati gli strumenti. C’era poi Liliana, la sorellina morta giovane, che Ciro amava molto e che, a quanto pare, era precocissima: la più geniale di tutti. Ripensando a tutti i momenti vissuti con lui anche in absentia - perché non è la contiguità fisica a creare relazione, come egli stesso pensava - questi si stagliano sullo sfondo di una grande solitudine, non necessariamente segnata dall’incomprensione, che pure può esserci stata, ma più semplicemente da una diversità di linguaggio. Quella del Maestro fu una solitudine popolata di suoni, di relazioni, di affetti che certamente lo raggiungevano, ma non colmavano la distanza. Un uomo solo, dunque, con la sua grande arte, alla quale si è dedicato giorno e notte, con uno studio assiduo che non dava nulla per scontato. Che non è stato tralasciato neppure
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nei periodi di malessere, essendo la tastiera più che cifra della realtà via di contatto con essa. Gli piaceva però raccontare, fantasticare sulle sue origini, presentate di volta in volta in modo diverso. Così una volta raccontò di discendere da un principe russo - il che è un classico. Un’altra, di essere quasi laureato in medicina. Inventava. Ma ne era talmente convinto che lo prendevi per buono. Altre volte raccontava di essere passato per un parco dove daini e caprioli facevano balzi di venti metri e tu li vedevi, e se chiedevi conferma, si divertiva accorgendosi di essere creduto.
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Della sua infanzia, conosco poco, ma credo di riconoscerne le tracce nell’uomo adulto, in segnali minimi come il gusto per i calembours del Maestro, che si divertiva a storpiare le parole per lanciarsi in una grande risata a gola spiegata, o a giocare con le parole, rendendole suoni e colori. “Il semaforo faceva gial-lo, gial-lo, gial-lo”; “Andiamo al passo di Poppi. Un po’ pir uno non fa male a nessuno”; “Che nevica!’’; “Dov’è Orizio?” chiedeva qualcuno, “A dire le orizioni” rispondeva. Provava il piacere fanciullesco di rifare il verso: alle persone, con ironia, e alla propria gatta, con un filo di ammirazione. Rifaceva il verso anche a me. In una registrazione, era rimasta incisa la mia voce che esclamava: “Che meraviglia!”, dopo averlo sentito suonare il Concerto di Rachmaninov. Così, quando andavo in camerino dopo un suo concerto, appena mi vedeva entrare, quasi cinguettando diceva “Che meraviglia!”. Mi precedeva sempre. Era lo stesso spirito con cui si lasciava coinvolgere dalla vitalità del dottor Mario Novati, che lo divertiva
con l’esuberanza dei suoi coloriti racconti. O il piacere di possedere una collezione di sigari. Gli venivano regalati e lui ricordava i nomi dei donatori. “Cose rare”, diceva. Alla collezione di sigari è rimasto affezionato fino all’ultimo. Credo che lo scrignetto che li custodiva sia ancora là, nella casa di Pura, in Svizzera. Andavo a trovarlo e me li faceva vedere, tutto compreso della loro rarità. O, ancora, la sua piccola raccolta di flaconi di profumo. Amava cospargersi di profumi, mescolandoli fra loro e versandoli soprattutto sulle mani. In una delle ultime visite, ero con un amico che fumava la pipa. Il tabacco doveva essere buonissimo e il profumo gli è senza dubbio piaciuto molto. Non aveva mai fumato la pipa, ma l’amico lo convinse a provarla, una nuova esperienza divertente, “da uomo” - “Sono un uomo!”, mi aveva risposto infatti una volta in cui gli avevo fatto notare che il maglione era forse troppo grande. Abbiamo comprato per lui il tabacco a Lugano, non lontano da casa sua, dove l’amico era solito farsi le scorte, e glielo abbiamo spedito. Mancava la pipa, ma per quella non c’è stato tempo. Di quella stessa visita ricordo un particolare momento che riguarda la sua religiosità di cui oggi spesso si parla, ma di cui non si conosce molto. Gli ho messo in mano un rosario di ulivo che era stato immerso, prima, nell’acqua benedetta. Gli è piaciuto. Lo ha appeso all’occhiello della giacca lasciandolo penzolare. “Come si fa qui?” - mi ha chiesto. Ho preso allora un pezzetto di carta e ho cominciato a scrivere i misteri. Li ho scritti tutti. Tutti in fila. Nel primo mistero gaudioso si contempla eccetera eccetera, e poi bisogna dire dieci Avemaria e così avanti.
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Ho scritto tutto e tutto per bene. Quando ho finito lui ha preso il foglietto, lo ha piegato e lo ha messo nella tasca del pullover. Aveva anche una capacità di divertente ironia, come quella volta a Saint Moritz in cui ero sua ospite per due giorni, in un albergo sul lago. Si presentava a colazione in nero, con quella sua naturale eleganza che gli conoscevo da sempre, la giacca drappeggiata sulle spalle. In sala da pranzo comparve, come succede a volte nei grandi alberghi, un violinista, che cominciò a suonare proprio sotto il suo naso, con grande coraggio. “Collega”, lo ha chiamato con tono ironico, ma senza sarcasmo. Anche quando non si riusciva a far qualcosa e si giustificava dicendo che “prima” o “altrove” ci riusciva benissimo, commentava: “Già, in cella mi veniva!” - un’espressione canzonatoria di cui non conoscevamo l’origine. Aveva detto una volta a mia madre: “Ho delle affinità con sua figlia”, e capisco che proprio di questo si trattava: della necessità di semplificare, di raggiungere una dimensione normale e quasi fanciullesca delle cose, come quando si stava a guardare la prima versione di Heidi in televisione. Magari non lo avrebbe confessato a nessuno, però erano gli attimi lievi di una vita pesante che reclama la propria libertà. Percepivo che quando eravamo insieme si sentiva rilassato, come la volta in cui eravamo in barca a Sale e cantava a squarciagola. Probabilmente non contavo più che tanto, nel senso che ero una presenza non disturbante, ma quieta, a cui non è necessario dimostrare nulla. Ci sono nella mia casa di Brescia tre quadri: una Samaritana al pozzo, un po’ leziosa; una Salita al Calvario con
l’incontro tra Gesù e le pie donne; e una pala con un’allegoria della battaglia di Lepanto. Nel periodo in cui fu da me, li guardava, stando seduto sul divano, finché un giorno mi disse: “Io sono composto; non come quello. Sarà pur un bel quadro [la Samaritana], ma preferisco questo” e accennava alle pie donne della scuola del Bassano. La compostezza, che ogni tanto ritorna fuori in queste memorie e a cui teneva moltissimo, fa parte del suo talento. Il Maestro non sapeva che cosa fosse una caduta di stile in qualsivoglia aspetto dell’esistenza. Ci sono persone che non cadono mai, in questo senso, come Camillo Togni. Del resto le cadute di stile non si perdonano, si trangugiano, gabellate come spontaneità o naturalezza, quando proprio non si può fare altrimenti. Tutto rispondeva forse alla responsabilità di possedere un dono straordinario, di cui era consapevole e con cui era integralmente coerente, che lo portava ad esprimersi con comportamenti, scelte e gusti precisi. Lo riscontro adesso, nell’ascoltare le sue esecuzioni e quelle di altri pianisti: per lui, la disuguaglianza delle note era impensabile, ma la sua era un’urgenza di equilibrio, non una ricerca perfezionistica: le sue scale così uguali, il suo modo di soppesare, la sua proporzione nelle strutture, nel ritmo. Quando ci si è abituati, questo diventa un’esigenza persino fisica. Perciò adesso il vuoto è tanto più grande. È venuta meno la possibilità di un’empatia totale dell’ascoltatore con un talento che si impone, ma che ricerca rapporti non costrittivi: poiché si impone soprattutto a chi lo percepisce e non vuole dimostrare sempre di esserci. La stessa urgenza di equilibrio e ritmo contrassegnava i rapporti del Maestro con le persone. L’attuale dilagare
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della volgarità e della grossolanità gli pesava. Nei quarantadue giorni che sono stata con lui a Rabbi l’ho sentito esprimersi con molta durezza su questa involuzione. Quando avevo diciotto anni potevo capire questa specie di mistero di un uomo consapevole ma contemporaneamente straniato da se stesso. Una persona giovane può capire e accettare questo. Ma certamente non è facile vivere accanto a persone simili. La luce può brillare da un lampo o da una lampada: il lampo è una luce autentica, non prodotta dall’uomo, che ha qualcosa di divino, ma con la lampada si può vivere in pace, come diceva il rabbino Heschel. A me pareva invece che i suoi comportamenti fossero del tutto normali: orari fuori norma per lo studio, lezioni defatiganti, tensione continua. Essere governati da una necessità. Né mia madre né gli altri capivano queste cose. Io le vivevo da allieva. Era il giudice Bucciolotti ad organizzare i corsi, in estate, ad Arezzo. Anni cinquanta, dell’Italia che ricordiamo, quando c’era ancora l’uso di portare il lutto al braccio. Di questi corsi restano fotografie intense: alla Verna (il Maestro era affascinato dall’eremo francescano, dove i frati lo lasciavano entrare nella loro clausura), con Padre Guidi e gli allievi, quando Michelangeli portava il nastro nero per la morte del padre; o ad Arezzo nel cortile di Laura, nella casa del Petrarca dove si tenevano i corsi. Della casa del Petrarca ricordo le sale che prendevano luce da finestre alte con vetri colorati piccoli e tondi, e le scalette ripide e strette che le collegavano. Da una stanza, le note del Concerto in re minore di Brahms o, più sotto, le mani di Lessona con la Toccata di Ravel. Feux d’artifice di Debussy: era Elias Lopez.
