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La frontiera è solo uno sguardo sull’infinito

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Sono delusa

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Politica

La frontiera è solo uno sguardo sull’infinito

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Rosanna Marina RUSSO

Una linea il più delle volte artificiale, la frontiera, che contraddistingue l’interno dall’esterno, che divide il dentro e il fuori, che distingue un modo d’essere e di vivere, talvolta di pensare, spesso di sperare.

Qualche anno fa credevo fosse il male assoluto e le guerre una sua diretta conseguenza. Senza appello o condizionali.

Poi forse col tempo si diventa meno radicali, poi viene una pandemia che se ne frega dei confini, poi molti afghani tentano di abbandonare il proprio paese attaccandosi ai carrelli dell’aereo e le cose si cominciano a vedere in una maniera diversa. E le frontiere non sembrano più un disvalore tout court.

Qualche giorno fa ho ricordato un articolo letto a maggio scorso su Internazionale che parlava del Somaliland, quella zona nordoccidentale della Somalia che fa Stato a parte, anche se da pochi riconosciuto come tale. Ebbene mi ha fatto riflettere sull’importanza che ha avuto la linea di confine per questo Paese che vive in pace dal 1991, dalla sua Dichiarazione d’Indipendenza. Trent’anni nei quali non tutto è andato secondo regole democratiche, visto che il potere giudiziario si è piegato spesso a quello esecutivo e il parlamento ha approvato leggi senza discuterle. Ma non c’è guerra, al contrario del caos che regna nella flagellata Somalia.

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Uno Stato che vive in un bozzolo tutto suo con il potere politico diviso tra i clan, ma che, paradossalmente proprio per questo, è diventato “a somma positiva” e non “a somma zero”, volendo ripercorrere il ragionamento socio-economico di Roberto Tallarita ( Il Post del 28 agosto 2019). Il che significa che nessun clan rimane e- scluso e nessun gruppo si arricchisce a scapito di un altro. Allora, mi sono detta: il limite definito entro il quale vive una Nazione può essere la salvezza?

Sia chiaro, non è una domanda sovranista, semmai il mio è il desiderio di capire la vera essenza del limite, confine o frontiera che sia, di inquadrarlo con tutta la sua ambiguità, provando a non radicalizzarne il concetto né come limes, demarcazione, né come limen, soglia.

Vorrei immaginarlo come una porta che può essere aperta o chiusa, ma che non e- sprime valore necessariamente positivo se è aperta come non ne esprime uno necessariamente negativo se è chiusa.

Penso alla pandemia che stiamo soffrendo, ad esempio, e al passaggio impedito per tanto tempo tra uno Stato e l’altro, tra una Regione e l’altra, addirittura tra un comune e l’altro che abbiamo vissuto odiandolo o auspicandolo.

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È difficilissimo il tentativo di conoscerlo a fondo perché la complessità di quel concetto cambia prospettiva a seconda della sua contestualizzazione che può essere ontologica, gnoseologica, esistenziale, economico-sociale e altro ancora.

Ma le dimensioni che qui interessano, che possono essere funzionali alla domanda posta, sono quella geografica e quella culturale, perché con esse siamo di fronte a scelte politiche che corrispondono a una certa visione del mondo e che pertanto affondano contemporaneamente nella sfera individuale e in quella collettiva.

La prima riflette le relazioni tra i gruppi umani vicini ed è evidentemente conseguenza della creazione degli Stati, nati con guerre, annessioni, secessioni, divisioni consensuali o arbitrati internazionali. Con essi abbiamo creato una convenzione mentale con molte funzioni pratiche e amministrative verso l’interno e verso l’esterno del territorio, rimodulando il contesto geografico, condizionando lo sviluppo sociale e producendo spesso guerre di potere, ma anche strenue difese.

La seconda, nazionale o transnazionale che sia, può mutare con tempistiche assai diverse. È di questi giorni la conquista del potere da parte dei Talebani in Afganistan che non ha mutato alcun confine geografico, ma ha fatto fare un notevole balzo temporale all’indietro al Paese, riportando in vita la legge della sharia, cioè quel modus vivendi che ingabbia soprattutto le donne. È lecito, dunque, chiedersi se sia il confine a creare le diversità o se, al contrario, siano queste a far nascere un confine.

