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Abiti

Racconto

Abiti

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Lucia COLARIETI

Rita scorreva le dita sugli abiti appesi alle grucce, le stoffe leggere, colorate, le passavano sotto i polpastrelli e sprigionavano ancora quel profumo straziante che faceva male in un punto profondo del petto. Raramente apriva l’armadio della mamma, erano passati degli anni, ma nelle narici l’odore della mancanza faceva male. Quando il disagio si faceva più forte e si sentiva sola, alla ricerca del suo abbraccio che la proteggeva da ogni male, spalancava quelle ante, nella speranza di trovarci qualcosa di nuovo da indossare. Con la crescita il suo corpo si era allargato, espanso a cancellare le sembianze della bimba che era stata, ma la mamma era stata longilinea e dalle forme perfette, i suoi abiti non erano adatti. Così Rita chiuse le ante e tornò nella sua stanzetta, era quasi ora di scendere per andare a scuola. Anche quel giorno infilò un pantalone larghissimo a fantasia floreale, la maglia con una stampa di una squadra americana e vi gettò sopra una giacca a quadri. Passò ad occhi bassi davanti all’inutile specchio che presidiava l’ingresso e uscì con lo zaino sulle spalle. Il cortile della scuola media era già pieno di studenti, da tre anni Rita faceva in modo di arrivare a ridosso dello squillo della campanella d’ingresso. Evitava, così, di passare in mezzo alla folla dei suoi compagni. Seguendo le schiene degli altri si avviò al portone ma ugualmente avvertì gli sguardi di scherno dei gruppetti che sostavano sulle scale. Alla prima ora c’era matematica ma in quel momento la sua preoccupazione non era per l’interrogazione, quel giorno doveva accordarsi con i compagni del suo gruppo per il lavoro da fare per il progetto, la professoressa aveva deciso lei le composizioni, e Rita era certa che l’avesse messa53

di proposito insieme alle vipere; “devi crescere”, le diceva sempre. Si affacciò alla soglia dell’aula e loro erano lì, a presidiare il territorio a colpi di capelli lunghi e lisci, risate argentine lanciate in aria, abiti alla moda su corpi affusolati, e tutte fornite di una lingua lunga e tagliente. Perciò Rita, tra sé, le aveva soprannominate “le vipere”.

Si riavviò il ciuffo crespo che le sfuggiva dall’elastico, abbassò lo sguardo e si diresse al suo banco tentando di mimetizzarsi tra gli zaini. «Tu, bella» l’avevano vista e una risatina sottolineò l’aggettivo usato in modo sarcastico «Oggi ci vediamo da me. Non fare tardi e portaci il lavoro, noi abbiamo da fare».

«Sì» mormorò Rita. Il giorno prima aveva lavorato a lungo, come suo solito, sul tema che avevano da svolgere: l’inclusione nel mondo della moda. Affascinata dalle nuove frontiere che si aprivano in quel campo, aveva approfondito la ricerca: “si tenga conto della diversità di taglie, misure, protesi e altre peculiarità anatomiche per restituire dignità e bellezza a ogni persona”, recitava un manifesto della “adaptive fashion”, il manifesto della moda inclusiva; nel mondo della moda si iniziava a parlare di rispetto delle diversità, di abbandono della imposizione di modelli predefiniti. Davanti ai suoi occhi si mescolavano i testi restituiti dai motori di ricerca e le immagini degli abiti nell’armadio della mamma, prendevano forma modelli nuovi, adatti ad un fisico come il suo. Pensò che avrebbe potuto imparare a cucire. Le tornarono in mente i pomeriggi passati nel negozio di abbigliamento della mamma, lei usava toni dolci e accoglienti con le clienti più difficili, che rimanevano affascinate. La mamma era capace di far sentire ognuno come una regina, e non era solo capacità di vendere, ci teneva davvero ad ognuna di loro.

Poco prima dell’appuntamento Rita si avviò a piedi verso casa della compagna, la villa si trovava al limite del suo quartiere. Uscì dalla strada dove si affacciavano i

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caseggiati popolari e prese la strada alberata in salita verso i comprensori di lusso. In quei momenti le mancava tanto la mamma, l’avrebbe consolata e incoraggiata, e magari sarebbero andate insieme a comprare qualcosa di carino da indossare, invece il padre non aveva tempo e soldi per questo, da quando la mamma si era ammalata e poi se ne era andata, non faceva altro che lavorare per tirare avanti.

Suonò al citofono, con un cicalino il grande cancello si aprì e lei si diresse verso l’ingresso. Una domestica le aprì la porta e la fece entrare, già sentiva quelle risatine che le facevano l’effetto di una forchetta graffiata su un piatto. Le ragazzine stavano in un grande salone, la musica suonava altissima, la TV riversava immagini di video e dappertutto erano sparsi rossetti, ciprie, pennelli, boccette, flaconi, borsette, scarpe, canotte, gonne e altri mille accessori di cui Rita ignorava anche l’utilizzo. «Oddio, adesso ci tocca studiare, che pizza» esclamò una di loro vedendola entrare «quella pallosissima ricerca».

«Stiamo facendo le prove di una sfilata di moda» le disse cantilenando l’altra. «Certo, una sfilata inclusiva» le fece eco un’altra con l’immancabile risata.

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«Si vabbè», esclamò la biondina mostrando sul cellulare la foto di una recente sfilata di moda in cui un ragazzo indossava una gonna a disegni geometrici e un paio di decolleté sotto una giacca doppiopetto, «ragazze state attente che fra poco ci metteranno il bavaglio e non potremo neanche più fare battute su uno vestito così, ma vi pare, se approvano questa legge ci arresteranno» concluse con voce stridula e una espressione disgustata sul volto truccato.

Rita posò su un ripiano i fogli che aveva in mano con un rumore secco che fece voltare tutte, con voce bassa e ferma disse: «se tu fossi un minimo intelligente forse capiresti che non bisognerebbe mai prendere in giro nessuno per il suo aspetto, non è certo una norma di legge che dovrebbe stabilire questo».

Si guardò intorno registrando le belle bamboline senza parole e senza risate, prese un bel respiro, raccolse le sue cose e uscì dalla stanza.

Di corsa all’aria aperta si sentiva più bella e forte, finalmente era riuscita a rispondere.

Nella testa vorticavano immagini di abiti da adattare, abiti per chiunque voglia essere a suo agio, di sfilate di moda, sfilate non di corpi ma di persone.

Non vedeva l’ora di tornare a cercare gli indirizzi e i link per realizzare il suo sogno, avrebbe imparato a cucire e si sarebbe messa alla prova.

“Mamma, puoi essere orgogliosa di me” pensò “ho deciso cosa farò da grande”. E nessuno oserà mai più prendermi in giro, per nulla.

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