numero 48 del 13 maggio 2022
HOMO HOMINI LUPUS
L’UNITA’ LABURISTA - 48
p4 – La sinistra che non c’è e il
p6 - Fenomeni di gue
p10 - Dalla resilienza alle res
p14 – Ucraina versus Russia. E vic
p20 – La democrazia esausta co
p22 – Quel viaggio (mai fatto)... e nella m
p24 – Ah, che vita merav p26 – E già di p29 – I vini ucraini: battaglie p32 – I Caffè a Parigi sono
p34 – Fiocco azzu
p37 –Repetita Ju
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principio di realtà di Aldo Avallone
erra di Antonella Golinelli
sistenze di Rosanna Marina Russo
ceversa di Giovan Giuseppe Mennella
ome il pianeta di Raffaele Flaminio
mia ignoranza in Ucraina di Giovanni Aiello
vigliosa di Antonella Buccini Raffaele Flaminio e bottiglie di Veronica D’Angelo inimitabili di Anita Napolitano
urro di Lucia Colarieti
uvant di Marco Arturi
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l’editoriale del direttore
La sinistra che non c’è e il principio di realtà ALDO AVALLONE
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iamo ben oltre il secondo mese di guerra. “L’operazione speciale” russa, che nelle intenzioni di Putin doveva durare pochi giorni, si è arenata di fronte alla resistenza dell’esercito ucraino. Una guerra in diretta. Case sventrate, ospedali e scuole bombardate, stragi di civili e fosse comuni. Mai prima d’ora erano giunte immagini in maniera così precisa e puntuale degli orrori che si stanno compiendo nella nostra “civilissima” Europa. Una guerra vicina che sta turbando le coscienze di tanti. Soprattutto a sinistra. Per storia e ideali da sempre siamo pacifisti. Sembrerebbe ovvio e naturale: chi desidera la guerra? I popoli, tutti, auspicano semplicemente di vivere in pace. Ogni essere umano chiede solo di avere un tetto sopra la testa, un lavoro dignitoso, assistenza sanitaria e una scuola per studiare. A chi verrebbe in mente di armarsi e combattere per conquistare pezzi di territorio o per imporre la propria visione del mondo? Le guerre le decidono i potenti ma le subiscono i popoli. Per questo, noi di sinistra siamo e saremo sempre contro la guerra. Eppure, la storia ci insegna che le guerre, a dispetto delle volontà dei popoli, si fanno egualmente. E, a volte purtroppo, le guerre occorre combatterle. Se, oltre settanta anni fa, non si fosse scesi in guerra contro Hitler, oggi sicuramente vivremmo in un mondo diverso, con le svastiche sulle bandiere. La democrazia sarebbe un lontanissimo ricordo e gli oppositori verrebbero imprigionati o uccisi come nella Russia attuale. Esiste un prezzo da pagare per la libertà. Se non si è disposti a farlo non resta che accettare di vivere sotto una dittatura.
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anti compagni oggi, richiamandosi a un pacifismo di principio, criticano l’invio da parte dell’Occidente di armi all’Ucraina. Una posizione condivisibile in linea di principio, ma che, a mio avviso, si scontra con la realtà. E la realtà ci dice che l’esercito di un Paese, guidato da un dittatore con mire espansionistiche e revanchiste ha invaso il territorio di un altro Paese. Senza armi il popolo ucraino sarebbe già finito sotto il tallone di un despota, ex Kgb. Io non credo che sia la sua aspirazione. Come non credo lo sia per quei compagni che oggi sono contrari all’invio di aiuti agli ucraini, se si trovassero nella stessa situazione. Il desiderio di quel popolo è di avvicinarsi all’Unione europea piuttosto che sottostare all’influenza russa. Qualcuno ha il coraggio di criticare questa scelta? E, si badi bene, l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non era affatto all’ordine del giorno. È ovvio che tutti siamo per la pace raggiunta attraverso una trattativa. Sono certamente da apprezzare e sostenere tutti i tentativi che vadano in questa direzione ma per trattare occorre essere in due a volerlo e, finora, da parte di Putin non mi sembra sia stata mostrata alcuna vera disponibilità.
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eggendo i commenti sui social nei gruppi della sinistra mi sembra che tanti compagni non abbiano realizzato che da decenni ormai non siamo più ai tempi della guerra fredda. E che la Russia odierna non è l’Unione sovietica che da bravi compagni dovevamo difendere a ogni costo, nonostante l’Ungheria, la Cecoslovacchia, le purghe staliniane, i gulag, etc.etc. Non siamo più nel Ventesimo secolo, occorre prenderne finalmente atto. Non per rinnegare gli ideali per i quali abbiamo lottato una vita
intera ma per confrontarci con una società profondamente mutata, chiedendoci cosa dovrebbe rappresentare una sinistra moderna nella realtà attuale.
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o penso che mai come oggi si avverta bisogno di Sinistra nella nostra società. Solo nei primi mesi di quest’anno duecento lavoratori hanno perso la vita sul posto di lavoro. Una strage infinita contro cui non si fa nulla. Il lavoro è ancor più precario e sottopagato. Le diseguaglianze aumentano e milioni di famiglie nel nostro Paese vivono sotto la soglia di povertà. La crisi energetica ha portato l’economia alla stagflazione, quel mix di crescita zero e aumento dell’inflazione che rappresenta il peggior nemico del potere d’acquisto dei salari. Si tratta solo di pochi punti, relativi al tema decisivo del lavoro, sui quali intervenire che potrebbero però configurare pienamente il programma di una partito/movimento/coalizione/federazione, o come meglio ci piace definirlo, di forze che si richiamano ai valori progressisti e laburisti. I bisogni di larga parte di popolazione, soprattutto giovanile, sono presenti e pressanti. Siamo capaci di farci carico di tutto questo? Siamo capaci di elaborare una strategia nuova, non solo comunicativa, che possa intercettarli? Siamo capaci di mostrarci davvero disponibili al cambiamento e non solo interessati a mantenere il posto in Parlamento o qualunque altra poltrona di sottogoverno? Se le risposte a queste semplici domande saranno affermative, vorrà dire che una Sinistra ha ancora senso di esistere. In caso contrario sarà meglio mettere definitivamente da parte ogni speranza di costruire una società più giusta nel nostro Paese.
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FENOMENI DI GUERR A di Antonella Golinelli
Bentrovati lettori. Oggi vi tedierò, come mio solito, con un argomento secondario. Oltre due mesi di guerra ma, ovviamente, non parlerò di guerra.
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oglio chiacchierare di come ce l'hanno raccontata la guerra e di come la gente, quella normale, i comuni mortali, hanno reagito al bombardamento mediatico. O almeno come vedo io tutto questo inghippo. seguire di alcune settimane in cui i servizi americani e non solo avvertivano l'universo mondo dell'attacco imminente, condividendo informazioni (parziali sì ma non irrilevanti), arrivando al paradosso in cui i programmi di informazione locali prendevano per i fondelli irridendoli politici e funzionari dell'intelligence USA, alla fine la guerra è scoppiata il 24 febbraio. Guarda un po'! Già questo ci dovrebbe dire qualcosa. Nello specifico che siamo in mano a intelligentoni i quali, convinti di avere la verità in tasca, deridono gli specialisti del settore. Lo avevamo appena visto con la pandemia quanto avessero sovrapposto e opinioni personali e ordini di servizio alla realtà. Non hanno mai preso in una casa ma sono sempre stati i guru da seguire. Infatti, la gente ha cominciato subito a schierarsi. Formazione base (che non è cambiata molto nel corso del tempo): da un lato gli affezionati alla Russia, o meglio all'URSS che però non esiste più da decenni, dall'altro quelli che han paura della guerra e basta. I primi si autodefiniscono pacifisti, gli altri vorrebbero solo vivere in pace.
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er i primi la pace si ottiene con la resa incondizionata all'aggressore (quando ho letto del paragone a Vercingetorige mi è preso uno smalvino), gli altri vorrebbero che gli aggressori la finissero e che ognuno stesse a casa sua.
Ma andiamo avanti.
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ei primi giorni di guerra tutto un trionfo di trasmissioni quotidiane con esperti che ci hanno raccontato di ogni singola casa, quasi, della zona; ci hanno illustrato con dovizia di particolari trascorsi politici, militari ed economici di tutta l'Ucraina, della Russia (rigorosamente al di qua degli Urali. Di là potrebbe non esserci nulla per quanto espresso. Ma son sicura non sia così); hanno ricostruito mossa dopo mossa, o meglio mossa prima di mossa all'indietro nel tempo, le dislocazioni di NATO e USA e Russia, fino in pratica alla notte dei tempi attribuendo la colpa dell'invasione russa all'Occidente militarizzato e militarista. Che una dice: ok, va bene. Resta il fatto che qualcuno ha invaso qualcun altro e che lassù sul Baltico ci sono missili che in pochi minuti arrivano ovunque. Ma vuoi mettere con la soddisfazione di dare la colpa all'Occidente europeo? Quell'Occidente europeo così decadente nella testa di orientali e, diciamola tutta, residuati locali (sì, lo so, non mi farò degli amici).
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nfatti, una prima battaglia mediatica e social si è scatenata su queste presentazioni. Risse virtuali all'ultima virgola, sentenze inappellabili di autocolpevolezza. Come se ognuno dei contendenti avesse firmato documenti aberranti o compiuto atti altrettanto aberranti, con un coinvolgimento a livello personale che ha distrutto amicizie ultradecennali. Ve' che bello. Meanwhile son cominciate ad apparire immagini di guerra. Bombardamenti, cadaveri per strada, corpi straziati dalle torture, edifici sventrati da missili. E lì si è fatto un passo avanti. Due gli eventi che mi hanno colpito in particolare: il teatro bombardato e Bucha. Riassumo: il teatro era rifugio di centinaia di persone nei locali interrati, fuori c'era una bella scritta “bambini”, ben visibile dall'alto. Il teatro è stato bombardato. Già non è stato immediato
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avere la conferma del bombardamento e va bene. I giornalisti accedono quando si concede loro. Non è che al fronte ci si muova come si vuole.
erto che tre o quattro ore di trasmissione in diretta son lunghe e difficili da riempire. I momenti di stanca ci sono anche nelle guerre lampo. Non è che ogni giorno possiamo subire la visione di orrori. Anche le truppe necessitano di soste per ritemprarsi.