Quando il Maestro entrava, il suo profumo si percepiva dappertutto; era un segnale che le lezioni cominciavano. Ci prendeva allora un’indefinibile sensazione di elettrizzante attesa e un piacevole batticuore. Sotto il portico, c’era la stanza di Laura - del Petrarca, naturalmente. Era molto grande, con volte a sesto acuto, con tendaggi color ruggine che ricordo enormi e con drappeggi che attutivano il suono del gran coda e rendevano meno avvertibili le nostre nefandezze. Il pianoforte, al centro, coperto come un enorme cavallo, fermo, in attesa forse della Giostra del Saracino... Sono gli anni 1953, 1956, 1957, 1958. “Arezzo è calda e si deve studiare molto - oggi otto ore” dice il taccuino rosso, mio compagno di quegli anni. Isacco Rinaldi, assistente di Michelangeli, compilava l’orario delle lezioni, collocando uno dopo l’altro i nostri nomi, e lo esponeva, giorno per giorno. Se un allievo veniva trattenuto più a lungo, “rubando” sull’orario, a discrezione del Maestro, la lista del giorno veniva naturalmente cancellata e il turno rimandato al giorno dopo. Aspettavo di essere chiamata nel cortile, seduta ai piedi di una delle colonne; ebbi una volta una lezione lunghissima, tre ore forse, ben oltre il consueto: il Maestro ne uscì esausto, mentre io mi sentivo bene, fresca, senza fatica. Di queste lezioni di Arezzo, ne facevi due o tre e poi andavi al diploma, perché ti faceva suonare tutto, poi tornava indietro, andava avanti, si fermava in silenzio, scriveva. Prima di entrare a queste lezioni prendevo una piccola cuccuma di caffè (il Maestro si versava il profumo sulle mani e quando entrava nella stanza lasciava dietro di sé la scia) e poi mi fermavo sul gradino ad
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aspettare. Rinaldi usciva per chiamare, allora raccattavo carte e libercoli ed entravo. Forse l’abbondanza di ricordi impedisce di aver presenti tutti i pezzi che preparavo e quali e come. L’arte del ricordare esige che si dimentichi qualcosa. Gli anni si contraggono, i decenni si riducono a un pugno di giorni per il prevalere dell’oblio sulla memoria. Il Maestro riteneva adatta a me l’Aria della Rosa, o altre cose di Mendelssohn, o gli Intermezzi op. 4 di Schumann, che aveva scelto per me. Perché i pezzi li sceglieva secondo gli allievi, e se uno era comune ad alcuni di loro, era capace di dire “Meglio essa!’’, a proposito di un’esecuzione rispetto ad un’altra. A me lo diceva quando suonavo Schumann, appunto. Mi fece però studiare anche la Sonata di Alban Berg, che ancora possiedo diteggiata da lui. Ciò dimostra che non aveva preclusioni verso il repertorio moderno. Camillo Togni ricordava, ad esempio, di averlo sentito suonare nel 1938, credo in occasione di una conferenza di Luigi Rognoni sull’espressionismo tedesco, dei pezzi di Arnold Schönberg. Ad Arezzo rispuntava il suo talento nel raccontare fatti fantastici. Eravamo nella casa del Petrarca: il Maestro dormiva in una stanza che si affacciava sul cortile di Laura, che noi chiamavamo, invece, “delle puzze” perché c’era un odore tremendo. Disse che in piena notte era entrata nella stanza e salita sul suo letto “una topa. Ci sono i topi, qua dentro. Le ho dato un colpetto sul muso, e ha fatto lì tutti i topolini”. Descriveva la scena rifacendo i suoni, come un cartone animato: “E io pack!, sul muso”. Quando faceva lezione o parlava da musicista metteva sog-
gezione e faceva rigar dritto. Noi ci arrangiavamo e ci arrampicavamo sui vetri per assecondarlo e riuscire a fare quel che voleva. Se però non riuscivamo, smetteva di insistere, perché capiva i nostri limiti. “Fare anche con difetto.” Ispirava soggezione, tanto che, benché ci proteggesse, il senso di timore rimaneva, al punto che una volta, quando mi accompagnò a casa dopo una lezione - ero forse dodicenne -, non ebbi coraggio di dirgli dove abitavo e facemmo un pezzo di strada in più.Era giovane, ma parlava con pianisti già affermati da pari a pari, come un collega; e nei nostri confronti aveva apprezzamenti rigorosi, magari con la tendenza a prendere in giro, come faresti con un figlio. Ricordo in proposito un episodio significativo. Mi trovavo nell’oscurità della chiesa di San Francesco, a Arezzo. Le candele e i raggi del tramonto erano sugli affreschi di Piero della Francesca. Io pregavo e, all’improvviso, vedo il Maestro in piedi, di fianco a me. Rimaniamo in silenzio - momenti intensi - e nell’uscire ci si avvicina una signora della Milano-bene, che si intromette importuna: “Ah, Maestro, con una sua allieva... sarà bravissima!”. “Bravissima? - risponde lui contraendo le labbra e i baffi - proprio no!”. “è... bravetta!”. Stimava molto Ludovico Lessona, il figlio del critico torinese che poi è morto in un incidente aereo. Un giorno è arrivato a casa mia e lo ha portato nella camera dello Steinway per sentirlo a lungo, come non gli ho visto fare con altri. Il modo di suonare di Lessona gli piaceva. Ad Arezzo capitavano persone disparate: Maner Lualdi, per esempio, a cui mia madre si rivolgeva al telefono dicendo: «Sì, comandante! Certo, comandante!»; il Maestro però scappava sempre dalle visite e mi faceva dire che
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ero la sua segretaria, per evitargli incontri. Ricordo un›altra occasione in cui mi chiese, per così dire, soccorso. Dopo una lunga prova per un concerto al Teatro Grande mi trovai con il Maestro e Nikita Magaloff fuori dall›ingresso degli artisti, in via Paganora. Mi sembrò naturale congedarmi. Mi ero appena avviata quando mi girai e vidi il Maestro che mi raggiungeva a rapidi passi lungo i portici. «Non mi lascerai solo con Magaloff?” -esclamò. Fu così che, invece di andare a casa, mi trovai al Gottardino, un piccolo ristorante sui Ronchi, con il Maestro da una parte che taceva e Magaloff dall’altra che conversava amabilmente.
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L’anno del lutto al braccio è il 1957. Era morto mio padre. Il Maestro, nella nostra casa di Brescia, suonò per me tutto il giorno per distrarmi, mentre papà era all’ospedale e la mamma era con lui. Poi anche Michelangeli è venuto all’ospedale ad allontanare gli importuni. Dalle finestre vedevo ondeggiare un mare di papaveri. Era giugno. Arrivarono i fiori di Michelangeli, per i funerali, ma non mi fu possibile ringraziarlo. Era sparito. Poco dopo è morto il padre del Maestro. La sera stessa del funerale lui, al Grande, ha eseguito la Sonata di Chopin della Marcia Funebre. Non si può dimenticare come. Io ero in un palco di terza fila di proscenio, vedevo il Maestro dall’alto: la tastiera mi sembrava enorme e quando attaccò le mani gli tremavano. Iniziò sottovoce e poi più su e più su, il crescendo sembrava non avesse limiti; il dolore doveva essere lancinante, ma non c’era via di scampo, doveva esprimerlo così.
Sono andata nel suo camerino subito dopo. Non c’era. Allora torno a casa e me lo vedo in piedi, in sala da pranzo, ancora in frac, il viso pallidissimo e sudato con i capelli appiccicati alle tempie, che mi mostra una grande spilla che stringe e trattiene i pantaloni del frac. Spesso ospite d’altri, al Maestro piaceva ricevere ospiti, cucinare e provvedere alle persone. Solo chi sa accogliere sa vivere accolto in casa d’altri. Riconosce in loro l’ospitalità che egli stesso sa praticare. A Bornato e anche a Rabbi era circondato da una piccola tribù di allievi cui provvedeva come se fosse la sua famiglia. Sono stata presso di lui nella baita di Rabbi in Trentino, quarantadue giorni. Era un momento difficile per la mia salute II riavvicinamento era avvenuto così: un giorno, il 17 giugno 1984, era mio ospite a Brescia Paolo Zanoni e faceva caldo. Ho deciso di telefonare a Lugano. Ho espresso alla segretaria il mio desiderio di rivedere Michelangeli, e lei mi ha detto che avrei avuto la risposta in seguito. Il Maestro mi invitò a colazione da lui raccomandandomi di andare sola. Andai il mese successivo. Era il nostro primo incontro a Lugano. Era l’inizio dell’estate, perché ho chiara memoria dell’abito che indossavo, di lino rosa, e del fatto che gli ho portato delle gardenie e un grande bicchiere di cristallo che mi ha restituito prima di morire: un oggetto antico, con una testina romana racchiusa in una specie di medaglione, che era in casa nostra da sempre. Quando il Maestro lo ha visto, ha fatto il gesto di bere, anche se non era certo un oggetto destinato all’uso. L’ultima volta che ci siamo incontrati, lo teneva sullo scaffale della grande sala con la vetrata sul bosco. Durante le visite precedenti non avevo
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più visto quel bicchiere. Lo ha preso e me lo ha messo nella borsa: “Questo lo devi riavere tu”. Non lo vedevo da molto, da anni. Lo avevo lasciato giovane e me lo sono ritrovato vecchio. Rivedere le persone a distanza di molto tempo dà sempre una pena incredula, probabilmente perché non vediamo noi stessi nello stesso istante. Lui ha chiuso subito la porta e si è messo a parlare, come non ne potesse più. Al momento del commiato mi ha detto: “Non aspettare troppo, e vienimi a trovare”. Mi sono allora ritrovata nel palmo della mano la spilla ovale che un giorno, a Rabbi, gli avevo puntato sul maglione. Ebbi la forte sensazione del materializzarsi del tempo e della memoria, dopo quegli anni di assenza. 40
Nel periodo di lontananza dall’Italia il Maestro aveva tenuto contatti con l’amico Arturo Gatti Dal Lago, Gattone, come lo chiamava, un vecchio assicuratore di Brescia che conosceva da quando era ragazzo. Sono andata con lui una volta a Lugano. È stato un viaggio folle, sempre sulla sinistra, sorpassando, da arrivare terrorizzati. Del resto il tipo era un po’ pazzo: scriveva versi dannunziani, veniva a Sale vestito da tirolese - un divertimento. A Michelangeli piacevano questi personaggi estrosi e colti che si trovavano un tempo nella provincia italiana. A Sale c’era tutto un giro di gente fatta così. Erano giornate di lunghe conversazioni, in cui si percorreva un mondo fantastico. Oltre a Gattone, c’era Cesare Augusto Tallone - della famiglia dei famosi Tallone, il padre pittore e il fratello editore, che seguiva sempre il Maestro per curare l’accordatura del pianoforte. Michelangeli che godeva moltissimo dei calembours, delle fantasie, dei giochi e magari ci rifaceva il tuono, durante un temporale, sulla
tastiera, leggendo la realtà come puro suono. Gattone aveva dunque saputo che il Maestro avrebbe suonato a Lugano e siamo partiti. Naturalmente non abbiamo trovato posto a teatro e ci hanno sistemato sul palcoscenico, da una parte. Michelangeli non poteva non vederci. Infatti è diventato rosso fuoco, quasi fosse spaventato. Finisce il pezzo, Brahms-Paganini, e si alza per ringraziare; Gattone lo acclama, come ai tempi di Sale: “Apollo, Apollo!”, facendolo vergognare, naturalmente. Tanto che il Maestro finge di non conoscerlo. Io sono stata ignorata. Quando siamo usciti, me ne stavo in disparte. E’ stato trasportato dalla folla fino ad una macchina rossa che lo aspettava. Gattone è riuscito a salutarlo, la mano già tesa da lungo tempo, tenuta pronta. Avevo cercato di rivederlo a Cortina, nel 1977. Si era fatto vivo quando aveva saputo che mio fratello Mario aveva avuto un infarto, e aveva vissuto questa malattia con inquietudine, aspettando notizie. Mario ha avuto diversi infarti ed è morto presto. Aveva più o meno l’età del Maestro. Anni dopo, alla notizia che anche Carlo, il mio fratello maggiore, ci aveva lasciati, egli comprese la mia situazione, e seppi che disse: “Adesso è sola”. Il Maestro si è preso cura di me, comunque, a Rabbi, assistendomi e dissuadendomi dal tornare a casa dopo una settimana, finché non mi fossi rimessa in forze. Non mi è mai più successo di ricevere tante attenzioni. Abitava in una baita, in cui mi sono recata sia durante l’inverno, quando c’era tanta neve, sia durante l’estate. I quarantadue giorni, per esempio, furono estivi. Ma devo aver trascorso là anche una fine d’anno.
