Danilo Allegri

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Danilo Allegri 1911-1989 fotografo e pittore

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Ire - Omba spa Bergamo

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Danilo Allegri 1911-1989 fotografo e pittore a cura di Paolo Allegri

Brescia, Museo di Santa Giulia 11 novembre - 4 dicembre 2011

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A Micaela sua figlia mia sorella In memoriam

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Non credo si possa dubitare che Danilo Allegri sia stato uno dei più illustri fotografi della nostra città; del resto non sono mancati coloro che l’hanno posto senza riserve accanto ai maggiori maestri del Novecento, quali Weston, CartierBresson, Newton. La qualità della sua arte è tale da far apparire ogni fotografia un unicum per così dire definitivo. Ma Danilo Allegri è stato anche un pittore ragguardevole, ed è certamente un merito del curatore della mostra e del volume che l’accompagna l’aver voluto proporre una selezione dei dipinti più significativi di una produzione di cui purtroppo molto è andato perduto. Se la fotografia, specie nei ritratti, colpisce per l’estrema raffinatezza e una sorta di solidità architettonica, la pittura, invece, manifesta come una vena leggera e talora surreale. Ma Danilo Allegri ha anche fotografato come nessun altro la sua città, rivelandoci bellezze neglette. Io confido che il centenario della nascita, ben al di là del doveroso omaggio, costituisca l’occasione per una riflessione critica che illumini l’opera complessiva di un uomo che intese essere soprattutto artista.

Andrea Arcai

Assessore alla Cultura del Comune di Brescia

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Sommario

9 La figura o il modello che lo sguardo costruisce. Dialogo su “Danilo Allegri fotografo e pittore” Paolo Allegri Giovanna Gallio 17 “Poeta (assente) per amore” Enrico De Pascale 21 Album degli anni Trenta e Quaranta 41 Cinque dipinti e due disegni 1940-1945 51 Roma 1950-1951 63 Brasile 1952-1955 75 Fotografie degli anni Quaranta e Cinquanta 95 Immagini di Brescia 147 Conversazione con Danilo Allegri (1983) Attilio Mazza 153 Danilo Allegri 156 Bibliografia 159 Indice

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La figura o il modello della cosa che lo sguardo costruisce Dialogo su “Danilo Allegri fotografo e pittore” Paolo Allegri Giovanna Gallio

Le cose ci guardano. Il mondo visibile è un perpetuo eccitante: tutto risveglia o nutre l’istinto d’appropriarsi la figura o il modello della cosa che lo sguardo costruisce. Paul Valery

1. Giovanna Gallio. La mostra che, nel centenario della nascita, hai deciso di curare sull’opera di tuo padre, porta alla luce un archivio di immagini pregiate, un libro di figure laboriose e rare, la cui unicità si presta ora ad essere interrogata. Da dove prende le mosse il titolo “pittore e fotografo”, e come dobbiamo interpretarlo? Paolo Allegri. Il titolo ha una valenza eminentemente descrittiva: vi si vuole affermare che Danilo Allegri non è soltanto fotografo, ma anche pittore; inoltre che, quale fotografo, non è condizionato né dalla tradizione della pittura, né dalla propria pratica pittorica. Insostenibile (ancorché qualcuno l’abbia inopinatamente azzardato) è, del resto, l’idea che la sua pittura tradisca l’originaria e più autentica vocazione per la fotografia. Io credo invece che si tratti di due interessi di pari tenore, coltivati in parallelo nel quadro di un'esistenza sempre vissuta en artist. Certo, spesso la fotografia presenta una rifinitura, un’eleganza che evocano, specie nei ritratti, il modello della pittura. Ma quel che potrebbe sembrare nostalgia per determinati stili pittorici, è in realtà confronto competitivo o citazione, talora sottilmente ironica. Fotografo e pittore, dunque; e non fotografo pittore, o pittore fotografo, lasciando alla e il compito di

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far oscillare le due pratiche artistiche nel campo di tensione in cui le si può cogliere, essendo questo l’oggetto d’indagine che l’archivio porta alla luce. G.G. Quando affermi che le due arti scorrono in parallelo nell’esperienza di tuo padre, cosa intendi dire? P.A. Era solito asserire che la fotografia non è vera arte, laddove era implicita tanto una concezione gerarchica delle arti, quanto l’indiscutibile primato della pittura almeno tra quelle figurative. In effetti, all’epoca della sua giovinezza, la fotografia non vantava ancora una tradizione che potesse fornire dei modelli di riferimento assoluto. Per di più (e soprattutto) doveva apparirgli come un inquietante limite del mezzo fotografico proprio ciò che lo imponeva come moderno, vale a dire il potere di riprodurre fedelmente la realtà. A parte queste mie fondate congetture, sono certo che mio padre ritenesse ovvio assegnare alla pittura un ruolo fondamentale in quella che si potrebbe chiamare educazione estetica: una specie di latino. Senonché a partire dal ´40, fotografare e dipingere finiscono per intrecciarsi quali momenti diversi ma assolutamente solidali di un’esperienza artistica complessa che, se pare svolgersi risolutamente in proprio, non per questo risulta impermeabile alle sollecitazioni dell’arte contemporanea. Aveva predilezioni decise, e non meno decise preclusioni. Amava fanaticamente Giotto e i senesi e tutta la schiera di quelli che allora erano detti primitivi. E i neoprimitivi novecenteschi. Non capiva, né amava invece i manieristi e Caravaggio. Quanto ai fotografi, io non ricordo ne abbia citato uno solo.


