l’Unità Laburista - Giochi Senza Frontiere - Numero 43 del 24 settembre 2021

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Numero 43 del 24 settembre 2021

Giochi Senza Frontiere


Sommario  l’Editoriale del Direttore/Frontiere - pag. 3 di Aldo AVALLONE  Frontiere di frontiera - pag. 8 di Giovanni AIELLO  Sono delusa - pag. 13 di Antonella GOLINELLI  La frontiera è solo uno sguardo sull’infinito pag. 20 di Rosanna Marina RUSSO  Bidibi bodibi bu - pag. 26 di Antonella BUCCINI  Non passi lo straniero - pag. 29 di Antonia SCIVITTARO  Viaggio a Palermo nei luoghi della memoria - pag. 34 di Veronica D’ANGELO  Due italiani oltre ogni confine - pag. 42 di Giovan Giuseppe MENNELLA  Voglio poter urlare - pag. 49 di Anita NAPOLITANO  Abiti - pag. 53 di Lucia COLARIETI  Lo Zen o l’arte della manutenzione della sopravvivenza - pag. 58 di Antonella BUCCINI 2


L’editoriale del direttore

Frontiere Aldo AVALLONE

Torniamo dopo la pausa estiva con un numero dedicato alle “Frontiere”. Intese come limite, separazione, divisione ma anche come sfida da affrontare e superare in nome di un internazionalismo troppo presto dimenticato, proprio oggi che i problemi economici, climatici, dei diritti umani e non ultimo quello della pandemia, necessitano più che mai di un approccio globale. Le chiusure non pagano e i tanti, troppi, muri che sono stati costruiti in tutto il mondo rappresentano la risposta più inutile che una parte, purtroppo larga, dei governi cerca di dare a domande che, al contrario, richiederebbero risposte concordi e solidali. In primis le vaccinazioni: al 19 settembre, data in cui scrivo, solo il trentuno per cento della popolazione mondiale ha ricevuto due dosi di vaccino e appena il quarantatré per cento una dose. È superfluo sottolineare che la copertura vaccinale è avvenuta soprattutto nei paesi ricchi. Certo, si sono registrate numerose dichiarazioni di intenti da parte dei ministri della Salute nel recente G20 sulla

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sanità tenutosi recentemente a Roma, ma sappiamo bene che tra le buone intenzioni e i fatti esiste un oceano da attraversare. A livello internazionale la crisi dell’Afghanistan ha monopolizzato l’informazione smuovendo, solo per un po’, le coscienze di noi occidentali colpiti dalle scene di assalti agli aerei e di donne costrette a soggiacere agli antichi riti vessatori dei talebani nuovamente al potere. Niente di più di uno sdegno momentaneo, una irritazione quasi fastidiosa che ha tolto la serenità al bagno di sole e all’aperitivo pomeridiano. È sempre accaduto e ancora accadrà. Agli americani andati via si sostituiranno i cinesi, con altre forme ma eguale spirito predatorio. Cosa possiamo farci? In questo caso la frontiera della nostra indignazione si è rivelata piuttosto labile e troppo facile da attraversare. Nel nostro Paese, la ripresa autunnale si presenta difficile. Soprattutto sul piano del lavoro. Presso il ministero dello Sviluppo economico sono aperti oltre cinquanta tavoli su vertenze in diverse regioni e il governo dovrà discutere della riforma degli ammortizzatori sociali di cui, al momento, non si conosce nei dettagli il progetto. Il decreto sostegni bis ha istituito solo il contratto di rioccupazione per chi ha perso il lavoro a causa dello sblocco dei licenziamenti avvenuto il 30 giugno scorso ma, a fronte di una situazione che potrebbe diventare difficile, appare ben poca cosa il concedere la decontribuzione ai datori di lavoro privati al massimo per sei mesi. Nel torrido agosto che abbiamo vissuto si è cominciato a discutere anche di una legge che contrasti le delocalizzazioni. Il ministro Orlando starebbe lavorando a un progetto che ricalca la “loi Florange” francese, varata da Hollande nel 2014. La norma prevederebbe che un’azienda prima di delocalizzare debba impegnarsi a trovare, nell’arco di sei mesi, un nuovo acquirente a cui, naturalmente, lo Stato concederebbe aiuti economici e fiscali per il subentro in cambio di garanzie occupazionali. Unica, e non trascurabile pecca di questo impianto legislativo, è rappresentata dal fatto che non sono previste sanzioni per l’azienda che vuole delocalizzare se non venisse trovato compratore. In Francia la “loi Florange” non ha ottenuto gli effetti desiderati, rimangono molte perplessità sul progetto di proporla in maniera molto similare nel nostro Paese. Occorrono misure ben più

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restrittive e penalizzanti per le imprese che “scappano” dopo aver ricevuto fondi pubblici. Il caso Whirlpool, ma non è il solo, non si dovrà mai più ripetere. Diciamo che il lavoro non appare una delle priorità dell’esecutivo. Come sappiamo la misura del salario minimo è stata cancellata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, provvedimento di progresso e civiltà che avrebbe difeso i diritti dei lavoratori meno garantiti e combattuto le forme più evidenti di sfruttamento. E dal governo ci si attenderebbe anche e soprattutto un forte impegno nella prevenzione degli infortuni. Questi ultimi mesi sono stati segnati da un triste e lungo elenco di lavoratori che hanno perso la vita sui luoghi di lavoro. Intanto dalle destre è già partito l’attacco frontale al reddito di cittadinanza. Misura che ha mostrato limiti e potrà essere certamente migliorata ma che ha reso possibile la sopravvivenza a tanti nuclei familiari in periodo di crisi epidemica. Ultimo “regalo” ai lavoratori da parte dell’esecutivo è il mancato rifinanziamento del fondo previso per pagare l’indennità di quarantena che non verrà più considerata malattia. I lavoratori che entreranno in contatto con un positivo al covid 19 dovranno restare a casa, come per obbligo di legge, usufruendo delle proprie ferie. Ma si corre un rischio peggiore: per non perdere i soldi, ci sarà chi non denuncerà affatto il contatto, con il reale pericolo di diffondere ulteriormente il contagio. In questo caso la frontiera tra gli interessi dei lavoratori e quelli imprenditoriali è ben chiusa e Draghi e i suoi ministri ne sono cerberi attenti e rabbiosi. Concludiamo, però, con una buona notizia. Il governo, a cui quando riteniamo giusto non risparmiamo critiche, ha allargato l’obbligo di green pass a una vasta platea di lavoratori. 5


Si tratta di una misura ampiamente condivisibile che mira a mettere in sicurezza tutti i luoghi di lavoro e, soprattutto, a dare slancio all’economia. Al di là delle prevedibili e vuote proteste da parte dell’opposizione di Fratelli d’Italia, colpisce la spaccatura all’interno della Lega. Di fronte all’appoggio dei ministri leghisti che hanno approvato il provvedimento, anche Salvini ha dovuto fare marcia indietro rispetto alla sua iniziale posizione concordante con quella della Meloni. Sarà interessante seguire gli sviluppi di quel che accadrà in Lega soprattutto in proiezione dei futuri appuntamenti elettorali. Su questo tema spiace dover evidenziare la posizione del sindacato che si è impegnato in una battaglia di retroguardia sul non obbligo di green pass in azienda. Si tratta, naturalmente, di materia delicata: occorre certamente che si vigili affinché le imprese non usino questa arma per discriminare i lavoratori e aumentare le possibilità di licenziamento ma appare sconcertante che i rappresentanti dei lavoratori non si battano per la sicurezza in fabbrica. E la vaccinazione è la prima e più importante misura di salvaguardia contro la pandemia di covid 19. Ultima annotazione. In questo numero troverete il primo contributo di una giovane studentessa di liceo, Antonia Scivittaro. Spero che non sia l’unico, in quanto intendo aprire una finestra sul mondo giovanile e su come i nostri ragazzi interpretano la difficile realtà che ci circonda. Da tutti noi de l’Unità laburista un affettuoso “Benvenuto” ad Antonia.

