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Se nel 2020 un socialista ebreo entrasse alla Casa Bianca
Se nel 2020 un socialista ebreo entrasse alla Casa Bianca
Umberto DE GIOVANNANGELI
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Siamo nel 2020. Un presidente ebreo (e socialista) s’insedia alla Casa Bianca. E
mette in crisi la politica filo-israeliana che aveva caratterizzato i suoi predecessori, ultimo in ordine di tempo ma primo in materia Donald Trump. Non è fantapolitica o la trama di un romanzo d’azione (con tanto di trame di palazzo, Mossad, etc). Ma è una possibilità che ha preso corpo con la decisione di Bernie Sanders di correre per le presidenziali del 2020. Un primo risultato, l’annuncio della sua candidatura l’ha subito avuto: rompere quel “patto” trasversale, non scritto ma praticato senza soluzione di continuità, tra democratici e repubblicani. Il cosiddetto “bipartisan
consensus“. Un “patto” che non era stato incrinato neanche dalla presidenza di Barack Obama, che pure l’ala più estrema della destra israeliana ha sempre considerato un “nemico”, ricordando sempre, come un marchio d’infamia, che il secondo nome del presidente era Hussein… Ora, però, qualcosa sta cambiando, soprattutto in campo democratico. Non nella sua leadership congressuale, non ancora almeno, ma sicuramente tra i votanti democratici. Il “merito” di ciò non viene dall’interno, ma da Gerusalemme: dalla deriva ultranazionalista presa dal primo ministro Benjamin Netanyahu, ultima “sparata” l’annessione della Valle del Giordano, che ha finito per incrinare anche il rapporto con le organizzazioni dell’ebraismo americano, perfino quella più conservatrice quale l’Aipac. Il senatore del Vermont non ha atteso questa deriva per assumere una posizione critica verso le politiche portate avanti dai passati e presenti governi a guida Likud, governi di cui Benjamin Netanyahu è stato alla guida più e più volte. Ciò è avvenuto anche durante le primarie democratiche del 2016. La forza di questa posizione sta in un principio sostanziale che Sanders ha sempre rispettato: si critica Israele per quel che fa, per le politiche colonizzatrici che i governanti portano avanti, ma mai per ciò che è, il focolare nazionale ebraico fattosi stato nel 1948. Praticare questa linea non è semplice, tutt’altro, e comunque chi lo fa deve mettere in conto che i suoi avversari proveranno comunque a usare l’accusa più infamante: essere antisemita. È accaduto di recente anche a Rashida Tlaib, parlamentare democratica del Michigan, che per aver affermato la potenza economica esercitata dalla lobby americana pro Israele, è stata accusata, non solo dall’Aipac e da Trump ma anche dai capigruppo democratici alla Camera dei rappresentanti, di aver utilizzato argomentazioni proprie dell’antisemitismo (oltre ad essere considerata persona “non gradita” dalle autorità israeliane in occasione di un recente viaggio, poi annullato, nei Territori palestinesi) Tlaib, però, pur correggendo alcune delle argomentazioni che aveva portato alla sua tesi, non si è
arresa, anzi ha rilanciato, dicendosi pronta a organizzare un tour per i suoi colleghi congressisti nella West Bank per vedere con i loro occhi gli effetti dell’occupazione israeliana. La combattiva deputata deve fare i conti con un establishment democratico che ha fatto del filo-israelismo un credo politico inattaccabile. Come rimarcato da Peter Beinart in un recente, articolo , l’Israeli-American Council annovera tra le sue fila, personalità di primo piano quali l’House Speaker (democratica) Nancy Pelosi, il leader della minoranza al Senato Chuck Schumer, e Haim Saban. Saban è il maggior finanziatore del Partito democratico (oltre che il patron del think tank Washington Foreign Policy), tra i più accaniti sostenitori della necessità, poi realizzata da Trump, di chiamarsi fuori dall’accordo del 2015 sul nucleare con l’Iran, accordo che pure era stato fortemente voluto dall’allora presidente (democratico) Barack Obama. Il muro pro-Israele ha già subito alcune incrinature, che ora però possono trasformarsi in falle con la decisione di Sanders di correre per la Casa Bianca nelle elezioni del 2020. Nelle sue prese di posizioni sul Medio Oriente e su Israele non c’è niente di rivoluzionario, né di antisionista. C’è solo coerenza tra parole e atti conseguenti. Quasi tutti negli Usa, perfino i più filoisraeliani alla Casa Bianca, come il consigliere-genero di The Donald, Jared Kushner, si dicono favorevoli a una soluzione “a due Stati”. Sanders però pone l’asticella un po’ più in alto e mette in luce una questione che è ben conosciuta dai diplomatici americani: come è possibile realizzare questo assunto se chi governa Israele fa di tutto, sul campo, per rendere irrealizzabile questa soluzione? Perché uno Stato per essere davvero tale, e non una sorta di bantustan sudafricano in salsa mediorientale, deve avere un controllo totale e una effettiva sovranità su tutto il suo territorio nazionale. Perché uno Stato indipendente deve poter contare su confini sicuri, sul controllo delle risorse idriche (l’oro bianco in Medio Oriente) presenti sul proprio territorio. Cose che, con la sua politica del fatto compiuto, Israele nega.