G.G. In un’intervista del 1983, sei anni prima della morte, tuo padre annuncia come imminente una mostra antologica dei suoi lavori. Ti sembra di aver realizzato il suo desiderio? P.A. Spero di sì, essendomi attenuto a criteri che, suppongo, lui stesso avrebbe adottato, anche se la mostra esclude, perché perdute o da me non reperite, opere che erano forse ancora disponibili vent’anni fa. Il catalogo ospita, in compenso, oltre alle prove migliori degli anni Quaranta e Cinquanta, una campionatura dei lavori che appartengono alla produzione più tarda: una sorta di parerga di elevata professionalità ma affievolita motivazione. Ritengo per altro preziosa l’esposizione di due disegni, eseguiti nel ´44, sopravvissuti a una serie di venticinque che fu esposta nella prima personale del 1946. D’altra parte, non si sono posti dilemmi nella scelta, poiché quello che resta – se si eccettuano alcuni dipinti brasiliani che mi paiono minori e le fotografie domestiche, che ho giudicato non opportuno accogliere nella selezione – non è molto di più di quel che sarà visibile nello spazio di Santa Giulia. Intorno agli anni Cinquanta mio padre ha distrutto, non senza clamore, gran parte dei dipinti realizzati nei due decenni precedenti, accreditando (e quasi infliggendosi con tale eccesso iconoclastico) una reputazione di artista stravagante e provocatorio che l’avrebbe accompagnato anche in seguito, e, presumo, un poco lo lusingasse. Al 1963 risale l’ultima mostra di pittura. L’anno prima, era morto il padre. Qualche anno più tardi ha luogo una secessione nella famiglia: un fratello fotografo lascia lo studio centenario e se ne va per la sua strada. Da quel momento sarà la routine del lavoro ordinario di bottega, sporadicamente interrotta e rivitalizzata dalle iniziative editoriali, ma purtroppo anche il tempo doloroso della malattia. Dopo il fortunato Brescia (Italia), la cui prima edizione risale al 1961 e l’ultima al 1968, vengono stampati due volumi: il davvero magnifico Di mille fontane a Brescia, nel 1974, e il meno convincente Un castello di neve, nel 1980. In quel periodo realizza anche dei calendari dedicati ai maggiori monumenti della città alla quale, senza amarla, rese reiterati omaggi. I più riusciti, di cui la mostra reca parziale testimonianza, sono quelli

del Duomo vecchio (1975) e del Monastero di san Salvatore (1979). 2. G.G. Parliamo allora delle fotografie. Guardandole per la prima volta i giorni scorsi sono stata afferrata dal meraviglioso, ma non era stupore. Era una sensazione di assoluta quiete, come se ciascuna immagine si facesse trovare mirabilmente ferma e compiuta nel posto in cui era stata colta. Il fascino delle figure o dei luoghi ritratti non è esibito con intenzioni seduttive, e questo mi sembra degno di nota: negli anni in cui tutto entra nel ciclo vorticoso della vendita, tuo padre nelle sue immagini non si vende, non vuole vendere niente. Perfino nei ritratti, dove non si sfugge all’artificio della messa in posa, non trovo nulla che mi disturbi in ordine al fatto che l’immagine possa rinviare a un’altra realtà, alluda a qualcos’altro di simulato o retoricamente nascosto. Le immagini si trasmettono in maniera diretta, nella padronanza della mano che le ha realizzate, tanto che – di fronte alla constatazione che tutti hanno dei maestri o si misurano con qualcuno nell’esercizio della loro arte – uno sente quasi di formulare una domanda impropria quando si chiede “da dove viene la sovranità di questa mano, quali sono i maestri?” È vero che tuo padre non è mai stato un dilettante; giocando fin da bambino accanto alla camera oscura si è impossessato precocemente dei suoi segreti e delle sue alchimie. La prima cosa a cui si pensa è proprio questa, la continuità della storia familiare, quel laboratorio che era la base stessa del mestiere: un’arte tramandata da generazioni, un’identità che agli inizi deve avergli dato grande sicurezza, alimentando forse anche una sorta di mito fondativo o autopoietico. Ma i risultati che Danilo Allegri ottiene con la fotografia si possono spiegare solo immaginando un esercizio spietato di autoriduzione, quasi un’ascesi nel risparmio di forma. Non solo una mente educata alla precisione e al rigore della forma, ma anche l’autodisciplina necessaria a selezionare delle immagini uniche. Per questo diventa più che mai importante interrogare il rapporto che tuo padre stabilisce tra fotografia e pittura. Da un lato, deve aver imparato molto presto a trasportare dall’una all’altra le domande che erano alla base della sua ricerca, compensando

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e mettendo alla prova – nella lentezza del disegno, nella libertà del dipinto – i tempi frettolosi e compulsivi della fotografia, le costrizioni dell’occhio della macchina. Dall’altro, come dicevi tu, nel periodo della sua formazione era tutt’altro che superato il complesso d’inferiorità della fotografia nei confronti della pittura. A questo proposito vale la pena evocare alcune date. Nel 1911, quando Danilo Allegri nasce e in Italia si pubblica il primo manifesto sul fotodinamismo futurista, sono trascorsi solo cinquant’anni da quel famoso Salon del 1859 in cui Baudelaire si era scagliato contro la nascente industria fotografica, “rifugio di tutti i pittori falliti, incapaci o troppo pigri per completare i loro studi”. E aveva vent’anni quando, nel 1931, Walter Benjamin getta le basi di una nuova teoria dell’immagine e delle arti figurative nella società di massa, scrivendo – fra altri saggi – la Piccola storia della fotografia. Benjamin riconosce l’originalità della tecnica fotografica, non solo come ibridazione di arti e linguaggi, ma in quanto capace di svelare il cosiddetto “inconscio ottico”. In poche parole, lui diceva che lo spazio elaborato consapevolmente dall’uomo è diverso da quello colto dalla macchina fotografica, la quale perciò svela – anche all’insaputa del fotografo – l’esistenza di un altro spazio “elaborato inconsciamente”. Le affermazioni di Benjamin non erano del tutto nuove: già nel 1906 Paul Valery, nei suoi scritti su Degas aveva elogiato la capacità della fotografia di rendere manifeste le “falsificazioni incoscienti” dell’occhio e la sua inventività, dato che la nostra percezione rettifica e corregge, deforma o nasconde ciò che l’occhio vuole o non vuole vedere. Tutte queste osservazioni portavano ad affermare l’importanza decisiva del rapporto che il fotografo intrattiene con la sua tecnica, su cui non può vantare una padronanza assoluta. Trascinato nel movimento di ciò che ritrae, nell’impeto dello scatto nemmeno lui può sapere cos’ha visto finché non lo scopre. P.A. Il rilievo di Benjamin sull’inconscio ottico lo trovo pertinente in relazione a tanta fotografia anche odierna, ma temo che a stento si attagli a quella di mio padre, dove emerge al contrario un tratto di iperconsapevolezza che non ti sarà certo sfuggito. Non dubito che l’inconscio dell’occhio operi nella

