LUXURY PRÊT À PORTER - summer edition 2020

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L’ESTATE GREEN

Euro 7 | N.02 | A.2020 | ISSN 2704-7695

ALL'INSEGNA DELLA SOSTENIBILITÀ CON FORD KUGA

ALESSANDRO BORGHESE racconta il Lusso della semplicità in cucina

CAMBOGIA SEGRETA il viaggio di Andrea Lehotska tra natura e storia

SUMMER 2020

WHISKY GIAPPONESE Nikka e Suntory: la rinascita del Sol Levante


Bevi BOMBAY SAPPHIRE® Responsabilmente BOMBAY SAPPHIRE E I SUOI SEGNI DISTINTIVI SONO MARCHI REGISTRATI


EDITORIAL

G

li imprenditori che nei rispettivi ambiti ce l'hanno fatta e possono festeggiare mirabili risultati nel loro percorso lavorativo, sono spesso accomunati dalla convinzione di essere riusciti nelle proprie imprese quando hanno saputo sfruttare a loro favore i momenti peggiori della vita, trasformando con estro e intuito le sconfitte più pesanti in fulgide vittorie. Per molte imprese, professionisti, famiglie, ma in senso più allargato potremmo dire per Stati interi, il 2020 ha rappresentato l'Annus horribilis per eccellenza. Come rinascere, dunque, da un fenomeno come la pandemia Covid-19 che ci ha colti del tutto impreparati, che ha modificato stili di vita, abitudini, priorità delle persone? Una cicatrice che rimarrà a lungo sulle nostre vite e che impatterà in modo significativo sull'economia e sulle prospettive di sviluppo di popoli interi. Di fronte ad uno scenario così pernicioso mi tornano in mente, così, quegli anziani imprenditori che, durante qualche intervista, mi raccontavano con gli occhi pieni di energia, con la fiamma dentro, come erano riusciti negli anni peggiori a ribaltare la loro situazione. Penso al lockdown e credo davvero che non possiamo assopirci, che dobbiamo resistere al torpore quasi ipnotico che il Coronavirus ci ha imposto. Allo stesso tempo sarebbe un grave errore dimenticare le sensazioni, le esperienze e le giornate surreali che ci ha “regalato” la pandemia. Esperienze mai provate prima, negli ultimi decenni. All'interno del nostro magazine ci piace narrare di mete, cibi, tendenze e prodotti che ci consentono di vivere momenti piacevoli immersi nel “lusso accessibile”, un viziarsi democratico e meno elitario ma non per questo meno apprezzabile. Tra le righe vogliamo raccontare l'estro delle persone, lo sforzo delle aziende, la creatività di chi lavora.

Mai come in questo momento, pensiamo, la nostra idea ci sembra tanto attuale, fortemente contemporanea e necessaria. Per ripartire con il lavoro, con il “made in Italy”, facendo girare i motori dell'economia nazionale e mondiale, c'è bisogno che le persone tornino a vivere, piuttosto che a sopravvivere come abbiamo fatto in primavera, sentano il desiderio di uscire dalla loro “tana da lockdown” fatta di tanta virtualità, desiderino il bello e vogliano scoprire fisicamente cose (e non solo tramite lo schermo di un PC o uno smartphone) gioendo di panorami, profumi, suoni, sensazioni rilassanti o adrenaliniche che siano. Tutto questo senza dimenticare che viviamo all'interno di un ecosistema complesso, che a suo modo sa difendersi e reagire alle eccessive ingerenze umane e ai comportamenti impropri dell'uomo sulla natura. Ripartire sì, ma ripartire cambiati, un po' feriti e, speriamo, più consapevoli e maturi. Ripartire tenendo bene a mente concetti che dovranno essere un manifesto di intenti, una linea guida per questo decennio che abbiamo davanti: la sostenibilità e il rispetto per l'ambiente, il dinamismo che non sia, però, fine a se stesso ma che ci permetta di godere del bello, degli affetti e delle cose che amiamo. La riscoperta della qualità, delle tradizioni della nostra terra, la valorizzazione di ciò che la storia, la cultura e il lavoro del nostro Paese ci ha consegnato, e la consapevolezza che l'individualismo dilagante degli ultimi anni non ci ha portati poi così lontani, trasformando molti di noi in buffe e aride macchiette da intrattenimento digitale, tanto “social” quanto dissociati, dall'ambiente in cui viviamo e dal bello che ci circonda. Riprendiamoci l'estate, riprendiamoci la vita, riprendiamoci la nostra identità, dovremo affrontare mesi o forse anni non facili, questo è il momento in cui il genio, l'estro, la consapevolezza, il carattere faranno la differenza. Filippo Piervittori Publisher


CONTENTS 06 12 18 28 32 36 42 46 54

Kuga, la Ford più elettrificata di sempre Il Lusso delle cose semplici Cambogia-à-porter: un viaggio tra natura e storia Il Made in Italy oltre l’etichetta: un know how che vanta secoli di storia

Ozonoterapia, il perfetto connubio tra lusso e benessere Tra fake news e post-verità: i romanzi distopici che avevano previsto il nostro presente Le calzature originali e raffinate di Les Italiennes

Un viaggio nell'Aube, alla scoperta dello champagne più autentico Una naturale Attitudine a valorizzare il fattore umano

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Moda e modi: prospettive post Covid-19 Il Whisky del Sol Levante oggi piace anche agli scozzesi Donne e motori: una storia che passa anche dall’abbigliamento AlUla: un viaggio nel tempo tra le dune del deserto Progettare esperienze

Idee per nozze romantiche sul Lago Maggiore Costa Smeralda, una regina sul mare

Carbotti, il fiore all'occhiello dell'artigianato italiano Vacanze italiane

Masthead Publisher & Editor-in-chief

Editorial Team

Printed by

Filippo Piervittori

Priscilla Lucifora Andrea Lehotska Daniela Puddu Francesco Ippolito Franca Dell'Arciprete Scotti Nicoletta Volontè Gabriele Gambini Alessandro Biamonti

C.T.S. Grafica S.r.l. Cerbara (PG)

Design & Art Direction Luca Lemma

Managing Direction Beatrice Anfossi Ruggero Biamonti

PR Manager Cristina Occhinegro

Registration N.1/2008 R.P. Trib.PG 12/01/2008

Copyright © 2020 Luxury prêt à porter All rights reserved

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AUTOMOTIVE

Mobilità sostenibile

Kuga, la Ford più elettrificata di sempre di Francesco Ippolito

U

na storia di successo quella di Ford Kuga, iniziata con la prima generazione nel 2008 che proponeva un Suv dalle linee tradizionali il cui gradimento è stato confermato dai numeri con ben 132.000 unità vendute fino al 2019. Oggi Kuga cambia stile proponendo linee più da crossover pur mantenendo le caratteristiche del SUV e senza compromessi di spazio. Ma soprattutto Nuova Kuga inaugura l’era delle ibride plug-in dell’Ovale Blu, divenendo la Ford più elettrificata di sempre, ed è il primo modello a offrire 3 declinazioni ibride: Mild-Hybrid, Plug-In Hybrid e Hybrid. Stile moderno Nuova Kuga propone uno stile moderno, dalle linee filanti, disegnate per conferirle un aspetto dinamico, caratterizzato da un approccio che offre maggiore abitabilità e comfort per gli occupanti. Quello che colpisce al primo impatto è il design distintivo, più scolpito e semplificato. Una silhouette più snella che incorpora un passo più lungo creando un ingombro maggiore sulla strada, a vantaggio della guida e della stabilità; un cofano più lungo; un angolo del parabrezza posteriore ulteriormente inclinato e una linea del tetto più bassa. Il risultato è una vettura dall’aspetto più energico e agile.

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AUTOMOTIVE

Uno stile moderno, dalle linee filanti, disegnate per conferirle un aspetto dinamico

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AUTOMOTIVE

il noto design esagonale Vignale, il volante riscaldato rivestito in pelle e i tappetini in velluto esaltano ulteriormente l’esclusività dell’abitacolo . Solo sull’allestimento Vignale troviamo infine l’Active Park Assist, il bagagliaio con portellone elettrico ad apertura e chiusura automatica e l’Head Up display. Lo stile audace di Kuga ST-Line è spirato ai modelli Ford Performance. Comprende paraurti e minigonne laterali in tinta con la carrozzeria e griglia, diffusore posteriore e barre al tetto di colore nero. Un grande spoiler posteriore, cerchi in lega da 18’’ o da 19’’ e due terminali di scarico, aggiungono alla Kuga un carattere sportivo. All'interno, il design esclusivo dei sedili STLine con cuciture rosse a contrasto, i pedali in alluminio, il volante con fondo piatto, i tappetini e le soglie battitacco ST-Line, ne esaltano la personalità. Nella versione St -Line X si aggiunge anche l’impianto audio B&O Premium sound system con 10 altoparlanti, la radio DAB, la presa USB e i comandi al volante, ma anche il quadro strumenti con display digitale a colori da 12,3 pollici.

Un Suv: diverse interpretazioni Kuga offre un’ampia gamma di allestimenti tra cui l’elegante Titanium e Titanium X, le sportive ST-Line e ST-Line X e l’esclusiva versione Vignale , offrendo la gamma di propulsori ibridi, e garantendo così la migliore efficienza nei consumi e nelle emissioni. L’allestimento Titanium rappresenta l’emblema della qualità e completezza di dotazioni. Le caratteristiche distintive includono specchietti in tinta con la carrozzeria, luci diurne a LED, cerchi in lega da 17’’ o da 19’’. Un allestimento ancor più accentuato quello della Titanium X che , ad esempio, aggiunge i fari anteriori a Led, in bracciolo posteriore con porta oggetti e i sedili parzialmente in pelle. L’esclusiva Kuga Vignale interpreta l’attenzione e la cura del dettaglio attraverso inserti dedicati, che comprendono le finiture in alluminio satinato per le barre al tetto e il design distintivo dei paraurti anteriore e posteriore. L’esterno è caratterizzato anche dalla tipica griglia frontale cromata Vignale e dai doppi terminali di scarico, oltre che dai cerchi in lega da 18’’ (ma sono disponibili anche da 19’’ e 20’’). I sedili in pelle, con

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AUTOMOTIVE

La gamma completa comprende le versioni Kuga Plug-In Hybrid, Kuga EcoBlue Hybrid (Mild-Hybrid) e Kuga Hybrid, oltre al diesel Ford Ecoblue da 2.0 litri e da 1.5 litri, ai motori EcoBoost da 1.5 litri e una nuova trasmissione automatica intelligente a otto rapporti.