Comunque, in prima istanza pareva non ci fossero vittime e questo secondo alcune menti aguzze indicava la non veridicità del fatto.
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uindi son cominciati ad apparire gli argomenti collaterali; uno scandaletto qui, uno là, pompati con forza al fine di distrarre e convogliare l'acrimonia (il più delle volte vera e propria cattiveria) su altri argomenti, per tenere caldo il pubblico fino al prossimo orrore.
Col passare delle ore e dei giorni son saltati fuori i cadaveri. Del resto, se si rimane intrappolati in un sotterraneo senza cibo né acqua è un po' come restare vittime di crollo in miniera. Si fa fatica a sopravvivere. Magicamente di questa faccenda non si è parlato più. Le teste aguzze han cambiato obiettivo.
Non ha funzionato moltissimo. I coinvolti negli scandaletti veri o presunti (ricordate la preside sbattuta in prima pagina e il “povero” studente diciannovenne, no dico DICIANNOVENNE, che vota per il senato e sarebbe coscritto, tenuto al sicuro nell'anonimato) hanno avuto la vita sconvolta e lasciati lì.
Bucha, un enorme cimitero a cielo aperto. Ma no! Siamo arrivati al paradosso, per me più una perversione, di definirlo un set. Tutto finto, tutto allestito, compresi cani e biciclette e mani legate dietro la schiena.
Allora siccome non funzionava in pianta stabile granché sono andati a ravanare nel fondo degli armadi dei personaggi improponibili e li hanno esibiti. Un delirio. Putinisti e antiputinisti allo sbando, impegnati a combattersi come mai prima. Assalti alla baionetta per una virgola di troppo. Mancavano solo le sfide a duello all'alba dietro al convento delle carmelitane e saremmo stati al completo. Ho riso, confesso.
Con gli specialisti e i conduttori dei talk show che alimentavano i dubbi e insinuavano bassezze basandosi sul fatto di non avere informazioni certe di terzi. Terzi traducetelo come dei loro personali inviati di rete. Quello che mi interessa è la reazione delle teste aguzze o meno a queste sollecitazioni. Agguerriti branditori di bandiere e posizioni personali e personalistiche atte a confortare le loro singole passioni giovanili.
Nel frattempo, ci siamo avvicinati al 25 aprile ed è iniziata la sarabanda di tutti gli argomenti contro la festa della liberazione. Tutto l'armamentario dei nostalgici è stato sciorinato con ordine e metodo. Una noia mortale. Passato il 25 aprile arriva il primo maggio. Una settimana dedicata al lavoro e ai lavoratori. Immagino da domani si torni al vuoto costante del resto dell'anno.
Ho letto robe, silente per forza, che voi umani non potete nemmeno immaginare.
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he io dico, I say: siamo appena usciti da due anni di pandemia durante i quali abbiamo assistito al confronto costante dello specialista virologo con la mamma pancina parrucchiera o col facchino che baciava il crocefisso rigorosamente novax, nopass, nosobeme, indignandoci ogni volta e schierandoci ogni volta e non l'abbiamo ancora capito che la costruzione dell'audience e degli incassi pubblicitari la fanno così?
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n sordina abbiamo mandato armi sollevando il dibattito fra pacifisti a oltranza e pacifisti normali. Il massimo è la distinzione tra armi offensive e difensive. Le armi sono armi. Sparano e uccidono indistintamente, a prescindere dalla definizione.
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avvero ci buttiamo da un argomento all'altro senza soste o almeno un mesetto di ristoro per esplicitare al mondo la nostra personale posizione? E dire che siamo sui social da almeno un decennio, dovremmo saperlo come funziona il giochino. Invece no.
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empre in sordina, viste le sanzioni che arriveranno alle forniture di fonti di energia fossile, son partiti ministri a firmare contratti in giro per il mondo. Ho ascoltato definire la firma di contratti e la diversificazioni delle fonti di approvvigionamento energetico “accattonaggio”. In questa occasione non ho riso, mi è venuto male. Noi siamo qui con tutti e due i piedi legati alla Russia
Ma andiamo pur avanti.
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di Putin perché abbiamo dovuto sostentarli affinché non esplodesse la galassia russa e mo' andiamo ad accattonare? Ma voi siete sicuri di quello che dite? Ve lo ricordate il contratto di Scajola che prevedeva di pagare un fisso anche se non consegnato? Ecco. Noi arriviamo da lì.
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on. L'ho tenuta troppo lunga. Per ora mi fermo. Continuerò la mia opera di perpetua chiacchierona la prossima volta.
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DALLA RESILIENZA ALLE RESISTENZE. di Rosanna Marina Russo
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ell’esercizio della parlata corrente, siamo passati in un attimo da un uso smodato di “resilienza” a un uso improprio di “resistenza”. In un certo senso, e da un punto di vista squisitamente linguistico, c’è stato un indubbio miglioramento, perché resilienza, diciamolo, è proprio brutto come termine. Però, nel significato, dà una prospettiva certa di vittoria sulle difficoltà, mentre resistenza indica un percorso, anche ardimentoso, ma dall’esito incerto, non scontato. Un lemma che noi utilizziamo in un significato ampio, anche per indicare il coraggio delle idee e delle azioni verso un nemico a volte tangibile a volte
strisciante. Ricordate il resistere resistere resistere? Siamo dunque ritornati sui nostri passi. Forse è stata la pandemia che ha cambiato radicalmente il nostro approccio verso la realtà. Sui balconi abbiamo gridato che ce l’avremmo fatta, abbiamo creduto che da quell’incubo saremmo usciti migliori. Ma poi, dopo due anni e più, pensiamo che non ci rimane altro che resistere con i presìdi che abbiamo, perché, sfiniti e sbigottiti, non confidiamo più nella sconfitta totale del virus. E, seppur su un piano diverso, resistere è ciò che stanno facendo gli ucraini, come è evidente, per
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non permettere alla Russia di vincere. E noi per una forma di compartecipazione emotiva, esageriamo sovrapponendo il contenente con il contenuto con paragoni impropri. D’altra parte, facciamo spesso errori simili, ad esempio quando seminiamo alcuni termini in qualsiasi terreno, con il risultato di svuotarli nel loro significato originario. Capita anche per parole che evocano tragedie immani come “nazismo” e “fascismo”. Utilizziamo, ad esempio, modi di dire come “quello è un fascio” per indicare semplicemente qualcuno con un atteggiamento provocatorio o arrogante, mentre il fascismo è stato ben altro, così come il nazismo.
econda cosa. I nostri partigiani non avevano per lo più cognizioni militari. Impararono a sparare con l’aiuto di quelli che avevano passato più tempo nell’esercito e con “addestratori” inglesi, canadesi, americani e altro, mischiatisi come combattenti al loro fianco. Ma in progress.
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erza cosa. Gli Alleati si limitarono a darci le armi leggere, perché di certo non potevano passare agevolmente il confine con carri armati o armi pesanti. E non perché non volessero aiutarci più di tanto, ma quel confine era nemico.
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uarta cosa. Gli Alleati lavorarono su due fronti: da una parte sostennero i partigiani, dall’altra entrarono in guerra direttamente. Il presidente Zelensky chiede continuamente e palesemente aiuti militari per continuare a combattere, ma non cerca un intervento diretto dei paesi amici, almeno per ora non l’ha fatto, e, tuttavia, pur se lo chiedesse sarebbe una cosa diversa dagli accordi che i leader italiani presero di nascosto con gli Alleati.
E con questo procedimento la lotta ucraina è stata accostata alla nostra Resistenza con il risultato di svilire quest’ultima.
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on entro nelle polemiche sull’ANPI, perché lì siamo in un altro campo, in quello di un manicheismo radicale che ormai ci ottunde la mente. Tornando, invece, all’Ucraina e alla sua resistenza, vorrei specificare le differenze che io vedo tra la loro e la nostra. Ma prima di enumerarle, faccio una precisazione. Come si scrive nelle bio di Twitter: qui solo opinioni personali.
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uinta cosa. Il contesto della Resistenza fu la seconda guerra mondiale che fu tale perché la politica e l’avanzata di Hitler avevano compromesso quasi tutta l’Europa: fu necessario agire tutti insieme per fermare lui e i suoi alleati. Ricordiamo che gli Stati Uniti, per bloccare il fronte orientale della guerra, lanciarono due bombe atomiche sul Giappone, stato cobelligerante della Germania e dell’Italia. E che anche noi fummo bombardati. Sfuggo a qualsiasi comparazione tra i popoli, perché le guerre colpiscono sempre in maniera preponderante i civili e la sofferenza e il dolore e la paura sono esattamente le stesse.
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rima cosa. l’Ucraina si era preparata militarmente, giacché l’invasione di Putin era prevedibile e prevista. Non parlo di colpe, quelle sono evidenti, nè parlo di precedenti problematiche che alcuni dicono abbiano scatenato l’ira dello “zar”. Non è questo il punto della mia riflessione. Piuttosto parlo di genesi, di modalità e di aspettative. L’Ucraina si è preparata a questo assalto, così si legge un po’ ovunque, per circa due anni. Si è preparato l’esercito, si è preparato il governo e il popolo è stato preparato a una possibile contrapposizione con quello russo. Qui cade il primo paragone. Noi non potevamo sapere che un folto gruppo di ragazzi avrebbe disertato l’esercito regolare o non ci sarebbe voluto entrare e non potevamo immaginare che quel gruppo si sarebbe gonfiato numericamente di volontari tra i civili e si sarebbe auto compattato tra le montagne. E non era lo Stato o il governo a essere pronto contro un’offensiva, visto che il nostro nemico era in casa. E, inoltre, solo in un secondo momento, i nostri partigiani furono disciplinati dai leader politici italiani dissidenti che ne fecero delle Brigate coese che rispondevano a degli ordini, con dei capi responsabili. Ma non furono inglobati nell’esercito. Lo combattevano.
