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Il primo congresso nazionale dei

Storia e Politica

Il primo congresso nazionale deiFasci di combattimento

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Nelle giornate del 9 e del 10 ottobre 1919 si tenne a Firenze, al teatro Olimpia, il primo congresso nazionale dei Fasci di combattimento, fondati da Mussolini a Milano, a piazza San Sepolcro qualche mese prima, il 23 marzo di quello stesso anno. Lo svolgimento del congresso era stato annunciato il 6 ottobre sul giornale “Il Popolo d’Italia”. Nell’articolo lo stesso Mussolini affermò che quello che stava per essere presentato al congresso non era un partito ma un antipartito, un organismo pronto al combattimento, che non prometteva a nessuno il paradiso ma voleva radunare uomini pronti al combattimento, l’aristocrazia del coraggio. Composto da uomini provenienti da tutti gli orizzonti, uniti solo da affinità ideali.

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Il programma era eterogeneo e confusionario, era conservatore e progressista, conteneva tutte le affermazioni e tutte le negazioni. Negava tutti i partiti ma intendeva completarli. Si poneva fuori e oltre le mura delle vecchie appartenenze. L’iniziativa dei Fasci era stata lanciata nel marzo di quel 1919, con l’appello a tutti gli interventisti e reduci della guerra. Tuttavia, avevano aderito non più di cento ex socialisti, ex repubblicani, arditi e futuristi. Non c’era ancora un segretario politico e lo stesso Benito Mussolini era solo un membro del Comitato centrale. Non aveva ancora assunto il nome di Duce e i suoi colleghi del movimento lo chiamavano semplicemente Benito, oppure compagno oppure professor Mussolini. Chi si occupava degli aspetti organizzativi fu dapprima l’ex aviatore Attilio Longoni e successivamente, dal mese di giugno 1919, Umberto Pasella. Costui era un funzionario organizzativo di professione, che si diede molto da fare per aumentare il numero degli iscritti, dei circoli e delle sedi. Ma, nonostante l’impegno, non è che all’epoca del primo congresso, in quel mese di ottobre, si fossero fatti passi a- vanti significativi su quell’aspetto. Neanche l’organo di stampa ufficiale del movimento fu “Il Secolo d’Italia”, di cui era proprietario e direttore lo stesso Mussolini, come ci si sarebbe aspettato. Questa funzione fu invece assunta dal settimanale “Il Fascio” che il 15 agosto pubblicò il simbolo del movimento, un pugno chiuso che stringeva un mazzo di spighe di grano. Le rivendicazioni principali e le posizioni movimentiste andavano dall’annessione all’Italia dell’Istria e della Dalmazia, all’opposizione violenta al Partito socialista. Ben presto contro i socialisti si era giunti alla violenza esplicita di piazza. Il 15 a- prile una folla di fascisti diede alle fiamme a Milano la sede de “L’Avanti”. L’atto suscitò enorme impressione e riprovazione e può essere considerato il primo episodio della guerra civile in Italia.

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L’incendio della sede del giornale socialista aveva provocato la reazione dei sindacati con lo sciopero generale e con manifestazioni contro la violenza. Ma Ferruccio Vecchi, ex ardito, e Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del movimento futurista, avevano lanciato ugualmente un proclama contro gli imboscati, tra cui annoveravano i socialisti, a sostegno dei quattro milioni di ex combattenti che avrebbero dovuto assumere la direzione e il governo del Paese. I Fasci di combattimento si autoproclamarono avanguardia della rivoluzione italiana, nata con l’intervento in guerra, che avrebbe dovuto portare al governo i combattenti. La loro non sarebbe stata tanto una rivoluzione, quanto piuttosto una rigenerazione. E non doveva essere anticapitalista ma favorevole alla borghesia produttiva che avrebbe potuto imprimere forza al rinnovamento e alla modernizzazione della nazione. Peraltro, il programma originario dei Fasci, quello lanciato il 23 marzo 1919 da piazza San Sepolcro a Milano, era stato fortemente innovativo e di sinistra: abolizione del Senato di nomina regia, voto a tutti i diciottenni e anche alle donne, autonomie locali, giornata lavorativa di 8 ore, minimo sindacale di paga garantito, compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, tassazione dei sovraprofitti di guerra, imposta progressiva sul capitale, sequestro dei beni della Chiesa. Però il richiamo agli interventisti, ai combattenti, ai reduci, non era stato efficace per raggiungere un congruo numero di simpatizzanti e di iscritti. Il movimento dei fasci fu nettamente sopravanzato su questo campo dall’Associazione nazionale combattenti e reduci che nel 1919 contava 500.000 iscritti. Viceversa, nell’agosto di quell’anno, i fasci potevano contare su 37 sedi che poi, per merito dell’organizzatore Pasella, erano presto diventate 148. Ma alla fine del 1919 erano scese di nuovo a 31 e si contavano solo 870 iscritti. Il congresso di Firenze sarebbe dovuto incominciare il 23 settembre, ma fu rinviato