Sistemi di assistenza alla guida di ultima generazione Le nuove tecnologie Stop&Go, Speed Sign Recognition e Lane Centering aiutano i conducenti a gestire il traffico in situazioni di stop-start e in autostrada con maggiore sicurezza, mentre il Predictive Curve Light e il Sign-based Light illuminano meglio la strada nell’oscurità. L’Head-up display favorisce la concentrazione dei conducenti a mantenere gli occhi sulla strada e l’Active Park Assist Upgrade consente manovre di parcheggio completamente automatizzate, con la semplice pressione di un pulsante.

Tecnologie di connessione Sotto il profilo tecnologico Nuova Kuga offre maggiore comfort e innovative funzioni di assistenza alla guida, mantenendo guidatore e passeggeri sempre più connessi. Le nuove funzioni della FordPass App, in abbinamento con il modem integrato FordPass Connect, rendono l’esperienza ancora più personalizzata. Altre tecnologie disponibili sono il pad di ricarica wireless per lo smartphone e il sistema di infotainment SYNC 3 supportato da un touch-screen centrale da 8 pollici. Il sistema audio B&O riproduce un’esperienza audio di alta qualità e il nuovo quadro strumenti digitale a colori da 12.3’’, fornisce maggiori informazioni ed è più intuitivo e facile da leggere.

Come funziona Kuga Plug-In Hybrid: disponibile dal lancio, offre l’autonomia di guida e la libertà di un motore a combustione tradizionale, unito all’efficienza di un propulsore elettrico. La struttura split-power combina un motore benzina a quattro cilindri Atkinson da 2.5 litri, un motore elettrico e una batteria agli ioni-litio da 14,4 kWh per produrre complessivamente 225 CV.

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AUTOMOTIVE

Con il solo motore elettrico Kuga è in grado di garantire dai 56 ai 72 Km di autonomia a zero emissioni. I Consumi dichiarati sono calcolati secondo i due diversi cicli di omologazione, il ciclo NEDC e il più recente WLTP e si attestano tra 1,2 (NEDC) e 1,4 litri (WLTP) per 100 Km con emissioni comprese tra 26 (NEDC) e 32 (WLTP) Grammi di CO2 al Km. La batteria può essere caricata utilizzando una presa montata sul parafango anteriore oppure mentre l’auto è in movimento, utilizzando la tecnologia di ricarica rigenerativa, che cattura l’energia cinetica normalmente persa durante la frenata. Si prevede che saranno necessarie circa 6 ore per caricare completamente la batteria, da una presa elettrica esterna a 230 volt. Kuga EcoBlue Hybrid: utilizza il motore diesel EcoBlue 2.0 litri da 150 CV per una maggiore efficienza nei consumi. La tecnologia Mild-Hybrid impiega uno starter/ generator, azionato da una cinghia, (BISG) che sostituisce l'alternatore standard, consentendo il recupero e lo stoccaggio di energia durante le decelerazioni del veicolo e la ricarica di un pacco batteria di ioni-litio da 48 volt, raffreddato ad aria. Il BISG funge anche da motore, utilizzando l'energia accumulata per fornire assistenza alla coppia elettrica del motore durante la guida e l’accelerazione normale. I consumi sono compresi tra 4,3 (NEDC) e 5 (WLTP) litri per 100 Km con emissioni di CO2 comprese tra 111 (NEDC) e 132 (WLTP) grammi al Km. La terza versione, la Kuga Hybrid, arriverà nel corso dell’anno. Utilizza un sistema full-hybrid con funzione self-charging, che consente l’attivazione di guida in modalità completamente elettrica e abbina a un motore benzina ciclo Atkinson 2.5, un motore elettrico e una batteria agli ionilitio e un cambio automatico sviluppato da Ford. La Kuga Hybrid sarà disponibile con trazione anteriore e Intelligent All-Wheel Drive.

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AUTOMOTIVE

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DINING

Amato da grandi e piccini, Chef Borghese ci apre le porte del suo ristorante milanese per parlarci de Il Lusso della SemplicitĂ

Alessandro Borghese

Il lusso

delle cose semplici di Priscilla Lucifora

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DINING

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uno dei cuochi più conosciuti e amati della televisione italiana, un pioniere del genere dell’intrattenimento culinario, è in pista da quasi dieci anni e l’entusiasmo non sembra ancora essergli passato: stiamo parlando di Alessandro Borghese, che ci ha incontrati nel suo ristorante milanese, Il Lusso della Semplicità, in Viale Belisario 3, per raccontarci la sua filosofia di cucina e le sue speranze per il futuro della ristorazione italiana, televisiva e non. Ci ha accolti con un cappellino colorato e grandi strette di mano e siamo andati subito al dunque. Alessandro Borghese è esattamente come lo vediamo sul piccolo schermo: sicuro di sé, appassionato, gesticolante. Sa come polarizzare l’attenzione dei presenti e soprattutto è estremamente consapevole di quello che dice e di cosa rappresenta. La prima battuta è su quello che ci accomuna: il suo ristorante, infatti, come dicevamo, si chiama Il Lusso della Semplicità; il motto del nostro magazine, invece, è “Lusso Accessibile”. “Mi avete copiato” commenta ironico e divertito il cuoco di 4 Ristoranti e poi aggiunge, più serio: “Il mondo dell’alta cucina è, abitualmente, elitario. Secondo me deve essere accessibile a tutti quanti. Il vero lusso è potersi permettere di mangiare determinate cose più volte durante l’arco della settimana o del mese, non deve essere visto come una cosa irraggiungibile, che solo pochi possono ottenere, anche perché io sono un cuoco del popolo. Faccio alta cucina, ma vivo in mezzo alla gente comune grazie anche ai miei programmi. Sono sempre stato molto vicino all’idea comune di cucina, non sono mai stato

Credit: Alessandro Borghese #abillussodellasemplicita | @borgheseale www.alessandroborghese.com

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uno chef snob e distante. La cucina è una cosa quotidiana, noi non facciamo i cardiochirurghi, facciamo gli chef. La cucina non è mai semplice, presuppone una certa tecnica, una certa conoscenza e una certa maestria, però tutti devono potervi accedere. Il lusso sta nel contesto, nella lavorazione del piatto, nel modo diverso di vivere e pensare anche la cucina più popolare, considerata da trattoria”. Insomma, è chiaro, Alessandro Borghese è un cuoco rockstar il cui desiderio è che i fan possano partecipare al suo concerto, che è fatto di sapori. Ma è anche un abile comunicatore e un imprenditore, che si è circondato di una squadra forte per portare in tavola una grande qualità a un pubblico vasto e che non rinuncia alle contaminazioni internazionali, sempre partendo dalla cosa più importante di tutte: lo stomaco, inteso come intuito, come slancio, come impeto e come passione prima ancora che come gusto e come sineddoche per l’atto stesso del mangiare. Con un’attenzione particolare al cliente. “Mi diverto a fare quello che faccio” ci confessa, ed è evidente. “Prendo un pollo che magari si mangia in insalata in un bar e dico: facciamolo diventare un po’ più sofisticato, magari un pollo ai peperoni, come si mangia a Roma. Lavoriamo sullo studio del piatto e andiamo a cercare una determinata tipologia di peperone che abbia una storia e un polletto livornese allevato in una certa maniera. L’Italia è piena di questi prodotti qua. L’ultimo passaggio è la comunicazione: il cliente percepisce la mia cucina come semplice ma allo stesso tempo sofisticata. Semplice non vuol dire facile, vuol dire di facile comprensione per il cliente, che non è spaventato nel provare cose nuove e che riesce a capirle anche con il palato. Questa è la mia chiave di lettura: non devi aver bisogno di essere uno scienziato della cucina per capire la mia”.

Credit: Alessandro Borghese #abillussodellasemplicita | @borgheseale www.alessandroborghese.com

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Il focus è, dunque, sugli ingredienti e sulla cucina italiana, ma senza limitarsi troppo: “Sono uno chef che ha viaggiato in tutto il mondo, non sono estremista. Se un’acciuga del Cantabrico è più buona prendo quella, se trovo delle cozze più buone da un’altra parte prendo quelle. L’importante è che lo comunichi e che la mia filosofia sia chiara al cliente. Ovvio, cerco di aiutare la mia economia gastronomica: con 4 Ristoranti ho la fortuna di andare in giro per tutta l’Italia, di conoscere realtà gastronomiche e di portarmi in casa delle sacche nascoste di prodotti, poi però viaggio. Vado alle Mauritius e scopro che c’è un produttore locale che fa un caviale eccezionale e dico ‘Caspita! Lo devo provare’ e lo porto al ristorante e lo faccio provare agli amici. Il bello del mondo della cucina è questo: ampio, bellissimo, di pancia. Bisogna usare meno testa ogni tanto. I cuochi stanno facendo troppa cucina di testa”.

Ci tiene a precisare, però, che, nonostante non tutto il Made in Italy sia vero Made in... la sua impostazione in cucina è fortemente italiana, e lo conferma anche quando gli chiediamo di guardare nella sfera di cristallo e di dirci cosa prevede per il futuro dell’intrattenimento culinario e della cucina italiana in generale. “Vorrei che più giovani aprissero locali di cucina italiana. Spesso tanti cuochi giovani viaggiano, girano il mondo, tornano in Italia e fanno fusion. Mi piacerebbe invece vedere più ristoranti di cucina regionale. Ovviamente ci vuole bravura. Ci vuole comunicazione. Però è anche un impulso che deve venire dal cliente. Mi piacerebbe sentire meno ‘Andiamo al sushi’ e più ‘Andiamo al marchigiano’”. E - benevolo padre di tanti piatti, che sono i suoi figli - interrogato su quale sia il suo cavallo di battaglia culinario, non riesce a sceglierne uno solo, tirando fuori ancora

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DINING

una volta quella passione innegabile che lo anima, e che forse è proprio il suo segreto, la sua porta d’accesso al cuore degli italiani: “Sono conosciuto per la mia cacio e pepe ma anche per la mia guancia di vitello, per il mio purè col burro acido. Ho tantissimi piatti che potrebbero essere considerati iconici. Un cuoco non ha questo tipo di mentalità. Ad esempio adesso sto in fissa col nuovo piatto che ho in carta, che ho voluto chiamare ‘Il polpo alla brace… Il polpo che piace’. Stasera invece c’è il piccione. Ogni volta mi innamoro di un piatto diverso, è questo il bello, è questo amore che ti fa andare avanti nello sviluppo di nuove ricette. Poi aspetto il riscontro del cliente. Quando c’è un piatto nuovo sono sempre impaziente di farlo uscire e di avere il feedback di chi lo mangia”. Si dice spesso che la televisione cambia chi la fa. Che esiste un confine preciso tra il professionista e il personaggio televisivo. Secondo Alessandro Borghese, almeno nel suo caso, non è così: “Quando sto in cucina sto in cucina, quando sto in televisione sto in televisione, ma sono la stessa persona. Non c’è distinzione. Sono andato in televisione grazie alla mia cucina, non viceversa. Sono un precursore, i miei programmi hanno aperto la strada a quello che poi è diventato un trend, ma c’è ancora tanto da sperimentare”.