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A Rabbi le baite erano due, in realtà: una in cui Michelangeli abitava e dove sono stata anch’io: si sentiva la musica del torrente e si vedevano gli alberi. Lì si mangiava anche insieme. Nell’altra, invece, dove il Maestro studiava, non sono andata che una volta. In un momento in cui era assente, ho visto una fila di scarpe che la Gemma stava riordinando e un grande rosario appeso al muro sopra al letto. A Rabbi, ultimamente, c’era infatti una signora friulana, la Gemma, che gli faceva da governante e gli era fedelissima. Era una donna schietta e trasparente, che gli voleva bene e a volte lo aiutava anche a far la valigia. In questa valigia c’era sempre posto per la mantellina viola che mia madre aveva fatto per lui - l’ho saputo da altri - e a cui era così affezionato: “Me l’ha fatta la mamma di Clara”, diceva. Si informava sul cibo che avrei gradito e che poi preparava personalmente. Cucinava per tutti: la Gemma aveva solo il compito di fargli trovare il necessario. Marie José Gros Dubois, la fedele segretaria che l’ha colmato di attenzioni per tanti anni, preparava invece enormi teiere di tè, che egli consumava nel pomeriggio, leggendo il Giornale di Montanelli. Le cure “materne” che mi prodigava erano, credo, uno degli aspetti più forti di un carattere contraddistinto da un’emotività che lo “portava” in ogni situazione. Un vero maestro, secondo la tradizione, è quello che in certo modo “ti rifà”, o ti risana, perché coglie le tue necessità e sa farti produrre il meglio di te, facendoti nascere a te stesso. In quel periodo, egli era come demotivato o disamorato. Non voleva suonare in pubblico. Studiava, invece. Lo faceva nella seconda baita, dove mi ha introdotto una volta.
C’era disordine, carte, infiniti libri per terra e uno scrittoio piccolissimo, da bambini. Vi conservava anche una raccolta di tazzine da caffè, acquistate durante i suoi viaggi. Erano tazze singole, antiche, di gran pregio, prese una a Vienna e una a Budapest, qua e là, col doppio valore dell’antiquariato e del sentimento che si accompagna ad un certo viaggio e alla scelta di un oggetto amato. In queste piacevoli ricerche gli era vicino Franco Facchinelli Mazzoleni, amico fraterno di vecchia data e suo prezioso compagno nelle lunghe tournéé all’ estero. Mi capitò una volta di assistere ad un piccolo incidente domestico: Pinocchio, un gatto selvatico che stava a Rabbi e di cui avevo un po’ paura perché graffiava d’improvviso, ruppe una tazza. Il Maestro lo sgridò assestandogli sul muso un colpetto deciso con l’indice e il medio disteso a mo’ di spatola - un gesto che più delicatamente compiva sempre su se stesso, quando si batteva un baffo che poi lisciava facendo strisciare le due dita giù fino al mento (gli era abituale anche schioccare leggermente le labbra tenendole serrate e sollevandone lateralmente un angolo). Amava la compagnia dei suoi gatti, li adorava e parlava con loro come fossero persone. A Lugano viveva con Attila, un nobile gattone rosso, coda enorme ritta dietro che gli faceva da elmo, andatura veramente maestosa -mancavano solo le trombe dell’Aida. Una volta chiesi al Maestro se potevo entrare e vedere il -suo studio; mi rispose: “Neanche per sogno, non entra neppure Attila”. Questa riservatezza non gli impediva comunque di essere ospitale e premuroso. Gli piaceva essere paterno con noi: ad Arezzo prendeva gusto a fare il papà o il pastore. Era venuto in camera nostra, una volta che la mia
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amica Carla Guaineri era malata. In casa di Annita Porrini, una delle migliori allieve del corso di Arezzo, è conservata una toccante fotografia: Annita se ne sta rannicchiata in un angolo, come schiacciata dal suo dolore per la recente perdita della madre, e Michelangeli con un gesto che solo lui poteva fare, le porge un giglio selvatico dal lungo stelo, raccolto durante quella gita in montagna. Una volta andai a trovarlo con la mia Cinquecento in cima alla collina di Bornato. Avevo lasciato la macchina nello spiazzo, e lui cominciò a girarci intorno in silenzio, con aria indagatrice e severa. Poi con un’espressione torva ma patema mi rimproverò: “Ma lo sai cos’hai fatto? Hai il bollo scaduto da un anno!”. E quando poi comprai la Mini rossa e nera, me la collaudò lui, divertendosi un sacco e toccando il soffitto basso con la testa: “Che bella!”, diceva. Ci portava anche in giro. Ricordo quando andammo a colazione in Folgaria: un albergo in mezzo al bosco, in una grande sala da pranzo che abbiamo attraversato prima di sistemarci. Dalla sala si è levato un applauso a scroscio. Lui era abituato a queste cose, a quegli applausi che sembravano onde di un oceano e a noi facevano venire i brividi. Era del resto sempre così: nei suoi concerti, quanto più era serio e composto - quando suonava non faceva mai un movimento che non fosse necessario -, tanto più si scatenava l’uragano irrefrenabile degli applausi. Quando, l’anno prima del diploma, mi ha dato tre lezioni a Firenze - era il 1953, e le giornate erano ancora calde -, mi ha ricevuto come se fosse il padrone di casa della città. Io dormivo all’Anglo-Americano, lui mi veniva a prendere in macchina e mi mostrava tutto, San Minia-
to al Monte e Santa Maria Novella, il Duomo e Palazzo Pitti, come se fossero cose sue. Poi mi portava a mangiare, pranzo e cena per tre o quattro giorni, e pensava a tutto lui: una volta ha ordinato lo spiedo, e io ho accennato, per riguardo a lui e al conte di Collalto, ad usare coltello e forchetta - gli uccellini, noi bresciani, li mangiamo con le mani, prendendoli per il becco - e lui mi ha detto, divertito: “Lo dirò a tua mamma che non sai mangiare gli uccelli!”. Un’altra volta, che avevo dimenticato i libri in albergo, non ho avuto il coraggio di dirglielo: lui se n’è accorto e senza mostrare il minimo disappunto ha girato la macchina ed è tornato indietro, senza dir nulla. A Firenze mi fece ricevere prima dal conte di Collalto, che era console italiano a New York e aveva sposato un’americana, poi mi portò in casa del musicista Alessandro Tamburini. Ricordo l’altissimo studio, con una sorta di balconata di ferro battuto sotto la quale vidi due singolari cassettoni bombati di legno rosso del Settecento, illuminati da una sciabolata di luce proveniente dalle alte finestre da studio di pittore. Mi fece suonare le Variazioni di Brahms-Händel nel palazzo sull’Arno dell’italo-americana Eva Barton, dove sopra ad un caminetto acceso spiccava un magnifico Modigliani. Sapeva dunque essere generoso anche nelle cose importanti: in un mattino di sole sul ballatoio tutto fiorito della baita di Rabbi mi disse: “Quando hai bisogno vieni qui: con la carta - intendeva gli spartiti - che ti aiuto io”. Nonostante la distanza e il trascorrere degli anni, rimaneva sempre il mio Maestro. Durante il nostro ultimo incontro, lo stesso giorno in
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cui mi restituì il bicchiere di cristallo che gli avevo regalato, gli avevo confidato che mi sarebbe piaciuto “insegnare bene”, aprendo le mani di mezzo metro: nei miei limiti, intendevo dire. Mi aveva risposto, dopo un attimo di silenzio: “Lo strumento. Ci penso io. Ho già dato disposizioni”. Non ha importanza quello che è accaduto poi; ciò che conta non è il pianoforte, ma il legame che le parole possono significare. Penso che il Maestro sapesse quando sarebbe finita la sua vita. Forse solo ora mi rendo pienamente conto di quanto privilegiata fosse per noi la condizione di allievi, rispetto a quella di semplici amici. Quelle esperienze segnarono profondamente la nostra esistenza. Maestro di che? Il Maestro ebbe numerose frequentazioni, magari sporadiche. Accade dunque che solo adesso, magari, si viene a sapere, e per caso, che il Maestro desiderava passeggiare un giorno nel giardino della casa di una famiglia facoltosa, bella casa e bel giardino. Ai padroni non parve vero di poter soddisfare un suo desiderio espresso in una telefonata da Giuliana. In casa c’era uno Steinway. Ne venne un invito a colazione. Il padrone di casa era un uomo di palpebra greve, che la moglie imbottì di apprensive raccomandazioni in vista dell’evento. Dovevasi tacere se il Maestro taceva, parlare se parlava, fare attenzione, non fare questo e non dire quello. Il giorno fissato si aprì dunque con la passeggiata in giardino. Seguì la tavola. Il tutto in silenzio. Il Maestro non apriva bocca, lasciando in sospeso gli altri commensali.
Finché il capofamiglia chiese con aria innocente, tra la generale costernazione: “Maestro, ma lü él Maester de chì? De fisarmonica o de viulì? [Maestro, ma lei di che cosa è Maestro? Di fisarmonica o di violino?]”. Seguì una pausa pericolosa e temporalesca: Michelangeli alzò la testa lento, gli chiese in che anno era nato, lo prese per il braccio e lo portò allo Steinway. Gli suonò delle canzonette della sua epoca, mentre la giovane nuora tremava; passò poi a Chopin, Liszt e Beethoven. Seguì ancora una pausa. Poi lasciò cadere un pugno sulla tastiera: «Ecco, questo è quello che so fare io”, concluse. L’uomo dischiuse appena le palpebre gonfie, si portò la mano al petto e con tono indefinito si autodenunciò: “Eh, caro Maestro, io il mio concerto l’ho avuto...”Ugualmente indefinito fu il sorriso con cui Michelangeli gli rispose. Le mani del Maestro. Abili a disegnare. Mani che solcano gli spartiti di annotazioni; di annotazioni e imperativi: Cantare oppure Canta, o, come in un Adagio di Bach, sempre piano, poi Voce, inciso dalla matita. Mani che tamburellano sul tavolo. Mani legate alla voce e al movimento, mani che identificano la sua persona o, piuttosto, la persona con cui egli si è identificato. Ne ricordo la presa sulla spalla. Eravamo ad Arezzo in un bar a giocare a flipper, Jörg Demus e io. Il Maestro è sopraggiunto senza che lo vedessimo, noi, intenti al nostro gioco da ragazzi; la sua mano mi ha arpionato la spalla, dandomi la misura di sé e della sua potenza, senza forzare, sino alla scapola. È seguita la voce: “Cosa fate qui?”, divertita. Mani da pianoforte, molto muscolose verso il pollice - cosa che i pianisti sanno bene - e al quinto dito verso l’esterno.