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esta cosa. Ricordo, dalle parole di mio padre, partigiano dalla prima all’ultima ora sulle montagne del Friuli, che lo sforzo di quei ragazzi non fu riconosciuto come eroico immediatamente dopo la guerra. Perché, comunque, la maggior parte di loro risultava disertore. Per cui fu necessario un giudizio politico, prima di riconoscerne il valore. In un quadretto conserviamo gelosamente la medaglia al merito che assegnarono a mio padre per la lotta partigiana. Negli anni ’60. Invece in Ucraina, visto che possiamo sapere e guardare in tempo reale ciò che sta succedendo, i resistenti mediaticamente sono già eroi e lo sono anche per la propria Nazione.
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ivaricazioni ne vedo molte, insomma. Quello che mi ha meravigliato tantissimo è stato un collegamento fatto tra “Le quattro giornate di Napoli” e la resistenza Ucraina. Perché a
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L’UNITA’ LABURISTA - 48 Napoli ci fu una ribellione veramente popolare, non una lotta programmata di una parte dell’esercito o di un gruppo di giovani politicizzati e non. Ci fu una rabbia talmente diffusa che davvero fu tutto il popolo napoletano a fare barricate, a cacciar via i tedeschi di stanza lì. Non aspettarono aiuti e non si chiesero a cosa potesse portare quella rivolta. Fecero e basta. Eppure, apro una parentesi, non mi sembra ci siano state molte manifestazioni nazionali in ricordo di questo avvenimento straordinario. Non voglio sembrare condizionata da un certo campanilismo, perché molto spesso è solo un atteggiamento patetico che non porta da nessuna parte, ma bisogna ammettere che quell’episodio non ha la rilevanza che dovrebbe. Chiusa parentesi
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a al di là di questo, non vedo l’accostamento tra un popolo che tutto intero, anche se di una piccola zona d’Italia, si difende e spinge fuori il nemico anche a mani nude, con tutte le risorse umane possibili, donne e bambini compresi, e un altro che invece viene armato, preparato e lascia andar via, giustamente, le donne e i bambini, svuotando il territorio di quella parte di popolazione. I fatti dimostrarono il sentimento univoco, l’esasperazione rabbiosa ed esplosiva, dei napoletani tutti. I fatti, le interviste e le immagini, dimostrano che in Ucraina c’è lotta, ma anche sfinimento, rassegnazione, dolore, incredulità. E attesa. Non un atteggiamento univoco, dunque, che certamente non può attraversare uno spazio esteso e un tempo ampio. A Napoli fu tutto più chiaro. Durò quattro giorni, i tedeschi erano in rotta, ma quando un esercito scappa da un posto, compie le peggiori nefandezze e distrugge tutto. Napoli non lo permise. Fu una insurrezione viscerale. Mentre quella Ucraina è una forma di resistenza, imparagonabile alla rivolta partenopea e alla nostra Resistenza, ma simile, mai uguale, a tante altre nel mondo. Pensiamo un attimo al Kurdistan dove la lotta è quasi infinita. Questo per dire che le opposizioni armate prendono vie diverse forgiandosi in un modo o nell’altro a seconda dei contesti, e mischiare le carte banalizza forme e contenuti. Come dire, ci sono resistenze e resistenze e c’è la Resistenza. Perciò sarebbe opportuno difendere il 25 Aprile da attacchi stupidi da parte di chi non sa o non vuole sapere, per tutelare la nostra unicità e la nostra
storia.
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erto dobbiamo essere consapevoli che le cose possono cambiare e che non bisogna essere schiavi di tifoserie “a prescindere”, in maniera manichea. Piuttosto dobbiamo arrenderci al fatto che due anni di pandemia e due mesi di guerra nel cuore dell’Europa ci hanno portato a perdere fiducia e speranza, ad abbandonare l’idea che possiamo vincere facilmente sul virus come sul Male. Insomma il percorso ci sembra, e in effetti è, molto più accidentato e più misterioso, per cui la resilienza non è più sicura, ma la resistenza è necessaria. Con la lettera minuscola, però.
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UCR AINA VERSUS RUSSIA. E VICEVERSA. di Giovan Giuseppe Mennella
Il nome Ucraina può essere tradotto in italiano come “territorio di frontiera” e già questo fa comprendere la difficoltà a identificarne con certezza le caratteristiche storiche e politiche.
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uando Vladimir Putin si accingeva a lanciare contro il territorio ucraino la sua “Operazione militare speciale” ha affermato che è stata la Russia a creare l’Ucraina. Chiaro l’intento di dare all’invasione una giustificazione storica, o meglio ideologica. Perciò, con la consulenza dei suoi ideologi, si è voluto travestire da storico. In realtà è vero il contrario, perché il primo nucleo della civiltà degli slavi orientali, da cui scaturirono i russi propriamente detti, nacque proprio nel territorio dell’attuale Ucraina. Infatti, nell’alto medioevo, popoli scandinavi venuti dal grande Nord fondarono la cosiddetta “Rus di Kiev” cui il principe Vladimiro intorno all’anno mille diede la dignità di Stato degli slavi. Per cui
semmai è da Kiev che si è sviluppata la civiltà della Russia
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’errore in cui è incorso Vladimir Putin insegna che bisogna fare molta attenzione a manipolare la storia per usi politici. Il terreno è minato e quando i politici, specie gli autocrati e i loro consiglieri accondiscendenti, vogliono far credere di avere competenze scientifiche, prima o poi sono smascherati. Prima del Putin “storico” ritornano in mente il Mussolini “urbanista”, così definito da Antonio Cederna in un memorabile libro o lo Stalin “botanico”, fideistico seguace delle fantasiose teorie dello pseudo-scienziato Lysenko.
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o Stato di Kiev fu poi distrutto nel XIII secolo dall’invasione dei Mongoli e Tatari che instaurarono in quei territori dell’Europa orientale la tradizione di autocrazia politica che
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compagini statali presenti più a Nord furono obbligate a confrontarsi frequentemente.
sembra perdurare tuttora, specie nelle menti rassegnate della gente.
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istrutto da guerre intestine l’imperio dei Mongoli, a partire dallo scorcio del XIV secolo, la fiaccola della civiltà slava orientale migrò più a oriente, con la fondazione di Mosca e l’evolversi della Russia, allora posizionata molto più a est di quella odierna.
due avvenimenti più importanti fino alle spartizioni della Polonia alla fine del XVIII secolo, furono l’espansione a occidente della Russia di Pietro il Grande, culminata nella vittoria a Poltava nel 1712 contro gli invasori svedesi e la fortunata campagna militare della stessa Russia, durante il regno della Zarina Caterina II, contro i Turchi, che produsse l’occupazione russa della Crimea del Mar d’Azov e di una larga fascia della costa settentrionale del Mar Nero. In seguito alla vittoria russa fu fondata la città di Odessa, costruita in parte da architetti italiani e nella quale fu composta dai musicisti napoletani Di Capua e Capurro la canzone ‘O sole mio, dedicata al sole sorgente sul Mar Nero.
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territori, già della Rus di Kiev, attuale Ucraina, a ovest e a est dei fiumi Dniepr e Dniestr, furono inglobati nel Regno polacco-lituano, dove convivevano popolazioni di etnia polaccalituana, slava e tatara. I primi erano cristiani cattolici, i secondi, perlopiù contadini, erano ortodossi, mentre i tatari erano musulmani che guardavano verso l’Impero turco di Istanbul. La regione quindi rimase sostanzialmente una marca di confine tra ovest e est dell’Europa, con il suo coacervo di popolazioni di etnia, religione e sudditanza politica diverse ma strettamente intrecciate tra loro.
Le spartizioni degli anni ’90 del XVIII secolo tra Prussia, Russia e Austria, del territorio ex polacco ora ucraino, assegnarono alla Russia la fascia territoriale compresa tra Kiev e i Paesi baltici, e all’Austria, poi Austria-Ungheria dall 1867, la parte sud-occidentale, con le importanti città di Leopoli, Cernovits, Ivano Frankisk, situate nelle regioni della Galizia e della Bucovina.
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lla fine del XV secolo, le popolazioni contadine slave orientali e tatare del territorio ucraino, di religione cristiano ortodossa e musulmana, intolleranti della supremazia dell’elemento etnico dominante dei cristiani cattolici polacco-lituani, chiesero aiuto alla Russia cristiano-ortodossa, sviluppatasi più a est, intorno a Mosca, all’ombra delle torri del Cremlino, chiamata perciò anche Moscovia.
Questo fu l’assetto politico dei territori, attualmente dello Stato ucraino, che sopravvisse, attraverso tutto il lungo Ottocento, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale In quel periodo, i due territori e le popolazioni residenti, rispettivamente sotto l’Austria e sotto la Russia, acquisirono caratteristiche alquanto diverse.
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li slavi e i tatari intesero la guerra come lotta di liberazione contro i polaccolituani, mentre gli Zar russi della Moscovia interpretarono l’emergenza come un’opportunità per ampliare i loro possedimenti territoriali verso occidente, traendo solo a pretesto contingente le aspirazioni ribelli al dominio polacco.
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occidente, sotto dominio austriaco, ci fu una maggiore efficienza amministrativa e organizzativa, la religione fu quella cristiana cattolica, oppure quella cristiana ortodossa, distinta organizzativamente a seconda se fosse legata al Patriarcato di Costantinopoli o alla Chiesa di Roma (Chiesa ortodossa Uniate); inoltre non erano usuali i pogrom contro gli ebrei.