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“Mi diverto a fare quello che faccio”

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DINING

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ESCAPES

Ai confini del mondo

Cambogia-Ă -porter:

un viaggio tra natura e storia di Andrea Lehotska

Da Angkor alla scoperta della foresta pluviale; con una tappa obbligata nei luoghi che ricordano il genocidio cambogiano, perchĂŠ il piĂš grande crimine sarebbe dimenticare

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ESCAPES

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ra i più comuni effetti collaterali della quarantena notiamo – oltre all'improvvisa predisposizione per il jogging e il lievito – la voglia di ripartire. Di ripartire anche con i vecchi ritmi lavorativi opprimenti di cui, dopo tre mesi di restrizioni, sentiamo quasi la mancanza. Di ripartire con e da tutto ciò che abbiamo dato per scontato: l'aria, lo svago, l'economia, la vita. Di ripartire: mettersi di nuovo in moto. Una voglia quasi mutata in un impulso, una sfida, per convincerci che possiamo ripristinare le nostre abitudini. Noi che bramavamo per avere tempo libero e poi in pieno lockdown non sapevamo come viverlo. Il turista soffriva, il viaggiatore sfruttava la sua abilità guadagnata nel tempo: quella di viaggiare con la mente, il dito sulla mappa, il pensiero, passeggiando attraverso i meandri dei ricordi. Consapevole che l'intensità del suo prossimo viaggio non si misura con la lunghezza dell'attesa, ma con la sua compressione. E io ho aspettato”. La sua bellezza e costruzione straordinarie non sono descrivibili con una penna" disse 431 anni fa António da Madalena, uno dei primi occidentali ad ammirare Angkor Wat. Chiudo il libro sulla Cambogia: se non può esser narrata, deve esser vista. Nello zaino faccio scivolare l'euforia di una nuova scoperta, un particolare rispetto per la storia cambogiana e il recente genocidio, e un pezzo di cuore: sento che lo lascerò lì. Angkor, il sito archeologico patrimonio dell'umanità e complesso di templi buddisti più grande sulla terra, confonde e incanta il mondo da secoli. L'antica capitale del grande Impero Khmer racchiude in sé cinque secoli d'arte; gli impressionanti monumenti

rendono il luogo una concentrazione unica di architettura, aspetti e caratteristiche disponibili a testimoniare un'antica civiltà insuperabile. Disteso su una superficie di 1.630.000 mq nella provincia di Siem Reap, questo stupefacente insieme di oltre mille templi religiosi, curiose strutture idrauliche elaborate (bacini d'acqua, riserve, dighe, canali) nonché magnifiche rovine, rimane spesso l'unica destinazione turistica nell'Impero Khmer, nonostante debba solo fungere da ingresso d'eccezione verso una terra singolare e suggestivamente completa. Per cogliere al meglio l'atmosfera mistica che circonda la foresta, con i suoi templi sparsi nella giungla, decido di creare

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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ulteriore suspense per meritarmi e godermi al meglio l'impatto tanto atteso: niente tour di gruppo o comodo tuk-tuk. Ho voluto la bicicletta, pedalerò. Letteralmente. Il percorso mi ammalia: è pianeggiante, lungo 30km, con una ventina di affascinanti costruzioni raggiungibili dalla strada a piedi, attraverso seducenti percorsi sull'acqua o mediante ripide salite impossibili da rimpiangere. Per salvaguardare il fascino dell'itinerario in solitudine, inizio la scoperta al contrario, in senso antiorario, con piccoli templi “secondari”. Custodirò l'indescrivibile fascino di Angkor Wat per ultimo: se visitato per primo, toglierebbe inevitabilmente bellezza e significato a qualsiasi altro monumento, rendendolo ordinario. L'afa, l'umidità e il sole cocente già al mattino vengono timidamente smorzati da maestosi alberi ombreggianti. A mano a mano che mi addentro nella foresta, desiderando di scorgere il primo mattone Khmer protetto dall'Unesco, i pochi rumori della città sfumano in un silenzio inaspettato.

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L'aria è impregnata di serenità, di suoni riconducibili unicamente alla natura, e invita a non affrettarsi. Il paesaggio già idilliaco di suo diventa fiabesco: come se qualcuno avesse di colpo dipinto un'ambientazione paradisiaca intorno a me, con colori contrastanti capaci di trasmettere la profondità di quel luogo. Dietro a uno degli imponenti alberi scorgo una superficie d'acqua talmente piatta che lanciare un sassolino per ammirare il propagarsi degli anelli circolari sarebbe un'offesa alla perfezione. Ed è lì, nel suo altrettanto perfetto riflesso, che vedo le forme del modesto Kravan Temple e mi lascio abbagliare. Lascio cadere la bici e me stessa, devota alla visione delle forme impeccabilmente calcolate che trasudano genialità, meticolosità e indistruttibile forza. Si potrebbe erroneamente pensare che dopo aver visto un tempio, li abbiamo visti tutti: nulla di più sbagliato. Non esiste una sola decorazione, dettaglio o aspetto uguali a quelli precedenti. Il mio pedalare tra un tempio e l'altro diventa un'impaziente caccia

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Ma vedere Angkor Wat galleggiare e protendersi fiero su un'immensa falda acquifera sotterranea, circondato da fossati su cui specchiare i suoi muri esterni lunghi un chilometro, è qualcosa di talmente soprannaturale che non bastano due occhi. La memoria del tramonto che fa da cornice al tempio, disegnando contorni aurei, potrebbe farmi sopportare serenamente altri tre lockdown. La sua estensione è tale che, per comprendere appieno lo spazio che riempie, è indispensabile contemplarlo da lontano, da sopra, da qualsiasi altro posto che non sia la mia bassezza e piccolezza umana. La mongolfiera distante qualche centinaia di metri che permette di scrutare e amplificare questa divinità e i colori che la circondano, è semplicemente il tassello mancante del puzzle finale. Mentre ammiro la sua misteriosa assolutezza, mi rendo conto che le proporzioni, l'armonia, i bassorilievi a devata, la progettistica secondo i punti cardinali e lo stile transculturale la rendono un'opera di potenza. L'insieme del sito archeologico è probabilmente l'unica realtà rimasta invariata dopo il macabro regime di Pol Pot.

al tesoro, alla ricerca di un crescendo di emozioni. Le famose radici e rami di alberi secolari del tempio Ta Prohm sono caparbi e forti: crescono fieramente intrecciati sopra le rovine millenarie. Stare di persona davanti a questa prova di energia vitale della natura, che ingloba una storia imponente, è semplicemente disarmante. Una pittoresca simbiosi diventata quasi osmosi, un lento, costante e inesorabile avviluppare di pietre scolpite, come se le piante volessero riappropriarsi dello spazio sottratto loro anni fa dall'uomo. Quanta bellezza può sopportare il cervello umano? Quanta straordinarietà può esser percepita? Si può avere un'overdose di sensazioni? Cercando di smaltire le troppe emozioni, pedalo incredula verso la meta più attesa, più venerata: Angkor Wat. Finalmente, dietro l'ultima curva, appare la perla cambogiana della bandiera nazionale. Nella vita ho viaggiato molto. Sempre. In tutti i modi. Ho visto tante cose. Ho vissuto, apprezzato, ammirato. Faccio del mio meglio per non diventare immune alla bellezza, per meravigliarmi come fosse il primo viaggio, anche se è sempre più difficile.

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Noto per la sua particolare crudeltà, il dittatore ha riempito il paese di fosse comuni, orfani e terrore. Il genocidio cambogiano, triste episodio della storia contemporanea, deve esser ricordato, raccontato e tramandato; per rispetto di chi non lo può più fare e per la pace di chi è riuscito a sopravvivere alla follia dell'assassino sorridente, rimasto al potere per milletrecentoquarantuno lunghi giorni. Entro così nel luogo che vorrebbe essere dimenticato, ma che quotidianamente traccia una nuova ruga sui volti dei cambogiani: S-21, la prigione segreta a Phnom Penh. All'apparenza una curata e accogliente scuola, in realtà un cumulo di orrori in cui si percepiscono le atrocità svolte sugli immaginari nemici del regime. Accompagnata dal dettagliato audio creato grazie alla preziosa testimonianza dei sette sopravvissuti e dei sicari pentiti, mi immergo nei raccapriccianti racconti delle torture inflitte. Le celle minuscole come gabbie, macchie rosse sui muri, stanze con strumenti di tortura e dissanguamenti forzati annessi, sbarre di bloccaggio, catene, la postazione dell'annegamento controllato e le fin troppo nitide foto del prima e del dopo danno vita a una riproduzione dell'accaduto talmente viva e palpabile che man mano che il percorso perde l'innocenza, io perdo la ragione. Il lungo e progressivo sfinimento emotivo viene messo a dura prova da una seconda tappa, questa volta nei campi di sterminio Choeung Ek, dove venivano portati i torturati per essere messi in ginocchio, bendati e freddati con qualunque strumento tranne che armi da fuoco - il risparmio sui proiettili valeva più

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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di centinaia di agonie al giorno. Se il terrore incombente che questo luogo evoca potesse essere classificato, il doloroso primato lo otterrebbe sicuramente l'albero della morte contro il cui tronco venivano sbattuti e soppressi i neonati. Oggi, l'albero è decorato con migliaia di braccialetti colorati, omaggio di visitatori frastornati. Quello che un tempo è stato un pacifico e sempre verde frutteto oggi raggela il sangue: ospita spogli e desolati crateri di fosse comuni dai quali, durante le piogge, riemergono brandelli di ossa, denti o tessuti, come a ricordare l'inaudita violenza di una strage rimasta impunita. Eppure, esisterebbe un delitto più grande: dimenticare. Esco con la sconsolante consapevolezza che il popolo affranto da tali menomazioni fisiche e psichiche non saprà mai perché tante vite sono state trucidate. Ora che lo straziante percorso è concluso, è il momento di tornare all'entrata della prigione per incontrare Chum Mey e Boh Meng, i due superstiti novantenni, risparmiati dalla tragica fine solo grazie

ai loro talenti costantemente sfruttati dai khmer rossi: disegnare i ritratti dei capi e riparare le macchine da scrivere, necessarie per le false confessioni. Vedere Chum e Boh tornare ogni mattina nel luogo in cui giorno dopo giorno assistevano alle torture dei propri figli, genitori e mogli, è qualcosa che va oltre ogni forza umana. Non rientra nemmeno più nel tentativo di esorcizzare il dolore.