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Politica

Frontiere di frontiera: quando un confine (mai varcato prima) dividerà il presente dal futuro Giovanni AIELLO

Ostacoli da superare È sempre il solito confine. Può presentarsi con l’aspetto di un filare di alberi, di un fiume di campagna o di un filo spinato. Può trattarsi di un posto di blocco doganale o di una gigantesca parete che attraversa il deserto. O ancora, può essere una motovedetta a presidio delle acque territoriali, un volo aereo che forse ti metterà in salvo, ma anche un visto d’ingresso che non arriva mai, o una legge che impedisce ai cittadini di lasciare il proprio paese e perfino una pandemia che impedisce a tutti noi di uscire di casa. Ma a ben vedere, che differenza può mai fare quale sia l’aspetto di un confine, quando la nostra vita potrebbe dipendere semplicemente dal versante in cui siamo nati?

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Ed infatti quella differenza dobbiamo essere noi a farla (a patto di averne l’occasione), muovendoci proprio negli spazi che si trovano in prossimità di quei confini, dei valichi e delle svolte decisive; ovvero nelle cosiddette terre di frontiera. Luoghi in cui la condizione delle persone spesso cambia in base alle loro ragioni, alle loro storie e alla loro provenienza. Chi sei tu, un profugo o un fuoriuscito politico? Sei un cane da guardia o un trafficante? Sei un militare in divisa o un agente diplomatico in missione non ufficiale? Sei adulto o sei bambino, sei sano o sei malato? Sei pronto per una fuga o sei appena arrivato dopo un viaggio di mesi e mesi? Domande pericolose, perché nei luoghi di frontiera i rischi non si contano, e l’incertezza regna sovrana. Dunque, non sarà un caso se, per proteggere gli imperi da invasioni e migrazioni, nel corso dei secoli siano sempre stati costruiti muri e barriere, prima con la pietra e poi con cemento e metallo. A cominciare dall’antico Vallo di Adriano e la Grande Muraglia Cinese, fino alle Peace Lines di Belfast in Irlanda del Nord o al checkpoint Alpha (oggi museo), situato tra Helmstedt e Marienborn, attraverso il quale dopo controlli interminabili si passava in auto dalla DDR alla Germania Ovest. Senza dimenticare il muro Israele-Palestina, quello Usa-Messico (“build that wall”, urlava Donald Trump in campagna elettorale) o anche quello che è stato denominato come “el muro della verguenza” (il muro della vergogna), che nella città di Lima, capitale del Perù, separa il ricchissimo quartiere Casuarinas dalla baraccopoli di San Juan de Miraflores. Il tutto mentre proprio in queste settimane si va completando in Grecia la realizzazione della barriera al confine con la Turchia,

per

respingere

i

profughi

dall’Afghanistan.

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che

presumibilmente

giungeranno


Rivoluzioni “di frontiera” Eppure, non sempre c’è un ostacolo visibile a darci l’esatta percezione di trovarci in prossimità di un confine o di una soglia importante. Spesso infatti siamo alle prese con eventi la cui portata è ancora tutta da definire. Ne sono un esempio il coronavirus, la sfida energetica e soprattutto la crisi climatica. Qualcuno al riguardo sostiene che il punto di non ritorno (il cosiddetto climate tipping point) sia anch’esso un limite già bello che superato. Gli studiosi dell’Ipcc, il principale organismo internazionale di valutazione dei cambiamenti climatici (che unisce due organi delle Nazioni Unite: l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), stanno preparando un dossier composto da più sezioni, le cui anticipazioni, pubblicate in queste settimane su varie testate internazionali, parlano di gravissime ripercussioni sulla vita di tutti noi nei prossimi 30 anni a causa dell’innalzamento delle temperature e della crisi degli ecosistemi. “…La nostra specie prospererà o semplicemente sopravviverà nel ventunesimo secolo” - si legge ad esempio su France 24 -, e ciò dipenderà dalla qualità e dalla tempestività con cui le decisioni verranno prese dai governi. Ma questa consapevolezza deve necessariamente indurre una ulteriore e rapida riflessione, su quale ruolo vorremo avere noi (ovvero la “gente comune”, come alcuni amano definirci) in tutto ciò. Forse questa volta sentiremo l’esigenza concreta di abbattere, o almeno attenuare, quell’odioso confine fra governanti e governati (oltre il quale ce ne stiamo troppo spesso ignari, rassegnati e passivi), scegliendo e pretendendo di contribuire in modo sostanziale alle scelte che avranno ripercussioni gigantesche in un senso o nell’altro. Visto che, come già emerge dalle prime bozze del lavoro dell’Ipcc, saranno proprio le classi meno colpevoli del riscaldamento globale a pagarne, per amaro paradosso, le conseguenze più dure. 10


Sarebbe irresponsabile dunque tirarci fuori. E anzi, in tutte le composizioni sociali, oltre che come singoli, dovremo probabilmente sperimentare forme di partecipazione attiva che somigliano molto a delle frontiere da conquistare. Facciamo nostri quindi i cinque punti individuati da Ion Karagounis, responsabile dei nuovi modelli economici e delle questioni relative al futuro presso WWF Svizzera, per realizzare un sistema economico sostenibile: “1 - Stabilire obiettivi chiari, 2 - L'attuazione riguarda tutti noi, 3 - Stabilire degli incentivi, 4 Unificare le regole a livello globale, 5. Anche i divieti possono essere utili (quando certe produzioni richiedono risorse ma non offrono vantaggi apprezzabili)”.

Stili di vita (in)sostenibili: ovvero la domanda di Lulù Ma naturalmente nessun decalogo o proposito di eco-compatibilità potranno mai bastare da soli a risolvere le sfide che ci aspettano. Prima, infatti, ci toccherà dare finalmente ascolto alla domanda di Lulù Massa, metalmeccanico interpretato da Gian Maria Volonté nel celebre film “La classe operaia va in paradiso”, il quale guardandosi attorno nel suo appartamento prende coscienza all’improvviso della quantità di cose costose e del tutto inutili che ha comprato nel tempo, e a quel punto si chiede: “Quattro sveglie! Ho quattro sveglie io, chissà perché?!”. Un interrogativo, questo, che non possiamo più ignorare. E se ci sarà o meno una vera transizione ecologica, ciò dipenderà interamente dalla nostra risposta!

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Politica

Sono delusa Antonella GOLINELLI

Sono delusa, sono profondamente delusa. I giorni d'Agosto mi hanno distrutto più speranze del resto dell'anno. E prima il Ddl Zan, che voglio vedere #adesso con che faccia si presentano in parlamento dopo la pausa gli oppositori fieri, poi tutte le sciocchezze legate al green pass, come se fosse quello del salvacondotto il problema serio.

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Ma qui due parole voglio spenderle: ma e' mai possibile che il problema sia la non discriminazione dei non vaccinati? Ma avete voglia di ridere? Sindacati compresi. Vorrei sapere perché il sindacato non si è posto in prima fila per la vaccinazione generalizzata. Vorrei sapere se il sindacato è sicuro di assumere le difese di chi, non volendosi vaccinare, si sente discriminato. Chi lavora sotto lo Stato, in tutte le sue manifestazioni, come diavolo fa ad opporsi alla vaccinazione? È come dire che non credi nello Stato che tra l'altro ti paga e ti fa vivere. Quindi come mai prendi impunemente l'emolumento ma ti rifiuti di vaccinarti? Quindi tu che razza di persona sei? Dite che è un giudizio negativo? Si lo è. Altrettanto negativo di quei sanitari che non si vogliono vaccinare. Ma come?!?!?! Tu eserciti in un qualche modo la medicina e l'igiene e non ti sottoponi? E io, persona comune, perché dovrei farmi mettere le mani addosso da chi non crede nella professione che ha scelto? A che titolo? Ma andate ben a zappare il mare che è più utile. #mognint I giorni di settembre hanno portato novità. Il Governo ha deciso che da metà ottobre certificato verde di accesso per tutti i lavoratori. Stranamente dall'annuncio le prenotazioni per la vaccinazione hanno registrato un balzo enorme. È curiosa la pluriposizione della Lega. Da un lato la rivolta contro la costrizione, 14