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cosiddetta “istantanea”, in cui l’obbiettivo cattura la realtà prima ancora che il soggetto possa fissarla con lo sguardo oppure – agli albori della fotografia – quando la necessità di lunghissime pose faceva sì che l’immagine riproducesse una realtà, per così dire, già divenuta altra. Qui la fermezza, che tu coglievi, è puntualmente congiunta con la sicurezza dell’inquadratura o del taglio. Per tacere della scelta oculatamente variata della carta e la cura prodigiosa della stampa. Tutto ciò rivela, mi pare, un’intenzionalità lucidissima. A tale proposito vorrei ricordare la tesi sviluppata da Roland Barthes in La Camera chiara, secondo la quale qualunque cosa dia a vedere, la foto è sempre invisibile, in quanto “emanazione del referente”. Da cui la superiore importanza del punctum: ciò che in certe fotografie “mi punge (ferisce) ghermisce”, mi fa sobbalzare. Poi vi sarebbe l’elemento dello studium, l’insieme dei segni che attestano la volontà espressiva dell’autore, e che potrà eventualmente intendere chi s’interessi alla fotografia in quanto tale, più che a ciò che l’immagine raffigura. Ma lo studium è anche, secondo me, la laboriosa manipolazione del negativo nel teatro della camera oscura. è del tutto evidente che nella fotografia di Danilo Allegri prevale di gran lunga lo studium. G.G. Puoi precisare, anche con esempi, questo concetto? P.A. Avrai notato che quasi tutte le fotografie sono scure; alcune, anzi, scurissime, e sempre modesto è il contrasto, tanto che sia il bianco che il nero estremi non hanno cittadinanza in una scala che privilegia l’infinita varietà dei grigi, come in osservanza di una poetica fondata sul quel che in musica sarebbe detto cromatismo. Interessano le nuances, i minimi scarti tonali. È in generale una fotografia decisamente antirealistica, in cui talvolta sembrano imporsi addirittura dei “partiti presi” estetici. E c’è infine il ritocco, che ripulisce e raffina, senza abbellire o correggere nei modi aberranti resi oggi possibili dalla tecnologia digitale. Questo ritocco è molto visibile nel primo ritratto di Desdemona, in cui, oltre al rimando esplicito alla pittura settecentesca, a me pare di cogliere, in maniera irresistibile, la perfetta corrispondenza del volto di Suzanne Cloutier con un volto che non ho mai visto, e nemmeno Shakespeare può avere mai


visto: quello, appunto, della figlia del nobile Brabanzio. G.G. È strano, perché io guardando quella fotografia non ho pensato alla pittura, bensì alla bambola di Hoffmann nel racconto L’uomo della sabbia, uno dei massimi esempi, secondo Freud, dell’unheimlich: il perturbante, il ritorno del rimosso o più semplicemente, come diceva Schelling, “tutto ciò che potrebbe restare segreto, nascosto, e che invece è affiorato”. Trattandosi di un’interpretazione di Desdemona considero la fotografia un capolavoro. P.A. Sì, sono molte le suggestioni cui invitano queste immagini, anche letterarie, e mi fa piacere che la tua immaginazione vada in una direzione diversa dalla mia. C’è un altro magnifico ritratto di donna, di cui conservo una piccola copia sbiadita, che attinge esplicitamente ai modi della più illustre tradizione quattrocentesca di Pisanello e di Pollaiolo.

Senza titolo [ Ritratto di donna]

E questo mi spinge a stabilire un accostamento tra questa forma di competizione con la pittura, che mio padre ha cercato in alcuni momenti, e la sfi-

da che Henry Fantin-Latour, un pittore francese fin de siècle (molto famoso anche per alcuni dipinti che ritraggono uomini in posa come in una foto di gruppo) ha portato alla neonata fotografia. FantinLatour, in una fase della sua produzione, dipinge fiori con un realismo che addirittura supera la costitutiva capacità della fotografia di restituire la grana della realtà, anche grazie al colore. In certe opere di mio padre prende corpo l’operazione inversa, che consiste nel mostrare come la fotografia possa competere con successo con la pittura, essendo in questo caso il bianco e nero il punto di forza. D’altra parte la sua fotografia lungi dall’arroccarsi in un genere favorito, esplora diverse possibilità, inclusa la fotografia (pseudo) astratta realizzata senza macchina, in camera oscura. 3. G.G. Nei ritratti Danilo Allegri eccelle, avendo anche conquistato nel periodo romano la fama di “fotografo delle dive”. Se ne ha la riprova in un bigliettino scritto nell’ottobre del 1948 da Silvana Mangano, che lo ringraziava come “primo artefice” del suo successo. Ma non è il personaggio della diva a colpirmi, bensì il femminile che sembra rappresentare una sorta di baluardo della realtà, così ho pensato: una bellezza che viene ricercata e quasi imposta come un dato di fatto, un’evidenza insormontabile. Nella postura che assumono, nel busto ma più spesso solo nel volto, queste donne rivolgono domande imperiose, si offrono a un desiderio che la fotografia è autorizzata a ritrarre in opposizione e contro il linguaggio parlato, che potrebbe sminuirne la forza, l’intensità. La bellezza di per sé è fragile, ma queste foto non raccontano la fragilità del femminile; suggeriscono invece uno strano parallelismo: così come la donna deve imparare a cogliere al momento giusto la propria bellezza, come un frutto che matura una volta sola, anche il fotografo la coglie con mano sicura in alcuni prototipi che l’immaginazione potrà rilanciare in un movimento all’infinito. Per questo forse l’idea di quantità o serie non si addice a tuo padre, al quale bastano poche immagini per realizzare compiutamente un’idea. Dopo averla realizzata non ha più bisogno di ripeterla. P.A. C’è una fotografia, intitolata Giorni, che non

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mi sembra proponga quella che tu così felicemente chiami bellezza invulnerabile del femminile. Mostra una donna seduta da sola a un tavolo di osteria, che resta imbandito dopo pranzo. È una foto abbastanza antica, risale agli anni Trenta; potrebbe essere stata scattata su una terrazza affacciata sul lago di Garda. Lo sguardo è come rivolto altrove. La carta è ocra, l’immagine flou. Ebbene io trovo che questa fotografia ci parli del tempo, del tempo che scorre, tempo lento e di noia: è una fotografia narrativa. G.G. È vero, hai fatto bene a ricordarmela. Quando l’ho vista ho subito pensato a certi dipinti di Segantini, vi ho trovato insomma dei riferimenti pittorici, a differenza delle foto di epoche successive dove il richiamo più immediato per me è letterario o cinematografico. Se copri le gambe nude della donna con una veste lunga, o sostituisci con altre calzature i sandali con la zeppa, evocativi del tempo di guerra, ottieni con facilità un’immagine tardo-ottecentesca, un femminile interamente assorbito nel proprio tempo fisico e mentale. Per esprimere questa dimensione fluttuante e sospesa del tempo userei il termine rêverie. La donna sta guardando qualcosa che le accade intorno, ma non è curiosa: il tempo storico non la riguarda, lei è altrove, fuori dalla storia. P.A. Sono completamente d’accordo. G.G. La storia però è importante, ed è uno dei tanti aspetti da indagare in questa raccolta. Ad esempio, sono stata colpita da un’altra fotografia con intenti narrativi, intitolata Dal diario del dottor P., medico dei pazzi. Reparto femminile. Ignorando il titolo non ho affatto pensato, all' inizio, che fosse un manicomio, mi sembrava l’angolo di un villaggio sperduto nei Balcani, in Grecia o in Albania. L’accostamento geniale, anche se forse involontario, che si stabilisce in questa foto è tra psichiatria e colonialismo. Il manicomio si lascia cioè pensare come un villaggio di stranieri in patria, colonizzati nell’istituzione che li ingloba come se fossero una razza a parte. Gli studi che anch’io ho condotto sulla psichiatria tra la fine dell’Ottotento e i primi del Novecento, mettono in luce i nessi stringenti con il colonialismo, quando la scienza dei pazzi si trasforma in un’antropologia delle diversità. Perciò anche