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per la concomitanza dell’avvio della spedizione sediziosa verso Fiume di D’Annunzio e dei suoi seguaci. Il Prefetto di Firenze monitorò la situazione dei possibili partecipanti e anche dei possibili oppositori del congresso, data la pericolosità della situazione, alla luce di quello che era successo a Milano a maggio con la distruzione de “L’Avanti”. Il prefetto, in data 8 ottobre, specificò che erano stati invitati al congresso esponenti di tutte le organizzazioni politiche, salvo i socialisti e i clericali. Previde l’arrivo di 250 persone da fuori città e prese tutte le misure necessarie per prevenire manifestazioni a favore dell’impresa fiumana di D’Annunzio. In realtà non ci furono conflitti e scontri gravi, se si eccettua una colluttazione tra alcuni socialisti e Mussolini e Marinetti in un caffè cittadino. E comunque l’interesse dei fiorentini fu assai scarso. Finalmente, il 9 ottobre 1919 si aprì il famigerato primo congresso dei Fasci di combattimento. Al teatro Olimpia si iniziò con il discorso di Benito Mussolini che era appena arrivato da Fiume. Fu un discorso piuttosto confusionario e non preparato, lo stesso Mussolini disse che non amava preparare i discorsi e preferiva improvvisare. Esordì riferendo che la situazione a Fiume era ottima; D’Annunzio avrebbe fatto di tutto per assicurare l’annessione della città adriatica all’Italia e le potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna, non avrebbero potuto opporsi. Esaltò la mancanza nel movimento di posizioni preconcette verso qualunque situazione politica e sociale e quindi la necessità che si dovesse operare con realismo e dinamismo. Disse che non si doveva a- vere un culto acritico delle masse popolari, in quanto i calli alle mani non erano garanzia di efficienza e bravura. Ma si schierò anche contro la borghesia che non aveva nessuna intenzione di difendere acriticamente. Però era anche contrario al sovvertimento del modo di produzione capitalistico, perché una rivoluzione politica si

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sarebbe potuta fare in 24 ore, ma non si sarebbe potuta rovesciare in poco tempo un’intera economia produttiva nazionale, in quanto integrata con quella mondiale. La prima giornata si concluse così con il solo intervento significativo di Benito Mussolini. Nella seconda giornata iniziò a parlare il segretario organizzativo Umberto Pasella che vantò i passi avanti fatti nell’incremento delle sezioni e degli i- scritti, anche se le sue affermazioni erano alquanto dubbie e non verificabili. Poi intervenne alla tribuna Filippo Tommaso Marinetti, con il suo solito stile fiammeggiante e immaginifico, anche se impolitico, ai limiti della vociferazione e del vaniloquio. Reclamò la Costituente per instaurare la Repubblica, accentuò la polemica anticlericale auspicando l’abolizione della Chiesa e del Vaticano. Propose l’abolizione del Senato regio, da sostituire con un “eccitatorio” di giovani al di sotto dei 30 anni, l’abolizione delle carceri, l’istituzione di una scuola di arditismo per formare cittadini eroici, l’assunzione del potere politico da parte degli artisti. Il discorso suscitò molti schiamazzi e una diffusa ilarità, essendo accolto per quello che era, cioè una serie di proposte abbastanza strampalate. Si susseguirono poi altri interventi incentrati su una serie di proposte pure innovative, come l’istruzione obbligatoria nel Mezzogiorno del Paese o l’acquisizione in politica di uno spirito del tutto libertario. Un argomento tra quelli trattati si rivelò molto importante, cioè la partecipazione o meno del movimento alle imminenti elezioni politiche generali fissate per il 16 novembre. Mussolini avrebbe voluto partecipare in un blocco di partiti e movimenti interventisti di sinistra. Tuttavia gli altri esponenti dell’interventismo di sinistra, tra cui molti socialisti o ex socialisti, avevano già dichiarato che l’accordo elettorale con i fasci di combattimento si sarebbe potuto realizzare solo se Mussolini non fosse stato inserito in lista. Si alzò allora a parlare Michele Bianchi, un sindacalista calabrese che aveva parte-

