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Carlo Levi e il mondo contadino

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Tokio o la Meloni?

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33Cultura

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Carlo Levi e il mondo contadino

di Giovan Giuseppe MENNELLA

La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. (Eugenio Montale)

Carlo Levi, pittore, scrittore, intellettuale torinese, attivo per buona parte del Novecento, impegnato nella politica e nell’antifascismo nel gruppo di Giustizia e Libertà con Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Massimo Mila, Leone Ginzburg, dopo la denuncia dell’agente dell’OVRA Pitigrilli, era stato condannato al confino in Lucania, nei paesini di Aliano e Grassano. Erano gli anni 30 del Novecento. Dalla frequentazione del Sud aveva tratto la consapevolezza della distanza tra il mondo degli intellettuali, anche antifascisti, e quello dei contadini poveri e sfruttati di quelle terre. Aveva anche imparato ad apprezzarne e ad amarne la secolare saggezza e la semplice dignità, contrapponendoli all’homo economicus della civiltà urbano-industriale, pur essendo lui stesso gobettiano di formazione laicorazionalista. Il suo cuore e la sua mente erano dalla parte dei “contadini” intesi in senso lato come tutti gli individui postivi e produttivi che, nel suo libro del 1950 “L’orologio” e in quello postumo del 1975 dal titolo appunto “I contadini e i luigini” contrappone al mondo dei “luigini”, i borghesi e piccolo-borghesi intesi come

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negativi, parassiti e sfruttatori del lavoro, esemplificati sulla figura di Don Luigino, il podestà fascista di Aliano (Gagliano nella finzione letteraria di Cristo si è fermato a Eboli). Infatti, in precedenza, negli anni 40, quando era stato da qualche tempo liberato dal confino, era stato rovesciato il regime fascista ed era terminata la Seconda Guerra mondiale, si era ispirato a quell’esperienza di vita nel Sud per immaginare e scrivere il libro-testimonianza “Cristo si è fermato ad Eboli”. In molte sue opere letterarie e in altri scritti esprime un forte auspicio per il riscatto, l’assunzione di centralità e di potere del mondo dei contadini senza terra del sud parlando di comune rurale autonomo, suggestione possibile di un’autogestione democratica dalla base, in loco, degli interessi e dei diritti dei contadini. L’ironia della storia colpisce Carlo Levi nel senso che egli esprime la sua perorazione per il riscatto economico, sociale ed istituzionale di quel mondo contadino davvero “in limine”, cioè nell’imminenza, di lì a pochissimi anni, della sua fine, incalzato dal tumultuoso sviluppo industriale del nord che, attirando quasi tutti nelle fabbriche a Milano, a Torino, a Zurigo, a Stoccarda avrebbe spopolato proprio quelle campagne e, di più, avrebbe avviato la mutazione antropologica di tutta la società italiana. A testimonianza del fenomeno epocale, sono stati scritti tanti libri di storia, di sociologia, di costume, sono state sviluppate tante inchieste, sia sullo spopolamento delle campagne del Sud e delle zone periferiche, sia sul sovraffollamento e le problematiche di coesione sociale nelle città industriali del Nord . Certo, ci sarebbero stati ancora contadini nel Sud, ma come fenomeno ormai marginale, come agglomerati o semplici individualità sparpagliate sul territorio, a macchia di leopardo, ma niente più che potesse ricordare la moltitudine di braccianti senza terra o con piccolissimi poderi di stentata sussistenza che improntava di sé la

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“civiltà contadina”, caratterizzata per secoli dalla mancanza di beni consumo, dall’assenza d’informazioni sul mondo, quando non dalla fame sempre in agguato per un cattivo raccolto o per la mancanza del lavoro bracciantile. Storicamente, il problema principale dei contadini nel Sud era stata la fame di terre. Nel senso che fin dal ‘500, dal vicereame spagnolo, masse di contadini senza terra erano stati alle prese con una vita grama, sempre alla mercé di proprietari terrieri durissimi e spesso assenteisti. Alla fame di terra era stato sempre connesso il brigantaggio, lotta spietata, senza quartiere, contro i proprietari, soprattutto i borghesi usurpatori delle terre comunali. Era un fenomeno che veniva da lontano, i viceré spagnoli, i Borbone del ‘700, i francesi nel decennio francese, i Borbone restaurati dopo il 1815 e, infine, i piemontesi dopo il 1860, avevano lottato e represso spietatamente gli episodi di violenza altrettanto selvaggia dei contadini intesi a colpire i proprietari. La violenza delle ribellioni e delle repressioni si era attenuata solo verso la fine dell’800, sia per l’emigrazione che aveva eliminato moltissime bocche da sfamare, sia per l’azione delle associazioni socialiste e cattoliche che andavano convincendo i contadini ad adottare forme di lotta meno cruente. Anche nel secondo dopoguerra, nella seconda metà del Novecento, non era stata sufficiente a cambiare radicalmente le cose la Riforma agraria, perché arrivata troppo tardi, quando, come rileva Guido Piovene in “Viaggio in Italia”, ormai a quella data quasi nessuno più se la sentiva di affrontare la vita di fatica durissima e di isolamento dei campi e perché era troppo forte l’attrazione del lavoro nelle fabbriche che comportava l’ulteriore vantaggio dell’inurbamento nelle città che consentiva soprattutto ai giovani di sfuggire al soffocante controllo sociale della comunità e della famiglia patriarcale. Indubbiamente, il prezzo pagato moralmente e socialmente per lo sradicamento di un’intera generazione dalle campagne è stato alto, e viene da chiedersi se il feno-