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l’ospedale psichiatrico, circondato dalle mura ai margini dei centri urbani, tende a essere concettualizzato come colonia. P.A. A me, invece, quel muro scrostato, quelle figure e quei panni evocano un mondo decisamente più prossimo e familiare: la Venezia chioggiotta di Cannaregio. Quali elementi della scena raffigurata ti portano alle colonie? G.G. La foto ritrae due donne in piedi contro un muro, e un uomo che parla con una di loro, seduto all’estremità di una panchina. Indossa un pastrano nero e una sciarpa di lana, ha una coppola in testa che lo fa somigliare a un pastore, mentre le donne sono abbigliate come delle popolane, nello stile zingaresco e bizzarro di certi gruppi etnici. Le tre figure sono allineate frontalmente, a ridosso l’una dell’altra sulla stessa linea di confine dell’edificio, in modo da sembrare immagini riprese altrove, in un altro spazio e tempo, e proiettate sul muro che funge da schermo. Formano una catena narrativa ai cui estremi si vede, a sinistra, l’ombra minacciosa del pilastro di un cancello, e a destra un’altra panchina con sopra un drappo bianco, gettato lì per caso o per incuria. Tutta la scena riceve luce dalle ricche sottovesti delle donne e dal drappo-lenzuolo, mentre a terra si vede un tappetino di gusto orientale, o forse un elemento di decoro a pietra intagliato nel pavimento del cortile. Cito questi dettagli perché agli inizi l’occhio non li scruta, preso com’è a decifrare l’enigma narrativo, le posture e cadenze di quello che sembra un incontro tra compaesani. Eppure non può l’occhio non accorgersi dello squallore delle panchine, e del nero sporco dei muri di cemento, che infatti emerge un po’ alla volta con un effetto straniante, di parziale rovesciamento del rapporto figura-sfondo. Quando il campo visivo si restringe e chiude in questo nero sporco, da pellicola cinematografica, solo allora ti chiedi: ma dove siamo? P.A. È anche possibile che mio padre abbia voluto fotografare non già l’ospedale, ma l’amico P. nel luogo in cui esercitava la sua professione. L’uomo che conversa con una degente dovrebbe essere proprio lui, il medico. G.G. Può darsi, ma niente lo lascia immaginare: non porta il camice, non è in piedi come dovrebbe, in


posizione attiva davanti alle ricoverate. Mi è sembrato allora di dover cogliere in questa foto una serie di citazioni, l’innesto di diversi linguaggi tra la pittura e il cinema. Ad esempio, le rapide pennellate di luce bianca, senza le quali non ci sarebbe nella foto alcun racconto, mi hanno spinto a evocare i ritratti di paesaggio nello stile che Corot ha inaugurato, proprio in Italia, nella prima metà dell’Ottocento. A sua volta l’uso del drappeggio, che accresce il prestigio delle figure, è un simbolo di classicità nella fotografia tardo-ottocentesca, in corrispondenza con la seconda fase del colonialismo. Del resto, per come è rappresentato nelle foto d’epoca e nel cinema degli anni ´30 e ´40, sappiamo che il colonialismo sfruttava gli emblemi e i feticci della fotografia pittorica, e mi sembra che tuo padre, con mano molto abile, li abbia usati per raffigurare il manicomio. Se io sono stata colpita da questa fotografia è anche perché la visione che offre dell’ospedale psichiatrico è molto diversa da quella documentata sul finire degli anni Sessanta: i corpi dei malati erano spesso nudi, o coperti da una misera divisa e gettati come cose sulle panchine. P.A. Eppure non vuole essere una rappresentazione edulcorata della realtà manicomiale. G.G. No, certo. Trattandosi di un’unica fotografia non sappiamo fin dove tuo padre si sia spinto negli interni dell’ospedale, che cosa abbia visto o potuto vedere. Il suo non è un réportage, ma ecco che per noi questa immagine così elaborata dal punto di vista estetico, assume valore di documento storico: l’interpretazione che viene suggerita del manicomio è più acuta e lungimirante delle analisi degli storici. 4. G.G. L’arte della citazione, l’estrema cura dedicata ai ritratti viene profusa da Danilo Allegri anche nelle fotografie di esterni: le balaustrate e i giardini, i paesaggi e le viste dall’alto, le figure e i gruppi umani colti al di fuori dello spazio di posa. Non essendo un fotografo che si faceva guidare dallo scatto, dobbiamo immaginare che si applicasse a lungo a studiare i luoghi e gli oggetti da ritrarre, cercando la postazione e la luce adatta. Di certo non ha messo in posa i militanti di partito per realizzare Gli iscritti, né ha predisposto lui quei grappoli di uomini appol-