“Non si va mai così lontano come quando non si sa dove si va”

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“È il mio dovere”, sussurra Chum con lo sguardo basso, “il mondo non deve dimenticare. Non per me, ma perché una tale tragedia non deve mai più ripetersi in nessuna parte del mondo”. La dignità, la risolutezza e la determinazione di questo uomo che tuttora combatte nei processi ai crimini contro l'umanità con tutte le forze rimastegli, mi fa sentire sciocca persino a piangere, perché non è abbastanza. Cosa desidera un uomo con un tale passato alle spalle, tali ingiustizie subite, anni passati a cercare di sopravvivere, senza mai vedere la giustizia colpire i responsabili? “I dolori fisici passano. Rimangono solo le cicatrici. Ma il ricordo di come hanno sparato a mia moglie con mio figlio in braccio, a migliaia di altre mogli, mi perseguiterà sempre e nemmeno nella tomba avrò pace finché chi l'ha fatto non mi guardi negli occhi e non lo ammetta”. Realizzo che la sua cicatrice sul braccio, che mi sembrava brutta e profonda, non è che un eufemismo, un debole esempio degli incubi che la sua memoria si porta dentro da anni, talmente persistenti da non permettere all'amnesia di prendere il sopravvento. I ricordi raccolti nel suo libro, tradotto in tante lingue, dovrebbero essere una lettura obbligatoria ogni volta che manchiamo di gratitudine, umiltà e retta via. Per elaborare così tante sensazioni contraddittorie, liberarsi dalla tensione e lasciare questo meraviglioso Paese e il suo popolo con serenità e riconoscenza, non esiste luogo più adatto della natura. Al posto della classica isola da cartolina, decido di contribuire direttamente al benessere delle comunità e opto per una permanenza ecosostenibile nella ricca foresta pluviale, sulle montagne del Cardamomo. Trattasi di un'area protetta di 400.000 ettari con un ecosistema indisturbato e una biodiversità unica.

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Oltre a un'ambientazione mozzafiato e viste panoramica surreali, ospita alcune delle specie più rare del mondo, leopardi e coccodrilli siamesi compresi. Inesistente sulle mappe del turismo, questa zona attrae pochi avventurosi, assettati di regioni selvagge, remote e inesplorate. Dopo alcune ore trascorse su mezzi pubblici, motorino e barchetta mi inoltro nella giungla, alla ricerca di un qualsiasi membro delle tante piccole tribù che la abitano volenteroso di affiancarmi nell'impresa di attraversare la Valle di Areng a piedi. Scorgo un ometto solare seduto sotto a un banano, ma la sua nozione d'inglese comprende unicamente due parole: OK e Coca Cola. Indico a rotazione la mia tenda, 20 dollari, mimo la camminata, la nuotata e la dormita, il tutto accompagnato da cinque dita equivalenti alle notti previste e altre banconote, e confido nella giusta interpretazione. L'uomo annuisce, indossa ciò che è rimasto di una t-shirt, prende uno zaino e mi fa segno di seguirlo. Dopo altre ore di arrampicate, attraversamenti di bacini d'acqua e fiumi, territori mai calpestati, flora vergine, bussola impazzita e il segnale del telefono sparito da un pezzo, mi viene il dubbio che io e l'ometto non ci siamo capiti. “What's your name?”, tento. “OK”, risponde annuendo con un imbarazzato sorriso di chi sa di non sapere e continua a muoversi agile attraverso le mangrovie e le palme della giungla con una abilità ammirevole. Continuo a seguirlo: non ho altra scelta. Quando ormai abbandono l'idea della permanenza circondata dalle meraviglie di una foresta pluviale che sta

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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lenti, pigri, per attraversare il fiume e posarsi sull'altra sponda, da dove osservano disinteressati la mia euforia nel montare la tenda. Accendo il fuoco e anticipando il buio che a momenti ruberà l'ultimo chiarore al tramonto, faccio il bucato che asciugherà mentre la legna ardente crepiterà nella notte. Dormirò cullata dalla sabbia, la mia tenda saprà di casa più di quanto una qualsiasi dimora avesse mai fatto, e quando mi sveglierò in un posto così lontano da esser quasi segreto, i miei piedi punteranno intrepidi un'altra maestosa collina che mi porterà in un'altra indimenticabile valle, chissà dove, chissà quando e come. Stanca ma instancabile, camminerò senza tregua e senza meta, purché sempre in avanti. Perché non si va mai cosi lontano come quando non si sa dove si va.

subendo una delle peggiori deforestazioni al mondo, sbuco inaspettatamente davanti a uno scenario a dir poco magico: una mandria di bufali selvatici giace indisturbata sui banchi di sabbia, l'acqua verde smeraldo del fiume fa loro da cornice, le palme della natura pristina proiettano ombre talmente precise che raddoppiano la bellezza di tutto l'insieme e le cicale danno via all'orchestra che completa la sinfonia. Piante esotiche delicatamente profumate abbracciano tronchi di alberi, luccicando nell'oro del sole calante. Guardo con occhi sbarrati, immensamente commossa, l'ometto che sorride timidamente fiero. “OK?”, azzarda teneramente. “OK? OK?? Certo! Che Buddha ti benedica! OK! OK!”, grido, rido, salto incredula, corro e gioisco così rumorosamente che due-tre bufali s'alzano

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L'Italia che funziona

Il Made in Italy oltre l’etichetta: un know how che vanta secoli di storia di Beatrice Anfossi

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a qualche parte, bisognerà pur ripartire. È un mantra che non si è fatto che ripetere nel corso degli ultimi mesi, paralizzati di fronte alla deriva – apparentemente incontrollabile – dell’emergenza Covid-19. L’Italia è stata travolta da qualcosa di totalmente inaspettato, molto più grande di lei. Più grande dell’Europa, dell’intero mondo occidentale e di tutte quelle certezze che erano state costruite a fatica nel corso degli ultimi settant’anni. Per la prima volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’umanità intera si è trovata coinvolta in una situazione che l’ha paralizzata, mettendo in crisi il mito dell’uomo contemporaneo, della tecnologia e del progresso. Per un momento, ci si è resi conto che la natura ha ancora la forza per dettare le regole, costringendoci a rallentare il ritmo di una vita diventata ormai frenetica. Se è certo che le ripercussioni economiche della pandemia non si esauriranno nel corso di pochi mesi, forse questa situazione ci ha insegnato dove cercare gli strumenti per provare a riprendere slancio. Tra le cose che la quarantena ha contribuito a sottolineare c’è sicuramente l’intraprendenza del popolo italiano. Spesso all’estero ci definiscono eccessivi, furbi e sfaticati. Ebbene, non si può negare che ogni stereotipo abbia sempre un remoto fondo di verità. Ma il periodo difficile che il Paese ha attraversato – e sta attraversando, insieme al resto del Pianeta – ha dimostrato che forse la caratteristica di cui dovremmo andare più

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Un'innata capacitĂ di reinventarsi e trovare una soluzione, potrebbe essere questa la chiave della rinascita

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fieri è proprio l’arte dell’arrangiarsi. Che non sempre significa trovare il modo di raggirare le regole, ma che anzi più spesso si traduce nella capacità di trovare soluzioni anche laddove non sembrano essercene. È questo l’esempio dato dall’ingegnere che ha pensato di creare un respiratore a partire da una maschera per le immersioni; oppure dalla ragazza che ha cucito centinaia di mascherine dotate di una finestra in plastica trasparente, apposita per le persone sorde. È un’intraprendenza - un saper fare - che affonda le radici in secoli di storia, arte e cultura. Bisogna tornare al Rinascimento, quando i grandi nomi dell’arte della Penisola esportavano canoni di bellezza e bravura. Proprio a quella configurazione fatta di tante città divise e spesso in competizione tra loro va però ricondotta anche la nostra innata incapacità nel fare sistema. Lo ha dimostrato per tanti anni il settore moda, uno degli elementi trainanti dell’economia nazionale. Fin dagli anni Cinquanta la moda italiana ha iniziato a farsi conoscere nel mondo, prima con la dolce vita romana e poi – soprattutto dagli anni Settanta in avanti – con gli astri nascenti del prêt-à-porter. Ma se in Francia Parigi dettava legge senza rivali, unico centro riconosciuto dell’alta moda, in Italia Roma, Firenze e poi Milano si sono contese per anni il primato, senza mai riuscire a coalizzarsi per fronteggiare lo strapotere francese. Alla fine Milano ha avuto la meglio, decretando la fortuna del nostro Paese. Grandi nomi come Giorgio Armani, Gianni Versace e Gianfranco Ferré – per citarne solo alcuni – hanno contribuito a rendere l’Italia sinonimo di stile e savoir faire, esportando un nuovo modo di concepire la moda, ormai slegata dai canoni francesi della haute couture.