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a guerra si concluse alla fine del XVI secolo con un trattato che attribuì i territori a occidente del fiume Dniepr al Regno polacco-lituano e quelli a oriente dello stesso fiume, compresa Kiev, al Regno russo moscovita.
Viceversa, a Oriente, la parte sotto amministrazione zarista fu caratterizzata da poca efficienza amministrativa, maggiore arretratezza e povertà; religione cristiana ortodossa sottoposta al Patriarcato di Mosca e frequenti pogrom contro gli ebrei.
Da quel momento le vicende del territorio ucraino furono influenzate dal confronto politico e militare tra la Polonia-Lituania e la Russia, salvo che nelle zone più meridionali, verso il Mar Nero, dove si fece sempre sentire la presenza dell’Impero ottomano, con cui entrambe le
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e differenze tra la parte occidentale e quella orientale dell’Ucraina perdurano, in linea di massima, fino a oggi, anche dopo l’instaurazione nel 1991 dello Stato indipendente. Tuttavia, l’invasione dei russi del 24 febbraio scorso, con le sue distruzioni e gravi perdite di vite umane, sembra aver ricompattato la maggioranza degli ucraini, compresa anche una buona parte di russofoni e perfino di quelli finora potenzialmente russofili.
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rgomento non secondario è quello della differenziazione tra lingua e letteratura russa e lingua e letteratura ucraina. I due linguaggi nascono da comuni radici fonetiche, ma nel tempo si sono abbastanza differenziati, essendo il loro reciproco rapporto abbastanza similare a quello che ci può essere tra italiano e spagnolo, nelle due manifestazioni del castigliano e del catalano. Il problema più complesso è stato lo sviluppo delle due rispettive letterature. Cioè, dato che la preminenza politica sulla maggior parte del territorio fu quella della Russia, il russo fu la lingua ufficiale e le autorità, anche nelle associazioni degli scrittori, giunsero a proibire le espressioni artistiche in ucraino. Anche se alcuni sommi scrittori, come uno degli iniziatori della letteratura russa Nikolaj Vasilevic Gogol’, o, molto più tardi, il grande Michail Afanasevic Bulgakov, erano ucraini di nascita, tuttavia si espressero in russo. Però, tra il ‘700 e l’800, ci furono anche importanti scrittori in ucraino che rivendicarono con orgoglio la loro nazionalità e la loro lingua e per questo furono perseguitati dalle autorità di Mosca. Il più grande fra questi fu Taras Hryhorovyc Sevchenko, il poeta nazionale e codificatore della lingua e della cultura ucraina.
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ggi in Ucraina l’origine etnica e la lingua parlata non sono un discrimine determinante. Si può essere un convinto cittadino ucraino anche se si parla russo come prima lingua e anche se si è di origine russa o ebraica o polacca. Il Presidente Zelensky è di origine ebraica e russofono. Come se l’Italia avesse un Presidente ebreo francofono, una specie di Alain Elkann. Tutto ciò sembra confermare la pretestuosità degli argomenti di Putin circa gli ucraini russofoni del Donbass che vorrebbero ardentemente riunirsi alla madrepatria russa. Durante la Prima Guerra Mondiale ci fu la prima invasione delle armate tedesche e i primi
aneliti nazionalisti ucraini che diedero vita alla formazione della Rada, il Parlamento elettivo democratico ucraino. Con la Rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e la successiva Guerra Civile, il territorio ucraino fu teatro di scontri accaniti, cui parteciparono l’Armata Bianca comandata dal Generale Denikin, l’Armata Rossa fondata da Trotzky e anche i nazionalisti ucraini dell’Armata contadina anarchico-nazionalista del Comandante Machno.
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e aspirazioni nazionaliste furono frustrate con la sconfitta di Machno e con la fondazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nell’ambito della quale fu istituita la Repubblica Ucraina, strettamente legata alla Russia e al Partito Comunista sovietico. E’ questo il periodo e gli avvenimenti cui si è riferito Putin quando ha affermato che fu Lenin a creare la Repubblica ucraina. Tuttavia, quella non fu una repubblica indipendente ma strettamente legata allo Stato sovietico. Non solo, ma più tardi, negli anni ’30, furono anche duramente repressi dal potere staliniano molti dirigenti comunisti ucraini. Anche perché accusati di non reprimere con sufficiente durezza i contadini, di cui era composta in maggioranza la popolazione ucraina, che si rifiutavano di accettare la collettivizzazione forzata del lavoro nelle campagne. Stalin li punì procurando mediante il suo efficiente apparato repressivo una carestia per la quale tra il 1932 e il 1933 morirono milioni di abitanti. Perciò le armate naziste che nel 1941 invasero il territorio furono accolte in un primo momento come liberatrici e i nazionalisti ucraini sperarono di poter instaurare uno Stato indipendente. I piani di Hitler però erano diversi, quelli di sfruttare il territorio e suoi abitanti per rifornire di materie prime e di schiavi lo sforzo bellico tedesco.
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osip Bandera, capo delle bande armate nazionaliste, fu spedito in campo di concentramento nazista e solo più tardi, quando la guerra cominciava a volgere in senso sfavorevole ai tedeschi, fu liberato e lasciato libero di combattere per l’Ucraina indipendente. La resistenza nazionalista ucraina contro i sovietici fu l’ultima a cedere in Europa, tanto che gli ultimi resistenti nazionalisti ucraini si ritirano in Austria
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che ritraggono Stalin trionfante, circondato dai suoi generali vittoriosi. E Vladimir Putin, per ridare dignità alla Russia, si è sempre richiamato, fin dall’inizio del suo governo, a quell’iconografia vincente e patriottica, quasi patriottarda e revanscista.
nel 1953. È da questi complicati avvenimenti di 75 anni fa e dal problematico coinvolgimento con i tedeschi di Bandera e dei suoi combattenti nazionalisti durante la guerra, che Vladimir Putin e i suoi collaboratori hanno creato la narrazione secondo la quale ancora oggi l’Ucraina andrebbe bonificata dai nazionalisti filonazisti. Ovviamente, dato il sistema di potere autocratico vigente in Russia, è facile che anche una buona parte della popolazione sia stata indotta a crederlo.
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n’altra differenza è che gli ucraini, al netto delle emigrazioni di massa che caratterizzarono tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX tutte le popolazioni povere dei territori europei meridionali e orientali, hanno avuto due grandi ondate migratorie, che i russi non hanno mai sperimentato. La prima ondata fu quella, a partire dal 1945, dei nazionalisti ucraini che avevano combattuto Stalin e che comunque non avrebbero tollerato di continuare a vivere sotto il dominio sovietico. Erano per larga parte legati anche loro a ideologie sicuramente non democratiche, di stampo nazionalista e anche fascista. Tuttavia, stabilitisi in genere in Paesi di civiltà anglosassone, finirono per acquisirne, volenti o nolenti, all’inizio più nolenti che altro, la tipica mentalità democratica da Guerra Fredda di quei Paesi, cioè anticomunista, ma anche antifascista. Col tempo molti di loro acquisirono una certa ricchezza economica e hanno sempre aiutato i loro compatrioti rimasti in Ucraina, soprattutto dopo il 1991. La seconda ondata migratoria è quella originata dopo il 1991 da ragioni di povertà economica. Infatti, in Ucraina non esistono le sterminate risorse di gas, petrolio, minerali preziosi che consento bene o male alla Russia e ai suoi abitanti di non dover dipendere da una vera e propria emigrazione di massa. I migranti economici ucraini hanno avuto modo di apprezzare in questi trenta anni le possibilità di miglioramento che offriva loro l’Europa occidentale e hanno stretto legami sempre più saldi con essa.
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el secondo dopoguerra, il territorio della Repubblica socialista sovietica ucraina fu ampliato, con l’aggiunta di una parte della Galizia con Leopoli, già dello Stato polacco, e di una parte della Bucovina con Cernovitz, Cernauti in rumeno, dove era nato Paul Celan, già della Romania. Inoltre, Il Segretario Generale del Partito Comunista sovietico Nikita Sergeevic Kruscev, ucraino egli stesso, a compenso delle violenze staliniane anti-ucraine, aggiunse al territorio ucraino la penisola di Crimea. Altra ragione, forse un pretesto, per l’operazione militare decisa da Vladimir Putin nel 2014, con il coinvolgimento anche del Donbass, e con il referendum per l’annessione della Crimea. La situazione geopolitica creatasi alla fine della Seconda Guerra Mondiale cambiò radicalmente a partire dal 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la nascita del moderno Stato indipendente ucraino. Fin dalla sua nascita nel 1991 lo Stato ucraino fu caratterizzato da importanti differenze rispetto al vicino Stato russo. L’Ucraina è nata come uno Stato vittima di soprusi e sconfitte, mentre quello russo rivendica nel suo modo di esistere un’attitudine alla conquista e alla vittoria.
Terza differenza è che nessun Presidente del Consiglio ucraino, mancando ricchezze naturali, ha potuto durare molto al potere, per l’impossibilità di legare a sé con potentissime elargizioni di potere economico una élite stabilizzatrice. Cosa che è riuscita benissimo a Vladimir Putin il quale, legando strettamente gli oligarchi, ha stabilito un durevole potere personale di stampo autocratico.