laiati sui rami dei platani, che guardano la partita di calcio nel pomeriggio di una domenica invernale. Eppure anche in questi casi i risultati sono stupefacenti. Nella foto 3-2 la gradazione opaca del colore stabilisce un’affinità mimetica tra i rami nodosi degli alberi e la tensione muscolare degli spettatori, protesi e come rattenuti nello sforzo atletico. Tutta la scena è fusa e ombrata, un tessuto caliginoso. E sono giunta a immaginarmi che anche la carta, su cui la fotografia è stata stampata, fosse ispida e dura come l’erba del campo che non si vede. P.A. Quella è una foto che mi fa pensare a Cesare Zavattini e al progetto abortito di un film di cui mio padre aveva scritto, con la collaborazione di alcuni amici, fra i quali l’architetto Gino Bozzetti, il soggetto e la sceneggiatura nei più minuti dettagli; scelto gli esterni e gli interni, disegnato gli arredi e i costumi, prestabilito le luci e i movimenti di macchina. Si trovò persino chi fosse disposto a finanziarlo, ma alla fine non si fece. Zavattini aveva dato il suo placet. Zavattini che morì lo stesso giorno di mio padre. G.G. Nel rapporto con il cinema è stato fondamentale per tuo padre un altro incontro, quello con Orson Welles. Vuoi parlarne? P.A. È un incontro che avviene per la prima volta nel 1948 sul set di un brutto film, Black Magic (Cagliostro) di Gregory Ratoff, di cui Welles era attore protagonista. Ma è stato tre anni dopo, durante la travagliatissima lavorazione di Othello che mio padre, quale fotografo di scena, poté partecipare alle rocambolesche riprese di quell’immenso capolavoro. È un’esperienza folgorante, che lascerà su di lui tracce indelebili. Non si era mai vista tanta audacia e spregiudicatezza, e nel contempo dominio del proprio mezzo d’espressione da parte di un regista. Memorabile fu la realizzazione della sequenza d’apertura: il funerale di Otello e Desdemona, che Welles volle girare al tramonto in pieno contro luce, affinché le figure fossero nere, più nere del Moro e dell’abisso della morte. L’intera troupe insorse e minacciò di andarsene, ma alla fine cedette e accettò, anche la follia delle inquadrature sghembe e l’impiego trasgressivo di un’ottica deformante. Fu uno scandaloso, travolgente trionfo; per mio padre, credo, anche la rivelazione che si potesse osare di più. E quel tanto di sperimentazione che è

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riscontrabile nelle sue opere della metà degli anni Cinquanta è probabilmente da ricondursi alla lezione di Orson Welles. 5. G.G. Prima, a proposito delle gradazioni dei grigi parlavi di cromatismo, della preoccupazione cioè di tuo padre di procedere senza salti e di riempire tutti i vuoti. Di fatto la sua vita è stata esposta a continui cambiamenti e sbalzi, veri e propri trapassi storici, e se guardo una dopo l’altra le sue fotografie mi sembra di cogliere le onde del tempo, come se di ogni epoca antecedente rimanesse in sospeso il mormorio di tanti strati. La sua formazione avviene nel periodo in cui, come diceva ancora Benjamin, il fascismo è stato inventato per offrire alle masse una nuova estetica: l’estetica della guerra, dell’industrialismo, del nazionalismo di sangue e di razza. Di tutto questo non restano tracce nel suo lavoro, se non per certe immagini che mi turbano: le balaustrate, i giardini di pietra, le scalinate delle ville. In queste fotografie, dove si potrebbe riconoscere un certo decadentismo, vedo la messa in scena di un grande ballo degli assenti, dei morti. Al tempo stesso mi sembra di dover cogliere, in queste immagini escatologiche, la volontà di reinterpretare una serie di luoghi comuni fotografici per sottrarli alle retoriche estetizzanti dell’epoca. Ricreandoli non già alla ricerca del tempo perduto (per quanto un po’ anche), ma come domanda sulle forme che sopravvivono e restano. La balaustrata di Romanticismo postumo, che si affaccia su un paesaggio immane, è per me l’immagine del paradiso; in qualche modo fa le veci della siepe leopardiana, trasponendo il tema dell’infinito dal lamento sulla natura a quello della fine del racconto storico. Bellissima è anche la scalinata di ´700, dove la neve lascia trasparire più nettamente i tagli di prospettiva, le linee oblique, quasi attorcigliate, storte, che renderebbero queste architetture pericolanti, cadenti. Ed è come se la foto le ritraesse un attimo prima del crollo sotto il peso della neve, trasformandole in architetture di carta come nelle fiabe nordiche. È in queste foto, e in altre del paesaggio, che ritrovo i tratti della cultura lombarda di tuo padre: l’amore delle campiture, la “flora umana” come forza ordinatrice del paesaggio che traspare anche dai dipin-

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ti, e quella che chiamo l’affezione ai piccoli mondi. La Lombardia conservava ancora nella mia infanzia, negli anni Cinquanta, l’idea di tanti piccoli mondi intagliati nella grande pianura e nei laghi, con le tracce ovunque delle famiglie dell’aristocrazia terriera che aveva plasmato per secoli i luoghi. Così, la balaustrata, la scalinata o il giardino degli antenati mi fanno venire in mente certi angoli sul lago di Como dove venivo portata in vacanza, ma anche le ville padronali e di gusto neoclassico disperse come fortezze nella pianura padana, circondate da mura e giardini esotici. P.A. Le balaustrate, i giardini, i paesaggi al limitare della città, compongono con altre raffigurazioni una sorta di rete di topoi, luoghi della mente ai quali sempre il pensiero ritorna. C’è una fotografia romana, intitolata Confini provvisori, che ci parla dell’irrompere devastante dell’edilizia; non quella degli anni della ricostruzione postbellica, bensì quella molto più decente della tarda età fascista. È una visione che sembra disporsi in orizzontale e in realtà diventa verticale, tra la superficie e il di sotto, lo strato antecedente. Non è la città che si dilata, ma la città che sprofonda. G.G. È una fotografia un po’ pasoliniana, si potrebbe dire, in cui quel che conta è il trovarsi lui nella postazione adatta e al momento giusto per rilevare la transizione in atto. Nel cogliere il rapporto con la città che si sviluppa in superficie e le sue fondamenta, dobbiamo figurarci il fotografo imboscato lì in basso, nella scarpata, che aspetta al buio il formarsi dell'immagine. Come fosse al lavoro nella camera oscura. P.A. Sono d’accordo. Di Roma, per altro, dove l’intera famiglia si trasferì nel ´ 50, posso dire che è stato per tutti un periodo molto felice. Ma solo una parentesi, prima del Brasile e dell’amaro ritorno a Brescia. Per quel che riguarda i “piccoli mondi” – come tu ti esprimi, al plurale – è verosimile che per mio padre abbiano contato molto più di quanto fosse disposto ad ammettere, ma è pur vero che ha sempre manifestato insofferenza, per non dire disprezzo per la provincia (“bresciano di nascita, non di costumi” – soleva dire, presuntuosamente). Io sospetto che fosse un uomo del nord, amante


del vento e delle nuvole alte. Non sai quante volte, quasi rapito, ha chiamato “suoi” i cieli normanni o fiamminghi che aveva visto nei suoi non molti viaggi in Europa. 6. G.G. Per concludere vorrei riprendere il tema della realtà, di cui hai parlato agli inizi della nostra conversazione. Di solito, quando si parla di realtà in rapporto alla fotografia ci si riferisce a un modo peculiare di usare l’immagine per far deflagrare degli eventi-verità, o al fatto che la fotografia analogica di per sé rispecchia, imita o duplica un certo tipo di reale. Anche Barthes parla della fotografia come contingenza suprema, particolare assoluto; nella stessa immagine, riproducibile all’infinito, mostra il reale nella sua espressione infaticabile. Riguardo a questa produzione o costruzione della realtà, che è stata al centro delle ossessioni del XX secolo, quale valore dobbiamo attribuire alle immagini nel lavoro di tuo padre?