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Ma la moda italiana non è fatta soltanto di passerelle milanesi. Al suo successo internazionale – che la colloca al secondo posto per l’export nel settore dopo la Cina – contribuiscono in buona parte i numerosi distretti industriali sparsi per il territorio nazionale: una serie di piccole-medie imprese che costituiscono la vera essenza del Made in Italy. Perché è evidente che il “fatto in” non sia riducibile a una mera etichetta geografica, ma sia figlio in realtà di un know how radicato e difficile da replicare altrove. È così che l’artigianato italiano ha continuato a costituire un punto di riferimento nel mondo per tutto ciò che è bello e di qualità, dalle calzature ai tessuti tech. Un primato che difficilmente può essere scalfito e che anzi va difeso con tutte le nostre forze. Viviamo in un mondo in cui la qualità è stata un po’ alla volta ofuscata dalla quantità, dal fast food al fast fashion. Un sistema in cui si vuole avere tutto subito, incuranti delle ripercussioni che le nostre scelte possono avere sull’ambiente o sulla società in cui viviamo. La speranza è che il periodo di stop forzato appena trascorso abbia portato un po’ più di consapevolezza, non soltanto di quello che inevitabilmente è andato perso, ma soprattutto di ciò che si ha a disposizione. Che un po’ dell’orgoglio ferito e poi rinato degli italiani si traduca in una migliore valorizzazione di quello che possiedono. Non solo un patrimonio artistico e paesaggistico dall’innegabile valore, ma anche quel quid internazionalmente riconosciuto al brand Made in Italy, dal campo agroalimentare al segmento del lusso. Un know how secolare che si traduce in alta qualità e che giustifica in alcuni casi anche il prezzo, che a quanto pare non costituisce un problema per il consumatore straniero. Ora non rimane che a capirlo siano proprio gli italiani.

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Lusso e benessere

Ozonoterapia, il perfetto connubio tra lusso e benessere Con Hocatt oggi è possibile godere a casa di tutti i benefici dell’ozono medicale, anche in uno spazio di pochi metri quadrati

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opo mesi di attesa, è finalmente disponibile anche in Italia la nuova tecnologia che rivoluziona il concetto di benessere. Si chiama Hocatt (acronimo di Hypotermic Ozone Carbonic Acid Transdermal Technology) ed è una bio-cabina ipertecnologica che consente di godere dei benefici dell’ozonoterapia in uno spazio di soli pochi metri quadrati. Tramite questo sistema innovativo e all’avanguardia, frutto di quindici anni di studi approfonditi e continue ricerche svolte da scienziati internazionali, il bagno di casa potrà trasformarsi in una vera e propria SPA. Il trattamento dura complessivamente circa 30 minuti e si basa sull’impiego di stimoli naturali, tra i quali spicca l’ozonoterapia. Come è facilmente intuibile dal nome, l’ingrediente principale è l’ozono medicale, un gas dalla potente utilità terapeutica: consente infatti di disintossicare gli organi del corpo a livello cellulare, rafforzare

Credit: Signature Health Italy

#hocatt | @ozone.italia www.signaturehealthitaly.com

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il sistema immunitario, migliorare la circolazione sanguigna e potenziare i muscoli, trasmettendo energia e riducendo allo stesso tempo ansia e stress. Il vapore all’ozono purifica la pelle, aumentandone la vitalità e favorendo l’espulsione delle tossine; contemporaneamente, tramite la distribuzione di ossigeno alle cellule, i processi di invecchiamento cutaneo vengono rallentati, i tessuti appaiono rassodati e le cellule adipose si sciolgono. Hocatt, distribuita nel nostro paese da Signature Health Italy, è inoltre un dispositivo in grado di apportare benefici anche a coloro che svolgono abitualmente attività sportive e necessitano pertanto di stimolare le proprie funzioni cardiovascolari e di recuperare energie dopo gli sforzi fisici. L’ossigeno agisce sulla circolazione e sull’efficacia respiratoria, garantendo un ripristino di vitalità nella fase successiva allo stress derivante dalla fatica muscolare. La proposta di Hocatt è davvero ricca e soprattutto valida, considerato che durante i 30 minuti di trattamento vengono attivate contemporaneamente ben dieci funzionalità le quali, se venissero prese singolarmente, richiederebbero ore di tempo per essere

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messe in pratica: ozono transdermico (che stimola il sistema immunitario e facilita l’eliminazione delle tossine), acido carbonico (che migliora l’assorbimento dell’ossigeno), sauna a vapore – ipertermia (utile per alleviare la tensione muscolare e accelerare il metabolismo), ossigeno (che rallenta i processi di invecchiamento), infusione di olii essenziali (i quali agiscono positivamente su corpo, mente e spirito), irradiazione ultravioletta (per stimolare la produzione di vitamina D e serotonina), raggi infrarossi lontani (che contribuiscono a ripulire le pareti di arterie, vene e capillari), micro-correnti specifiche (che accelerano la rigenerazione dei tessuti), luci fotoniche e colorate (ognuna delle quali ha benefici specifici per combattere un determinato disturbo) e campi elettromagnetici pulsati (i quali agiscono a livello cellulare, migliorandone la funzionalità). Sono stati l’emiro di Dubai (lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktum) e il miliardario Elon Musk i primi a intuire le potenzialità di Hocatt. Da allora, questa tecnologia si è diffusa in club di lusso e residenze esclusive (dal 2015 al 2018 la richiesta di questo prodotto è cresciuta del +32%), trasformando l’ozono nel nuovo status symbol dei ricchi. Prima di essere riconosciuta come uno dei protocolli più efficaci per raggiungere un soddisfacente stato di benessere corporeo, l’ozonoterapia ha iniziato già dalla seconda metà dell’Ottocento a essere oggetto di ricerche, che col tempo si sono naturalmente evolute. Nel 1972 è stata fondata la International Hozone Association, mentre dieci anni dopo è stato organizzato a Washington il primo congresso medico internazionale sul tema.

Credit: Signature Health Italy

#hocatt | @ozone.italia www.signaturehealthitaly.com

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“I processi di invecchiamento cutaneo vengono rallentati, i tessuti appaiono rassodati”

Per testare l'efficienza di questa nuova frontiera del benessere, è possibile acquistare la macchina da Signature Health Italy oppure presso il centro O.Zone, situato ad Alzate Brianza, in provincia di Como. Si tratta di un luogo unico nel suo genere, in cui vengono proposti percorsi personalizzati, pensati per le specifiche richieste del cliente e basati su una perfetta sintesi tra scienza e natura. Attraverso un colloquio approfondito con un esperto, è possibile individuare il numero ideale di sedute e i parametri da impostare nella biocabina, a seconda delle proprie esigenze e dell’obiettivo che si vuole raggiungere. I trattamenti che possono essere effettuati sono molteplici e spaziano dalle sedute detox o antistress a quelle finalizzate a migliorare l’aspetto della pelle, da quelle dimagranti e drenanti a quelle anti-age, fino a percorsi specifici per coloro che stanno intraprendendo terapie riabilitative in seguito a traumi o infortuni muscolari. Presso O.Zone vengono nutriti sia il corpo che la mente, grazie anche alla presenza del Juice Bar, il quale sfrutta tutte le potenzialità degli ingredienti utilizzati per produrre succhi di frutta dalle importanti proprietà nutritive.

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Presente e futuro

Tra fake news e post-verità: i romanzi distopici che avevano previsto il nostro presente di Nicoletta Volontè

Alcuni suggerimenti di letture estive per comprendere meglio il mondo di oggi

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al greco antico “δυς-” (dys: cattivo) e “τόπος” (topos: luogo), il termine “distopia” indica una società, ambientata in un futuro a volte non ben precisato, all’interno della quale i valori del presente (libertà, uguaglianza, diritti umani) sono completamente annichiliti e si prefigurano situazioni, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi. La parola fu per la prima volta utilizzata nel 1868 dal deputato inglese John Stuart Mill, durante un discorso rivolto al Parlamento britannico. Da quel 1868 di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e la distopia è diventata un vero e proprio genere artistico, che ha ispirato scrittori, letterati e pittori, ma anche filosofi: tutti coloro che avevano lungimiranza e capacità sufficienti per cogliere gli aspetti più critici della contemporaneità e proiettarli in un futuro indefinito, immaginandone le conseguenze. Come è facile immaginare, è stato il Novecento – secolo delle Guerre, del consumismo, della società di massa – il momento in cui questo genere ha avuto terreno fertile per proliferare e in cui gli artisti, soprattutto i romanzieri, hanno potuto dare spazio alle loro fantasie più o meno catastrofiche.


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Ma queste opere sono veramente solo relegabili a “fantasie” o in quel terribile futuro immaginato dagli autori del passato c’è anche un po’ del nostro presente? Certo, affermare che stiamo attualmente vivendo in una società distopica è forse eccessivo, ma sarebbe altrettanto ottuso voler negare a tutti i costi che il mondo di oggi presenta molti rischi e criticità, la maggior parte dei quali legati al delicato tema dell’informazione, a tratti assimilabili a quelli anticipati dagli autori del secolo scorso. Con l’avvento di Internet l’informazione si è spostata quasi interamente online, soprattutto per le fasce di popolazione più giovani; questo ha dato vita a fenomeni nuovi, nati come conseguenza di alcune dinamiche interne del web ma che, con nomi diversi, erano già stati intuiti dagli autori del passato. Avete mai sentito parlare di “fake news”, “postverità” o “filter bubble”? Sono concetti con i quali è bene fare presto conoscenza, poiché saranno determinanti nel costruire i limiti e le regole dell’informazione di domani, giacché rappresentano i più grandi rischi dell’informazione di oggi. “Fake news” (letteralmente “notizie false”) è un termine che definisce gli articoli redatti con informazioni inventate, ingannevoli o distorte, resi pubblici con il deliberato intento di disinformare o di creare scandalo attraverso i mezzi di informazione. Questi contenuti, una volta divulgati, sono spesso ricondivisi da utenti che, ritenendo quella notizia vera, vogliono condividerla con i propri contatti. Una tale manipolazione

“Il termine distopia indica una società in cui i valori del presente sono completamente annichiliti”

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di Beatrice Anfossi

delle informazioni a fini economici, propagandistici e di controllo dell’opinione pubblica non può che far pensare a “1984”, il celebre romanzo di George Orwell (forse il più famoso romanzo distopico mai pubblicato) che dipinge un mondo in cui l’informazione è così facilmente manipolata e manipolabile che risulta impossibile distinguere le notizie vere da quelle false. Persino il passato, per antonomasia fonte di certezze e insegnamenti, non esiste più: se non rimane traccia di quello che è accaduto, chi può assicurare che sia accaduto davvero? Il tema dell’impossibilità di distinguere il vero dal falso, la realtà dalla finzione, è centrale nell’opera “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip Dick, dalla quale è stato tratto il famosissimo film Blade Runner di Ridley Scott. Rick Deckard, il protagonista del romanzo, è un cacciatore di taglie, il cui lavoro è quello di “ritirare” (sostanzialmente, distruggere) gli