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l simbolo fondante dell’Ucraina è il monumento alle vittime dell’Holodomor, lo sterminio per fame dei contadini ucraini programmato freddamente da Stalin nel 193233, mentre un simbolo fondante della Russia è facilmente identificabile nella retorica della vittoriosa “guerra patriottica” contro i nazisti del 1941-45, esemplificata nelle numerose fotografie
Questo è lo stato dei fatti al momento in cui è in svolgimento la guerra russo-ucraina. Una Russia più ricca di risorse, chiusa in se stessa, con scarsa
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emigrazione e scarsa partecipazione politica della sua popolazione, con un Presidente che ha legato a sé un’élite economica di imprenditori di dubbia estrazione e di dubbie ricchezze, che gestisce con mano ferrea un potere che dura da più di venti anni, improntato a una retorica patriottica e revanscista che vorrebbe ricreare una cintura di sicurezza di Stati amici, per non dire vassalli, non tanto per paura della NATO, ma per paura di avere alle frontiere Stati e popolazioni con aspirazioni e fermenti democratici totalmente opposti alla propria filosofia di governo, e che ha l’intenzione di ricreare, almeno in parte, il potere che gestiva il regime sovietico. Una filosofia politica che sa più di ‘900 che di anni Duemila.
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a quali possono essere le prospettive auspicabili per il futuro dell’Ucraina e della Russia, ma anche dell’Europa e del Mondo? Non certo un colpo di stato militare che tolga di mezzo Vladimir Putin, i suoi accoliti e il suo sistema di potere, come auspicato da qualche circolo politico e intellettuale occidentale. L’esercito russo fu fondato da Trotzky, come Armata Rossa, con una valenza specificamente politica, strettamente connesso alle esigenze di lotta del Partito bolscevico, tanto è vero che, per lunga parte della sua esistenza, un compito e un potere preponderante lo ebbero i Commissari Politici aggregati a ciascuna unità. Perciò l’Armata Rossa non ha mai tentato un colpo di stato contro i politici al potere. Anche quando fu implicato nel colpo di stato dei dirigenti tradizionalisti contro Gorbaciov nell’agosto 1991, i suoi capi non fecero mai violenza, ma anzi andarono a pregare più volte lo stesso Gorbaciov affinché si ponesse alla loro testa.
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iuttosto, una volta che auspicabilmente lo sforzo bellico dell’invasione russa sarà stato ricondotto a più miti consigli, le nazioni democratiche occidentali dovrebbero fare ogni sforzo per coinvolgere in una pacifica e proficua gestione del mondo anche quegli Stati che non accettano il modo di governo democratico, prendendo atto che non tutte le nazioni, e i loro popoli, usino mettere al primo posto delle loro esigenze la democrazia e i diritti di libertà, ma piuttosto lo sviluppo economico e il prestigio nel mondo.
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LA DEMOCRAZIA ESAUSTA COME IL PIANETA di Raffaele Flaminio
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26 di aprile siamo al secondo mese pieno di guerra in Ucraina. In questo nuovo cataclisma, fuori dell’uscio di casa, la domanda che mi sono posto è quale sia il senso della Democrazia. Intendiamoci, muovo la più ferma e convinta condanna alla Federazione Russa rappresentata da Putin per l’aggressione e le stragi che si compiono su quello sciagurato territorio di confine che è l’Ucraina. Ma quella invasione temeraria e brutale dove trova le sue origini? Tanto si è detto e tanto ancora si sta dicendo, le acque sono sempre più torbide e insidiose e in questa melma che puzza di morte credo che la Democrazia sia all’asfissia, moribonda. La Demos sembra aver subito un ribaltamento rispetto alla Kratos. I rappresentanti a cui abbiamo delegato il nostro verbo sembrano degli adolescenti al tavolo del Risiko, dove le armi, la morte, la distruzione sono assimilati a quegli innocui modellini di carri armati che muovono la loro ostilità con il lancio dei dadi che dichiarano numeri a caso.
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l Potere di pochi, invece, diventa insostenibile per le moltitudini dei Paesi con bollino di autenticità Democratica ai quali si affiancano altri che di Democratico non hanno nulla, nemmeno la parola stessa riportata nei loro dizionari. A questi Paesi stiamo dando legittimità e solennità e ai quali pagheremo dazio. Il dibattito sulla fornitura di armi è il solito e stucchevole, come se le conseguenze di ciò non siano già
presente nei tanti teatri di guerra presenti nel mondo. Tutta l’Africa ne è testimone, come il Medio Oriente e parte dell’Asia centrale. Un cane che si morde la coda.
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ondanniamo la Russia con le parole e le finanziamo la sua guerra con i dollari e con gli euro con cui paghiamo il gas. È lo stesso paradigma dei vaccini anti Covid e dei brevetti. Eppure, quei vaccini sarebbero dei messaggi di Pace, se non fossero nelle mani di pochi che della Democrazia se ne infischiano. E allora dove sta la forza di questa forma di Governo che noi celebriamo se non è capace di esprimere con chiarezza ciò che intende fare, declinare con chiarezza gli atti che compie. Un’ idea di continente europeo Libero dalla guerra e dai condizionamenti d’oltre oceano e oltre Manica sarà pure possibile? O dobbiamo rassegnarci alle Talassocrazie e Tellurocrazie che sono ben altra cosa della Democrazia? La delega al massacro è la nuova frontiera esercitata dalle stesse Democrazie europee, sin da quando hanno pagato i despoti levantini affinché esprimessero la propria brutalità e vocazione allo sterminio, abbiamo ben presente “l’esportazione della Democrazia” e i costi che essa ha rappresentato. Le opinioni pubbliche sono brutalizzate da quelli che combattiamo e anestetizzate dal modello assolutistico di Democrazia. Resta da vedere quanto il Pianeta avrà da vivere.
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QUEL VIAGGIO ( MAI FAT TO) IN UCR AINA... E NELLA MIA IGNOR ANZA di Giovanni Aiello
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i avvicinano le vacanze e quindi abbiamo voglia di organizzare un bel viaggio. Uno che sia diverso dal solito, magari anche in un paese poco citato, per alcuni “sfigato”, decisamente non al centro dei circuiti del turismo internazionale: l’Ucraina. “Ma dai, che cosa ci andiamo a fare in Ucraina!” si affretta subito a dire l’amico diffidente, il turista “mainstream” che fa solo viaggi in posti che già sono alla moda. L’Ucraina è un paese depresso. In Italia ci sono quasi 300mila ucràini venuti a lavorare perché non lì c’è nulla. Andiamo in Russia semmai continua a blaterare l’amico un po’ ignorante -, a Mosca e a San Pietroburgo, per fingere di essere spie dell’occidente fra quella gente cattiva, dall’accento minaccioso e dalla scrittura con caratteri inutilmente complicati.
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invece no, niente capricci. Quest’anno ho deciso che si parte proprio per l’Ucraina. E dunque non appena atterrati all’aeroporto di Kiev, ancora prima di andare in albergo, si fa subito un giro per il centro della capitale in taxi (anzi con la maršrutka, una sorta di piccolo minibus collettivo molto diffuso). Comprendiamo immediatamente che i suoi tratti sono quelli di una città grande, con quasi tre milioni di abitanti, molto trafficata ma anche molto verde, famosa per i parchi e le belle rive del suo fiume, il Dnepr. Il giorno successivo scopriamo passeggiando che sono tantissimi gli artisti di strada e colpisce la particolare architettura sovietica, di cui è un chiaro esempio Majdan Nezaležnosti (Piazza Indipendenza), uno dei cuori della città insieme a Porta Liadski. Non mancano stupendi edifici storici come la trecentesca Cattedrale di Santa
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travolta dal turismo di massa. Le sue palazzine della belle époque, i monumenti e i tanti musei si alternano ai viali e alle numerosissime pasticcerie e soprattutto caffetterie (sono centinaia). Una tradizione così importante quella del caffè da organizzare anche in questo caso un festival famoso nel mondo. E ancora, allontanandosi di pochi chilometri a sud della città, si trova la valle dei narcisi. Si tratta della riserva naturale più grande d’Europa, dove si possono ammirare distese infinite di verde e soprattutto questa rara fioritura (la pianta del narciso è in via di estinzione) legata anche all’antico mito, per cui proprio qui secondo la leggenda il giovane Narciso si sarebbe innamorato della propria immagine riflessa nell’acqua fino ad annegare nel tentativo di raggiungerla.
Sofia, con le caratteristiche cupole “a cipolla” o Palazzo Mariinskij, disegnato in stile barocco dall’architetto italiano Bartolomeo Rastrelli. C’è come prevedibile una metropolitana cittadina con più linee (di cui è in corso un ampliamento) e anche una piccola funicolare che collega la rocca antica della città, dove si trova l’importante Monastero dorato di san Michele, con il quartiere di Podil che invece è a valle.
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opo due giorni ci spostiamo di quasi cinquecento chilometri verso sud per raggiungere Odessa, che si trova proprio sulle rive del Mar Nero. Una città speciale, un po’ mediterranea e un po’ ottomana, un po’ francese e un po’ austriaca, un po’ rinascimentale e un po’ neoclassica. Ciò anche per merito di un altro architetto italiano, Francesco Boffo, che nel corso dell’Ottocento ha contribuito a definire l’aspetto attuale di questo centro realizzando decine di edifici e monumenti. E fra questi non possiamo non ricordarci della Potëmkinskaja lestnica, ovvero la scalinata Potëmkin, ripresa nel celebre film. La città è famosa inoltre per la sue spiagge, come quella di Arcadia, e i suoi centri termali. Ma Odessa è soprattutto un porto cosmopolita, dove da secoli transitano merci e quindi navi provenienti da tutto il mondo, e ovviamente dall’Italia, in particolar modo dalla Repubblica di Genova, che aveva qui un suo presidio già nel Duecento. Per questo stesso motivo però la città è stata anche al centro di continue contese e di guerre, che hanno spesso segnato in modo durissimo i luoghi e ancora di più le persone.