dall'altro la necessità di poter lavorare in sicurezza. E' un partito che al momento viaggia per bande, non so se l'un contro l'altro armate. Quello che salta agli occhi è che dalle amministrative in poi il Matteo verde avrà molto meno potere e molta meno visibilità. La necessità di concretezza di tutti farà molto in questo senso. Quelle quattro bandierine che sventolano troppo spesso ormai non le vede quasi più nessuno. C'è poco da fare. Abbiamo bisogno di vivere e sopravvivere. Il resto viene dopo. Poi sono arrivati gli anticipi dall'Europa e non s'è capito dove siano andati. Non si è capito nemmeno se i cantieri bloccati sono stati riavviati oltre ad aver incaricato una caterva di commissari ad acta. Mah. E la delusione più grande, l'Afghanistan. Un ritiro programmato (e va bene che manco ci dovevano andare per 20 anni) e la struttura del paese si e' liquefatta. Letteralmente. L'esercito è evaporato. Armi e addestramento infiniti e puff! Svaniti. E allora ditelo! Ditelo! Ditelo che a voi andavano bene gli intabarrati! Ditelo che quelli che si volevano fare avanti sono una sparuta minoranza e che la maggior parte della popolazione, maschile, è ben contenta di riapplicare la legge religiosa! Almeno smettiamola con l'ipocrisia. Ci sono quelli che tentano di scappare, quelli che devono e quelli che vogliono. Ci sono 4 gatti la persi nel mezzo, con divise nuove di pacca, che tentano una resistenza e chiedono finanziamenti e armi. Ci sono i capissimi che vanno in tv a farsi intervistare liberalmente da donne (ma l'inviata della CNN è dovuta scappare) mostrando un lato “buono” (falso come una moneta da 3 euro) e in strada ci sono rastrellamenti e cacce all'uomo con elenchi 15


precompilati. Dopo 20 anni e tanti morti. Se i soldi spesi in armi e addestramento li avessero investiti nella società sarebbero meglio della Svizzera. Svizzera che non ha coste come l'Afghanistan come invece pensa giorgiasonounamamma. Nel frattempo, si fanno avanti i russi, che un pochettino il canino avvelenato devono avercelo, e i cinesi, che non hanno mai mosso guerra allo stan. Vedrai te come lo depredano bene quel paese. In Africa han fatto terra bruciata ovunque siano passati. Si vede che lì non c'è più nulla da prender su e si sono spostati. C'è sempre in ballo la via della seta, ovvero il dominio della rotta e degli snodi terrestri oltre che marittimi, ma non sono cosi preparata da poterne chiacchierare. Però una cosa posso dirla: se gli intabarrati pensano di mantenere il potere assoluto con questi interessi in ballo si sbagliano. Se pensano di poter mantenere il paese in arretratezza medievale si sbagliano. Nasceranno strade, fioriranno ferrovie, scaveranno miniere e, se sono fortunati, avranno le briciole. Se non lo saranno finiranno a scavare. Magari manterranno le donne coperte col burka, magari continueranno a tagliare mani e piedi ai ladri, magari taglieranno la testa agli omosessuali, ma non avranno nulla, probabilmente nemmeno i campi di papaveri, cosi belli e cosi letali. O se li prendono direttamente o sporcheranno talmente il loro mondo che non crescerà più nulla. In breve, non resteranno loro nemmeno gli occhi per piangere. E a dirla proprio 16


tutta non mi dispiace nemmeno tanto. In evoluzione si registra l'accordo tra USA, Gran Bretagna e Australia per l'area del Pacifico. A margine l'Australia verrà dotata di sottomarini nucleari, veloci e silenziosi. Mi pare che il centro delle operazioni si stia spostando dal Mediterraneo, che non è un male visto che in certi periodi si poteva andare in Africa in bicicletta dato il numero di natanti di superficie e sottomarini presenti, al Pacifico. La Cina non è contentissima di questa alleanza di paesi anglofoni. Parla di nuova guerra fredda. Diciamo che, secondo me, è un deterrente all'allargamento infinito della sfera d'influenza. Sfera di cui l'Afghanistan e' un tratto ma ci sono tutte le parti isolane del Pacifico. Che cosa romantica il dominio dei mari. Anche il piccolo Napoleone non è contentissimo dell'accordo. Per forza! Gli salta un contrattone per i sottomarini. Al via il balletto diplomatico. Si richiamano gli ambasciatori per consultazioni e il passo successivo è dichiarare di dover ripensare alla NATO. Che va bene. Ma lo si dice dopo aver stabilito la formazione di una forza militare e di intelligence europea. Immagino i francesi ne vogliano il comando. Del resto, gli americani sono in contrazione di uomini e mezzi da un po'. Non è che all'improvviso si son svegliati una mattina e hanno chiuso tutto, che son 17


sempre faccende lunghe chiudere le basi e razionalizzare. I mezzi e gli strumenti cambiano, di conseguenza cambiano le necessità di presenza e pure gli accordi cambiano. A volte i nemici diventano controparti. È sempre accaduto e sempre accadrà. Del resto, la vecchia Europa si è fermata per 20 anni su una sciocchezza come il pareggio di bilancio, impedendo l'integrazione degli stati ad una fiscalità comune, per esempio. Il mondo è andato avanti e una classe dirigente ha mostrato tutti i suoi limiti a partire dal suo immobilismo con dinamismo di facciata. Nel frattempo, arriva l'autunno e le bollette crescono. Si rivela improcrastinabile la revisione delle bollette. Con la scusa dei rincari si trova il modo di realizzarla. Il decreto concorrenza è in ritardo ma è uno dei mandati per avere il denaro. Immagino che chi ha lucrato su un sistema di fatturazione piuttosto bislacco non sia d'accordissimo sul fatto. Del resto, non c'è scelta. Abbiamo un approvvigionamento carissimo alle tasche dei clienti e non proprio granché funzionante. Da qualche parte devono cedere. Bon, ho scritto un romanzo. Alla prossima. 18


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Politica

La frontiera è solo uno sguardo sull’infinito Rosanna Marina RUSSO

Una linea il più delle volte artificiale, la frontiera, che contraddistingue l’interno dall’esterno, che divide il dentro e il fuori, che distingue un modo d’essere e di vivere, talvolta di pensare, spesso di sperare. Qualche anno fa credevo fosse il male assoluto e le guerre una sua diretta conseguenza. Senza appello o condizionali. Poi forse col tempo si diventa meno radicali, poi viene una pandemia che se ne frega dei confini, poi molti afghani tentano di abbandonare il proprio paese attaccandosi ai carrelli dell’aereo e le cose si cominciano a vedere in una maniera diversa. E le frontiere non sembrano più un disvalore tout court. Qualche giorno fa ho ricordato un articolo letto a maggio scorso su Internazionale che parlava del Somaliland, quella zona nordoccidentale della Somalia che fa Stato a parte, anche se da pochi riconosciuto come tale. Ebbene mi ha fatto riflettere sull’importanza che ha avuto la linea di confine per questo Paese che vive in pace dal 1991, dalla sua Dichiarazione d’Indipendenza. Trent’anni nei quali non tutto è andato secondo regole democratiche, visto che il potere giudiziario si è piegato spesso a quello esecutivo e il parlamento ha approvato leggi senza discuterle. Ma non c’è guerra, al contrario del caos che regna nella flagellata Somalia.

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Uno Stato che vive in un bozzolo tutto suo con il potere politico diviso tra i clan, ma che, paradossalmente proprio per questo, è diventato “a somma positiva” e non “a somma zero”, volendo ripercorrere il ragionamento socio-economico di Roberto Tallarita ( Il Post del 28 agosto 2019). Il che significa che nessun clan rimane escluso e nessun gruppo si arricchisce a scapito di un altro. Allora, mi sono detta: il limite definito entro il quale vive una Nazione può essere la salvezza? Sia chiaro, non è una domanda sovranista, semmai il mio è il desiderio di capire la vera essenza del limite, confine o frontiera che sia, di inquadrarlo con tutta la sua ambiguità, provando a non radicalizzarne il concetto né come limes, demarcazione, né come limen, soglia. Vorrei immaginarlo come una porta che può essere aperta o chiusa, ma che non esprime valore necessariamente positivo se è aperta come non ne esprime uno necessariamente negativo se è chiusa. Penso alla pandemia che stiamo soffrendo, ad esempio, e al passaggio impedito per tanto tempo tra uno Stato e l’altro, tra una Regione e l’altra, addirittura tra un comune e l’altro che abbiamo vissuto odiandolo o auspicandolo. 21