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“Le dita devono aver la funzione di portare la mano. Il braccio deve essere tutto morto e il polso deve portare il peso del braccio. È un errore pensare che i muscoli delle dita stiano nelle dita. Essi partono dal braccio, sotto il gomito” - il taccuino rosso conserva alcune indicazioni, correzioni e note come l’elenco dei pezzi che venivo studiando. Teneva i polpastrelli-un po’ distesi a cantare, quando il pezzo lo richiedeva, quasi accarezzando il tasto, quale che fosse, estraendo da esso il suono voluto - “Signorina, metta quel disco del signore che canta”, mi aveva chiesto una volta un bambino, in una piccola scuola del Cadore, riferendosi all’incisione dei Children’s corner fatta dal Maestro. Era un modo di suonare meravigliosamente istintivo e spontaneo, che nasceva da dentro come se la persona non fosse nata per altro che per quel mestiere, poi affinato dallo studio. I famosi fasci di muscoli che da ragazzina non mi piacevano erano quelli di una macchina nata per avere il dominio assoluto della tastiera. Dominio che, a sua volta, proviene dal “saper fare” dal saper premere i tasti. Si può parlare di una “fiamma” dentro? In lui c’era qualcosa di unico: con l’andare degli anni l’ho capito meglio, come ho capito perché tante volte mi stanco ad ascoltare concerti ed esecuzioni di altri. Sì, certo, va tutto bene, tutto è ben messo al suo posto - ma un conto è che una cosa nasca da dentro un altro che sia eseguita, per quanto bene, da fuori: è un problema di autenticità, che si avverte persino fisicamente. Esistono quegli allievi bravi, ligi ad ogni indicazione, gran lettori di manuali, che non perdono un colpo quando li interroghi, che fanno bene tutti gli esercizi, ma a
cui manca un po’ di vita, alla fine, e ti chiedi se il loro impegno valga la pena. “Quando si suona bisogna dare alle frasi un senso logico e compiuto”. “Non bisogna picchiare i tasti, bisogna premerli”: per questo teneva i polpastrelli quasi interi “a cantare7’, estraendo dal tasto il suono voluto o in altri momenti curvava le dita aggressive, per incontrarsi con la realtà dell’espressione. “Non accelerare mai il tempo” - diceva, basta quello che è scritto nella partitura dall’autore. Meglio è, piuttosto, stare indietro anziché accelerare, perché questo non significa che si sappia suonare meglio, ma solo che si sta facendo qualcosa che l’autore non ha pensato. Studiare. Studiare con tutto il rigore e la fermezza possibili. Studiare non stanca. Semmai esaurisce le forze e le prosciuga, ma non stanca. Studiare, a dodici anni, fino a quattro ore al giorno, mentre gli altri fanno tuffi e nuotano nel lago. Lezioni faticose di cui ricordo tutto, perché anche i dettagli sono importanti. Le giornate migliori per studiare erano quelle “nuvole”, nebbiose, lombarde forse, in cui non fa troppo caldo. Non amavo, io, come non amo tuttora le giornate di sole pieno, con quella luce che appiattisce ogni ombra, perché la definisce troppo. Il cielo riflette le città che vi stanno sotto come uno specchio cromatico. Il nostro è un cielo capace di cogliere le sfumature della terra, delle pietre e degli intonaci della città - niente a che vedere con la lastra compatta, quasi metallica del cielo che sovrasta le città del sud. Ma è un cielo come raccolto e che invita all’intimo raccoglimento dello stu-
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dio. Al Maestro piacevano, per questo, le giornate muschiose e umide che ingenerano, normalmente, tedio e tristezza. Sono le giornate buone per suonare.
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Un insegnante straordinario. Gli allievi non hanno dubbi su questo. “Mi ha insegnato un modo perché potessi leggere e capire un foglio di musica, ed è lo stesso, poi, per leggere e capire qualunque altra scrittura, anche non musicale” -dice Isabella. Un modo di leggere la vita. Accadeva lo stesso a tutti. Straordinario anche nel suggerire il metodo di studio. “Quando facevo Bach, e lo facevo a chili, - continua una di loro - portavo a lezione una piccola Invenzione. Ma dopo mi chiedeva di eseguirne un’altra che risaliva, magari, a quattro lezioni prima”, perché voleva vedere se il pezzo fosse stato assimilato e fosse rimasto nella testa, prima che nelle dita, affrontando le difficoltà con una certa padronanza. Obbligava poi a fare cose anche difficili, per le quali non ti senti e non sei tagliato. La nota, infatti, esce chiara dalle dita se esce chiara dal cervello e per questo si richiede una penetrazione nella lettura. Per questo ci insegnava a fare ogni pezzo a mani separate, per verificare in momenti diversi le caratteristiche di ogni mano, come interagissero e in quale rapporto fossero tra loro nella costruzione del pezzo. Un brano può anche non piacere, ma, se lo si è studiato a questo modo, è finalmente conosciuto: si identificano le voci che vi si intersecano, si coglie l’importanza dell’una e dell’altra, si coglie, specialmente, quale abbia un ruolo
di impianto e quale invece serva solo a valorizzare quel che l’altra voce canta. Non serve, a quel punto, suonare con la massima velocità, perché non si farebbe a tempo a pensare. Perché tutto parte, appunto, dalla testa. Un pezzo va lasciato riposare e poi ripreso, quando lo si studia, a memoria. Capire ed esprimere, scomporre e ricomporre, leggere e capire, ricordare per connaturalità. Allo stesso modo si imparava a “raddoppiare” come lo avevo sentito io, per ore, nella casa di Sale, eseguendo un pezzo con ritmi falsati - a partire da una semplice scala -, ponendo l’accento via via sulle diverse note, creando sincopi che non ci sono, fino ad impadronirsene, valorizzando tutte le dita e senza muovere la mano quando si adopera il quinto per prendere la nota. Si deve arrivare tirando, senza saltare. Naturalmente si deve scegliere il pezzo a misura della propria mano. Per questo faceva mettere la tua mano sulla sua in modo che si avvertisse che cosa succedeva al movimento della sua mano, quasi saggiandone l’anatomia e la sicurezza. Era questa la compostezza: le dita vanno, semplicemente, dove devono andare. Erano lezioni faticose, martellanti, in cui bisognava essere sempre pronti a quello che diceva. Ma ricordo anche l’enorme pazienza con cui si prodigava. E poi: il polso in linea con l’avambraccio e l’altezza dello sgabello definita dal pedale a cui la gamba doveva arrivare né rattrappita né troppo distesa, perché in tal caso il pedale avrebbe perduto la sua efficacia. Allo stesso modo il polso troppo basso toglie forza alle
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dita. Troppo alto, al contrario, sbrodola oppure le dita potrebbero ingarbugliarsi. “Non sbrodolare!’’ - ripeteva il Maestro, perché chi sbrodola non ha chiarezza mentale di lettura né di tecnica. Il polso deve invece arrivare a misura dell’inizio della tastiera. Il suono deve cantare; nel legato, non tenere troppo i suoni, altrimenti il peso non si trasferisce da una nota all’altra. Anche il pianissimo o il fortissimo dipendono dal giusto assetto di fronte alla tastiera. Occorre trarre dalle dita tutte le loro possibilità, ma per farlo si impegna tutto il corpo e la testa, come abbiamo detto. Da questo dipende il resto: la velocità, la forza e il tocco - e si può fare tutto, tenendo conto di questo. Se tutto si trae dalle dita, il pedale non serve per accrescere; al contrario, crea solo confusione. Il pedale può ampliare appena, quando tutto è già stato deciso e fatto sulla tastiera. Quando, ragazzine, Isabella Comini ed io andammo al saggio degli allievi di Agostino Orizio, che aveva la sua scuola, ci sentivamo sicure. Avevamo preparato due pezzi piccolissimi, ma molto curati. Il Maestro ci aveva presentato ed era stato contento, né lo aveva nascosto, di come avevamo suonato. Dopo il saggio ci aveva comperato una fetta d’anguria e noi andavamo verso la stazione addentandola. Non sceglieva gli stessi autori per tutti gli allievi: ognuno di noi aveva i suoi. Il che suppone, certo, grande cultura pianistica, ma anche autentica conoscenza delle persone, delle loro attitudini e possibilità. Aveva un suo modo di valutare che teneva conto di tutto.
Sottoporsi a un suo giudizio era in ogni caso difficile per tutti. Ricordo uno di questi momenti così carichi di apprensione durante una delle ultime visite fatte a Lugano con Camillo Togni. Come sempre, il Maestro si era interessato ai suoi lavori. Lui gli aveva portato una cadenza per il primo tempo di un concerto di Mozart: Michelangeli si cullava lentamente sulla sedia a dondolo e teneva lo spartito vicino al viso. Era molto concentrato sul contenuto. Camillo mi guardava ed aveva l’espressione di un allievo che sostiene un esame, il viso un po’ rosso e gli occhi con un’espressione interrogativa, vagamente impaurita. La lettura durò più di dieci lunghi minuti. Poi il Maestro abbassò lo spartito sulle ginocchia: “È geniale», disse, e l'espressione dell'allievo fu di gioioso sollievo e di gratitudine. Il Maestro affermava di non trovare nessuno con cui parlare di musica. Un segno in più, se si vuole, della sua solitudine. Solo con Onorato Comini era, secondo lui, possibile parlarne veramente. Tuttavia aveva grande stima per Semprini, che si era dato all'arte minore, alle canzonette, alle cose leggere e di moda, ma che era comunque un grande pianista. Come era un grande clarinettista Benny Goodman: tanti di noi lo ricordano per i film americani del dopoguerra o forse per quelli di genere bellico che avevano le sue musiche come colonna sonora. Una volta venne al Comunale di Firenze per il Maggio. Suonava canzonette e swing, ma avrebbe potuto suonare qualunque cosa, il dolcissimo signore americano che poi riceveva gli studenti nel camerino; sudato e mai stanco, sempre cortese e disposto a conversare. Mia Madre. “La contessa” - la chiamava il Maestro. Mia
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madre era una Greppi e non aveva mai dimenticato le sue origini, specialmente il cugino, primo sindaco di Milano nel dopoguerra, e l’ascendenza socialista. Quello stesso cugino che, invitato da un capo partigiano, dopo il 25 aprile, ad assistere alla fucilazione del fascista che gli aveva ucciso il figlio, rifiutò e impedì l’esecuzione, perché non si curano le proprie ferite con la morte degli assassini. Lo stesso Greppi che aveva obbedito a Toscanini, perché era un galantuomo: aveva voluto la riapertura della Scala nel 1946 e desiderava dire due parole per l’occasione, ma Toscanini aveva replicato che in un tale momento basta la musica. E Greppi era stato zitto. Il dottor Novati mi raccontò una volta di essere stato intrattenuto a lungo da Michelangeli sulla figura di questo personaggio che tanto ammirava. Mia madre, nonostante il titolo acquisito con il matrimonio, era rimasta una donna schietta, che sapeva apprezzare le cose belle. Aveva organizzato la vita a Sale, dopo l’otto settembre, con la stessa naturalezza con cui si aggiunge un posto a tavola. Il suo modo di intendere e vivere l’ospitalità era diretto e immediato. Forse per questo il Maestro si trovava bene da noi. Mia madre aveva anche fatto la famosa mantellina di lana per Michelangeli, da cui egli non si separava mai. Ne aveva in seguito avuto una seconda, fatta da una suora, che gli era cara per la naturale simpatia che riservava alle suorine e ai fratoni (usare diminutivi e accrescitivi era parte del suo lessico naturale), ma non aveva potuto indossarla perché la lana “perdeva il pelo”. La mantellina viola di mia madre lo accompagnava nelle
ore di studio, spelacchiata e consunta dall’uso, fino agli ultimi giorni. Era di linea femminile, cadeva a piccole balze ondulate ed era percorsa da un nastrino di velluto dello stesso colore. Certamente non era un indumento adatto ad un uomo, ma, ancora una volta, contava più il rapporto da cui esso nasceva che l’oggetto in sé. Forse proprio la sua solitudine lo metteva nelle condizioni di apprezzare il valore dei rapporti tra le persone, e per lui era importante che si trattasse di legami spontanei, genuini, sinceri. Suorine, monachine, nobiltà, la piccola nobiltà di provincia, erano cose che amava, per cui aveva simpatia. A casa Comini c’era un quadro, forse del Soldini, una scena intensa, con delle suorine appunto dietro una grata. Me ne ricordo mentre penso a quando gli parlavo delle “mie” monache di clausura: sono certa che ci ripensava e ne traeva pace. Così come conosco il suo legame di stima e gratitudine per la piccola suora di Locarno dai ridenti occhi azzurri. Del resto egli sognava una sua chiesa, anzi una chiesina. Ne parlò una volta a Bornato, mentre percorrevamo un sentiero in costa alla montagnola, mia madre e la moglie del Maestro avanti, lui ed io dietro. Guardavamo in alto, verso sinistra: “Ecco, vedi: io farò costruire là una chiesina, così tu verrai a suonare per me”. Quando mia madre morì, il Maestro aveva già lasciato l’Italia. Lo seppe ed accolse la notizia in silenzio. Poi ripetè solo il titolo con cui la chiamava: “Ah, la contessa!”. Se Michelangeli le aveva detto che c’erano delle “affinità”