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androidi ribelli creati dagli umani, simili in tutto e per tutto a loro, fuggiti dal controllo dei padroni alla ricerca della libertà. In questa Terra completamente distrutta dalla Guerra Mondiale, è difficile distinguere tra animali viventi (ormai quasi del tutto estinti) e robotici, tra umani e androidi. Ad un certo punto, sembra anche inutile mettere in discussione le distinzioni imposte e precostituite, diventa più comodo arrendersi e assorbire semplicemente ciò che viene detto. Alla fine, trovare la verità non ha più importanza. Quelle rappresentate da Dick sono le dinamiche che si manifestano quando si parla di “post-truth” (post-verità). Il termine indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza. Il fulcro della notizia non è più la veridicità dei fatti raccontati, ma le emozioni suscitate dalla stessa e le sensazioni istintive che

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sorgono in chi legge, spesso andando a confermare bias e pregiudizi già insiti nel singolo. È più facile continuare a credere quello che si è sempre pensato perché alla fine, se quei fatti non sono accaduti, sarebbero comunque potuti accadere. Nella post-verità la differenza tra realtà e artificio diventa sempre più sottile, fino a perdere di significato, proprio come accade nel romanzo. L’affievolirsi del senso critico e la conferma dei propri bias ideali sono alimentati, nel mondo contemporaneo, anche da un altro pericoloso fenomeno. Si tratta delle “filter bubble”, l’operazione di “filtraggio” delle informazioni operata dagli algoritmi del web, che tendono a riproporci notizie e articoli affini alle nostre idee e convinzioni, tendendo così a radicare le nostre posizioni su determinati argomenti. Essendo esposti solo a un determinato tipo di contenuti siamo rassicurati nelle nostre idee e spontaneamente portati a pensare che il mondo lì si esaurisca, proseguendo sicuri

nei nostri pregiudizi per una strada che in realtà non abbiamo scelto. Proprio come accade nell’universo creato da Aldous Huxley, padre dei romanzi distopici con il suo “Il mondo nuovo”, pubblicato nel 1932. Nel suo romanzo Huxley delinea una nuova era, in cui la società è divisa in caste e tutti gli individui sono sottoposti a condizionamento mentale per conformarsi al ruolo stabilito per loro.

“È più facile continuare a credere a quello che si è sempre pensato”

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“Il fulcro della notizia non è più la veridicità dei fatti raccontati”

Non si tratta purtroppo quindi di sola distopia. Se si pensa a ciò che recentemente è accaduto con le elezioni americane o all’incredibile bagaglio di notizie false e facilmente strumentalizzabili circolate durante l’epidemia da Coronavirus, diventa quanto mai importante imparare a riconoscere i fenomeni di cui abbiamo parlato, al fine di arginarli nel momento in cui colpiscono noi stessi e gli altri. Se quello distopico è un genere che vi appassiona, oltre ai romanzi sopracitati potrebbero piacervi Ubik e La svastica sul Sole, sempre di Philip Dick, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood o, per citare qualche titolo più recente, La strada, di Cormac McCarthy. Simul ante retroque prospiciens, diceva Petratrca: “tenere lo sguardo rivolto contemporaneamente indietro e avanti”. Appigliarsi al passato per comprendere meglio i rischi del futuro e vivere pienamente il presente, con occhio critico e con un pensiero libero. Questo il nostro augurio per la vostra estate. Buona lettura!

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Montagne. Alberi. Aria pura. Anche quando ci si occupa di stampa tipografica con impareggiabile professionalità, l’ambiente rimane al primo posto. Da oltre 10 anni, CTS Grafica è certificata FSC®: le materie prime che utilizziamo provengono da foreste correttamente gestita secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

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Qualità italiana & design femminile

Le calzature originali e raffinate di Les Italiennes di Cristina Occhinegro

Intervista a Stefania & Ilaria Dibari, fondatrici del brand

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uando si parla di imprenditoria femminile del Sud, mi brillano gli occhi. Se poi parliamo della mia amata Puglia, il mio cuore non può che riempirsi di gioia. Quando ho avuto il piacere di conoscere Stefania e Ilaria Dibari, due sorelle pugliesi che, partendo dall'azienda di famiglia, hanno realizzato il loro progetto, la mia mente ha iniziato a sognare: mare, sole, relax. Ed è stato quasi come se questi mesi di lockdown fossero solo un lontano ricordo. Mi sono imbattuta in Les Italiennes quasi per caso: un'azienda che produce calzature originali, raffinate e di alta qualità con minuzia di dettagli e orgoglio italiano, il tutto rigorosamente artigianale e a suon di #weareinpuglia. Come nasce Les Italiennes? Qual è la vostra mission?

Stefania: Les Italiennes nasce dall’unione di due sorelle con l’idea di raccontare e raccontarsi, di trovare un proprio ruolo all’interno dell’azienda di famiglia. Les Italiennes propone di uno stile di donna versatile. Le collezioni sono pensate per una donna che ama giocare con la moda e dunque con gli accessori. Il sandalo

Credit: Les Italiennes #lesitaliennessandals | @lesitaliennes_shoes www.les-italiennes.it

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“Sin da bambine siamo cresciute ascoltando i rumori dei materiali al tatto.”

con il maxi fiocco ha rubato il cuore di molte al primo sguardo, ma tante trovano deliziose le ciabattine pensate per la spiaggia, comode anche in città. La nostra mission? Qualità completamente italiana, design femminili e materiali inaspettati: il tutto ambientato nella nostra splendida Puglia, terra ricca di sole, mare e natura rigogliosa. In questo periodo di lockdown si è parlato tanto di ritorno al Made in Italy, quanto ci credete e quanto l'artigianalità è fondamentale nel vostro progetto?

Ilaria: La difesa del Made in Italy è la nostra filosofia di lavoro. Dopo il periodo di lockdown, questo concetto è tornato alla ribalta, rafforzato. Noi come azienda ci crediamo molto e, ancor di più, crediamo che in questo momento storico il saper fare italiano possa trovare nuove gratificazioni, motivo per il quale va supportato. Stefania: L'azienda di famiglia, anche nei momenti in cui tutti hanno delocalizzato la produzione in Cina per essere più competitivi sul mercato, ha sempre sostenuto con tenacia il Made in Italy. Pur tra mille difficoltà, io e Ilaria abbiamo ereditato con orgoglio questo insegnamento, facendone il punto di forza dei nostri prodotti.

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Essere a contatto con la propria sorella anche nel mondo lavorativo è un plus oppure porta ad avere dei conflitti? Avete idee comuni?

Quali sono i ruoli di Stefania e Ilaria all'interno dell'azienda?

Stefania: Principalmente mi occupo della ideazione e poi realizzazione dei modelli, attività che svolgo con il supporto di validi collaboratori.

Ilaria: Sicuramente lavorare in famiglia ha i suoi pro e i suoi contro, come si può immaginare. Le divergenze ci sono, anche dovute al differente ruolo aziendale che ognuna di noi occupa. Io sono più concreta e realista, Stefania è più idealista e sognatrice. Ma nonostante ciò, il punto di intesa riusciamo a trovarlo sempre!

Ilaria: Io, invece, dirigo il reparto contabile e amministrativo. Siete due donne, imprenditrici del sud. Ci sono state difficoltà nella “scalata" al successo? Come le avete affrontate?

Quali sono i progetti futuri del vostro brand?

Stefania: Siamo cresciute a livello professionale nell’azienda di famiglia e non sempre è stato tutto semplice. Considerando il divario generazionale in primis con nostro padre, ritagliarsi un ruolo e uno spazio dove poter esprimere la propria creatività non è stato sempre facile. Abbiamo dovuto affrontare le differenze di visione: quella dell’uomo, più focalizzata e settoriale e quella della donna che ha una visone più ampia. La donna, del resto tende ad occuparsi anche di intelligenza emotiva, di quel welfare aziendale di cui oggi si parla tanto. Però, possiamo affermare di essere soddisfatte.

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Stefania: i progetti sono tanti…e le idee anche! Ci piacerebbe raggiungere le piu belle località di mare della nostra penisola e magari arrivare nei luoghi di mare esclusive oltreoceano portando attraverso i nostri sandali i colori della nostra Puglia.

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Comte de Montaigne

Un viaggio nell'Aube, alla scoperta dello champagne più autentico di Beatrice Anfossi

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ssemblage, remuage, dégorgement. And repeat. Il processo di produzione dello champagne, noto anche come metodo classico, è apparentemente molto semplice e lineare, e si ripete immutato ormai da secoli. Rimane ammantata invece da un velo di leggenda l'origine di quelle uve pregiate che danno vita al liquido ambrato più famoso di Francia: Pinot Noir, Pinot Meunier e Chardonnay. Per ricostruire la loro storia bisogna tornare all'epoca delle crociate e in terre lontane, più precisamente a Gerusalemme. Si scopriranno vicissitudini fatte di viaggi, guerre e soprattutto grande abilità commerciale. È così che la regione della Champagne ha guadagnato la fama di cui gode oggi. Stéphane Revol, amministratore delegato di Comte de Montaigne e produttore di Champagne di categoria Premium, ci accompagna in un viaggio alla riscoperta dell’autenticità attraverso la regione dell’Aube. La stessa che ospita i suoi vigneti e in cui è giunto dal lontano medio-oriente il primo ramoscello di Chardonnay, per mano del Comte de Champagne. Ci racconta, dal suo punto di vista, la storia che lega lo Champagne alla regione dell’Aube?