È difficilissimo il tentativo di conoscerlo a fondo perché la complessità di quel concetto cambia prospettiva a seconda della sua contestualizzazione che può essere ontologica, gnoseologica, esistenziale, economico-sociale e altro ancora. Ma le dimensioni che qui interessano, che possono essere funzionali alla domanda posta, sono quella geografica e quella culturale, perché con esse siamo di fronte a scelte politiche che corrispondono a una certa visione del mondo e che pertanto affondano contemporaneamente nella sfera individuale e in quella collettiva. La prima riflette le relazioni tra i gruppi umani vicini ed è evidentemente conseguenza della creazione degli Stati, nati con guerre, annessioni, secessioni, divisioni consensuali o arbitrati internazionali. Con essi abbiamo creato una convenzione mentale con molte funzioni pratiche e amministrative verso l’interno e verso l’esterno del territorio, rimodulando il contesto geografico, condizionando lo sviluppo sociale e producendo spesso guerre di potere, ma anche strenue difese. La seconda, nazionale o transnazionale che sia, può mutare con tempistiche assai diverse. È di questi giorni la conquista del potere da parte dei Talebani in Afganistan che non ha mutato alcun confine geografico, ma ha fatto fare un notevole balzo temporale all’indietro al Paese, riportando in vita la legge della sharia, cioè quel modus vivendi che ingabbia soprattutto le donne. È lecito, dunque, chiedersi se sia il confine a creare le diversità o se, al contrario, siano queste a far nascere un confine. Ma, forse, di dimensione ne esiste una terza che è la volontà di divergere, come dimostra, appunto, il Somaliland: lo stesso popolo, la stessa lingua, le stesse tradizioni, ma una scelta politico- economica volontariamente diversa. O forse una quarta, se il cambiamento all’interno di uno spazio è sì culturale, ma spesso subìto, non 22


metabolizzato, come sembra essere per l’Afghanistan dal quale molti stanno tentando la fuga. In queste ore si sta verificando, tra l’altro, la vergognosa creazione di muri, al confine greco e turco, per impedire l’ingresso dei profughi afghani. Cosa che ci dovrebbe far riflettere sul significato etico delle barriere che non sono più frontiere-tornelli ma che hanno ormai la funzione di clausura laica verso il mondo sofferente, di difesa verso chi, attaccato, chiede asilo. E chi li erige ha la stupida convinzione che così le frontiere non si spostino e non si ripresentino, sotto forme diverse, al di fuori del territorio di riferimento. Senza rendersi conto che, in realtà, l’obbligo del visto d'ingresso e la delega dei relativi controlli alle compagnie di trasporto, è da tempo che delocalizzano i confini territoriali perché moltiplicano gli avamposti. Col sistema difensivo che abbiamo creato il pacchetto di diritti si sposta insieme agli individui che ne sono titolari e varia a seconda del motivo per cui si entra in un Paese. E da clandestino, il muro immateriale dei controlli coincide con quello materiale dei centri di permanenza temporanea e incide sugli status individuali e sulle libertà fondamentali. Per cui alla domanda iniziale che pareva essere retorica, bisognerebbe aggiungere: Per chi o per cosa si può ritenere il limite una salvezza? Con questo non si vuol sottintendere che una regolamentazione dei flussi migratori non sia in qualche modo necessaria, non fosse altro che per innestare correttamente gli immigrati nelle dinamiche amministrative e sociali. Ma una cosa è gestire un territorio definito da un confine, altra cosa è riconoscere la propria appartenenza a quel territorio chiuso da una frontiera, altra cosa ancora è recintarsi per la paura del fuori, dell’altro, della povertà. Basterebbe ricordare che tutti noi deriviamo da Lucy ed è stata la migrazione a plasmarci e a differenziarci. Se ci fosse stato impossibile spostarci, niente sarebbe stato possibile. Persino la nostra bella Europa 23


non sarebbe nata senza le “invasioni” barbariche (ma altrove come si chiamano? Forse flussi migratori?). Lo storico Alessandro Barbero ha scritto qualche anno fa due libri: 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza, 2005) e Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'impero romano (Laterza, 2006) nei quali è facilissimo sostituire "barbari'" con "extracomunitari", e "impero romano" con "comunità europea", tante le analogie tra i fatti di allora e quelli di ora. Fatti determinati da forze oggettive che oggi come allora si tenta di calmierare con misure inefficaci. Ma, per rispondere alla domanda iniziale, io direi: dipende. Lo è se ci troviamo di fronte a spazi gestiti con scelte politiche che sono dunque differenti e comparabili per migliorarsi. Non lo è, in massima parte, se le frontiere non prevedono una osmosi tra i popoli. Non lo è mai se queste sono, almeno nelle intenzioni, invalicabili. In definitiva, la frontiera dovrebbe essere un semplice limite da superare per raggiungere uno status migliore e ogni limite quella siepe che Leopardi pose tra noi e l’infinito, e, in maniera traslata, tra noi e il mondo per mostrarci la finitezza di un ostacolo che compare in opposizione al resto. Nessuna frontiera, infatti, per quanto puntuta e ostile, può cancellare i sogni o bloccare la volontà di vivere e di lasciare un segno del proprio passaggio. Al massimo può, solo momentaneamente, escludere “il guardo”.

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Politica

Bidibi bodibi bu Antonella BUCCINI

Dunque. Pare che un portalettere abbia gettato in un cassonetto di una strada del centro di Napoli la corrispondenza destinata ai residenti della zona. Poste Italiane ha avviato una verifica sul caso. I commercianti e i residenti da tempo si vedevano costretti a pagare more per avvisi mai arrivati e i loro sospetti si sono tradotti presto in evidenze. Il portalettere probabilmente aveva eletto a sistema questa singolare strategia. Orbene, al netto del “napoletano furbo e scansafatiche”, dell’“immorale condotta”, dei “controlli inesistenti”, della “cedevolezza delle amministrazioni”, del “ai miei tempi”, ragioniamo. Milita dalla parte del nostro la tecnologia, anche quella meno sofisticata. Dalla e-mail alla pec fino allo spid e alle banche tutte on line, la posta è un residuato del secolo scorso. Avrà pensato il nostro postino di essere una risorsa per il suo ente assolutamente sprecata e la carta, inopinatamente consumata, solo un danno per l’ambiente. Il problema va risolto, avrà pensato. In fretta. Il cassonetto, quello per la carta si intende, gli si offriva come la più ovvia delle soluzioni e ne ha approfittato. O magari il problema aveva dimensioni un po' più domestiche. Il caldo eccezionale, un mal di testa fastidioso o forse un appuntamento con la ragazza. Sta di fatto che ogni ulteriore riflessione gli sarà parsa superflua. Non è più tempo. A ben vedere quindi la questione propone più punti di vista e il metodo adottato dal portalettere non è poi così censurabile. Ad esempio. Nella nostra era covid sono stati aggiornati i criteri di valutazione per la colorazione delle regioni, ispirati, tra l’altro, alla percentuale di occupazione negli ospedali. Bene, a un passo dalla collocazione più restrittiva si aumentano i posti 26


letto. In tal modo l’equazione risulta vantaggiosa tanto da evitare il peggio. Basta pensarci un po’ su. Alla stessa maniera la distanza tra i banchi in aula deve essere di due metri ma se non ce la si fa va bene anche un metro. Dieci giorni di quarantena? No, anche sette ma possiamo accordarci su cinque. La precarietà del lavoro la possiamo risolvere con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Il presunto “indeterminato” e le fantastiche “tutele crescenti” evocano un futuro e funzionano con effetto placebo. La povertà, ecco la povertà. Abbassiamo il parametro del livello di reddito indicatore della soglia di indigenza. Saremo tutti più ricchi. È un attimo. E abbiamo risolto.