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tra lui e me (per altro era la parola che egli usava di solito per descrivere rapporti intensi e autentici), anche mia madre mi disse che ci sarebbero stati momenti della vita in cui “il Maestro ti sarà vicino”. Negli anni della gavetta, quando partivo la mattina presto per raggiungere la scuola a Bagolino, a ottanta chilometri da Brescia, al mio ritorno in città, la raggiungevo in clinica. Sempre sorridente. La cucina era già chiusa. Prendevo qualcosa alla buona - le cose che poi non sono più riuscita a mangiare, come capita sempre -, ma lei mi aspettava sorridendo, straordinaria. Piena di senso dell’umorismo e tenerezza. “Nessuno mai. ti amerà dell’amor mio” -, diceva, citando non so mai chi. Forse il Giusti. 56
Al Maestro piacevano certi autori. Amava Purcell, che considerava per certe cose addirittura “scioccante”, mentre definiva Vivaldi “un bravo artigiano”. Allo stesso modo, tra tutti i pittori prediligeva Caravaggio, me lo dichiarò in una delle sue ultime conversazioni, qui da me. Non gli piacevano le cose roboanti, preferiva andare a scovare i lati significativi di un’epoca attraverso le composizioni sconosciute di certi autori minori, che valorizzava pienamente. Cogliere lo spirito di un’epoca attraverso piccole opere quasi dimenticate era per la sua natura raffinata e sensibile un’operazione estremamente stimolante. Non dava giudizi affrettati sui colleghi, però talvolta esercitava il suo senso dell’ironia. Così, per esempio, un giorno andò a trovare nel suo camerino Alfred Cortot dopo un concerto: il Maestro aveva una profonda ammirazione per il grande pianista francese che tuttavia, or-
mai anziano, aveva perso lo smalto di un tempo. Appena Cortot vide il giovane collega, perfettamente consapevole delle “sguerguenze” combinate durante il concerto, con aria un po’ imbarazzata si diede subito un piccolo schiaffo sulla mano sinistra, accompagnando il gesto con un sospiro a metà strada tra la rassegnazione e la vergogna. “Eh, no, maestro - rispose lui, indicandogli con un sorriso bonario la mano destra -, è l’altra...». Era frequente cogliere il suo pensiero attraverso questi squarci di ironia. Con me si comportò un giorno in maniera davvero inusuale. Eravamo nella baita di Rabbi, ed era un lungo pomeriggio di pioggia, una di quelle giornate malinconiche e interminabili che invitano al raccoglimento. Lui si cullava sulla sua sedia a dondolo, io mi ero seduta vicina su uno sgabello e lo ascoltavo. Iniziò a parlarmi di tutte le grandi orchestre del mondo, elencandomi pregi e difetti. Insisteva continuamente sulla necessità di fare la gavetta, di studiare senza mai accontentarsi, di lavorare sodo, riferendosi anche ai complessi che in questo senso avrebbero offerto le esperienze più interessanti. Sembrava che in quel momento gli premesse di trasmettere a un›altra persona il suo parere sulla musica, sulle esecuzioni e sulle esperienze da compiere, tanto che ora rimpiango di non aver annotato tutto. Non so perché proprio a me comunicasse quei preziosi consigli, ma ebbi l›impressione che quel parlare nascondesse una precisa intenzione. Che quelle cose fossero indirizzate tramite me a suo nipote Umberto, per il quale doveva provare un grande affetto? Lo stesso affetto Michelangeli doveva provarlo per il suo allievo Mario Conter. «Maestro, ho sentito la Missa
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in tempore belli di Haydn, a Brescia, nella chiesa delle Grazie. L’ha diretta Conter”, gli ho detto. “Certo, lui lo può fare, dirigere bene! “ E qui il Maestro mi enumerò le qualità di Mario. Mi meravigliai di come ricordasse con estrema precisione le attitudini e gli studi del suo allievo: pianoforte, organo e composizione. “Del resto, Franck, come lo faceva Conter, pochi lo sanno fare.” Oltre la musica, il silenzio era un suo modo privilegiato di comunicare. Lo ricordo a Monaco, anni fa, che dopo essersi seduto al pianoforte, rimase con le mani appoggiate sulle ginocchia quasi afferrandole: il silenzio e lo sguardo lento e penetrante passava sul pubblico delle balconate (là le sale da concerto hanno delle specie di barcacce sopraelevate sulla platea). Il silenzio era un filo di comunicazione tra lui e il cuore, le menti e i nervi delle persone. Era un’onda che andava e veniva, la polifonia dei sentimenti, e riempiva l’anima secondo la sensibilità di ognuno, un po’ come in misure differenti venivano colmati gli orci della poesia di Tagore. Era un silenzio inteso non come assenza di rumore, ma come attesa di un evento portentoso in procinto di manifestarsi. Poi lui partiva e raccontava le sue immagini meravigliose. Suonare era per lui il modo più diretto di esprimersi. Non era interpretare un pensiero altrui, ma comunicare senza mediazioni una proiezione del proprio essere più autentico. Era qualcosa che scaturiva dal suo intimo con una forza e una prepotenza che erano superiori perfino alla sua volontà. Lo vidi una volta arrossire di colpo mentre suonava, come se si fosse accorto in quel momento di essersi scoperto troppo e di aver rivelato qualche particolare intimo e se-
greto della propria natura. Solo lui naturalmente poteva cogliere il senso vero di certe sfumature, ma ciò che si percepiva era che il suo suonare era una profonda e continua confessione. La corrente che si creava tra lui e il pubblico che ascoltava era forse generata proprio dalla percezione che la musica era una pura emanazione del suo essere. Per questo magnetizzava l’attenzione di tutti. Suo padre una volta mi disse: “Vedi, un avvocato si serve delle parole per convincere le persone. Mio figlio si serve delle note e convince tutti”. Leggeva moltissimo. Gli ho portato, un giorno, un saggio di Furet sulla rivoluzione francese; era in realtà un omaggio a Marie José, ma quando lo ha visto si è imposto: “Lo leggo prima io”. Ha dedicato molti pomeriggi alla lettura. 59 Alfa. Fu Esterina Comini a presentarcelo. Era grande amica della zia Lina, e le propose l’incontro. Lui arrivò in ritardo, in bicicletta con la moglie Giuliana, la zia stava per mettersi a tavola. Durante il pranzo rimase sulle sue, come era sua abitudine, poi ci fu l’audizione che si svolse con semplicità ma che fu decisiva. Camminava su e giù con aria severa, ogni tanto mi batteva sulla mano; io, paonazza dall’emozione, provavo per lui un sentimento di reverenziale timore. Il resto della famiglia, in preda ad una comprensibile trepidazione, origliava dietro la porta e, se questa si fosse spalancata improvvisamente, sarebbero rotolati tutti nella stanza. Poi, quando mia madre gli chiese consiglio, lui disse: “La mano è in disordine, ma ha attitudine: la prendo io”. Giuliana tentò allora di protestare contro quella decisione (“Ciro, non ce la fai!”), ma
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lui rimase determinato: “No, no, la prendo io”. Avevo cominciato a suonare con una suora, in collegio, e poi con quella che il Maestro chiamava “la piccola italiana”, perché lo era, perché egli ricordava che la famiglia era fascista. Infatti durante questa prima lezione continuava ad esclamare “Ah, la piccola italiana!’’. Era l’estate del 1943; cominciai così le mie prime lezioni andando in bicicletta con mia madre a Borgonato dai Berlucchi, dove il Maestro era ospite. Aveva dovuto impostarmi di nuovo la mano, chiodo che è rimasto fisso anche a me, perché l’assetto davanti allo strumento è importantissimo. Non si diffondeva in spiegazioni, anzi, non diceva niente e, al caso, bastavano poche parole. Diceva, per esempio: “Giù le dita!” e si doveva capire immediatamente che cosa volesse. In quelle prime lezioni lo ricordo seduto alla mia destra, con la mano sul pianoforte a mostrarmi come dovevo fare, con infinita pazienza. Omega. Tempi remoti. Ma così intensi per me. È l’impressione arrivando: le luci paiono uscire dai cespugli; pulsano e si sente la grande città. In strada incontro una donna, misteriosa figura: ha tre piccoli cani, vuole il mio address, mi aiuta per la posta e i francobolli. Si chiama Carmen. Per me è sorta come dal nulla. Nella sua auto vedo un casco e una lunga targa rettangolare con scritto inspector: ambedue appartengono a suo figlio, morto lo scorso anno. Troppi morti. Al Paul Getty Museum vado da sola. Oceano grigio e nebbioso, bello il Museo, ma ridicolo l’esterno - la villa romana rifatta. Nella Tea Room conosco una donna che guida un gruppo. Ha settantadue anni - o forse qualcuno in più
-, è vedova, ma si è risposata: tardi, è vero, ma non sempre si può accettare la solitudine. Anche Alice Lowler, proclamata donna dell’anno in America, si è risposata tre anni fa. Qui hanno una strana idea della morte: se perdono qualcuno, pensano che la vita continua, e cercano di sostituirlo. Anche la figlia di Alice ha un cancro e la madre me lo dice semplicemente: andrà in Colorado a trovare la figlia, ma non si fermerà più di una settimana, perché ognuno, alla fine, ha le proprie abitudini. Abitudini americane. Alice porta una camicetta bianca a puntini neri e una gonna nera a puntini bianchi, cintura alta e scarpe basse con margherite. Qualche giorno fa tutto era lo stesso, ma il colore di contrasto era il blu. Le strade sono deserte: è domenica. Partiamo per andare in giro per la città. Alice mi parla dei grattacieli, via via che si susseguono, fino a quello che appartiene al marito. Lì c’è anche il suo ufficio “da cui si domina Los Angeles”, ma non ci fermiamo. Arriviamo all’Opera, un’enorme rotonda, e poi ancora al club più esclusivo della città e infine in Olvera Street. Ma non ci si può fermare: ci aspettano a casa sua per l’aperitivo. Un dedalo di strade, alberi, belle case, finché arriviamo a quella di Alice: compare un cane gigante di razza pregiata. Infine arriva il marito, il classico americano con aria da boss, che mi prende le mani tra le sue e mi fa entrare. Non mi fissa, ma guarda velocemente, eppure con attenzione. Il salotto è a boiserie, fitto di libri rilegati che fan parte dell’arredo; dalla finestra intravedo le cose che ciascuno immagina in una ricca casa americana: la piscina, il ping pong, il campo da tennis, il golf. Il tavolo del salotto è un baule da viaggio rosso su cui sono appoggia-
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ti due piatti cinesi e un fiore bianco, che pende lungo il fianco del baule: mi dicono che si tratta di una rara specie di orchidea. Il boss ci lascia per tornare subito dopo. Nel frattempo lo sento come rovistare. Infatti porta con sé una foto; vi compaiono un uomo in dinner jacket, una donna in abito da gran sera ed ermellino e un prelato tutto vestito di rosso, secondo l’iconografia televisiva. Non riconosco le persone, ma l’uomo è il boss, la donna è Alice e il cardinale è il cardinale. Hanno anche una foto col Papa, mi dicono, nell’altra stanza. Passiamo agli aperitivi e al brindisi di benvenuto “che tu possa ritornare in questa casa...” - una mezza strada tra il paterno e l’ecclesiastico. Di fatti il boss si preoccupa, subito dopo, di cercare sulla guida telefonica dove possa trovare (impresa non facile a Los Angeles con tutte quelle etnie e fedi e religioni e sette) una chiesa cattolica per la messa. Lui e la moglie però sono atei. Ospitalità americana. Usciamo di nuovo, in auto, per andare a colazione: piove. Raggiungiamo un posto in cui staziona una lunga fila d’auto in attesa di parcheggio. Alice valuta che saranno lì da almeno quaranta minuti e riparte. Ne raggiungiamo un altro che era, un tempo, un silos di raccolta dei prodotti agricoli. Ci sono degli ombrelloni: la pioggia si insinua tra un ombrellone e l’altro; su un banco, piatti di shrimps che, vengo a sapere poi, sono scampi. Scampi giganti. Sediamo ad un tavolo d’angolo, al piano superiore, col nostro piatto di scampi che Pat, marito di Alice, spennella di salsa rosa. Mi si offre una lezione di geografia: qui è il Pacifico, davanti c’è la California, poi il Colorado e l’Oregon, finché la carta non basta più. Certo - dico io - l’America è grande: sono cinquantadue stati.