La Champagne è una regione che si trova a sud est di Parigi e si divide in

Credit: Comte de Montaigne #comtedemontaigne | @comtedemontaigne www.comtedemontaigne.com

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Stéphane Revol, amministratore delegato della maison francese Comte de Montaigne, racconta i segreti della storica regione della Champagne e della produzione dal colore ambrato più famoso al mondo

due grandi province: la Marne e l’Aube, con capoluogo Troyes. In Champagne abbiamo sette tipologie di vitigni diversi, di cui tre famosi: lo Chardonnay, il Pinot Noir e Pinot Meunier. Nessuno di questi vitigni nasce in Champagne. Lo Chardonnay, secondo alcune teorie, sarebbe nato a Gerusalemme: la parola in ebraico Shahar Adonay, infatti, significherebbe “la porta di Dio”. Il Comte de Champagne, nel XIII secolo di ritorno dalle crociate, riporterà lo Chardonnay, che verrà piantato non nella Marne ma nell’Aube, nelle terre attuali di Comte de Montaigne. Qui abbiamo l’autenticità della zona, perché è proprio qui che, nel XIII secolo, è stata piantata la prima vigna di Chardonnay. Nella zona della Marne si trovavano però i commercianti che vendevano l’uva e il mosto. Alla fine del XIII secolo questi commercianti, in modo molto lungimirante, si accorgono che lo Chardonnay aveva del potenziale e decidono quindi di scatenare una guerra con la regione dell’Aube, per ottenerne l’esclusiva. I produttori dell’Aube perdono la guerra e vengono così costretti a consegnare l’uva e il mosto per sei secoli, con il veto di non poter produrre alcuna bottiglia di champagne, fino al 1903. È questo aspetto a rendere la regione dell’Aube autentica e, ovviamente, lo champagne Comte de Montaigne uno dei più autentici sul mercato.

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conduttore. Michel de Montaigne era uno scrittore in Francia molto rispettato e noi nutrivamo un grande stima nei suoi confronti. Quindi abbiamo scelto il suo nome proprio per mantenere vivo questo legame tra il vino e la letteratura. Non volevamo avere una maison che portasse il nostro cognome, Revol; quindi abbiamo deciso di seguire il percorso, per noi logico, che unisce letteratura e vino.

Si ricorda come è avvenuto il suo incontro con il vino e con lo champagne?

Mi ricordo, all’età di quattro o cinque anni, le vacanze estive trascorse in mezzo ai vitigni dell’Aube, dove correvo senza sosta procurandomi anche una caduta abbastanza grave. Da quel momento non ho mai mancato una vendemmia e sempre amato l’atmosfera che si respirava. La mia vocazione nasce però di fronte alla Chiesa di Santa Maddalena quando, a nove anni, mio padre mi raccontò la storia dell’origine del vitigno Chardonnay. Sono convinto che oggi quello che ci occorre sia la ricerca dell’autenticità, per questo la storia ha bisogno di essere riportata alla luce.

Lei consiglia di servire lo champagne in un calice dalla forma a tulipano. Che differenza c’è con la più famosa coppa?

La leggenda narra che la forma della coppa di champagne si ispiri a quella del seno e, devo dire, che è uno dei miei bicchieri preferiti. Permette di avere l’esaltazione del perlage ma purtroppo si perde il profumo. Il bicchiere a tulipano permette invece di esaltare il profumo al naso e di sviluppare anche una bella bolla. Quindi a livello tecnico il secondo è più completo perché permette a entrambi gli elementi, la parte visiva e

Il nome della vostra maison richiama quello del filosofo e umanista Michel de Montaigne, perché avete pensato proprio a lui?

C’è sempre stato, fin dal Medioevo, un legame tra il vino e la letteratura; un filo

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acquisterà senza badare al prezzo; cosa a cui invece stanno molto più attenti, ad esempio, in Spagna. Quindi per una Maison Premium come Comte de Montaigne è importantissimo essere nel mercato italiano: qui possiamo trovare un consumatore curioso e che accetta di pagare la qualità. In Italia siamo agli inizi, in un mercato enormemente diviso tra brand che producono tra 7.5 e 8 mln di bottiglie e con più di 600 marchi. L’Inghilterra, ad esempio, produce 80 mln di bottiglie di champagne ma con 200 brand. Questa marcata segmentazione rende più complicata l’accettazione del brand, per cui c’è bisogno di tempo, risorse e della comunicazione giusta. La bella ristorazione, anche milanese, ci ha accolti molto bene. Io vivo tra Milano e Parigi; Milano è una città che adoro, perché la trovo dinamica, moderna e avanguardista a livello di design e di ristorazione. Credo sia il posto in cui vivere per un giovane CEO a livello europeo.

quella olfattiva, di essere presenti. Detto ciò la coppa rimane sicuramente più elegante e chic, almeno a livello estetico. Da suggerire quindi nel caso di una cena o un cocktail molto elegante, mentre il bicchiere a tulipano è preferibile in un’occasione più professionale in cui si assaggia e si parla di vino. Ho letto che lei ha deciso di trasferirsi a Milano, perché questa scelta? Come è avvenuto l’ingresso di Comte de Montaigne nel mercato italiano e come è stato accolto?

Il mercato italiano ha una doppia importanza: innanzitutto stiamo parlando di uno dei Paesi top di gamma nella produzione di vino a livello mondiale; c’è una base molto importante di produttori. Francia, Italia e Spagna ad oggi sono i paesi che producono più vino. Inoltre, quello che adoro degli italiani è che amano e apprezzano il bello. Se a un consumatore italiano piace uno champagne, lo

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Tornando in Francia, secondo lei un brand radicato nel territorio come il vostro che apporto può dare alla valorizzazione di quello stesso territorio dal punto di vista turistico ed enogastronomico?

Ovviamente qui si entra anche nell’aspetto politico, perché dobbiamo lavorare con la nostra regione e con la nostra provincia per poter avere dei percorsi che vanno a promuovere la zona dell’Aube, (es. La Strada dello Champagne) dal punto di vista dello champagne con eventi mirati. Sviluppare una ristorazione enogastronomica elevata con stellati Michelin che ancora mancano. Le attrazioni nella nostra zona non mancano: le vetrate nella città di Troyes, i giardini medievali, ma lo sviluppo deve vedere lo sforzo sinergico nostro, di altri colleghi e della provincia. Quali sono gli obiettivi e le ambizioni a medio termine della maison?

Per noi è molto importante riuscire a trasmettere al consumatore l’autenticità della nostra zona. Oggi all’estero, soprattutto nei paesi anglofoni, abbiamo sulle carte dei vini un 75% di prodotti autentici e un 25% di prodotti commerciali. Questa conoscenza di champagne autentici con delle storie dietro è importante. Comte de Montaigne è una Maison Premium non perché sia meglio degli altri – tutti gli champagne sono buoni – ma perché lasciamo il tempo al vino di arrivare al suo apogeo, senza sottometterci ad

Credit: Comte de Montaigne #comtedemontaigne | @comtedemontaigne www.comtedemontaigne.com

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esigenze di mercato. Noi scegliamo un tempo di vinificazione di 48 mesi, contro i 18 della maggior parte delle altre case produttrici. Il vino ha bisogno di questo tempo per esprimersi al meglio. Il mio obiettivo è che questa qualità venga riconosciuta dal consumatore finale, grazie anche alla comunicazione della stampa e degli eventi che organizziamo. Oggi quello che paga è l’autenticità e il "premium", che rappresentano i pilastri di Comte de Montaigne. C’è differenza tra fare lo champagne e fare il vino: fare il vino significa avere un pezzo di marmo e ridurlo per creare una statua; fare lo champagne invece vuol dire avere ottanta pezzi di marmo diversi e creare un mosaico (= assemblage). Noi lavoriamo con 40 ettari di vigne e circa 80 parcelle diverse. Per fare il nostro Blanc de Blancs – uno dei migliori champagne sul mercato (100% Chardonnay), noi utilizziamo ovviamente diverse parcelle di uva chardonnay, perché esse apportano maggiore complessità al prodotto e lo stile che noi vogliamo dargli. Ogni champagne ha uno stile, il nostro considera lo champagne un momento di condivisione, in famiglia, con gli amici, al lavoro, un momento di gioia e per questo si basa su tre elementi fondamentali: la golosità, la complessità e l’eleganza. La prima è data dall’assemblage e dal fiore, nel caso del Blanc de Blancs io scelgo delle parcelle che lo esaltano, con della mineralità (vicine al fiume). Per fare ciò io ho bisogno che il mio vino, fatta la vendemmia, raggiunga il suo apogeo. Noi separiamo ogni parcella, perché ognuna ha un valore diverso. Questo vino ha bisogno di tre mesi per sviluppare tutte le sue caratteristiche, contro i 15 giorni delle altre maison. La

seconda fase prevede l’imbottigliamento e quindi l’invecchiamento sui lieviti, che da noi dura 48 mesi; questo dà complessità al vino e gli permette di non essere neutro, quindi di esaltare al naso e in bocca il nostro territorio. Il terzo aspetto è l’eleganza, rappresentata da una bolla sottile e fine, ottenuta tramite un remuage molto lento. Abbiamo la nostra bottiglia con dentro i lieviti che hanno esaurito la co2 e sono morti, devo quindi toglierli dalla bottiglia concentrandoli nella zona del tappo. Questo processo prende appunto il nome di remuage: ovvero la bottiglia da sdraiata viene posta verticalmente, con un movimento di 90°. Questo movimento dà la grandezza della bolla, più viene fatto lentamente e più la bolla sarà sottile. Nella maison Comte de Montaigne questo processo dura tre mesi. A questo punto occorre togliere i lieviti dalla bottiglia, attraverso il processo di sboccatura, quasi una “operazione a cuore aperto”. Per questo la bottiglia trascorrerà poi un mese in “convalescenza”. Un processo con una durata totale di 54 mesi. L’autenticità di Comte de Montaigne viene dalla zona nella quale ci troviamo, l’Aube; mentre il "premium" dal metodo di lavorazione che abbiamo scelto.