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Politica

Non passi lo straniero Antonia SCIVITTARO Dedicato a Gino Strada

Trentadue anni fa cadeva il muro di Berlino, simbolo della Cortina di ferro, che divideva l’occidente capitalista dall’oriente socialista. E con esso, pochi anni dopo si sgretolava l’URSS portando con sé anche i paesi che un tempo erano stati sotto la propria egemonia. Questo repentino susseguirsi di eventi, che sconvolsero l’assetto politico dell’Europa e gli equilibri politici nel mondo, favorì l’instaurarsi di un unico paradigma, economico e sociale, quello vincente: ossia il liberismo. Con la caduta del muro si inaugurò la globalizzazione, il fenomeno per cui il mercato e il consumo sono interconnessi al livello mondiale, e ciò significava: l’inizio dell’era dell’apertura delle frontiere, di un mondo unito, senza confini; ed è proprio sotto il segno di questo ottimismo che nel 1993 nasceva l’Unione Europea. Un’organizzazione con lo scopo dichiarato di unire i Paesi membri e, com’era stato stabilito nella sua Costituzione e in seguito ribadito dal trattato di Lisbona del 2009, avrebbe garantito protezione e asilo ai richiedenti di un qualunque paese terzo. In un clima simile è alquanto paradossale scoprire che i muri, materiali e umani, negli ultimi trent’anni si sono triplicati, passando dall’essere meno di venti nel 1989 ai settanta attuali*. Dopo un’era di promesse e aspettative ci siamo scoperti vulnerabili e fragili nel nostro bisogno di appartenere ad un gruppo, che in questo caso è il Paese. Solo ora ci rendiamo conto quanto l’identità nazionale definiva 29


l’immagine che un individuo ha di sé stesso e quanto sia una componente che non si vuole abbandonare. La globalizzazione in questo senso ha solo accentuato il bisogno di sicurezza dato dalla logica del “noi” contro loro “loro” e con lo scemare di questa “differenza”, in un mondo senza frontiere in cui il concetto di identità si sta allargando fino ad includere il mondo, si è presentata la necessità di erigere un muro per evitare di perdere la concezione di sé stessi. Lo scorporamento dell’immagine nazionale ha sicuramente la sua buona parte di responsabilità in questo fenomeno di chiusura, specialmente nell’influenza che questa insicurezza esercita nella politica interna di una nazione. Ed è su questa paura che le destre populiste spingono, promettendo una sicurezza di facciata: l’erezione di un muro. Alla perdita identitaria si aggiunge un problema di cui, specialmente qui in Italia, si discute molto: l’immigrazione. I muri eretti oggi non separano più il capitalismo dal socialismo, separano i ricchi dai poveri, poiché nel nostro nuovo mondo interconnesso questi ultimi rappresentano un fastidio da ignorare.

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Negli ultimi anni i flussi migratori si sono intensificati a causa di vari regimi antidemocratici e conflitti che tutt’ora mietono vittime. In un Occidente già in crisi ideologica e metodica questa nuova emergenza è stata accolta con crescente angoscia e paura. L’esigenza di sicurezza e di tutela identitaria da parte della popolazione è stata recepita dai vari governi nazionali che niente di meglio hanno pensato di fare se non riproporre muri e barriere, nell’ottica di un rafforzamento dei confini. È inutile dire che la costruzione di qualsivoglia muro è, di fatto assolutamente inutile per fermare i flussi migratori, come la storia ben ci insegna. Le persone che fuggono da fame e devastazione troveranno sempre un modo per scavalcare un muro, e lo faranno mettendo in gioco quanto hanno di più caro. Per coloro che scappano, oltre i confini dei loro Paesi c’è la possibilità di una vita nuova; significa lasciarsi alle spalle la povertà, la guerra, la fame, la violenza, per loro questo fievole barlume di speranza è qualcosa per cui vale la pena di rischiare. Inoltre il “rafforzamento delle frontiere” causa un aumento delle vittime: prendiamo come esempio il caso del muro tra Grecia e Turchia (i lavori iniziarono nel 2012) e fra Ungheria e Serbia (2015) che ha ridotto significativamente il flusso migratorio passante per i Balcani, però ha costretto più persone ad optare per la rotta mediterranea, quella tra il Nord Africa e l’Italia, che essendo più lunga è di conseguenza più rischiosa e miete più vittime, come confermato dall’Oim (Organizzazione Internazionale per le migrazioni). Un secondo caso analogo si può ritrovare con nell’iniziativa della Turchia di erigere un muro al confine con l’Iran per bloccare i flussi migratori provenienti 31


dall’Afghanistan, dopo la conquista della capitale, Kabul, da parte dei Talebani avvenuta il 15 agosto del 2021. Attualmente ne sono stati completati 156 km al fronte dei 243 previsti dal progetto. Questo purtroppo condannerà le persone che scappano dalla violenza e dai soprusi a scegliere vie più rischiose per arrivare in Occidente, finanche, come testimoniato da fotografie atroci ad aggrapparsi ad aerei in partenza.

L’immigrazione è sicuramente un’emergenza complicata e controversa da gestire a livello umano, economico e di risorse… ma se a fronteggiarlo fosse un’Europa salda, unita e fiduciosa sicuramente saremmo capaci di organizzarci e controllarlo meglio di quanto non facciamo attualmente in preda alla paura e al disprezzo. La nostra identità di individui è veramente così fragile? Davvero l’abolizione delle frontiere, l’abbattimento dei muri sono abbastanza da farci dimenticare chi siamo e da dove veniamo? La paura del diverso è ovviamente insita nell’animo umano, ma la nostra determinazione dovrebbe perseguire il superamento delle nostre barriere mentali, dei nostri limiti dandoci la possibilità di riscoprici, reinventarci e di ritrovare noi stessi nell’altro.

*(fra Bulgaria e Turchia, Ungheria e Serbia, Austria e Slovenia, Messico e Stati Uniti, Corea del Nord e Corea del sud, Turchia e Siria, tra Sudafrica e Mozambico ecc…)

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Politica

Viaggio a Palermo nei luoghi della memoria Veronica D’ANGELO

Sono stata tante volte a Palermo, accompagnata anche da amici del posto, e pensavo di avere una buona idea della città sia dal punto di vista turistico che culturale. Ho visitato monumenti, più o meno conosciuti, esplorato le vie della città e i suoi mercati, vissuto le serate brulicanti di vita e di cibo, apprezzato l’accoglienza unica 34


dei suoi abitanti. Ma a volte basta guardare le cose da un altro punto di vista per scoprirne aspetti nuovi e affascinanti. Grazie ad un amico che studia l’argomento, stavolta ho dedicato il mio breve viaggio a Palermo alla visita di alcuni luoghi simbolo della lotta alla mafia, in una sorta di pellegrinaggio laico ai siti della memoria. Tutto è nato con la proposta di fare “da scorta” all’albero della pace in via D’Amelio, una iniziativa del movimento “Agende rosse”, che opera affinché sia fatta piena luce sulla strage che il 19 luglio 1992 uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque membri della sua scorta. Nel punto in cui la bomba generò l’enorme cratere nell’asfalto, davanti il palazzo della madre del giudice, è stato piantato un ulivo, simbolo della pace, e qui volontari accorsi da tutta Italia hanno accolto l’appello di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, a partecipare al presidio giornaliero posto accanto all’albero e destinato quest’anno a durare quasi tre mesi, per mantenere viva la memoria degli accadimenti di quel giorno. Arrivo infatti a Palermo a ridosso del 19 luglio e mi unisco al gruppo presente sul posto: pettorine rosse con i nomi dei deceduti, un libro di pensieri e disegni sul banchetto e tanta voglia di comunicare ai visitatori cosa successe quel giorno. Tra i volontari conosco Pina Catalano, sorella dell’agente di scorta Agostino, che racconta commossa chi era il fratello e quanta dedizione avesse per il suo lavoro. E soprattutto c’è Salvatore Borsellino, ultimo sopravvissuto dei quattro fratelli della famiglia, a ripercorrere i momenti di quel giorno: il giudice sostava sotto il palazzo della madre, che doveva accompagnare a una visita medica, quando qualcuno azionò il comando che fece esplodere un’auto parcheggiata davanti al palazzo, in 35


un’area in cui stranamente mancarono le più elementari misure di sicurezza. Pezzi degli uomini saltati in aria furono ritrovati qua e là nella strada e sui balconi dei palazzi circostanti, racconta Salvatore, che ancora si chiede dove sia finita quella maledetta agenda rossa, in cui Paolo Borsellino annotava nomi e colloqui investigativi, che sparì stranamente dalla borsa del magistrato trovata intatta dopo l’esplosione. Nel corso della giornata tante persone in visita, famiglie con bambini, coppie in viaggio, passanti curiosi. E ogni volta qualcuno pronto a ricominciare da capo a raccontare la storia, gli aneddoti, la tragicità degli eventi. Ho visto lacrime di commozione, ancora dopo tanti anni. Seguendo questo filo, abbiamo programmato le altre tappe del nostro viaggio alla ricerca dei luoghi che omaggiano gli eroi del nostro tempo, coloro che hanno combattuto la mafia e creduto nella Giustizia e nel senso più alto dello Stato.