Cinquantadue? Sono cinquanta e due province. Dopo colazione è la volta di un museo, dove entriamo senza biglietto, perché Alice è socio fondatore. Ci vengono incontro animali giganti, meticolosamente ricostruiti entro il loro paesaggio. È la storia, rinvenuta dopo 38.000 anni, sotto strati di terra e di petrolio. Gli animali, siti compulsi, si avvicinano: elefanti, bisonti, mammut, daini e pantere. Girando un pulsante compare la figura di una donna giovane, dai lunghi capelli, carina: anche lei è ricomparsa dopo 38.000 anni. Vado anche a San Francisco, per il Museo d’Arte Moderna. C’è una sala tutta dedicata a Pollock e ci sono anche le interpretazioni date da un famoso psicanalista... Questa infinita bellezza è paragonabile agli ultimi ritratti di Tiziano o agli ultimi colloqui col Maestro., Forse è vero che quando si sente che la vita sta per finire subentra la saggezza. Essa fa dire ciò che importa come fosse spontaneo: sgorga con una naturalità sua, pur essendo frutto di lungo lavoro, distacco, spegnersi d’entusiasmi. O, meglio, non ci si dovrebbe infiammare troppo: occorre tener conto del tempo, della breve tregua concessa, dello spazio limitato. Alfa e Omega, come un cerchio che si chiude. Penso che il Maestro sapesse quando sarebbe finita la sua vita.
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Il principe William riceve a corte il baronetto Leech e Noretta Conci-Leech
A Milano. Passarono gli anni, e sentendo la necessità crescente di rendermi utile agli altri, colsi l’occasione of-
LA VITA DOPO: FRAMMENTI
fertami a Milano di lavorare come hostess presso la clinica Le Quattro Marie. Le mie giornate iniziavano al mattino ore 7: dalla finestra della mia camera si vedevano gli aerei partire e arrivare a Linate. Sul gradino sottostante le finestre tenevo diverse paia di scarpe da cambiare durante la giornata: mocassini di vernice di Ronchi, un paio nere con fiocco di faille, ecc. Indossavo la divisa: tailleur blu con camicia azzurra e cicala sempre aperta nel taschino. Dall’occhiello pendeva una catena d’oro con orologino che tenevo nella tasca del tailleur. Il mio compito consisteva nel ricevere persone. Anche gruppi di stranieri, inglesi soprattutto, che dovevo accompagnare nella visita alla clinica. Con la mia conoscenza...direi approssimativa dell’inglese. Passavo poi a salutare nelle varie camere gli ammalati. Erano conversazioni molto varie: dal bambino operato sulla testolina da H. A. Olivecrona, alla signora con sclerosi a placche. Quest’ultima era entrata in clinica: una signora elegante, piena di speranza nella sua guarigione; ho assistito al suo progressivo decadimento fino alla morte. Il celebre dottor Dogliotti con cappello duro si affacciava alla porta e chiedeva semplicemente: “Dormito bene stanotte?” (il suo onorario era diecimila lire). Arrivò anche Teddy Reno con Rita Pavone! Volevano il check up, cioè una revisione generale. Eravamo due hostess che accompagnavano gli ospiti nei vari ambulatori. Toccò a me accogliere la squadra dell’Inter. La simpatia di Mazzola e dei suoi compagni. Al nostro passaggio, nei corridoi, dalle camere sporgevano le teste dei tifosi estasiati alle viste dei loro eroi! E Bedeschi con le sue Centomila gavette di ghiaccio. Ebbi
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la dedica a questo magnifico libro. Il Cardinal Montini comparve un giorno. Con un enorme mantello rosso cremisi. Lo ricordo illuminato da un faretto nella sala importante dove l’attendeva l’omaggio di tutti gli ospiti. La sera qualche volta il dottor Marcello Bernardi veniva dal centro città alla clinica: “Clara vuoi venire a vedere Otto e mezzo di Fellini (o il Gattopardo)?”. E così andavamo a Milano al Teatro Manzoni: nel buio della sala a volte chiudevo gli occhi e mi addormentavo durante questi lunghi films.
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Era una domenica pomeriggio. Ricordo un cielo sereno e nuvole rosa. Ero di turno in clinica, quale hostess, con pochi altri infermieri: mi avvertirono che dovevo ricevere una signora con una bambina, treccine e abito tirolese. Era scesa a Linate. Le andai incontro e mi trovai di fronte a una donna che aveva perso l’altro suo bambino in un burrone, poche ore prima. Lei non gridava, non piangeva, ma parlava… Parlava e fumava una sigaretta via l’altra: anch’io mi unii a quella voce e non ricordo una parola di quanto le dissi. Volevo aiutarla e le nostre voci fuse avevano un suono strano. Nessuna musica, nella mia vita, mi ha dato una simile sensazione di strazio. Restò in clinica 15 giorni: le tolsero le posate… cura del sonno. Quando la rividi mi prese la mano: “Grazie Clara” e, tenendo la bambina che le era rimasta, riprese l’aereo: tornava in Perù a Lima.
Nella salle à manger, moquette rossa, tavoli con abat-jour, mi capitava di incontrare alle 13 un medico italo-americano, appunto il dottor Minieri: interessante personaggio. Conosceva Pirandello e seppi dalla sua viva voce ciò che il commediografo gli aveva confidato: l’amore per la moglie con le sue ‘crisi’. La verità dalle molteplici sfaccettature. Avvicinarsi alla verità senza indugio, soltanto questo contava per Pirandello; gli martellava dentro giorno e notte: capire ciò che la moglie percepiva. Ecco come creò il leit-motiv presente nelle sue commedie così speciali, uniche. E la figura dello scrittore era evocata in modo tanto vivo dalla voce con timbro caldo e profondo di Minieri. Si presentò una ragazza della Milano bene, delle quali sui giornali (precisamente l’Europeo) si trovava scritto: “A Santa Margherita si è notata la presenza ecc. ecc.”. Quando la conobbi era innamorata follemente di un Conte di Belgioioso. Non ricambiata. Questo fatto le era insopportabile e nei momenti di maggior disperazione faceva anche lanci di oggetti. Nei suoi disegni, richiesti dalla psicologa, rappresentava al posto del sesso un ‘cuore’. Ricordo che, con un autista, riuscivo a portarla a Bergamo da Balzer, nella cui pasticceria facevamo acquisti di marron glacés. E poi la visita a sua madre che aveva un atelier di alta moda. La sera il ritorno in clinica alla sua lussuosa mansarda. Il padre, un industriale molto ricco, era separato da sua mamma. Alla base dei comportamenti eccessivi della ragazza immagino che la causa scatenante potesse essere la separazione dei genitori sommata alla sua esuberanza naturale.
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Risultato: questi scompensi fortissimi per cui era indispensabile intervenire con farmaci e colloqui. Il dottor Bonaretti, della clinica Le Quattro Marie, mi disse che avevo una certa attitudine nell’approccio con persone che presentavano problemi di quel genere, pur non avendo mai studiato psicologia o psicanalisi.
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Un piccolo bambino mascotte di tutta la corsia. ‘Chicco’, leucemia ad uno stato avanzato, trasfusioni e qualche lieve miglioramento. Fu deciso di portarlo alcuni giorni al mare. Il suo ritorno in autoambulanza con una sirena forte lo riportò al reparto, dove il piccolo morì. Annichiliti dal dolore il papà e la mamma fissavano immobili il figlio morto. Il pediatra che l’aveva in cura, Marcello Bernardi, scappò via sconvolto dal reparto. Il giorno dopo vidi dalla finestra, nel cortile, quattro cavalli bianchi con pennacchi pure bianchi e, al centro, la piccola bara. Diedi alla madre il mio velo azzurro. Dopo due anni di vita intensa accanto ad un'umanità tanto sofferente ritornai a Brescia da mia madre.