Di questo ne erano consapevoli sia Barack Obama sia Bill Clinton: consapevoli ma, nei fatti, inermi. Perché nonostante la condanna a parole, né l’uno né l’altro hanno mai esercitato pressioni vere nei confronti d’Israele, portando così acqua (cioè consensi) ai mulini di quanti, in campo israeliano come in quello arabo, hanno sempre lavorato per sabotare ogni compromesso, minare il dialogo e trasformare il negoziato in uno stanco rituale. Sanders prova a rompere questo approccio, e nel farlo si dimostra un vero amico d’Israele, se per amico s’intende qualcuno che non avalla e copre ogni tua scelta, ma se la ritiene sbagliata e foriera di gravi conseguenza, prova a dirtelo e a convincerti che esiste un’altra strada, più sicura, per garantire la sicurezza dello Stato ebraico e il suo pieno inserimento nel contesto mediorientale. Una posizione costruttivamente critica che, e questo è un elemento di importante novità, sta facendo presa tra le organizzazioni liberal dell’ebraismo americano, sempre più frustrate dalle scelte compiute da Netanyahu, dalla deriva sovranista della sua politica. Se in politica un leader si manifesta come tale perché ha una visione di cui si fa portatore, Sanders questa visione, anche in politica estera, ha dimostrato di averla. Su Israele, come sulla Russia di Putin (il sovranista del Cremlino) e anche sul principe ereditario al Regno saudita, quel Mohammed bin Salman impelagato fino al collo nell’affaire-Khashoggi. Non usa le parole di Rashida Tlaib, Sanders, tuttavia in un intervento svolto in ottobre al Center for Strategic and International Studies, ha affermato che “molti di questi leaders sono in qualche modo connessi a network di oligarchi miliardari che vedono il mondo con le lenti dei loro interessi economici”. Lo “vedono” e cercano di indirizzarlo. Parole chiare, come quelle che lo stesso senatore democratico ha utilizzato, nel dicembre scorso, per criticare l’alleanza imbastita da Netanyahu col neo presidente di estrema-destra brasiliano Jair Bolsonaro. Tacciare un ebreo di antisemitismo è una impresa improba anche per i più ardimentosi falchi israeliani. Sanders non è solo un
ebreo ma per un lungo periodo del 1963 è stato anche un “kibbutzim” –vivendo e lavorando in un kibbutz in Israele –ma nel suo passato vi sono prese di posizioni vicine a Israele quando Israele si è trovato a dover fare i conti con l’aggressività militare araba e con un’impressionante ondata di attacchi terroristici. Altra cosa, però, è sostenere posizioni politiche e ideologiche che rimandano al disegno del “Grande Israele” o chiudere gli occhi di fronte al regime di apartheid che, nei fatti, si sta realizzando nella West Bank, o considerare chiusa la questione, cruciale, relativa allo status di Gerusalemme, o sdoganare, per calcoli elettorali, partiti apertamente razzisti che si rifanno alla dottrina “khahanista”. Le critiche mosse da Sanders al “sovranismo” di Netanyahu, che ha portato il premier d’Israele a fare del suo omologoungherese Viktor Orbán uno dei principali referenti in Europa, è l’altra faccia della critiche che il senatore democratico rivolge alla politica estera dell’amministrazione Trump caratterizzata, per restare al Medio Oriente, con relazioni strettissime (potenza degli affari, soprattutto in armamenti) con i più brutali dittatori del Golfo, quelli che hanno fatto scempio dei diritti umani, riempiendo le carceri di oppositori o facendoli fuori brutalmente come è avvenuto per il dissidente e giornalista saudita Jamal Khashoggi. Nel sostenere, con coerenza, la soluzione a “due Stati”, Bernie Sanders dimostra di essere un “sionista”, nell’accezione originaria del termine, quella della quale si erano fatti portatori i padri fondatori dello Stato d’Israele. Riflette in proposito Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano: “Il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine temporale il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, conferma quanto da me sostenuto in diversi saggi e articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la linea verde rappresentano la più grande catastrofe
nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare”. Considerazioni che Sanders ha fatto sue.