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a mattina dopo partiamo dalla collegatissima Leopoli con un volo diretto per la nostra città. E tornando pensiamo a quanto sia stato appagante farsi sorprendere da luoghi di cui sapevamo così poco e dei quali avevamo per forza di cose un’immagine così superficiale e fuorviante. E chissà per quanti altri paesi e culture potrebbe valere questo ragionamento. Quante assurde suggestioni andrebbero superate sulla storia, sulle città e sulle persone in giro per il mondo. Di quanti luoghi apprendiamo soltanto in occasione di guerre e devastazioni, e di quanti altri non ci interesserà mai sapere nulla? L’anno prossimo allora si va in Medio Oriente, in Libano, o addirittura più in là, nel Golfo Persico, per visitare Abhu Dhabi, il Bahrein e poi spostarsi a ovest verso lo Yemen, uno dei centri di civiltà umana più antichi. Oppure si va ad Astana o a Minsk. Ma c’è anche l’Asia più lontana, l’arcipelago indonesiano, la Papua Nuova Guinea (la terra in cui si parlano più lingue al mondo, oltre 800). E poi Karachi, con i suoi 14 milioni di abitanti. L’Africa, il deserto della Namibia con le sue carcasse di navi lungo la Skeleton Coast, l’isola della Réunion, a largo del Madagascar nell’Oceano Indiano. E ancora dovrei vedere la piana delle Giare, il colossale porto di Busan o la spiaggia di Ponta Negra, le piramidi nubiane di Mëroe…
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appa finale del nostro viaggio è Leopoli. Questa città, che si trova a poche decine di chilometri dal confine occidentale, quello con la Polonia, ha un centro storico che dal 1998 è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. Si tratta anche del maggiore centro culturale del paese, sede di università prestigiose, di un conservatorio, di un‘orchestra filarmonica e di teatri per opera e balletto. Anche il tessuto industriale ed economico inoltre è molto sviluppato. E chi avrebbe immaginato che uno dei maggiori festival europei di jazz si tenesse proprio qui, e che riunisse quasi 100mila persone. Abbiamo assistito infatti all’ultima serata nel Parco culturale di Bohdan Khmelnytskyi, vivendo un’esperienza decisamente inattesa. La città è bellissima, autentica, anche perché non ancora
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AH, CHE VITA MER AVIGLIOSA di Antonella Buccini
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etaverso. Dunque, un altrove è possibile. E Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno! Allora ho provato a informarmi. Giusto per saperne quel tanto che basta e fare le valigie. Il termine lo ha coniato Neal Stephenson, uno scrittore di fantascienza. E chi altri se no. Si tratta di un mondo digitale tridimensionale, una realtà virtuale, che permette di sfuggire al mondo fisico. Così lo descrive l’autore nel libro Snow Crash del 1992 e in un modo analogo ci viene proposto oggi. In effetti second life con gli avatar e tutto quanto non ha preso piede né il lavoro o lo studio
da remoto di questi ultimi tempi promette bene. Anzi. Infatti, recenti ricerche hanno rilevato che l’utilizzo delle piattaforme induce un vero e proprio disturbo definito Zoom Fatigue, la fatica da Zoom, riconducibile alla nostra memoria autobiografica. In pratica noi costruiamo la nostra identità anche attraverso lo spazio fisico che frequentiamo e che contribuisce, ad esempio, a definirci lavoratori, nel caso dell’azienda, studenti, nella scuola, tifosi allo stadio e così via. Tutti i luoghi assumono significato. È dunque lo spazio fisico dove ci muoviamo che sedimenta la nostra esperienza.
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La video conferenza è un non luogo dove, invece della condivisione, si sperimenta un malcelato senso di alienazione perché, da un lato, non ci siamo mai mossi dalla nostra stanza, dall’altro, non ci percepiamo in un’altra dimensione.
poi l’economia, anima quanto mai palpitante di questi tempi! Un nuovo mercato si profila affrancato da tutte le dinamiche concrete che ne condizionano nascita e vigore: materie prime, trasporto, logistica, risorse umane. Chi può investire senza conoscere se e quando questo pianeta digitale avrà davvero successo e diventerà pratica diffusa e indispensabile è ovviamente chi ha capitali davvero consistenti. E infatti, ad esempio, grandi firme della moda si stanno già muovendo in tal senso. Perché dovremo vestire i nostri avatar e non solo, abitare una casa, possedere l’auto, e tutto il resto. Siamo dunque destinati a replicare nel metaverso la nostra vita? E allora la terra promessa del paradiso digitale? Siamo quel che siamo, ovunque, ahimè. Anzi. Stavolta si gioca pesante. Non solo i dati ma i comportamenti anche più intimi potranno essere osservati, l’identità manipolata, la percezione della realtà alterata. Rischiamo di chiuderci in casa a far finta. Il tutto in assenza di una regolamentazione nazionale e sovranazionale all’esito di un’analisi attenta e multidisciplinare di tutti gli scenari coinvolti. Del resto la politica, già inerme di fronte alle perversioni digitali o ai mercati di monete parallele o ai monopoli indisturbati, non sembra disposta ad affrontare questa imminente rivoluzione esistenziale. Questa nuova dimensione potrà sottrarre o aggiungere energie al mondo reale. Una rivoluzione potente, straordinaria che ha bisogno allora di urgenti, giuste intenzioni. Il 28/10/2021 Zuckerberg ha annunciato che la sua società avrebbe cambiato nome: da Facebook a Meta. Ha scritto che siamo all’inizio di un nuovo capitolo.
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il metaverso? Tutta un’altra storia. La realtà virtuale e quella aumentata, (la realtà aumentata sovrascrive il mondo fisico esistente, aggiunge qualcosa, la realtà virtuale è tutta una novità) come concepite nel metaverso, ci rendono presenti nei luoghi digitali. È stata elaborata cioè una realtà mista dove il mondo fisico e quello virtuale si influenzano reciprocamente. Una serie di strumenti, come occhiali immersivi ibridi, avatar quantomai verosimili, sensori indossabili, ci danno la percezione concreta del luogo e la consapevolezza di esserci. Infatti, gli studi più recenti delle neuroscienze paragonano il nostro cervello a un simulatore. Noi siamo convinti che il nostro corpo sperimenti direttamente il mondo intorno a noi. Non è proprio così. Alla fine, funzioniamo attraverso una sorta di previsione delle percezioni che ci aspettiamo di ricevere dalle nostre azioni in maniera da attivare l’attenzione e i movimenti necessari per conseguire il risultato. Da non credere! La sindrome dell’arto fantasma o l’anoressia nervosa, ad esempio, dimostrano proprio che l’esperienza del nostro corpo non è diretta ma è l’esito di una simulazione creata dalla nostra mente attraverso una serie di segnali concreti del corpo. La simulazione nei due casi dell’arto fantasma o dell’anoressia è come inceppata, fissata su una previsione sbagliata. Ecco, il metaverso ha molto a che vedere con questi meccanismi. La realtà virtuale e quella aumentata sono impostate come il nostro cervello, sono orientate cioè a prevedere le reazioni e le sensazioni che viviamo nel mondo reale. Nel metaverso possiamo viaggiare, incontrare amici, andare al cinema, visitare un museo e tutto ciò che ci capiterebbe nella vita senza muoverci da casa e con la sensazione netta di essere proprio lì, dove desideriamo. Ma non solo. Ogni altra esperienza improbabile che riusciamo a concepire potrà essere vissuta come ad esempio entrare in un corpo diverso già noto o di pura invenzione. In questi casi il cervello cambierà i propri meccanismi di simulazione adattandoli alla nuova personalità.
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E GIA’ di Raffaele Flaminio
E già, e già, adesso sono qua; mi guardo intorno, questo luogo non ha nulla di familiare.
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i sono arrivato stamattina, dal lavoro, una mattina come tante. Che luogo è, vi chiederete? Me lo sto chiedendo anch’io: è la domanda che subito viene in testa, ma dobbiamo avere pazienza; ho bisogno di un po’ di pazienza. Concedetemi, anche un po’ della vostra. Stamattina, all’alba, il sole non era ancora pieno, però, le striature che ornavano il cielo promettevano bene. Sorseggiavo il mio primo caffè, si! Il primo della mia lunga giornata perché io ne bevo abbastanza; il caffè che bella invenzione, mi pare di aver sentito da qualche parte, che il caffè non sia una “invenzione”
napoletana, che anzi, il caffè, provenga dal nord Europa. Lo introdusse alla corte di Napoli la regina Maria Carolina D’Asburgo, la moglie di quel nasone di re Ferdinando di Borbone, in occasione di un ricevimento alla Reggia di Caserta lo fece servire agli invitati. Sto divagando troppo e non voglio essere accusato di abuso di pazienza. Dunque con la tazzina in mano, fumante, ho passato in rassegna le stanze dei miei affetti: i miei due bambini dormivano saporitamente; finalmente questo Covid sta allentando un poco la presa. Comunque io e il mio amore più grande, mia moglie e chi altrimenti, abbiamo fatto vaccinare i bambini; i bambini hanno cinque e otto anni, così, ci siamo tolti un bel pensiero. Sono andato a dare un bacio alla mia bella
L’UNITA’ LABURISTA - 48 che ancora sonnecchiava le ho detto: Amore mio, io vado, ci vediamo sta sera.
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lla fermata dell’autobus eravamo sempre gli stessi, ormai sono anni che io e gli stessi facciamo lo stesso percorso, dai Tamburi al porto e viceversa. I tamburi, si, i Tamburi, il quartiere operaio di Taranto, quello che sta sopra all’ex Ilva. Oggi al porto dobbiamo fare un lavoro importantissimo; un lavoro che mi, che ci riempie di orgoglio. Un lavoro ecologico. Si perché noi che lavoriamo al porto, ogni giorno, respiriamo un mucchio di smog, tra i muletti, le gru, gli autoarticolati, le ciminiere delle navi, qui tutto è alimentato dal gasolio, fumo, fumo; voi lo sapete che casino produce il petrolio e i suoi derivati? A Taranto siamo esperti. Pure i padroni lo sanno, però, le mascherine le abbiamo avute per il Covid e le cuffie per i rumori, solo adesso perché i controlli si sono fatti più severi con la questione dell’Ilva.