La musica. È stato un lungo cammino nella musica: in casa Togni due anni di ascolti di tutte le opere di Wagner: dal Divieto d’amare al Parsifal. Il padrone di casa Giulio Bruno ci guardava salire dallo scalone e, aprendo la porta a vetri della galleria, ci accoglieva sorridendo con calore e simpatia. Con lui si andava nel salotto decorato: angeli e putti dipinti. Libreria impero importante lungo una parete con tanti libri e quattro poltrone Frau nel centro della sala. Il pianoforte Blüthner a gran coda con sopra foto importanti. Ogni cornice era intonata allo spirito e all’epoca del personaggio ritratto: Brahms, Casella, Cortot, Alban Berg, Michelangeli. In un angolo una grande radio ad Alta Fedeltà. Ascoltavamo Wagner a tutto volume, sul leggio del pianoforte le partiture dell’opera. Con Naide Scandola, vera musicista e mia cara amica, magnifica arpa (per lei Camillo scrisse un pezzo), alla luce di una lampada particolare coperta di una seta verde, voltavamo velocemente le pagine. Eravamo concentrati sulla densità di quelle frasi musicali. Giulio Bruno con affettuosa attenzione preparava per ognuno di noi copia del libretto dell’opera in programma per la serata. Come suo fratello Camillo sosteneva infatti che, per apprezzare appieno l’armonia, si deve ben conoscere lo svolgimento dell’azione descritta nel libretto. Era affascinante osservare come Giulio Bruno conoscesse nota per nota la musica che ci proponeva, poiché da ragazzo la suonava al pianoforte a quattro
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mani con la ‘mitica’ Ada Carati… Ancora adesso ricordo con commozione queste serate importanti per la mia formazione: amicizia nella musica e musica nell’amicizia significavano per me. Fuori dal salotto c’era una galleria dove con Annamaria Togni, argento vivo come me, scivolavo da bambina sul pavimento lucido: d’impeto un giorno ho aperto una porta e ho visto Camillo per la prima volta. Alto, sottile, naturalmente composto, appoggiato con un gomito al tavolo. Sullo sfondo i colori caldi di un drappo cachemir, appoggiato al pianoforte, suo strumento di lavoro. Un giorno Camillo mi mostrò una sua partitura (si trattava di dodecafonia). Mi disse “I pezzi vanno ascoltati più di una volta e poi bisogna operare una selezione sugli strumenti: ad esempio gli archi, poi gli ottoni, oppure i legni. Negli ascolti successivi si aggiungono gli strumenti a percussione a suono determinato: Glockenspiel, celesta, sistro o carillion, xilofono; e a suono indeterminato: timpani accordati su una sola nota”. Ricordo che una sera Camillo portò al centro della sala un vascello, Il vascello fantasma, e lo depose davanti alla finestra fra due tende di raso dorate. Il suo raffinato gusto teatrale ancora una volta ci portò nell’atmosfera dell’opera. E noi, quelli del venerdì, beati e attenti, gustavamo ciò che lui ci porgeva con tanta amicizia in un clima rarefatto e particolare. Dopo due ore di ascolto si alzava la padrona di casa, Paolina, dolce ed elegante e ci accompagnava lungo la galleria. Ammiravamo il suo passo leggero e i suoi bei capelli inanellati. Nella sala da pranzo, sulla fiandra bianca, c’erano risot-
ti bianchi e colorati, rossi, verdi e cibi gustosi, e dolci e caffè. Poi, sollecitati da una campanella, ritornavamo nel nostro caro salotto per ascoltare, beati, il resto dell’opera. Memorabili per la cultura furono le serate – dieci o tredici settimane – dedicate ad ogni insigne autore, nelle opere più significative e nell’esecuzioni storiche più importanti: Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Liszt, l’intera opera di Mahler, Schönberg (da Gurrelieder a Moses und Aron). Palazzo Martinengo Villagana a Brescia, scalinate d'ingresso
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NOTE DA UNA VITA
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IL BARONE Il barone lisciava i rossi capelli di sua madre: essi godevano di questi momenti domestici sulle poltrone dorate della loro casa. Dalle vetrate del grande salone comparve, in lontananza, una nave che si avvicinava alla baia. Subito il barone e il suo amico, lì presente, pensarono di salirci: con un piccolo bagaglio, cappotto con collo bordato di pelo, molto chic. Furono ricevuti da un’affascinante hostess in abito lungo. Divennero amici tutti e tre, pranzavano insieme, risate, brindisi, promesse di rivedersi poi. Il barone faceva regali, gioielli di preferenza: alla hostess donò un originale bracciale a torchon, pesante, di ottimo gusto. Al suo compagno un enorme smeraldo. Ma il barone non può vivere sempre nel passato. In un’altra casa, una dama avanza: alta, un vestito dorato e rosso, gli accarezza la testa con dolcezza. Lui si allontana con lei.
IL MORETTO Così a fuoco l’immagine di quegli anni lontani: l’arrivo a Napoli della nave che porta mio padre e il suo battaglione. Tornano dalla guerra d’Africa. Ho visto, dall’alto della tribuna, la Messa, l’altare da campo, i soldati allineati in forma geometrica. E la voce che diceva: “Lasciate stare Ferdinando: ha Gesù
nel cuore!” e io, piccola, che guardavo il mio papà con i suoi soldati. Poi la memoria mi riporta nella casa di mia zia, forse al quinto piano con la terrazza grande dalla quale si vedeva il mare. Dietro i vetri c’era la nonna con le treccine bianche intorno al viso illuminato da quegli occhi azzurri che mi fissavano ancora, zia Lina stava sempre seduta vicina a sua madre costretta su una pesante sedia a rotelle. Nella sala, in un angolo, vedo una piccola statua: un moretto, di quelli che in genere si mettevano ai piedi di uno scalone. Bello quel moretto, un turbante colorato gli avvolgeva la testa e sul piccolo corpo drappeggiata una fascia gialla e una rossa quasi in movimento di danza. Un pomeriggio, la sala vuota. E io trovo gli arnesi che mia zia usava per dipingere. Afferro i tubetti dei colori e li spalmo tutti sul povero moretto. Mi nascondo in un angolo… sento ancora l’eco della voce della zia che mi chiama. Fui afferrata per un braccio e rinchiusa in un solaio chiamato “soppegno” per ore. La stessa zia passeggiava con me un giorno per strada. Vediamo un manichino nel centro di una bella vetrina. Una bambina con vestito plissettato, scarpette, borsa e cappellino. “Che bello!”, dico io. Lei entra e compera tutto, svuotando il manichino. In via Caracciolo c’era una profumeria con la commessa “milanese”. Entravo saltellando, lei mi correva incontro e diceva: ”El saunin per la tuseta…”, mentre fuori nella strada si udiva la voce cantilenante di un venditore:”A cucuzziella, a cucuzzì…”.
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PALINURO Sembra che Palinuro sia venuto dal mare, e, stremato dalla lunga nuotata, si sia addormentato sulla fine sabbia dorata di questa piccola spiaggia. E la chiamano “spiaggia del buon dormire”… Duecentocinquanta gradini giù e duecentocinquanta gradini in su, per guadagnare il meritato riposo. Poi la passeggiata verso la chiesetta del paese. Quante statue e tanti piccoli santi. Li guardo attentamente: riconosco le fisionomie già viste. Ma certo!!... sono il fabbro, il macellaio del paese da una parte e, dall’altra la donna che tesseva sulla porta di casa… Adesso capisco perché mi sono tanto divertita a pregare quei… santi. 74 ALLA PRIGIONE Ho trovato il cancello poco aperto. Suono ugualmente ed entro. Rito del deposito delle mie cose (entro solo con occhiali e fazzoletti, alcuni dischi e materiale per le ragazze). Prima guardiola: esce uno strano tipo, con un libro in mano, dicendo “sangue, sangue” a voce alta. Cerco di capire e lui spiega: il corpo umano di un uomo contiene cinque litri di sangue; se l’uomo ne perde più di due vi è pericolo per la sua vita. Il guardiano mi ha parlato per qualche minuto di quest’argomento letto casualmente sul libro di medicina, poi mi apre perché io possa andare oltre. Un lungo corridoio, altro guardiano e, seduti, come una rosa di quattro car-
cerieri (fa tanto caldo) mi chiedono: ”Lei sa la strada?”. Si, e salgo da una scaletta al primo piano. Altra guardiola con un agente che fuma. Mi siedo per aspettare il mio turno che inizia alle due (sono le due meno dieci) e aspetto. Dal fondo del largo corridoio con le celle ai lati, vedo un’ombra che mi saluta. Rispondo. Poi entro e vado nella stanza dove si vanno sistemando le otto detenute e io, dopo aver messo sul piattello un disco di un compositore russo (i miei amati russi!) le guardo tracciare sui fogli dei loro quaderni segni colorati. Oggi avevo pensato di spiegare loro cos’è un tema musicale. Non andava. Rifiutavano, ma dalle forme a colori, tracciate sui fogli, mi stavano dimostrando di aver già capito quello che avrei voluto spiegare. Dal corridoio una voce tonante: è un'agente donna con una cintura alla quale sono appese tante chiavi. Dice che la musica le impedisce di sentire il citofono della portineria. Allora chiudiamo la porta dell’aula, ma, dalle finestre con le sbarre, entrava troppa poca aria. Proseguo… finisco il disco, mi guardano. Occhi colorati, come i loro disegni, che mi fissano interrogativi. Allora, devo fare qualcosa d’altro. Metto una piccola cassetta con un’intervista (domande rivoltemi sul mio libro). Le detenute dimostrano interesse. Forse, il fatto che io porgessi loro una parte della mia vita, attraverso il mio libro, le avvicinava un poco. Momenti intensi. Arrivo, alla fine, nell’ingresso. Raccatto i miei oggetti per-
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sonali: attraverso il cortile, ma questa volta il cancello è chiuso. Lentamente, molto lentamente si apre. E io esco.
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DALLA RUSSIA, CON AMORE Ho portato dalla città sei libri di musica. Tante pagine da riordinare e rappezzare. Mi è stato dato un po’ di scotch per l’uso. La signora russa che aiuta mia nipote nelle faccende di casa, esce dalla cucina e mi raggiunge al tavolo. Mi toglie delicatamente i libri di mano e, con un piccolissimo arnese, spennella di colla il bordo dei fogli, con abilità da rilegatore. Dice che l’ha visto fare da suo padre, in Russia, quando rabberciava vecchi manuali, ereditati da non so chi. Ogni tanto alzava la testa e cantava motivi del suo paese, muovendo le mani e le braccia con strani bagliori negli occhi. Chiedo come si dice “buongiorno e per favore” in russo e lei risponde “ dobreiden e pagialuista”. Questa è la pronuncia, il suono delle parole: i caratteri (cirillici) della sua lingua non li conosco… Interrompo. Vado a bere un bicchiere d’acqua e, quando torno, trovo un mucchietto di foto al mio posto. Un gruppo di famiglia, la sua, dove spiccano in primo piano due ragazze: una dai polpacci tondi tondi è “l’infermiera”, mi spiega lei, e l’altra, con un viso ovale e triste, “l’universitaria”. Tra queste un bambino, ritto, con le gambe larghe. Ha dodici anni: come il secondo bambino di mia nipote. Il marito, militare con baffetti, in pensione, sta là a co-
struire una strana casa bassa bassa e lunga: tanti cubi, l’uno vicino all’altro, prima che la moglie ritorni nella città vicina a Kiev, con la famiglia riunita. Intanto lei continua il suo lavoro. La sera, al tramonto, porta un vassoio con la mia cena e lo depone sul tavolo. In riva al lago così liscio e lucente.