sono innegabilmente straordinarie, mentre la terza è delicata e allusiva. Ma l’espressione “(assente) per amore”, usata una volta da mio padre, io la trovo un po’ criptica. E se avesse, in realtà, voluto dire “assente (per amore)”? In tal caso, potrei pensare a una variante pudicamente maliziosa di “torno subito”, il cartello appeso all’uscio della bottega. G.G. “Amore” potrebbe indicare l’eccesso, il troppo di una passione che si compie. È un assentarsi a partire da un eccesso che per lui forse coincide con la devozione per la forma, l’amore della precisione, e di ciò che nella bellezza non può che essere unico, nel senso di darsi una volta sola.

P.A. Io avverto sempre, persino in Capolinea o in Km 184, che parrebbero immagini meramente “denotative”, la volontà di intervenire nei confronti della realtà, in questo caso di sottrarre. Non c’è nessuno in queste strade, e forse anche un cagnetto lontano sarebbe di troppo. La scena deve essere vuota, capisci, deve. Ciò che conta è un certo equilibrio formale. La bellezza come nitore e compostezza. E l’immagine come qualcosa che, nel prendere il posto di quel che raffigura, possa vivere di vita propria. G.G. Io forse sarei più propensa a indagare in queste immagini il tema del limite, dell’assenza e dell’assentarsi; di nuovo, il tema della rêverie. A questo proposito non ho fatto cenno a una fotografia per la quale ho una speciale predilezione: l’uomo con gli occhi chiusi (Gino Cavagnini). Per me è un grande simbolo, e forse rappresenta più di quanto non si creda la traccia per comprendere l’opera di tuo padre, al punto che io la leggo come una sorta di autoritratto. Sia la Desdemona che l’uomo dagli occhi chiusi si collocano agli estremi di una stessa esperienza, sono il racconto di un limite. Un’altra foto mi piace molto, Estate, dove il corpo della donna ha la grazia della marionetta caduta giù per terra, senza fili. P.A. Le prime due fotografie che hai menzionato

Composizione n. 3

Danilo Allegri, Totò e Franca Faldini all'inaugurazione della mostra alla Galleria Montenapoleone di Milano, nel 1957

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“Pittore (assente) per amore” Enrico De Pascale

Fotografo professionista, figlio d’arte (il padre Cesare titolare del noto studio fotografico a Brescia), Danilo Allegri ha coltivato per tutta la vita una passione pressoché esclusiva per le immagini, che ha declinato nei modi e nei linguaggi più diversi praticando contemporaneamente la fotografia, il cinema, il disegno, la pittura. Tale eclettismo espressivo trova riscontro anche nella varietà delle figure di intellettuali che nel corso del tempo hanno incrociato il suo cammino o accompagnato la sua attività creativa: pittori, registi, attori, critici d’arte, fotografi, designers, collezionisti, architetti, poeti, scrittori. “Pittore (assente) per amore”, come egli stesso ebbe a definirsi in un’intervista rilasciata nel 1983 ad Attilio Mazza, Allegri si è applicato all’arte con serietà e dedizione, benchè solo nei ritagli di tempo che la professione gli ha concesso. Tre soltanto, ben cadenzate negli anni (1946, 1951, 1963), sono infatti le mostre personali in cui ha avuto occasione e desiderio di mostrare al pubblico i risultati del proprio lavoro. Se la sua formazione di fotografo avviene quasi “naturalmente” presso lo studio paterno (a 18 anni, nel 1929, è già vincitore al Concorso Nazionale di Fotografia Sportiva di un premio dell’Automobil Club di Brescia) quella di pittore, così come per altri bresciani della sua generazione (per esempio Enrico Ragni, che gli fu amico), prende avvio al Regio Istituto d’Arte di Venezia, dove si diploma nel 1940. In questi anni cruciali, che coincidono grosso modo

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con gli anni del conflitto bellico e l’immediato dopoguerra – sono gli anni del gruppo di “Corrente” e del “Premio Bergamo” di pittura – Allegri intesse importanti relazioni con il intellettuale bresciano e milanese. A Brescia l’interesse per la cultura artistica contemporanea ruota intorno alle figure fondamentali di Pietro Feroldi, la cui strepitosa collezione d’arte riceve l’onore di un’ esposizione alla Pinacoteca di Brera (autunno 1942) e di Achille Cavellini, collezionista raffinato, animatore culturale, amico di artisti di rilievo internazionale. Tali contatti fruttano ad Allegri una prima prestigiosa collaborazione con la rivista “Uomo. Quaderno di letteratura” (ottobre 1944) per la quale realizza tre disegni posti ad affiancare scritti di Marco Valsecchi, Gio Ponti, Dino Buzzati ed altri. Tracciati in punta di matita, a tratto continuo su un fondo uniformemente chiaro, i tre ritratti a figura intera rivelano un'ammirevole padronanza del segno e una assimilazione consapevole della cultura espressionistica in auge in quegli anni (in particolare Matisse e i milanesi di “Corrente”) tanto nella capacità di sintesi delle forme quanto nel rapporto figuraspazio e nella libertà formale di alcuni dettagli. Una collaborazione dello stesso genere si registra l’anno successivo quando Allegri è invitato ad illustrare con otto disegni di analoghe caratteristiche formali (il tema è in questo caso il paesaggio) la raccolta di poesie Pianura di Luciano Budigna, lo scrittore e critico d’arte triestino che sarà suo estimatore ed amico per tutta la vita. Dopo la partecipazione alla Prima mostra d’arte