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Il giorno successivo andiamo in cerca di via Isidoro Carini, dove nel 1982 il Generale Dalla Chiesa, inviato come Prefetto di Palermo per contrastare la mafia in un periodo di guerre intestine ed assassinii di uomini illustri, fu affiancato da una moto mentre era in auto con la moglie ed entrambi furono colpiti a morte da una raffica di mitragliatrice. Una targa enorme rende immediatamente possibile individuare il posto esatto dell’attentato. Ci rechiamo poi in via Pipitone Federico, dove un’altra targa ricorda che lì, presso la sua abitazione, fu ucciso nel 1983, a soli cinquantotto anni, il magistrato Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, colui che per primo ebbe l’idea di creare un gruppo di lavoro dedicato alle indagini di mafia, dando forma a quello che sarà poi definito il “pool antimafia”. In quel gruppo c’erano due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

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I loro uffici presso il Palazzo di Giustizia, ricostruiti fedelmente con arredi, oggetti personali ed investigativi del tempo, sono diventati il Museo Falcone-Borsellino, che si può visitare gratuitamente. Se si passa per via Emanuele Notarbartolo, dove abitava il giudice Falcone, un altro albero della memoria raccoglie i pensieri, i ricordi e la gratitudine nei confronti dell’altro magistrato ucciso con una bomba sull’autostrada per Palermo il 23 maggio 1992, mentre tornava dall’aeroporto con la moglie e gli agenti della scorta.

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Prendiamo anche noi l’autostrada A29 da Trapani a Palermo, per trovare, all'altezza dello svincolo per Capaci, la grande stele che ricorda i nomi dei morti di quest’altra strage, compiuta con una quantità enorme di esplosivo posto sotto la strada in un cunicolo di drenaggio. All’uscita, di fianco a quel cunicolo, adesso sorge un giardino con quei nomi tatuati nel pavimento. Fermarsi sulla strada all’altezza della stele e immaginare quello che successe all’epoca alle tre auto in transito dà un certo brivido. La storia recente del capoluogo siculo è legata a doppio filo a questi eventi e ai loro protagonisti. Ricordi e memoriali dei due magistrati sono presenti ovunque in città. Se si visita la Chiesa di San Domenico, ad esempio, si può notare, in una cappella laterale, la tomba del giudice Falcone. Arrivando lì, troviamo una giovane ragazza inginocchiata a rendergli omaggio nel silenzio assoluto. E anche la street art ricorda gli eroi dell’antimafia con murales che compaiono all’improvviso per le strade. Passeggiando alla Cala, il porto turistico di Palermo, ce n’è uno molto grande, che ritrae i due giudici insieme, con quell’aria complice così conosciuta. È stato disegnato sull’intero lato di un alto palazzo che guarda il centro, a voler sottolineare l’anima pulita della città, quella che prende le distanze dagli eventi mafiosi. Una visita a Palermo oggi non sarebbe completa senza includere alcune di queste tappe collegate alla lotta alla mafia. E poiché la mafia non si combatte solo nelle aule di giustizia, e non è solo ricordo di eventi tragici, il mio piccolo viaggio si è concluso alla Kalsa, il quartiere di nascita di Falcone e Borsellino, con la visita alla “Casa di Paolo”. Si tratta di un luogo di accoglienza e formazione, soprattutto informatica, per ragazzi svantaggiati, 39


voluto fortemente dal fratello del giudice Borsellino per contribuire a ridurre le disuguaglianze sociali e combattere la mentalità mafiosa. In questi locali, dove un tempo c’era la farmacia di famiglia, tra foto d’epoca e computer, volontari lavorano ogni giorno per creare opportunità di studio e lavoro che possano sottrarre i ragazzi più poveri alle braccia perverse della mafia. Perché, come diceva il giudice Falcone, “gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. E per fortuna Palermo, di questi uomini, è piena.

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Storia

Due italiani oltre ogni confine Giovan Giuseppe MENNELLA

Questa è la storia di due italiani, Cosma Manera e Andrea Compatangelo, uno del Nord e uno del Sud, uno militare e uno civile, che si lanciarono in una serie di avventure di attraversamento di guerre e confini per salvare e riportare a casa altri italiani, abitanti di regioni, il Trentino, il Friuli, la Venezia Giulia, la Dalmazia, contese per tutto il secolo XX tra vari Stati e attraversate da confini sempre variabili, tanto che alcune persone, nate in quei luoghi all’inizio del 900, hanno cambiato cinque o sei volte nazionalità. Nella parte finale della Grande Guerra, a partire dagli ultimi mesi del 1916, il Regno d’Italia decise di concedere la cittadinanza italiana ai sudditi dell’Impero Austroungarico di lingua e etnia italiane, trentini, friulani, giuliani, dalmati, che erano stati spediti a combattere in Galizia austriaca contro l’esercito russo e che erano stati presi prigionieri su quel fronte. Furono presi accordi con l’alleato russo e fu distaccata una missione militare ufficiale italiana, al comando del colonnello dell’Esercito Ernesto Bassignano, per rintracciare gli ormai ex prigionieri e riportarli a casa. Della missione faceva parte il Maggiore dei Reali Carabinieri Cosma Manera, un personaggio particolare, già esperto di operazioni di pacificazione all’estero a Creta, in Macedonia, in Grecia e che parlava il francese, l’inglese, il tedesco, il russo, il greco, il turco, il serbo, il bulgaro. La conoscenza delle lingue e l’innata capacità di cavarsela in ogni frangente già lo avevano salvato in Macedonia dove era sfuggito alla morte per la com42


prensione della lingua e perché il capotribù che lo teneva prigioniero aveva scoperto che si chiamavano entrambi Cosma. La missione di cui faceva parte Cosma Manera arrivò a Pietrogrado via mare e poi si diresse verso la zona del Mar Bianco dove, nei pressi del porto di Arkangelsk, furono rintracciati i primi quattromila ex prigionieri dell’esercito austroungarico, trentini, friulani, giuliani e dalmati. Per difficoltà logistiche intervenute nel frattempo, la missione militare italiana fu depauperata di uomini e mezzi e Cosma Manera si trovò quasi da solo e in difficoltà. Senza perdersi d’animo, abituato dall’esperienza e dalle risorse del suo carattere, fece in modo di noleggiare dall’esercito inglese una nave ex austriaca catturata e fece imbarcare i primi 1700 ex prigionieri. Altri 2300 uomini non riuscirono a partire perché non c’era posto e successivamente arrivarono tardi all’appuntamento con un’altra nave. La situazione divenne ancora più difficile perché intanto era scoppiata la Rivoluzione bolscevica d’ottobre e la guerra civile. Cosma Manera era rimasto solo a cavarsela nel caos e nel pericolo degli avvenimenti epocali che si svolgevano di giorno in giorno. Infatti, i rivoluzionari cercavano l’appoggio della Germania e dell’Austria per concludere in qualunque modo la Guerra mondiale e dedicarsi con il massimo dell’intensità alla lotta contro le armate controrivoluzionarie bianche. Intanto, nel luglio precedente alla Rivoluzione aveva trovato nel campo di concentramento di Kirsanov altri 57 ufficiali e 2600 soldati di lingua italiana ex prigionieri appartenuti all’esercito austriaco. La via di ritirata del gruppo verso Occidente era bloccata dalla presenza delle armate austro-tedesche sulla linea del fronte e quindi si poteva fuggire solo verso O43


riente. Manera prese accordi con il capostazione del nodo ferroviario di Celiabinsk e riuscì a far agganciare a ogni treno in transito sulla ferrovia Transiberiana un carro merci con cinquanta dei suoi ex prigionieri. Attraverso tutta la Siberia, tra tempeste di neve, cibo scarso e continui pericoli, nel dicembre 1917 4000 soldati arrivarono a Celiabinsk, dove riuscirono a usufruire di aiuti inviati da benefattori trentini e il gruppo fu riorganizzato militarmente in 4 compagnie.