IL MIO PAESE Non posso fermare i ricordi: rotolano nella mia immaginazione veloci e divertenti: sul cancello vedo le donne che portano cesti di pesche, fichi, uva e uova. Fuori il cancello c’è una panchina, detta “panca dell’ospitalità”: chi passa ed è stanco si riposa e gli vien dato un piatto di minestra. Le donne appoggiavano là i loro cesti e con la bicicletta (di quelle con il peso) davano un prezzo alle loro cose. La strada era tranquilla allora: vedevo passare in bicicletta il piccolo uomo chiamato “el teribol” il terribile!!... Era un lustrone, così lo chiamava la mia mamma, bravissimo, e spesso lo vedevo in casa che aggiustava le griglie e lustrava i cassettoni. Più in là, verso il paese, in riva al lago c’era una casa con un piccolo giardino e un cancelletto. All’interno, nel salotto buono, stava la vecchia madre con velluto nero che conversava con la figlia che aveva due file di perle come la regina Margherita. Fuori, la più giovane delle tre, Carla, che parlava un francese con la “erre” ben ben arrotondata, apre il cancelletto
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sul lago e chiama un barcaiolo che passa con le reti piene: “Berto, portami il coregone”. Finalmente la Chiesa, grande, quasi un piccolo Duomo dalle pareti ornate di fregi. Al centro, una bellissima Assunzione: entrando dal fondo e avvicinandosi all’altare si aveva la sensazione che si sollevasse al cielo, un po’ come la Madonna dei Frari a Venezia; l’organo, con buon ripieno per le feste importanti, riempiva di suoni il luogo Santo…
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GIUSEPPE VERDI Sul pianoforte c’è tra gli altri, un ritratto di Giuseppe Verdi con dedica autografa: “a Virginia Guerrini molto brava Meg”, datata Milano 1893, evidentemente subito dopo la prima Falstaff. Era spesso in casa nostra, la cara Virginia Guerrini, molto amica di mia madre. Fu la prima maestra di pianoforte: la rivedo, una bella signora dall’ampio decolletè, con velluto nero al collo, sempre sorridente, mentre prende il tè con la mamma. A volte mi diceva: “Vieni al pianoforte, Clara”. Allora metteva le mani sulla tastiera e suonava alcuni tasti, verso l’alto e verso il basso: arpeggi si chiamano (lo seppi più tardi). Poi nominava la rosa: “Inspira, inspira dal naso come se tu odorassi una rosa. Poi, come se un cucchiaio ti schiacciasse il ventre, fa uscire l’aria, la nota, le note, le parole.”. Mario, mio fratello, faceva il giovane tenore e la romanza che cantavamo insieme era di Tosti: “Vagava, vagava, la gondola nera, sul mare silente
Un ricordo autografato di Giuseppe Verdi dedicato a Clara
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leggera, leggera, leggiadro era il damo la cara donzella Pareva un bel fior…”. Virginia aveva regalato a mia madre il suo costume di Carmen (già Carmen, un mezzosoprano, come la Meg di Falstaff…): scialle, ventaglio di piume e stecche di tartaruga, poi un bel servizio pompeiano, e un ritratto di Saint Saëns (che avesse cantato anche Dalila?). Trascorsero tanti giorni. Una sera io, con l’argento vivo addosso, giocavo con altri bambini nel teatrino di casa nostra, nel palazzo di Corso Carlo Alberto, al buio: si aprì la porta, una sciabolata di luce, mia madre con voce spenta mi disse: “Clara, è morta la Guerrini”. E così si chiuse una pagina della mia vita.
ALBERTAZZI Accadde molti anni fa nella casa di mio nonno, al primo piano. Si apre la porta a vetri sul piccolo scalone. Mia madre saluta: Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer, Lucio Ardenzi, Bianca Toccafondi (manca Sanipoli). Entrano, si siedono, Albertazzi si mette al centro della sala, ricoperta da un grande tappeto aubusson e tiene banco fino alle tre di notte. Ricordo Anna Proclemer: tailleur nero con baschine e, soprattutto un profumo intenso: donna affascinante e dotata di glamour. La Toccafondi: visino irregolare seduta su un divano blu. Raccontano: “La figlia di Iorio. Lui libera la mente per
lasciar vivere il personaggio in LUI. Non arriva la battuta che gli altri attendevano… Poi la scena si anima. Ecco da dove arriva la prodigiosa memoria di Albertazzi (un po’ come facevamo noi, in piccolo, con la nostra telescrittura). Dice Albertazzi: ”Per essere una città di provincia siete avanti ”. Fu interessante quella serata… Poi tornarono all’Hotel Vittoria: il giorno dopo si rappresentava al Grande “Un cappello pieno di pioggia”. Un anno dopo rincontrai Albertazzi. Su una sua fotografia mi scrisse: “A Clara che c’era quella sera”. 81 IL SEGNO DIVENTA REALTA’ “Nel penultimo anno di liceo ho realizzato il dispositivo per rendere allacciabile alla rete telefonica qualsiasi ricetrasmittitore, rendendolo così una prolunga via radio del cordone telefonico, sia per chiamate numeriche col disco combinatore, sia per chiamate provenienti dalla linea telefonica. Molti anni dopo, l’identica apparecchiatura l’ho portata come tesi di laurea in ingegneria elettrotecnica. Il relatore, professor Tiberio inventore del radar, la utilizzò per scambiare telefonate mentre passeggiava all’esterno delle mura universitarie. Mi era sembrato profondamente commosso’’ F.T.
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TERRAZZA A PORTOFINO
C’era un mare azzurro dietro quegli occhi… Sulla terrazza di Portofino a tavola, per la prima colazione, con mia mamma e mio fratello Mario vidi stagliarsi di fronte a me la figura di Liz Taylor. Mi stregarono quegli occhi viola: incredibili… non li ho più dimenticati.
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OGGI HO SUONATO UN ADAGIO DI BACH E HO PENSATO A MIA MAMMA Lontano è il brusio della valle sulla scena vuota. Ho visto allineate piccole croci bianche nel groviglio di nubi sullo sfondo chiaro del cielo.
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La grande voce di Gesù pesante e carica di umanità indica alla madre dolente Giovanni. Soffro per cose che non mi appartengono. Io non sono madre né moglie e forse nemmeno figlia solo un pretesto per vincere le avversità della tua vita così dolorosa. Ma io ho uno spirito libero che vaga nell’aria in cerca di pace. Qualcosa di bianco c’è
oltre la neve. Riaffiorano i ricordi. Strade lastricate di case buie e lucide. Lontano, in fondo il lungo silenzio... Là brilla la vera luce.
1950 LA CROISETTE
Quattro ragazze curiose davanti a una siepe di bosso aprono un piccolo varco sulla terrazza del Carlton. La piĂš piccola sopra le altre tre sotto a scala. Solo un flash: a sinistra AlĂŹ Khan e Rita Hayworth donna affascinante i capelli rossi al vento a destra i Duchi di Windsor Lui scarpe bianche e gialle vestito a quadri chiari
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Lei ferma, immobile scriminatura in centro e abito turchese. La piccola occhi sgranati portata a terra dalle mani forti delle guardie corre
verso la hall Retta giornaliera: 10.000 lire.
JEAN PAUL LE PAVRE
E i doccioni rosa di Notre Dame all’ultimo sole: di fronte la musica sotto l’albero più annoso di Parigi.
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Con un amico ascolto il suono: arriva da lontano si ha la sensazione di conoscerlo già. Alla fine andiamo in una sacrestia. Nel mio francese approssimativo dico al direttore: Io ho studiato con Arturo Benedetti Michelangeli. Mi guarda e con voce forte dice: “Le plus grand pianiste du monde”
OGGI
Piccolo plastico impazzito nella volta celeste e noi sparsi qua e là in ascolto di ciò che viene. in cerca di suoni, profumi, colori cari a noi piccoli uomini soli. 87
IL RITO E LA PAROLA
Alla balaustra canta quasi angelo di Michelozzo da Forlì (o Michelangelo) la voce rotonda, piedi aperti. Alla fine un’altra voce bassa che diminuisce, quasi musica.
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Nozze di Canaa: la Madonna, Gesù. I servi dicono “non c’è più vino” la gente a tavola che aspetta Il frate li vive come figure umane. Anche Mozart nelle frasi musicali fa intravvedere i personaggi. Proprio come nel rito di oggi. Così la parabola è finita.
BIANCA SALA OPERATORIA
Due piccole aquile quattro occhi e una mascherina. Mi mettono alcune piastre sopra e sotto il corpo; un po’ giocano… Guardo con stupore e una strana dolcezza. La voce dell’aquila più giovane sibila: “Mi darebbe lezione di pianoforte?”
Anche io ho una voce che esce: ”Certo, mi farà piacere”
E da allora suoniamo insieme.
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BUDDA IL SUO DIO
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Un ragazzo mi aiuta per l’ordine in casa. Mi parla di Budda: il suo Dio. Ogni giorno mette una candela e prega. Gli chiedo: dimmi la tua preghiera E lui con il berretto in mano muove le labbra e la recita. Sommessamente. Mi è sembrato di capirlo di più… Si è fatto tardi, è buio. Lui apre la porta e se ne va.
LA SERA E SAN FRANCESCO
Gli ultimi raggi brillavano nei piccoli vetri iridescenti mentre nel buio il rosone pieno di luce pareva ruotare veloce. I giorni le ore i minuti del nostro tempo: vita di uomini soli. Il tondo sacro si eleva buca le nubi e sale ancora‌ le ombre dei cipressi graffiano il cielo cosÏ azzurro e poi pallido e infine spento.
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BOCIA
Si va dall’avvocato. Clara deve avere‌ Voce da amico e cosÏ nella vita. Sulla sedia a rotelle ora. Due donne per sollevarlo e lavarlo ogni giorno. 92
Ho visto lei nel magazzino pieno di gente. Mi guardava con occhi tristi.
DUE AMICI
L’ascensore: interno verde oro con specchi. Si apre su una stanza: libri dappertutto un grande poster colorato con l’amico a cavallo di un leone. A destra la scaletta porta al soppalco: la ringhierina lo costeggia. Sento un pulsare cosmopolita... Cari amici. 93
ANGIOLINO
Quando suonava al Da Cemmo, la mamma ed io in prima fila, lui ci guardava. Poi una rapsodia di Brahms. Eravamo alla stessa ora nello stesso posto. Solo un’occhiata, io nei suoi occhi neri lui nei miei occhi chiari. 94
Camminavamo in via Santa Chiara: un’osteria, un grande specchio pane salame un bicchiere di vino. Insieme. L’erba era profumata. Contavamo le stelle sul prato. Insieme. E’ morto. Lo spartito sulla bara la luce al tramonto. Allineo le parole, nei miei scritti, sincere. L’amore che era vero se ne è andato.
Dentro me si lacerano presente e passato. Le ore camminano inesorabili. Prego. Il rosario mi scivola dalle dita.
CESTO COLORATO
Mi vedi nel colore dei frutti nel calore che non è del sole. Cercami altrove: nel dolore degli altri.
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TU ED IO
I tuoi occhi non hanno colore. Dicono cose, la bocca altre. Non pensieri, solo fiati. E’ amore? Scacchiera di vita.
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PIERA
Lei avanza: berretto sulla destra quadrettini vicini colorati brillano nel passo. PiÚ tardi teatro pieno attenta alle armonie nuove di Debussy. Sulla scalinata del teatro il suo dolce sorriso... sui miei nipoti. Se ne è andata nel fluttuare di una tenda fatta di velo nel chiarore della sua finestra.
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