dell’Associazione artistica bresciana “Arte e Cultura” (autunno 1945), nella primavera del 1946 Allegri allestisce la sua prima personale di pittura presso la Galleria della Bottega d’Arte in via Paganora a Brescia (23marzo-7aprile) con presentazione di Marco Valsecchi, il critico d’arte milanese che tornerà più volte, nel corso del tempo, a sostenere e a commentare il suo lavoro d’artista. La sua presenza a Brescia in questi anni è un fatto non raro come documenta una bella fotografia in cui è ritratto accanto ad Enrico Ragni (all’epoca critico d’arte per il “Popolo di Brescia”), Emilio Vedova, Achille Cavellini, Giuseppe Marchiori e Giuseppe Santomaso, in casa di Cavellini durante la mostra di Santomaso e Vedova organizzata dalllo stesso Ragni (di cui sono noti i rapporti, intrecciati proprio in quei mesi, con Renato Birolli e il Gruppo degli Otto). La mostra alla Bottega d’arte allineava 23 dipinti (tra olii, acquarelli e tempere) e 25 disegni, scalati tra il 1937 e il´46, di cui solo pochi, purtroppo, si sono conservati. Dal catalogo della mostra si ricava che i temi praticati dall’artista spaziavano dal paesaggio alla natura morta, dall’autoritratto al nudo alla scena di genere. Dalle poche opere superstiti – Darsena, Stazione di valle, Strade – tuttavia risulta evidente l’adesione del pittore a quella tendenza di gusto primitivista (Carrà, Garbari, Di Terlizzi, Breveglieri) che si era affermata in Lombardia tra il terzo e il quinto decennio del Novecento e che aveva avuto come centro d’irradiazione Milano, segnatamente la Galleria Il Milione dei Ghiringhelli. È qui infatti che avevano operato i critici Edoardo Persico e Carlo Belli (già collaboratore de “Il Popolo di Brescia”) teorizzando la maladresse (l’imperizia e la sgrammaticatura tecnica), che aveva esposto Tullio Garbari (1936), che Pietro Feroldi acquista (1940) per la propria collezione d’arte contemporanea la bellissima Natura morta (1910) e un disegno di nudo del Doganiere Henri Rousseau (ambedue già di Ardengo Soffici), tra i principali ispiratori dei primitivisti italiani. I dipinti di Allegri, resi uniformi da una tavolozza orchestrata sulle brillanti tonalità del verde e da una pennellata sommaria e carica di colore, mostrano inquadrature e scorci prospettici solo apparentemente ingenui, in qualche caso decisamente fotografici (Darsena) che per certi versi rammentano la produzione di un primitivista

di rango come Cesare Breveglieri. È noto d’altra parte che il pittore milanese, richiamato alle armi, trascorse alcuni mesi a Brescia nel 1941 durante i quali ebbe modo di frequentare l’ambiente artistico locale, di conoscere Pietro Feroldi e di vedere il “suo” Rousseau, a proposito del quale ebbe a dire all’amico Giovanni Fumagalli: “C’è molta strada da fare per arrivare al quadrettino di Rousseau!” Nel testo in catalogo Valsecchi osserva opportunamente che “Il primo avvio di Allegri è il candore, voglio dire uno stato d’animo aperto, un’emozionabilità di prima radice agli urti immediati e improvvisi delle cose, delle ombre più che della luce. Un candore che non significa sempre e per forza ingenuità: anzi, da questo lato c'è una ricchezza sensitiva, un infoltirsi di impulsi e sentimenti che sa cogliere il mondo nelle sue figurazioni più sospese, in un’aria che è sempre di meraviglia (…) L’improvviso scoppio dei verdi, che poteva apparire una violenza sentimentale, è invece il segno di una forza via via più espressiva. La concatenazione e l’aumento sono evidenti: si confronti Aprile, Mattino privato e Colle spettrale: l’articolazione è ormai schietta e giuoca, a crescerne l’efficacia, la memoria”. La seconda mostra di pittura di Danilo Allegri si tiene ben cinque anni dopo la prima, nel 1951, presso l’Associazione Artisti Bresciani. Durante questo lungo periodo l’artista è stato impegnato come fotografo di scena a Roma (e Venezia) sul set di importanti produzioni cinematografiche, tra cui Vanità di Giorgio Pastina (1946); The Call of the Blood di John Clements e Ladislao Vajda (1947); Black Magic di Gregory Ratoff (1948); Shadow of the Eagle di Sidney Salkow (1950), Othello di Orson Welles (1951). L’esposizione sorprende il pubblico e gli addetti ai lavori per almeno due motivi: per il carattere delle opere, del tutto diverse da quelle della mostra precedente e per l’idea espositiva, capace di entusiasmare persino un critico colto e esigente come Pietro Feroldi, che dalle colonne del quotidiano locale (“Giornale di Brescia”, 17 novembre 1951) parla di “signorilità di un allestimento quale non sera mai visto da noi”. L’originalità del modello espositivo si può dedurre da alcune fotografie dell’epoca che mostrano il tradizionale spazio dell’AAB totalmen-

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sioni dell’Oriente, dove misteriose sinfonie di colore tessono la trama di incontri senza fine di linee e di spazi. Una cosa è certa; che (Allegri) evade dalla stretta astrazione. Dove qualche cosa di astratto pure c’è, pare che il suo estro si veli. Maturo e chiaro si rivela invece il pittore nelle concezioni dove la raffinatezza del colore si alimenta di sottili costellazioni di segni, sia che ne sortano accenni a forme umane o a tenui oggetti cristallizzati in ricerche preziose, che fanno pensare – senza cadervi – a cineserie di alta classe…” Né è escluso che l’incontro con l’opera del maestro svizzero possa essere avvenuto in forma diretta già nel 1948 alla Biennale d’arte veneziana: un’edizione memorabile che presentava oltre all’antologica di Klee nel Padiglione centrale (con un originale allestimento di Carlo Scarpa), la collezione di Peggy Guggenheim, le monografiche di Ensor, Braque, Picasso e molto altro ancora. D’altra parte un’importante personale di Klee si potè visitare, in quello stesso 1951, anche a Milano, alla Galleria Il Milione.