A Vladivostok, nell’estremo oriente russo, trovarono altri 1700 ex prigionieri dell’esercito austriaco di etnia e lingua italiana, stanchi e malati, che si erano rifiutati di giurare fedeltà al Regno d’Italia. Dopo il fallimento di un altro tentativo di rimpatrio diretto via mare, nel marzo 1918 la spedizione raggiunse via treno in Cina la concessione italiana di Tientsin. Gli uomini furono sistemati in accampamenti in Manciuria e a Pechino.

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Manera organizzò così la cosiddetta Legione Redenta di Siberia. Redenta perché formata da quegli italiani ex sudditi dell’Impero Austroungarico, già definiti irredenti dai nazionalisti italiani, che ora redenti lo erano per davvero perché potevano avere la cittadinanza del Regno d’Italia, anche se a quel punto delle confuse vicende della Guerra mondiale e delle connesse guerre civili, non potevano sapere che situazione politica, militare e sociale avrebbero trovato nei territori di nascita, se e quando fossero riusciti a tornarvi. Così fu fatta loro la proposta di continuare a combattere per l’Intesa, ma molti si ribellarono. Comunque presto fu chiarito che si trattava di svolgere soltanto compiti di polizia militare dietro le linee dei combattimenti che si accendevano, quasi in un tutti contro tutti, nell’ambito della Guerra Civile russa tra rivoluzionari e controrivoluzionari russi e che impegnava insieme anche cinesi, giapponesi, siberiani, ex prigionieri cecoslovacchi, truppe dell’Intesa, tedeschi, austriaci etc. Il 6 settembre 1918 la Legione Redenta fu consegnata da Manera al Corpo di spedizione italiano inviato in Estremo Oriente, nell’ambito del quale continuò per qualche tempo l’attività di polizia militare in Siberia dietro le linee delle armate controrivoluzionarie bianche. L’odissea della Legione Redenta di Manera si avviò finalmente a conclusione a partire dal febbraio 1920, con l’imbarco definitivo a Vladivostok su tre navi messe a disposizione dagli Stati Uniti. Dopo soste più o meno lunghe, attraverso l’Oceano Indiano, in Mar Rosso e in Egitto, giunsero in vista del porto di Trieste nell’aprile 1920.

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Qui furono sbarcati non solo senza festeggiamenti e onori, ma addirittura di notte, per non dare nell’occhio. La situazione politica si era già ingarbugliata nelle loro terre di origine, con il tentativo insurrezionale di D’Annunzio a Fiume ancora in atto e con il dissidio in atto tra nazionalisti italiani e jugoslavi su quello che, per tutto il 900, doveva essere definito il tormentato confine orientale dell’Italia, che doveva ancora assistere a guerre, stragi, dissidi etc. Inoltre, con le forze socialiste rivoluzionarie anora infatuate della Rivoluzione russa e che volevano rifarla anche in Europa occidentale e in Italia, non era considerato salutare dare troppi onori a corpi di truppe italiane che avevano scambiato più di una schioppettata con i rivoluzionari rossi in Siberia. Però Cosma Manera fu sempre considerato dai propri uomini il “Padre degli Irredenti”. Una storia simile e, per certi versi, ancora più incredibile è quella di Andrea Compatangelo. Costui era un commerciante italiano, originario di Benevento, che praticava il commercio nella città russa di Samara, ai piedi degli Urali. Nell’estate del 1918, quando era in svolgimento la guerra civile tra rossi e bianchi e Manera aveva già portato i suoi in Estremo Oriente, Compatangelo prese a cuore e tentò di cambiare la sorte dei tanti prigionieri dell’ex esercito austriaco, di etnia e lingua italiana, presenti nei dintorni di Samara, sbandati, affamati, senza punti di riferimento ed esposti a tutti i pericoli che potevano correre in una terra straniera in preda all’anarchia e a lotte tanto feroci quanto confuse.

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Così Compatangelo, con intraprendenza e improntitudine, decise di conferirsi i gradi di Capitano del regio Esercito italiano e di fondare con gli ex prigionieri trentini, friulani, giuliani e dalmati un’improvvisata Brigata Savoia. La Brigata, per aprirsi la strada verso il ritorno in Italia, partecipò alla guerra civile tra bianchi e rossi, combattendo con i bianchi, appoggiati dall’Intesa, a fianco di altri ex prigionieri di nazionalità cecoslovacca. Ripiegando verso Oriente, unica via di fuga aperta, percorrendo migliaia di chilometri lungo la ferrovia Transiberiana con temperature polari, anche gli uomini di Compatangelo raggiunsero Vladivostok unendosi alla Missione militare italiana nell’Estremo Oriente. Il loro rimpatrio fu ancora più avventuroso di quello degli uomini di Manera, in quanto fecero il giro del mondo, in nave nel Pacifico fino San Francisco, in ferrovia attraverso gli USA fino a New York e di qui in nave fino a Trieste, attraverso l’Atlantico e il Mediterraneo. Anche a Compatangelo e ai suoi uomini non fu riconosciuto alcun merito, come a Manera e ai suoi, per la situazione estremamente complessa manifestatasi sul confine orientale dell’Italia e per non dare ulteriore spazio ai progetti rivoluzionari e ai rancori dei socialisti massimalisti italiani ed europei. Fu un peccato, perché queste due storie romanzesche avrebbero meritato un miglior ricordo, anche se, di recente, su Compatangelo è uscito nel 2014, per i tipi Aracne, il libro di Andrea Mendoza “Andrea Compatangelo un Capitano dimenticato”.

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Cultura

Voglio poter urlare Anita NAPOLITANO

“Voglio poter urlare, voglio poter urlare anche se poi mi sparano addosso”, dal monologo di Bernard Marie Koltès del 1977. “La nuit juste avant les forets” è un atto unico che racconta una storia che riguarda ciascuno di noi: il bisogno estremo degli altri, dello stare insieme e al tempo stesso, l’insofferenza dello stare insieme. Koltès, un drammaturgo che è scomparso troppo presto che con la sua opera, ha saputo instillare una voce lancinante e vertiginosa nel deserto della scrittura drammatica contemporanea, in questo monologo racconta, di una serata realmente accaduta, in cui l’autore francese incontra un uomo senza fissa dimora con il quale si ferma a parlare e gli racconta della sua condizione di straniero. È un testo politico, attualissimo ancora oggi nel 2021, essere straniero significa essere soli e le frontiere sono ancora barriere. Il monologo è un fiume di parole, un apartheid esplicito e sublimato appieno di una parabola del Nicaragua dove si narra quando e come un vecchio generale e i suoi soldati prendono di mira “tutto quel che vola al di sopra del fogliame”, “tutto quello che compare ai margini della foresta“ , tutto quello che non ha il colore degli alberi o che non si muove allo stesso modo”. Può considerarsi un manifesto a favore di un Sindacato Internazionale per la Difesa dei ragazzi non troppo forti (“figli diretti delle loro madri, con la camminata dondolante”). 49


Un testo che scorre fluente, senza punteggiatura, da togliere il fiato, copre temi come problemi d’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile che affiorano in una comunicazione per un’unica voce solista: è una sera di pioggia, è l’angolo di una periferia.

Uno straniero ferma un ragazzo per strada e lo chiamerà “compagno”, vorrebbe offrirgli un caffè poi una birra ma quando si è stranieri si è privati di tutto: di soldi, di un lavoro, di una casa, di un amore, della propria identità e della dignità di essere umano, dove la periferia rimane un luogo chiuso che non permette di oltrepassare le frontiere, quelle che delimitano diventando barriere, lasciando invece, il solo passaggio al disumano che riesce ad oltrepassare invece ogni limite.

Dunque, leggere o ascoltare online alcune interpretazioni del testo citato, come la più forte e intensa di Pierfrancesco Favino, per esempio, può essere l’opportunità per comprendere la condizione di chi si sente “straniero” in un contesto sociale attuale che non permette alle frontiere un’accoglienza finalmente umana dello “straniero”.

Lo “straniero” è nello specchio della nostra esistenza: avere il coraggio di guardarsi allo specchio per riconoscere la solitudine di ciascuno di noi, può essere l’inizio di barriere infrante e frontiere finalmente aperte all’umana accoglienza e con questa speranza vi auguro, una buona lettura.