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meno fosse ineluttabile, come se lo sarà chiesto sicuramente Carlo Levi. Ovviamente l’auspicio di riscatto di quella classe in loco, era stato elaborato dallo scrittore con i suoi strumenti, le parole e gli scritti, e non c’è alcuna controprova che, se avesse potuto antivedere il mutamento, o si fosse trovato nel suo divenire quando aveva scritto il libro, avrebbe anche combattuto, da intellettuale, per bloccarlo e deviare il corso della storia che si è verificata. Viene da chiedersi ancora oggi se quello sviluppo con lo spostamento di grandi masse contadine al Nord fosse l’unico possibile e praticabile, con i costi morali e materiali che ha comportato per un’intera generazione. Ma si dice che la Storia non si fa con i “se e con i “ma” e allora si può concordare in via generale con Ralf Dahrendorf che, nel suo libretto “Quadrare il cerchio” sostiene che nei periodi di grande sviluppo economico sono fatalmente compressi la libertà politica e/o la coesione sociale. Molte forme di indagine sociale, di etnologia, di letteratura, di musicologia, di cinematografia hanno testimoniato sia gli ultimi momenti della civiltà contadina nel Sud prima che scomparisse o comunque si trasformasse radicalmente, sia le difficoltà e i problemi di coesione sociale, di convivenza, di organizzazione, che si sono dovuti affrontare nelle città e nei distretti industriali di destinazione. Sono gli studi etnologici di Ernesto De Martino sul mondo magico, i documentari di Vittorio de Seta sugli antichi mestieri, feste, riti di contadini e pescatori, sono le preziose registrazioni fonografiche di Diego Carpitella e Alan Lomax sui canti popolari, sono le pagine di letteratura di Domenico Rea sull’agro campano prima della sua mutazione antropologica con al centro l’immaginaria Nofi, luogo del cuore e dell’esperienza, non indegna della campagna russa di un Cecov o della contea di Yoknapatawpha di un William Faulkner. Sono anche le indagini di Franco Alasia e Danilo Montaldi sulle Coree della metropoli milanese di “Milano, Corea”. Feltrinelli 1960, riedito da Donzelli nel 2010,

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uno degli studi storici più completi e approfonditi sulla immigrazione interna e sulla condizione degli operai, tra cui chiaramente numerosissimi non potevano non essere i contadini del Sud. Franco Montaldi, operaio della Breda e allievo di Danilo Dolci nelle scuole serali, ebbe incarico da lui di raccogliere testimonianze dirette da uomini e donne sulla realtà operaio di allora. A leggere le interviste che ripercorrono con Alasia e Montaldi quel viaggio nell’immigrazione di un’Italia sul crinale tra agricoltura e industria, si trovano anche incredibili richiami al presente. Quasi che il tempo non fosse trascorso se non per cambiare fisionomie e nazionalità a vite disperate; ieri terroni oggi extracomunitari. La “corea”era la grande periferia operaia, prima, se non ultima, tappa del doloroso viaggio della speranza in un futuro migliore. Le trentadue interviste raccolte da Franco Alasia sono altrettanti vividi ritratti di uomini e donne che, loro sì, hanno fatto l’Italia moderna, quella u- scita dalla guerra e trasformata sul piano economico, con le più evidenti contraddizioni sociali, anche dai contadini del Sud di Carlo Levi. Quindi, in conclusione, si può dire che Carlo Levi ha veduto in anticipo le problematiche dei contadini del Sud e gli ha conferito per primo un’attenzione sia letteraria e poetica che sociologica. Avrebbe desiderato che i loro problemi fossero risolti in loco, ma poi non ha smesso di occuparsene anche dopo che si era consumata la mutazione antropologica di quella società del Sud e, insieme a loro, di tutta la società italiana. Ha continuato ad occuparsi dei contadini, ormai per la maggior parte divenuti operai al Nord, soprattutto per rilevare e lodare la loro capacità di adattarsi a molteplici realtà, anche, e forse sempre, le più dure. In questo è stato seguito, in pieni anni’50, dal suo figlio letterario Rocco Scotellaro che, con le sue poesie e con la sua azione politica essendo anche sindaco di Tricarico, ha dato seguito ai semi gettati venti anni prima dal suo padre letterario. Un’azione e una testimonianza purtroppo interrotta troppo presto dalla morte prematura.

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