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Guanti, mascherine e il loro impatto ambientale

di Marianna Piccini

Durante questi mesi di lockdown le lattine e i sacchetti di plastica gettati troppo spesso a giro per la strada, come ormai abbiamo notato tutti, sono stati sostituiti da guanti e mascherine monouso. Anche i ritrovamenti sulle rive dei fiumi e sulle spiagge stanno diventando sempre più numerosi e si comincia a temere per i gravi danni che potrebbero portare all’ambiente. Naturalmente questi sono “usa e getta” indispensabili per combattere la pandemia e servono a proteggere la nostra salute personale, purtroppo però se smaltiti e usati senza attenzione rischiano di diventare un serio problema ecologico. I materiali di cui sono fatti, per essere impermeabili o filtrare l’aria, sono composti perlopiù da materie plastiche come per esempio il poliestere e il polipropilene che, anche se sono due tipi di plastica che si possono riciclare, essendo usati per questioni sanitarie vanno necessariamente gettati nell’indifferenziato dove dovrebbero poi finire negli inceneritori. Se però non vengono smaltiti bene e si disperdono nel territorio il loro impatto aumenta ancora di più diventando una seria minaccia per l’intero ecosistema in cui viviamo. Portati dal vento finiscono nei fiumi e nei mari dove si aggiungono ai già moltissimi rifiuti che vi galleggiano e dove causano ingenti danni alla fauna marina. Sappiamo

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bene che la plastica leggera impiega circa dai 100 ai 1000 anni per decomporsi, ma il poliestere e il polipropilene hanno un processo di decomposizione ancora più lento. Questa decomposizione però, diversamente da quello che si può pensare, non è affatto un bene, anzi, vuol dire semplicemente che la materia plastica si spezzetta in tantissime microplastiche che hanno un effetto ancora più devastante sulla natura che ci circonda. La cosa migliore da fare è quindi cercare, pur nel rispetto delle norme vigenti, di utilizzare questi dispositivi solo quando strettamente necessario, programmando le nostre uscite fuori casa in modo da utilizzarne il meno possibile, e smaltendoli in maniera corretta senza disperderli nell’ambiente.

UN FINTOCOLTO CHIUSO IN CASA, DAL COVID A DANTE

di Walter Tripi

In questa rubrica si parla di giardini, di bellezze naturali. Il punto è che si parla anche di ambiente. Dunque vale la pena, per una volta, omaggiare la versione che in questo periodo abbiamo tutti dovuto raffinare e subire, sopportare e riscoprire, imbrattare di noia e ripulire con antibatterico: l’ambientedomestico. Perché in fondo, pur con le difficoltà che viviamo da quando ci siamo svegliati in mezzo a una pandemia, starsene in casa oggi non è poi tragico. Confrontiamolo con ciò che accadeva a Firenze quando Dante muoveva i suoi pensosi passi (senza mascherina, che con quel naso sarebbe pure stata ostica). Oggi cartongesso che lascia ascoltare il webinar seguito dal vicino, ma allora pareti in legno che prendevano fuoco con la frequenza degli aliti di vento. Oggi un comodo water sul quale riflettere in merito al sito dell’INPS, allora rustici angoli di casa e getti di deiezioni direttamente dalle finestre; oggi memory foam e pigiamino con Catwoman, a quei tempi il duro abbraccio del suolo e i vestiti addosso anche di notte. Oggi tutorial sul tagliarsi i capelli da soli e allora ore intere sotto al sole con un cappello senza calotta per ottenere un buon biondo elegante. Altro tema: per Lungarno siete sempre molto belli, ma notiamo che la cintura stringe e le gote tirano. Ai tempi di Dante, scodella in legno grezzo condivisa con altri (in barba al distanziamento sociale!), vinaccia annacquata per non perdere l’allegria, zuppe di legumi e tanto, tanto pane. A occhio, anche in quarantena avete usato tanto, tanto pane, ma ci avete messo sopra di tutto, ve lo siete fatto portare ripieno in delivery e soprattutto una boccia d’Aperol tra congiunti ha risolto vari grigi pomeriggi.Non è solo oro, però. Nell’imprecare per questa situazione, guardando il cielo stellato, non tutti sarebbero capaci di sortirsene con “O gloriose stelle, o lume pregno / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che sia, il mio ingegno” (Paradiso, XXII). Questo va detto.

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