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Voglio poter urlare

Cultura

Voglio poter urlare

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Anita NAPOLITANO

“Voglio poter urlare, voglio poter urlare anche se poi mi sparano addosso”, dal monologo di Bernard Marie Koltès del 1977. “La nuit juste avant les forets” è un atto unico che racconta una storia che riguarda ciascuno di noi: il bisogno estremo degli altri, dello stare insieme e al tempo stesso, l’insofferenza dello stare insieme.

Koltès, un drammaturgo che è scomparso troppo presto che con la sua opera, ha saputo instillare una voce lancinante e vertiginosa nel deserto della scrittura drammatica contemporanea, in questo monologo racconta, di una serata realmente accaduta, in cui l’autore francese incontra un uomo senza fissa dimora con il quale si ferma a parlare e gli racconta della sua condizione di straniero.

È un testo politico, attualissimo ancora oggi nel 2021, essere straniero significa essere soli e le frontiere sono ancora barriere.

Il monologo è un fiume di parole, un apartheid esplicito e sublimato appieno di u- na parabola del Nicaragua dove si narra quando e come un vecchio generale e i suoi soldati prendono di mira “tutto quel che vola al di sopra del fogliame”, “tutto quello che compare ai margini della foresta“ , tutto quello che non ha il colore degli alberi o che non si muove allo stesso modo”.

Può considerarsi un manifesto a favore di un Sindacato Internazionale per la Difesa dei ragazzi non troppo forti (“figli diretti delle loro madri, con la camminata dondolante”).

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Un testo che scorre fluente, senza punteggiatura, da togliere il fiato, copre temi come problemi d’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile che affiorano in una comunicazione per un’unica voce solista: è una sera di pioggia, è l’angolo di una periferia.

Uno straniero ferma un ragazzo per strada e lo chiamerà “compagno”, vorrebbe offrirgli un caffè poi una birra ma quando si è stranieri si è privati di tutto: di soldi, di un lavoro, di una casa, di un amore, della propria identità e della dignità di essere umano, dove la periferia rimane un luogo chiuso che non permette di oltrepassare le frontiere, quelle che delimitano diventando barriere, lasciando invece, il solo passaggio al disumano che riesce ad oltrepassare invece ogni limite.

Dunque, leggere o ascoltare online alcune interpretazioni del testo citato, come la più forte e intensa di Pierfrancesco Favino, per esempio, può essere l’opportunità per comprendere la condizione di chi si sente “straniero” in un contesto sociale attuale che non permette alle frontiere un’accoglienza finalmente umana dello “straniero”.

Lo “straniero” è nello specchio della nostra esistenza: avere il coraggio di guardarsi allo specchio per riconoscere la solitudine di ciascuno di noi, può essere l’inizio di barriere infrante e frontiere finalmente aperte all’umana accoglienza e con questa speranza vi auguro, una buona lettura.

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