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Racconto

Abiti Lucia COLARIETI

Rita scorreva le dita sugli abiti appesi alle grucce, le stoffe leggere, colorate, le passavano sotto i polpastrelli e sprigionavano ancora quel profumo straziante che faceva male in un punto profondo del petto. Raramente apriva l’armadio della mamma, erano passati degli anni, ma nelle narici l’odore della mancanza faceva male. Quando il disagio si faceva più forte e si sentiva sola, alla ricerca del suo abbraccio che la proteggeva da ogni male, spalancava quelle ante, nella speranza di trovarci qualcosa di nuovo da indossare. Con la crescita il suo corpo si era allargato, espanso a cancellare le sembianze della bimba che era stata, ma la mamma era stata longilinea e dalle forme perfette, i suoi abiti non erano adatti. Così Rita chiuse le ante e tornò nella sua stanzetta, era quasi ora di scendere per andare a scuola. Anche quel giorno infilò un pantalone larghissimo a fantasia floreale, la maglia con una stampa di una squadra americana e vi gettò sopra una giacca a quadri. Passò ad occhi bassi davanti all’inutile specchio che presidiava l’ingresso e uscì con lo zaino sulle spalle. Il cortile della scuola media era già pieno di studenti, da tre anni Rita faceva in modo di arrivare a ridosso dello squillo della campanella d’ingresso. Evitava, così, di passare in mezzo alla folla dei suoi compagni. Seguendo le schiene degli altri si avviò al portone ma ugualmente avvertì gli sguardi di scherno dei gruppetti che sostavano sulle scale. Alla prima ora c’era matematica ma in quel momento la sua preoccupazione non era per l’interrogazione, quel giorno doveva accordarsi con i compagni del suo gruppo per il lavoro da fare per il progetto, la professoressa aveva deciso lei le composizioni, e Rita era certa che l’avesse messa 53


di proposito insieme alle vipere; “devi crescere”, le diceva sempre. Si affacciò alla soglia dell’aula e loro erano lì, a presidiare il territorio a colpi di capelli lunghi e lisci, risate argentine lanciate in aria, abiti alla moda su corpi affusolati, e tutte fornite di una lingua lunga e tagliente. Perciò Rita, tra sé, le aveva soprannominate “le vipere”. Si riavviò il ciuffo crespo che le sfuggiva dall’elastico, abbassò lo sguardo e si diresse al suo banco tentando di mimetizzarsi tra gli zaini. «Tu, bella» l’avevano vista e una risatina sottolineò l’aggettivo usato in modo sarcastico «Oggi ci vediamo da me. Non fare tardi e portaci il lavoro, noi abbiamo da fare». «Sì» mormorò Rita. Il giorno prima aveva lavorato a lungo, come suo solito, sul tema che avevano da svolgere: l’inclusione nel mondo della moda. Affascinata dalle nuove frontiere che si aprivano in quel campo, aveva approfondito la ricerca: “si tenga conto della diversità di taglie, misure, protesi e altre peculiarità anatomiche per restituire dignità e bellezza a ogni persona”, recitava un manifesto della “adaptive fashion”, il manifesto della moda inclusiva; nel mondo della moda si iniziava a parlare di rispetto delle diversità, di abbandono della imposizione di modelli predefiniti. Davanti ai suoi occhi si mescolavano i testi restituiti dai motori di ricerca e le immagini degli abiti nell’armadio della mamma, prendevano forma modelli nuovi, adatti ad un fisico come il suo. Pensò che avrebbe potuto imparare a cucire. Le tornarono in mente i pomeriggi passati nel negozio di abbigliamento della mamma, lei usava toni dolci e accoglienti con le clienti più difficili, che rimanevano affascinate. La mamma era capace di far sentire ognuno come una regina, e non era solo capacità di vendere, ci teneva davvero ad ognuna di loro. Poco prima dell’appuntamento Rita si avviò a piedi verso casa della compagna, la villa si trovava al limite del suo quartiere. Uscì dalla strada dove si affacciavano i 54


caseggiati popolari e prese la strada alberata in salita verso i comprensori di lusso. In quei momenti le mancava tanto la mamma, l’avrebbe consolata e incoraggiata, e magari sarebbero andate insieme a comprare qualcosa di carino da indossare, invece il padre non aveva tempo e soldi per questo, da quando la mamma si era ammalata e poi se ne era andata, non faceva altro che lavorare per tirare avanti. Suonò al citofono, con un cicalino il grande cancello si aprì e lei si diresse verso l’ingresso. Una domestica le aprì la porta e la fece entrare, già sentiva quelle risatine che le facevano l’effetto di una forchetta graffiata su un piatto. Le ragazzine stavano in un grande salone, la musica suonava altissima, la TV riversava immagini di video e dappertutto erano sparsi rossetti, ciprie, pennelli, boccette, flaconi, borsette, scarpe, canotte, gonne e altri mille accessori di cui Rita ignorava anche l’utilizzo. «Oddio, adesso ci tocca studiare, che pizza» esclamò una di loro vedendola entrare «quella pallosissima ricerca». «Stiamo facendo le prove di una sfilata di moda» le disse cantilenando l’altra. «Certo, una sfilata inclusiva» le fece eco un’altra con l’immancabile risata.

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«Si vabbè», esclamò la biondina mostrando sul cellulare la foto di una recente sfilata di moda in cui un ragazzo indossava una gonna a disegni geometrici e un paio di decolleté sotto una giacca doppiopetto, «ragazze state attente che fra poco ci metteranno il bavaglio e non potremo neanche più fare battute su uno vestito così, ma vi pare, se approvano questa legge ci arresteranno» concluse con voce stridula e una espressione disgustata sul volto truccato. Rita posò su un ripiano i fogli che aveva in mano con un rumore secco che fece voltare tutte, con voce bassa e ferma disse: «se tu fossi un minimo intelligente forse capiresti che non bisognerebbe mai prendere in giro nessuno per il suo aspetto, non è certo una norma di legge che dovrebbe stabilire questo». Si guardò intorno registrando le belle bamboline senza parole e senza risate, prese un bel respiro, raccolse le sue cose e uscì dalla stanza. Di corsa all’aria aperta si sentiva più bella e forte, finalmente era riuscita a rispondere. Nella testa vorticavano immagini di abiti da adattare, abiti per chiunque voglia essere a suo agio, di sfilate di moda, sfilate non di corpi ma di persone. Non vedeva l’ora di tornare a cercare gli indirizzi e i link per realizzare il suo sogno, avrebbe imparato a cucire e si sarebbe messa alla prova. “Mamma, puoi essere orgogliosa di me” pensò “ho deciso cosa farò da grande”. E nessuno oserà mai più prendermi in giro, per nulla.

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Cultura

Lo zen o l’arte della manutenzione della sopravvivenza Antonella BUCCINI

Mi rivolgo alle signore. Alle signorine anche. Un appello alla prudenza, quanto mai necessario. State calme. Non vi innervosite per carità. Che poi il nervoso provoca stress e quindi un eccesso di cortisolo ecc. ecc. Ma non voglio divagare. Non siate esasperanti e tantomeno aggressive perché se qualcuno alla fine va fuori di testa o è obnubilato e vi urla “guarda che cosa mi fai fare” non vi dovete lamentare o correre da mamma e papà o peggio ancora dai carabinieri. Vi

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suggerisco una pratica contenitiva, che so, il pranayama, respiri profondi al primo schiaffo o parolaccia e magari anche una mezz’ora di yoga dolce. Aiuta. Per fronteggiare un’imprevista imboscata, la posizione del loto, se riuscite a conservarla. E comunque sguardo mite e sorriso accogliente, sempre. Perché, come ha intuito la nota giornalista, occorre sentire le due campane, va da sé. Se un uomo ti manda all’ospedale o peggio ti uccide, ci sarà per forza una ragione, che diavolo, e quella ragione potresti essere tu, il tuo cattivo, cattivissimo comportamento, esasperante e pure aggressivo che fa perdere la pazienza pure ai santi! Questo spunto di riflessione, salvifico, è come un lampo improvviso, ci accende una luce che avevamo ignorato, ci apre una prospettiva inesplorata. Sdogana finalmente, a pensarci bene, quello che nel profondo del cuore pensano in tanti, tantissimi. Nello specifico “femminicidio”, ovviamente, perché in materia di stupro avevamo già frequentato la minigonna che provoca, la notte che fa occasione, l’alcol non ne parliamo ecc. E se poi nonostante tutte le buone pratiche zen comunque vi ammazzano, suvvia era destino.

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