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cipato fin dall’inizio alla fondazione dei fasci a piazza San Sepolcro e agli scontri contro i socialisti. Bianchi criticò l’intenzione del movimento di partecipare alle elezioni insieme agli interventisti di sinistra, perché questi erano soprattutto socialisti o ex socialisti che avevano nel loro programma la rivoluzione sociale. Bianchi non voleva che i fasci si confondessero con loro perché non vedeva alcuna condizione sufficiente per scatenare una rivoluzione in Italia. Viceversa, propose di superare l’alleanza con forze politiche comunque tradizionali, ma realizzarla con forze innovative come i nazionalisti che ormai cominciavano a essere importanti nell’agone politico. Alla fine, sulle elezioni passò l’ordine del giorno di Mussolini, cioè parteciparvi andando da soli, per contarsi e poi, in caso di insuccesso, ricominciare su basi politiche diverse. Per Mussolini le elezioni furono una sfida che avrebbe rischiato quasi sicuramente di perdere. Dopo alcuni estremi tentativi di allearsi con altre forze, andati a vuoto, alla fine i personaggi rappresentativi compresi nella lista dei fasci furono solo tre: Mussolini, Marinetti e, a sorpresa, Arturo Toscanini. Il famoso direttore d’orchestra si era fatto attrarre già da marzo dal programma inizialmente progressista e innovativo dei fasci, ma più tardi, quando il movimento virò verso posizioni antipopolari, ritirò l’adesione e anzi preferì andare in esilio negli Stati Uniti quando il fascismo divenne un regime dittatoriale. Alle elezioni del 16 novembre 1919 i socialisti e i popolari risultarono il primo e il secondo partito più votato, conquistando cento e più seggi ciascuno. Per la prima volta nella storia d’Italia avevano vinto le elezioni due partiti che non avevano partecipato al Risorgimento e anzi volevano sovvertire lo Stato liberale. I Fasci di combattimento ottennero pochi voti, quasi tutti nella circoscrizione di Milano e nessun loro candidato fu eletto al Parlamento. Mussolini confidò alla sua

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amante e mentore, Margherita Sarfatti, che avrebbe voluto abbandonare la politica e andare in giro per il mondo a suonare il violino e scrivere saggi e romanzi. Tuttavia, abbiamo la testimonianza di Umberto Terracini, importante dirigente della prima ora del Partito Comunista italiano e conoscitore di Mussolini fin da quel periodo, secondo cui il futuro Duce non ebbe mai intenzione di lasciare la politica attiva e anzi il suo obiettivo fu dal primo momento quello di conquistare il potere sfruttando il malcontento, da lui chiaramente avvertito, della piccola e media borghesia che nel dopoguerra si sentiva defraudata e smarrita e voleva continuare a essere importante e rispettata nel Paese. Viceversa, “L’Avanti” sostenne con poca preveggenza che le elezioni erano state la morte politica di Mussolini. Qualcuno ha ritenuto che sul giornale socialista fosse stato scritto sarcasticamente che si era rinvenuto nel naviglio a Milano un cadavere in avanzato stato di decomposizione, quello di Mussolini. Tuttavia, gli storici non hanno trovato traccia di un tale pezzo nelle raccolte del giornale. Invece fu lo stesso Mussolini che dalle colonne del Popolo d’Italia scrisse un articolo in cui esaltò l’anarchia e affermò di voler lasciare la politica. Ciò, come sappiamo, non avvenne e fu una sfortuna per l’Italia.

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