Ma, forse, di dimensione ne esiste una terza che è la volontà di divergere, come dimostra, appunto, il Somaliland: lo stesso popolo, la stessa lingua, le stesse tradizioni, ma una scelta politico- economica volontariamente diversa. O forse una quarta, se il cambiamento all’interno di uno spazio è sì culturale, ma spesso subìto, non

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metabolizzato, come sembra essere per l’Afghanistan dal quale molti stanno tentando la fuga. In queste ore si sta verificando, tra l’altro, la vergognosa creazione di muri, al confine greco e turco, per impedire l’ingresso dei profughi afghani. Cosa che ci dovrebbe far riflettere sul significato etico delle barriere che non sono più frontiere-tornelli ma che hanno ormai la funzione di clausura laica verso il mondo sofferente, di difesa verso chi, attaccato, chiede asilo. E chi li erige ha la stupida convinzione che così le frontiere non si spostino e non si ripresentino, sotto forme diverse, al di fuori del territorio di riferimento. Senza rendersi conto che, in realtà, l’obbligo del visto d'ingresso e la delega dei relativi controlli alle compagnie di trasporto, è da tempo che delocalizzano i confini territoriali perché moltiplicano gli avamposti. Col sistema difensivo che abbiamo creato il pacchetto di diritti si sposta insieme agli individui che ne sono titolari e varia a seconda del motivo per cui si entra in un Paese. E da clandestino, il muro immateriale dei controlli coincide con quello materiale dei centri di permanenza temporanea e incide sugli status individuali e sulle libertà fondamentali. Per cui alla domanda iniziale che pareva essere retorica, bisognerebbe aggiungere: Per chi o per cosa si può ritenere il limite una salvezza?

Con questo non si vuol sottintendere che una regolamentazione dei flussi migratori non sia in qualche modo necessaria, non fosse altro che per innestare correttamente gli immigrati nelle dinamiche amministrative e sociali. Ma una cosa è gestire un territorio definito da un confine, altra cosa è riconoscere la propria appartenenza a quel territorio chiuso da una frontiera, altra cosa ancora è recintarsi per la paura del fuori, dell’altro, della povertà. Basterebbe ricordare che tutti noi deriviamo da Lucy ed è stata la migrazione a plasmarci e a differenziarci. Se ci fosse stato impossibile spostarci, niente sarebbe stato possibile. Persino la nostra bella Europa

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non sarebbe nata senza le “invasioni” barbariche (ma altrove come si chiamano? Forse flussi migratori?).

Lo storico Alessandro Barbero ha scritto qualche anno fa due libri: 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza, 2005) e Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'impero romano (Laterza, 2006) nei quali è facilissimo sostituire "barbari'" con "extracomunitari", e "impero romano" con "comunità europea", tante le analogie tra i fatti di allora e quelli di ora.

Fatti determinati da forze oggettive che oggi come allora si tenta di calmierare con misure inefficaci.

Ma, per rispondere alla domanda iniziale, io direi: dipende.

Lo è se ci troviamo di fronte a spazi gestiti con scelte politiche che sono dunque differenti e comparabili per migliorarsi.

Non lo è, in massima parte, se le frontiere non prevedono una osmosi tra i popoli. Non lo è mai se queste sono, almeno nelle intenzioni, invalicabili.

In definitiva, la frontiera dovrebbe essere un semplice limite da superare per raggiungere uno status migliore e ogni limite quella siepe che Leopardi pose tra noi e l’infinito, e, in maniera traslata, tra noi e il mondo per mostrarci la finitezza di un ostacolo che compare in opposizione al resto.

Nessuna frontiera, infatti, per quanto puntuta e ostile, può cancellare i sogni o bloccare la volontà di vivere e di lasciare un segno del proprio passaggio.

Al massimo può, solo momentaneamente, escludere “il guardo”.

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