Due immagini dell’allestimento della mostra presso la AAB di Brescia, in via Gramsci, nel 1951

te rivoluzionato da una sequenza di pannelli sospesi nell’aria che, spezzando la sala secondo impeccabili ritmi geometrici, intercettavano in modo inedito la luce valorizzando le qualità di ciascun lavoro. Il progetto è opera di un giovane designer e grafico attivo a Milano – Angiolo Giuseppe Fronzoni (Pistoia 1923 - Milano 2002) – che negli anni successivi avrebbe raggiunto una certa notorietà curando con rigore minimalista gli allestimenti di prestigiose collezioni pubbliche e private, tra cui quella bresciana di Cavellini. Poche anche in questo caso le opere superstiti – la mostra ne allineava una trentina circa – sufficienti tuttavia a testimoniare la svolta stilistica di Allegri, suggestionato dagli artisti della cosiddetta astrazione lirica: Kandinsky, Mirò e soprattutto Paul Klee. Come puntualmente rilevato da Feroldi, Allegri “ha voluto leggere fino in fondo il linguaggio di Kandinsky e di Klee compenetrandone le concezioni intime: risalire forse lontano nel tempo, a certe vi-

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Di fatto le opere del cosiddetto “periodo romano” (1950-51) rivelano un’ inaspettata adesione di Allegri alla poetica astratta, sia pure nella sua versione più lirica e meno radicale – altrimenti definita “dell’astrazione con ricordo” – in sintonia anche con quanto veniva collezionando in quel tempo Achille Cavellini. La vicinanza a Klee (e in qualche modo a Mirò, Dubuffet, Ensor) costituisce a ben vedere una variante solo più aggiornata e “modernista” di quell’interesse per la trasfigurazione del reale in chiave immaginifica, fantastica, fanciullesca e primitiva che Allegri aveva manifestato nella sua prima fase creativa. Sia pure con una grammatica diversa, fatta di linee continue, arabeschi, intrecci, ghirigori, composizioni a tarsia e puzzle, ibridazioni di figure naturali e geometriche, antropo e fitomorfe, rigorosamente aprospettiche e bidimensionali, l’obiettivo è pur sempre l’esplorazione del mondo da una angolazione eccentrica, pre-razionale, non mimetica, perché l’astrazione, come ricorda Klee, è già nelle cose, bisogna solo riconoscerla, cercando non tanto di riprodurre il visibile, ma di rendere visibile ciò che non lo è: la genesi delle forme, l’essenza delle cose. Esula da queste considerazioni il solo Senza titolo 7, in cui il topos


ensoriano delle maschere ghignanti al banchetto, spunto per una corrosiva satira sociale (frequentato negli stessi anni anche da Birolli) mostra al centro della scena il prediletto tema formale del groviglio di fili nell’aria. L’anno successivo Allegri si trasferisce in Brasile dov’è impegnato come direttore della fotografia sul set del film O Gigante de Pedra (1952) di Hugo Walter Khouri, che sarà premiato al Festival Internacional de Cinema do Brasil del 1955. L’incontro con la cultura sudamericana e in particolare con quella tribale amazzonica si rivela straordinariamente stimolante tanto da alimentare un intero ciclo di lavori che hanno al centro il tema della maschera, o per meglio dire delle tsantsas, le teste mummificate dei nemici usate a scopo rituale dagli indigeni del bacino del Rio delle Amazzoni: Bacairi, Bororó, Ipurina, Mehinecú, Jibaros. Come in passato, l’interesse di Allegri si mantiene fedele a un repertorio iconografico-formale che attinge alla sfera del primitivo, del primordiale, dell’originario. La fissità spettrale di ciascun volto, il cui sguardo spalancato sull’abisso scruta inquietantemente lo spettatore, è accentuata e drammatizzata dalla spessa cornice in pregiato legno esotico, quasi un reliquiario o una teca da museo etnografico. I riferimenti alla cultura espressionistica, a Munch e ad Ensor, sono evidenti tanto nell’esasperata tensione psicologica, accentuata dallo spazio reso claustrofobico dalla cornice, quanto nella pennellata sommaria, rapida e costruttiva. In altri casi, come nei due disegni intitolati Tsantsa de Jibaro e Cabeção, eseguiti entrambi a San Paolo nel 1952, e nel dipinto Brasil, l’immagine è costruita tramite una fitta tessitura di segni sottili e paralleli che rimandano ancora una volta all’amato Klee, alle sue ben note maschere di attori e marionette o ad opere non meno celebri come Notte di Walpurga (1935). Un caso a parte è rappresentato da Favela do Rio de Janeiro (1955) in cui la vita caotica e variopinta della celebre favela carioca è efficacemente restituita tramite una elegante tarsia policroma di forme geometrico-floreali che sembrano preannunciare il gusto Pop dei primi anni Sessanta. Recensendo la mostra (la terza e ultima personale di pittura di Allegri) allestita ancora una volta nello spazio bresciano dell’AAB nel 1963, cioè dieci anni dopo il soggiorno brasiliano, Elvira Cassa Salvi

sul “Giornale di Brescia”(20 dicembre) annotava: “È, nell’insieme, una specie di estroso reportage o di diario, di taccuino di viaggio ove impressioni disperate si intrecciano e si sovrappongono in un caleidoscopio di frammenti variopinti. Tempere e inchiostri, penna e matita, figure e arabeschi. Prevale in Allegri un gusto per la filigrana, il ghirigoro, l’intarsio. Immagini orride e festose, fosche o carnevalesche si traducono in una forma di astrazione decorativa”. Suggestioni kleeiane si scorgono peraltro anche in alcune rare testimonianze dell’importante mostra fotografica tenuta da Allegri alla Galleria Montenapoleone a Milano (1957), presentato ancora da Marco Valsecchi. Una delle curiosità dell’esposizione era rappresentata dalle fotografie realizzate senza macchina fotografica, ottenute cioè in camera oscura appoggiando semplicemente degli oggetti sulla carta sensibile (in sostanza dei rayogrammi). Composizione n°3, in particolare, realizzata per sovrapposizioni di rettangoli trasparenti più o meno scuri, evoca sia nella struttura che nella musicalità del ritmo compositivo le poetiche architetture del pittore svizzero. È verosimilmente davanti a simili prove che l’amico pittore Enrico Ragni potè un giorno scherzosamente sentenziare (cogliendo in realtà una verità sottile e profonda) che Danilo Allegri “fotografava da pittore e dipingeva da fotografo”.

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Album degli anni Trenta e Quaranta

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Roma per Shakespeare 24


Confini provvisori 25


Capolinea 26


Gli antenati 27


´700 28


“Santa Maria, mater dei, ora pro nobis...� 29


Genitali di gesso 30


Romanticismo postumo 31


Giorni 32


Estate 33


Dal diario del dottor P., medico dei pazzi. Reparto femminile 34


Campi di Lombardia 35


Km 184 36


3-2 37


Voglio sapere perchĂŠ 38


Egidio 39


Gli iscritti 40


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Cinque dipinti e due disegni 1940-1945

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La pensione 44


Natura morta 45


Strade 46


Senza titolo. Disegno 1 47


Senza titolo. Disegno 2 48


Stazione di valle 49


Darsena 50


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Roma 1950-1951

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Villa Borghese 54


Senza titolo 1 55


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Senza titolo 3 57


Senza titolo 4 58


Senza titolo 5 59


Senza titolo 6 60


Senza titolo 7 61


Senza titolo 8 62


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