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n banchina ci sono due navi giganti con il loro carico ecologico, dicevo. Trasportano piloni e pale eoliche; che bella cosa l’aria; così impalpabile e necessaria per la vita, però, pure, così potente; così potente che riesce a muovere queste ali giganti che girando producono elettricità senza bruciare niente. Se ci penso mi vengono in mente i giochi dei bambini. Ieri abbiamo scaricato i componenti dei piloni, oggi, invece, tocca alle pale, Madonna! Come sono grandi. Siamo in tanti che ci lavoriamo, dobbiamo metterle su certi telai e fissarle. Il sole è alto, splendente, il cielo è di un azzurro intenso, da quanto tempo non lo vedevo così intenso, dalla banchina il cielo e il mare si toccano, si abbracciano. Io tengo molto al mondo, voglio fare qualcosa di buono per questo mondo, i nostri bambini non se la meritano una Terra pulita? Io dico di si.
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adonna, come siamo piccoli rispetto a questi giganti inerti. Con i muletti e le corde di acciaio li dobbiamo fissare per bene per evitare che scivolino e si danneggino. “Attenzione a quella corda, sta cedendo”. E già, e già e adesso sono qua.
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I VINI UCR AINI: BAT TAGLIE E B OT T IGLIE di Veronica D’Angelo
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ella guerra in Ucraina anche l’industria del vino sta facendo la sua parte.
di qualità, soprattutto dolci, persa nel 2014 a seguito del contestato referendum che l’ha annessa alla Russia.
La produzione è ferma in tutto il Paese e se molte aziende vinicole stanno aiutando l’esercito ituata nel Mar Nero, dove la vite era coltivata utilizzando le bottiglie per la produzione di molotov, dai greci sin dal IV secolo a.C., questa altre sono state abbandonate, trovandosi proprio regione vanta un clima mite e una posizione nel mezzo degli scontri armati. invidiabile, circondata da pinete che la proteggono dalle montagne e attraversata dalla brezza marina, n Ucraina vi sono infatti tre aree principali che hanno reso i suoi vini capaci di competere con di produzione del vino. La maggiore e più quelli europei più famosi. produttiva è situata a sud-ovest, nei dintorni di Odessa. Le altre due sono la Transcarpazia, ovvero Per questo motivo i produttori ucraini riferiscono la regione ad ovest, ai confini con l’Ungheria, e di avere avuto seri danni a seguito di quella che quella a sud del fiume Dnipro, intorno alle città di definiscono senza mezzi termini la “invasione russa Kherson e Dnieperpetrovsk. della Crimea”.
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Mentre in Transcarpazia si producono vini secchi, Eppure, la storia del vino lega a doppio filo Ucraina nel sud del Paese nelle zone vocate si producono e Russia sin dai tempi antichi. E non è stata sempre anche spumanti e vini dolci. La zona vitivinicola una storia di antagonismo e di conflitto. più importante del Paese, tuttavia, era la penisola di Crimea, famosa da secoli per la produzione di vini
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a Transcarpazia, ad esempio, era conosciuta per la produzione di vino sin dal Medioevo. Si racconta, però, che nel 1711 lo zar Pietro I, in visita nella regione, dopo aver assaggiato i vini locali decise di acquistare interi vigneti che avrebbero poi fornito il vino alla corte russa di San Pietroburgo. Da allora quei vigneti vengono chiamati “i vigneti dello zar”.
E anche in Crimea la storia racconta che lo sviluppo della viticoltura fu merito della attenzione che lo zar Nicola I decise di dedicare a questa regione, dopo che entrò a far parte dell’Impero Russo alla fine del XVIII secolo.
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o zar, infatti, grande estimatore del vino francese e intenzionato a competere con i migliori vini internazionali, nel 1828 incaricò il conte Michail Woronzow di occuparsi delle vigne della penisola. Fu allora che in Crimea cominciarono a impiantare vitigni internazionali quali Merlot, Cabernet Sauvignon, Pinot Grigio, Pinot Nero, che importavano dai Paesi europei, oltre a quelli georgiani che si aggiungevano ai vigneti autoctoni bianchi e rossi. E sempre in Crimea lo zar Nicola II acquistò una residenza, precisamente nella località di Massandra, chiamando un famoso enologo russo, l’appassionato principe Lev Golitzin, a curare la produzione del vino.
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uesti nel 1894 fece costruire a Massandra un’azienda moderna, che portò alla produzione di vini pregiati, tra cui Bordeaux, Riesling, Kokur, Tokai e persino champagne, prodotti con le stesse tecniche di vinificazione francesi, al punto che all’Esposizione mondiale di Parigi del 1900 lo champagne “Nuovo Mondo” delle Cantine di Massandra riuscì addirittura a vincere il Gran Prix, battendo le bollicine francesi in gara. Per volere di Golitzin, inoltre, grande collezionista, a Massandra fu costruita una cantina sotterranea, composta da sette tunnel di diverse profondità, dove si conservavano i vini che arrivavano da tutto il mondo. Questa cantina esiste ancora oggi e possiede probabilmente la più antica e ampia collezione di vini del mondo - all’incirca un milione di bottiglie che le è valsa nel 1998 l’ingresso all’interno del Libro dei Guinness.
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e da un lato, quindi, è evidente che i produttori di vino ucraini abbiano subito un duro colpo dalla perdita della Crimea e dei suoi vigneti storici, dall’altro quanto saranno stati felici i russi
di tornare in possesso della Cantina che era stata il fiore all’occhiello degli zar, resa grande dalla passione del Principe Golitzin? Anche nelle battaglie del vino, a ben vedere, hanno tutti ragione.
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IL TEMPO DELL’OZIO NEI CAFFE’ PARIGINI di Anita Napolitano
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caffè a Parigi sono inimitabili, restano luoghi caratteristici, dove si può avere un’idea di quello che potevano essere in passato, di quali tradizioni li caratterizzino. Tutti riportano ad un’atmosfera di luogo dove incontrarsi come per un rito, come per il caffè gourmand o una cioccolata calda, anche se questi posti sono diventati dei punti di ritrovo un po’ diversi dal passato. C’è sempre posto anche se sono molto frequentati, non c’è caos, c’è un movimento discreto che non si arresta e diventa un movimento silenzioso. Sono questi i luoghi in cui da sempre parigini e turisti si ritrovano per una pausa.
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el mio recente viaggio a Parigi, poche settimane fa, dove ritorno ogni volta per scoprire meglio tanti luoghi nuovi, passando da un luogo all’altro della città, vista come un museo a cielo aperto, mi sono soffermata ad osservarne anche i Caffè, forse per la curiosità di scoprire i luoghi in cui nei secoli passati i parigini intrattenevano relazioni sociali, culturali e politiche con importanti personaggi: la sensazione che ho avuto frequentando questi punti di ritrovo è che chi lo frequenta non va di fretta.
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arigi è un luogo dove tutto scorre, tutto continua in un movimento preciso, ben delineato, senza caos, determinato,
scorrevole con l’impressione per me, di potersi fermare all’improvviso e, infatti, nel soffermarmi a guardare qualunque cosa attirasse la mia attenzione, una vetrina, un portone, alzando lo sguardo verso i balconcini dei palazzi, improvvisamente mi fermavo per percepirne tutto intorno lo spazio libero in mezzo al traffico di Parigi, continuando in questo movimento in assoluta libertà dove nessuno mi ha spinto, nessuno mi passava davanti o mi calpestava mentre stavo per entrare in qualunque luogo frequentato, affollato, nessuno che occupava il mio spazio di distanziamento.
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uriosando tra i Caffè ho notato come i francesi conservano questi locali tipici, unici senza paragoni, mentre tutt’intorno sorgono locali internazionali uguali e anonimi in tutto il mondo, mentre qui, persino Ladurèe agli Champs Eliseé, nonostante sia diventato il caffè più turistico e forse per questo un po' meno attraente, rimane bello. Al piano superiore, come un museo, il caffè è lì per essere ammirato, mentre al piano inferiore ci si può accomodare tra i tavolini, su delle poltroncine in velluto. Qui il cafè, con la sala da tè e il ristorante, ha uno stile particolare con dorature, marmo, sete, lampadari di cristallo, finiture sontuose dove il colore che prevale è il verde chiaro e il rosa. Poi tante copie de Ladurèe. Per tutta Parigi fin dentro l’aeroporto, ma anche nel resto dell’Europa e del mondo è possibile
L’UNITA’ LABURISTA - 47 48 trovare un Caffè Ladurèe, è questa una buona trovata commerciale francese, quella di esportare ovunque un locale tipico, conservando con rispetto e protezione le proprie caratteristiche, guardando avanti, adattandosi al mercato contemporaneo con l’eleganza e disinvoltura tipica dei francesi. In questo posto con “nonchalance” si spendono quindici euro più o meno, solo per un Toast a là Francaise, un dessert che ricorda il nostro babà senza sale, che si inzuppa al momento della consumazione, servito in un piattino, con una coppetta in cui vi è succo d’acero dal sapore molto delicato, come acqua e zucchero, che servirà a bagnarlo, e poi un’altra coppetta in cui vi è un ciuffo di panna sgrassata con cui si può guarnire il pezzetto di dessert dalla forma circolare: assaporando questo dolcetto, si ha la sensazione di afferrare l’inconsistenza, quel sapore delicato, indefinito che lascia una strana e piacevole sensazione. Quale? Non so, forse simile alla libertà? Non so, ma questo e tante cose inafferrabili mi restano dentro, ogni volta che vado a Parigi e per questo poi, non vedo l’ora di ritornarci ancora una volta. Mentre un Caffè che rimane unico e bello, è sicuramente Le Cafè Procope, considerato il più antico d’Europa, 1686, fondato da un italiano, di Aci Trezza, Francesco Procopio. Le Procope, era un luogo di ritrovo per artisti e personalità francesi che davanti ad un bicchiere di vino, si intrattenevano per parlare di arte, cultura, politica. Pare che proprio qui Diderot abbia scritto degli articoli della celebre Encyclopeèdie che poi dedicò a “le Procope”. E poi Napoleone, Robespierre, Balzac, Verlaine.
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n passato in questo caffè si degustavano gelati alla frutta, in particolare il sorbetto all’arancia, il caffè gourmand: un caffè accompagnato da assaggi di dolci francesi. Oggi, qui, è possibile degustare un’ottima cucina francese come le Coq au vin, una pietanza deliziosa. E qui, vi assicuro, si respira un’atmosfera d’altri tempi, è sicuramente il meno turistico tra i caffè del Quartiere Latino. Qui, i francesi trovano ancora il tempo per soffermarsi a pensare, dove la sensazione che si vada di fretta non c’è, ci si sofferma per una breve pausa trovando il tempo per sé o per stare in compagnia; è possibile trovare il tempo per l’ozio o almeno il
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Tempo: quello che scorre, inafferrabile e che ci appartiene, l’essenza dell’inafferrabile.
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poi oltre ai tanti Cafè, come il Cafè Palais Royal, Cafè Panis, vi è Il Cafè Flore, nel cuore del quartiere Saint-Germain des Près: qui è possibile intrattenersi nel celebre e antico caffè letterario, dove negli anni si sono riuniti artisti, cantanti, attori e scrittori che hanno fatto storia. Fondato nel 1885, fu uno dei luoghi di ritrovo per Jan Paul Sartre e Simone de Beauvoir che fecero del Cafè de Flore un luogo di poesia. Qui la coppia vi trascorreva intere giornate; scrivevano di mattino e nel pomeriggio incontravano amici, quella era per loro casa Flore. Questo luogo divenne nel tempo leggendario in quanto frequentato da Hemingway, Picasso, Rimbaud. Poi negli anni successivi anche da attori, e cantanti, Brigitte Bardot, Alain Delon, Gainsbourg, divi di Hollywood come Robert de Niro, Jonny Depp, Sharon Stone.
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d oggi il Cafè mantiene una certa atmosfera bohèmiene, rimane un luogo frequentato dai parigini e turisti da tutto il mondo, per gustare la rinomata cioccolata calda, oltre la deliziosa millefoglie alla liquirizia. Al Cafè de Flore, si svolge ancora oggi un concorso letterario il “Prix de Flore” fondato nel 1994.
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n questo breve tour tra i Cafè, mi soffermavo a curiosare anche tra librerie che già dalle vetrine offrivano, oltre ai titoli di scrittori contemporanei, Nothomb, Houellebecq, Perrin, Schmitt, si offrivano alla lettura, molti autori russi e anche tra i libri per bambini vi erano proposte di favole, scritte da russi, questo a significare che la Cultura non crea separazione tra i popoli, in momenti come questi dove nel frattempo si combatte una guerra, anzi la Cultura è il canale per raggiungere la Pace.
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in quest’atmosfera di città fluida, Parigi è il luogo dove si riesce a sentire l’inafferrabile, un po' come avviene per l’amore che non si capisce mai bene cosa sia, quella sensazione di concreta delicatezza che non si afferra, che ci fa stare bene, ci fa sorridere senza saperne il perché mentre assumiamo in volto un’espressione un po’ ebete, appunto come da innamorati. Questo avviene a Parigi, ed è per questo che mi piace tanto e allora mia Cara Parigi, ti porterò nel mio cuore, ovunque andrò.
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FIOCCO AZZURRO di Lucia Colarieti
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ualche giorno fa sono venuto al mondo. Raccontano che io sia arrivato nel becco di Qualche giorno fa sono venuto al mondo. Raccontano che io sia arrivato nel becco di una cicogna ma non è vero, vengo da un corpo di donna, antro accogliente, culla dei miei primi nove mesi di vita; sono passate poche settimane ed io ancora ricordo quel posto caldo e comodo, lei mi nutriva, custodiva e coccolava, penetrava una luce dolce e sentivo la sua voce, mi piaceva tanto e sono stato felice.
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oi è arrivato quel giorno: sono stato costretto a uscire, sono arrivato con dolcezza, subito ho riconosciuto il suo odore rassicurante, non è stato quello il momento più brutto. Mi hanno pulito e lavato, piangevo forte e ho smesso solo quando nel calore di due braccia ho provato a succhiare, un liquido dolce mi ha dato tanta serenità.
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a allora ho cercato ogni attimo di ritrovare quell’odore e quella voce che riconoscerei tra mille, ma finora non ci sono riuscito.
on me la passo tanto male, quando ho fame mi danno un biberon di latte, se mi sporco mi lavano e mi cambiano, di tanto in tanto qualcuno mi culla, e io mi addormento sognando ancora di essere nella mia culla scura, morbida e calda.
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udmila prese l’ultimo pannolino dal pacco, ancora una cambiata e sarebbero rimasti senza. Alzò il bambino con delicatezza dalle gambine per pulirlo, lo adagiò sulla superficie linda e poi richiuse gli strappi al loro posto, infilò la tutina e il piccolo fagotto era di nuovo serafico intento a guardarsi le mani.
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rescevano rapidamente, a poche settimane dalla nascita già si vedeva la differenza e lei non era abituata, il suo lavoro di solito si fermava dopo il parto, qualche giorno e poi i
neonati erano spediti dai genitori legittimi. Adesso era diverso, Ludmila si tolse la mascherina dal viso, l’aria nel seminterrato era viziata, non c’era ricambio e nessuna finestra da tenere aperta. Uno dei piccoli iniziò a piangere, lei si alzò subito per andare a vedere che succedeva, erano diciannove, se avessero cominciato a piangere tutti insieme non avrebbe saputo come fare, erano solo in tre là sotto insieme a quei piccoli. Andò a preparare i biberon, per il momento non scarseggiava ma se si fossero interrotti i collegamenti non sarebbe stato più possibile dare loro il latte.
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’eco di ciò che stava accadendo fuori giungeva con i boati delle bombe, più di una volta al giorno facevano tremare le pareti e un’angoscia mortale serrava la morsa sul cuore della tata. Erano ormai già tre settimane che lei e le sue colleghe erano rimaste intrappolate nel seminterrato della clinica, l’ultima gestante aveva partorito il giorno dell’attacco, poi era andata via, come previsto dal protocollo, sarebbe tornata solo per firmare i documenti alla presenza dei genitori assegnatari. In quel momento, con il paese sotto assedio e le frontiere in fiamme non c’era più alcuna certezza.
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e sembrava di trovarsi in un orribile incubo e il rumore delle bombe era solo lo specchio della tensione che avvertiva dentro di sé. In un movimento incondizionato, alla ricerca di rassicurazione, prese il cellulare e guardò, non c’era campo ma le foto erano visibili: gli occhi dei suoi figli la scrutavano da quello schermo inanimato, due ragazzini bruni, le guance rosse di gioco, sorrisi innocenti che lei avrebbe voluto preservare per sempre dallo scempio che stava accadendo nella loro nazione. Si passò con rabbia il dorso della mano sul viso per cancellare una lacrima, la stanchezza le segnava il viso, avrebbe voluto urlare l’onda di rabbia che le montava in petto, alzò lo sguardo verso il fiocco azzurro che pendeva incongruo dalla
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parete: l’orsacchiotto ricamato sul cuoricino bianco la guardò implorante, anche questi sono bambini, sembrava dirle.
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a donna scorse nuovamente le foto sul cellulare, i suoi figli stavano lassù, da qualche parte nella città martoriata, ma erano con il padre e i nonni, nella loro famiglia. Invece laggiù in quel seminterrato c’erano altri figli, forse di nessuno, nel frastuono della guerra erano sparite le coppie commissionarie e le gestanti che li avevano partoriti, una montagna di carte bollate e firme e visti si contrapponevano a bombe e fucili, e in mezzo loro: diciannove anime innocenti.
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udmila si alzò per avvicinarsi ad una delle culle, la piccola creatura con la cuffia azzurra strillava. Lo prese, lo adagiò sulla spalla proteggendo la minuscola schiena con il palmo della
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mano. Iniziò a sussurrare una nenia, sottovoce, lentamente avvertì il corpicino rilassarsi contro il suo petto. Anche il suo cuore iniziò a battere lento, la rabbia lasciò il posto alla certezza di voler essere custode, Ludmila decise di stare.
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Repetita Juvant Questa fotografia di Emilio Morenatti è un'opera d'arte potentissima, che fissa tutto nello spazio di un singolo scatto: l'orrore, la negazione della dignità umana, l'assurdità della guerra, lo sgomento per l'imminente possibile. Ma a guardarla bene è anche il più efficace degli editoriali politici su questa guerra, nel mezzo di tante parole che girano a vuoto. Perché In questo scatto c'è tutto: La barbarie e la ferocia di Vladimir Putin, che nel nome di una restaurazione impossibile e di una finta retorica patria che puzza di morte e devastazione sta letteralmente pisciando sulla storia di ciò che vorrebbe restaurare, ripetendo il copione degli assedi di Leningrado e Stalingrado ma dalla parte dell'assediante nazista. Questa volta il nemico alle porte è lui. L'irresponsabilità totale di Volodymyr Zelensky, che anziché cercare di trattare una resa nel nome di una resistenza impossibile mette a repentaglio altre decine di migliaia di vite umane e addirittura rilancia, chiedendo all'occidente un intervento che porterebbe il mondo sull'orlo della catastrofe totale. L'inconsistenza, la meschinità e l'ipocrisia di un'Europa che getta altra benzina sul fuoco scegliendo la strada dell'invio delle armi e della cobelligeranza anziché il ruolo di attore di pace; tanto a vivere come topi in trappola o a morire sono bambini, donne e uomini ucraini. Qui da noi non abbiamo neppure dovuto spegnere i termosifoni. Per ora. Marco Arturi
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