“Lavoriamo con 40 ettari di vigne e circa 80 parcelle diverse”

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Gennaro Tella

Una naturale Attitudine a valorizzare il fattore umano di Ruggero Biamonti

Dopo un'esperienza come consulente in ambito finanziario, Tella fonda Attitude, società che rivoluziona l'attività di field market

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ennaro Tella è un imprenditore che richiama subito alla mente la figura di Adriano Olivetti (“Un gigante”, come Tella stesso precisa), l'industriale che molto ha dato all'innovazione tecnologica, ottenendo ottimi risultati aziendali, ma sempre con una grande attenzione alla cultura, al risvolto sociologico della sua attività, in una parola sola all'uomo. Dopo un'esperienza come consulente in ambito finanziario, Tella fonda Attitude, società che rivoluziona l'attività di field market fino ad avere tra i clienti colossi come American Express e Telepass Pay. Oltre i risultati pratici, che ci sono e sono molto rilevanti, quello che risalta è l'attenzione di Tella per il fattore umano. Il collaboratore deve partecipare nel senso etimologico del termine, essere parte del progetto, radicarsi nella dimensione aziendale che è costruita intorno all'essere umano. Sintomatico è l'esperimento che avviene all'interno dell'Attitude Caffè. Una coltura di piantine è affidata a turno ai manager che se ne devono occupare a partire dal seme:


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un processo semplice, ma che coinvolge valori importanti e antichi. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Gennaro Tella che ci ha parlato di questa sua innovativa visione aziendale. Gennaro Tella, lei ha lavorato per dieci anni nel settore della consulenza in aziende internazionali e nel settore finanziario, cosa le ha lasciato questa esperienza?

Questo percorso mi ha arricchito di una serie di conoscenze relative alla gestione delle risorse umane e mi ha permesso di imparare automatismi che ti consentono di avere una visione necessaria quando devi costruire dei processi che impiegano grandi numeri. Lavorare nel mondo consulenziale, lavorare nel mondo delle multinazionali, per osmosi, ti aiuta a strutturare dei processi che funzionano. Dopo questa esperienza ha fondato Attitude, un nome che non è stato scelto a caso, mi riferisco all'attitudine a valorizzare l'intelligenza emotiva di ogni persona.

Noi guardiamo molto alle competenze trasversali, consideriamo l'attitudine di ogni persona, cerchiamo di potenziare quelle che sono le inclinazioni naturali e lavoriamo tantissimo nello strutturare le nostre risorse affinché possano manifestare il meglio nei progetti di medio-lungo termine, dando loro il tempo di esprimere tutto il potenziale. Viviamo in un mondo in cui c'è una

“Saranno determinanti nel costruire i limiti e le regole dell’informazione di domani”

Credit: Attitude LTD #GennaroTella | @_gennarotella_ www.attitudeltd.com

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velocità di azione e una tempistica per realizzare i progetti che spesso non dà tempo ai collaboratori di rendere al meglio. Lavoriamo sulla velocità d'azione ma c'è una curva di apprendimento e di attitudine, da qui il nome, perché non c'è un altro modo di poter ottenere il massimo dalle persone. Con Attitude lei ha riscritto le regole del field market, ce ne può parlare?

Abbiamo sempre pensato che il consulente seguiva esattamente una strategia di medio lungo termine e quindi, se è conscio di quella che è la necessità della società che gli dà il mandato, si riesce a realizzare una vendita perfetta. Va potenziato il rispetto delle attitudini del collaboratore ma nel contempo bisogna renderlo partecipe della strategia: perciò è importante la formazione, l'affiancamento e tutta una serie di altre azioni che coinvolgono i consulenti nei progetti stessi; la nostra rivoluzione è stata quella di renderli parte delle strategie piuttosto che calarle dall'alto. Un discorso che può sembrare scontato, ma che richiede il giusto approccio per arrivare a un risultato vincente. Lei ha parlato di clienti e tra i vari suoi clienti si possono contare dei veri e propri colossi, ma la dimensione della sua realtà rimane sempre a misura d'uomo.

Credit: Attitude LTD #GennaroTella | @_gennarotella_ www.attitudeltd.com

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“Cerchiamo di potenziare quelle che sono le inclinazioni naturali”

Importante per la nostra azienda è il concetto di inclusività. Il reparto marketing e quello delle risorse umane lavorano molto affinché ci sia un mood positivo e un ambiente che generi il good mood, come lo chiamiamo noi, che poi crea delle performance di rilievo. Riteniamo fondamentale la costruzione di un contesto sano, stimolante. Inoltre gli spazi in cui lavoriamo sono stati progettati con un'attenzione particolare al design perché noi crediamo che desti la creatività e quindi la capacità di saper originare progetti di successo.

Io mi sento vicino a Olivetti solo se lei specifica che è un gigante. Ritengo che sia stato un visionario, un genio, d'altro canto non si può pretendere oggi di fare un'impresa se non c'è un'attenzione particolare all'uomo. Lui è stato un antesignano di tutto questo e in qualche modo dovrebbe essere rivalutata la sua figura e studiata da tutti gli imprenditori italiani.

C'è una visione tipica dell'economia del Nord Europa, per esempio ambienti emotional friendly, sostenibili, incentrati sulla persona, orari flessibili, nessun badge...

Noi abbiamo citato prima la tradizione del Nord Europa, lei però è di origine napoletana e romano di adozione, due città, Roma e Napoli, che danno tantissimo in termini di creatività. Quanto conta il sogno e la fantasia nella sua attività?

Assolutamente sì. C'è tutto ciò che fa bene ed è gratis per tutti, tutto ecosostenibile. Nel nostro Attitude Caffè abbiamo una coltura di piantine, a rotazione chiediamo ai manager di prendersene cura portando il seme a diventare una pianta e notiamo che i manager che seguono questo processo, che fanno diventare pianta un seme, sono poi quelli che controllano i progetti con una certa attenzione.

Io credo che la creatività e il sogno nell'attività di un imprenditore contino tantissimo, non si può vivere solo di processi e di ottimizzazione, bisogna generare delle idee nuove, innovative, che stiano al passo. Bisogna ascoltare moltissimo quella che è l'evoluzione del mondo. Essere nato a Napoli è una fortuna perché la fantasia è un po' un'attitudine innata in me, penso che sia un elemento essenziale e credo che la prospettiva di un imprenditore vada rispettata perché per chiamarsi tale deve vedere ben oltre quello che vedono i suoi dipendenti, per poter dare una direzione all'azienda. Senza la visione questa cosa non la puoi fare.

Anche per queste cose, la sua figura ricorda molto quella di Adriano Olivetti, un imprenditore illuminato che faceva attenzione alla cultura, all'aspetto sociologico dell'impresa e aveva una grande attenzione nei confronti dell'uomo. Lei si sente vicino ad Olivetti e in generale quali sono i suoi punti di riferimento?

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Come cambieranno le cose?

Moda e modi:

prospettive post Covid-19 di Priscilla Lucifora

Fino a che punto la moda può smaterializzarsi? Il futuro è nel digitale? L'importante è non dimenticarsi delle persone

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FASHION

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a moda è fatta di persone. Persone la ispirano, la disegnano, la creano, la realizzano. Persone la indossano, la mettono in mostra, la sfoggiano. Persone, ancora, la discutono, la teorizzano, ne parlano. La moda è fatta di corpi fisici, tangibili. I suoi luoghi sono quelli dell’evento, dell’incontro, dell’evidenza: passerelle, showroom, stanze piene di sedie, di buffet, di flute, di red carpet, di fotografi. Senza gli occhi degli altri, cosa sarebbe l’abbigliamento? Senza occasioni d’uso, cosa sarebbe l’haute couture? L’abito si prova, si misura. Il tessuto si tocca, si confronta, si sente sulla pelle. La moda ha dato per scontato le sue modalità, raffinandole senza mai cambiarle in un continuo gioco di variazioni sul tema. L’importanza assoluta dell’impatto visivo non è mai stata messa in dubbio, diventando ogni volta più importante della precedente. Così, per esempio, le sfilate diventano tematiche, mitiche, esagerate o

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smaccatamente spoglie. La componente visiva in presenza, per la moda, è talmente importante che a metà dell’Ottocento i negozi hanno iniziato a sfruttare le vetrine per invogliare i passanti ad entrare. Negli anni, per definire l’attività che consiste nell’osservare e commentare le vetrine è nata l’espressione “window shopping”. Comprare con gli occhi. Essere lì, nelle vie della moda, per il puro gusto di esserci. Neanche l’e-commerce è riuscito a sostituire del tutto il bisogno della presenza. La moda, dopotutto, è soprattutto esperienza. Con l’emergenza COVID-19 la presenza ha improvvisamente smesso di essere scontata. La moda ha perso uno dei suoi capisaldi più solidi. Il contatto. L’occasione. L’evento. Tutto è stato messo in discussione. Le fashion week sono state rimandate momentaneamente, alla ricerca di nuove modalità, mentre diverse soluzioni venivano proposte.

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La più dirompente, perché sfrutta appieno la tecnologia diventando un’esperienza unica nel suo genere, è quella di Hanifa. Il brand di Anifa Mvuemba ha suscitato nel maggio del 2020 stupore e meraviglia con una sfilata del tutto virtuale, in diretta su Instagram. La marcia in più? Gli abiti sfilavano indossati da modelle invisibili, in 3D. L’effetto visivo è stato stupefacente e il video è diventato virale. La collezione “Pink Label Congo – Le coeur de l’Afrique” è stata ammirata in tutta la sua purezza, in assoluto. Abiti dai colori della terra, paesaggi che si muovevano con una vita propria, modellati su corpi immaginari in uno spazio vuoto, inesistente. “Ideare una sfilata completa usando modelle in 3D è stata una svolta, per me” ha dichiarato Anifa a Teen Vogue. “Richiede un’attenzione ai dettagli ancora maggiore, per far sì che gli abiti calzino alla perfezione. Sapevamo che molte persone non avrebbero mai potuto partecipare a una sfilata o a uno showcase, per questo abbiamo voluto creare qualcosa per coloro che ogni giorno ci mostrano il loro supporto. Instagram è così diventato una scelta ovvia. Un perfetto esempio di innovazione ma anche di condivisione. La dimostrazione che anche senza persone in carne e ossa, rimane fortissima la consapevolezza della loro importanza, insostituibile nel sistema. Non tutti, però, hanno i mezzi o la volontà di rivoluzionare le modalità classiche.

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Aurora James è la designer e fondatrice di un piccolo brand di accessori, Brother Vellies, che pone una grande attenzione alla sostenibilità, all’etica e all’artigianalità delle sue creazioni. Ebbene, ha ideato un modo per essere vicina ai suoi clienti, anche a distanza. È nato così Something Special, una sorta di abbonamento mensile. Brother Vellies produce in piccole quantità all’interno di comunità accuratamente scelte in Sud Africa, Kenya, Messico, Marocco, Etiopia, Burkina Faso, Italia, Haiti e New York City. Questo sistema permette di fare arrivare in casa di tutti coloro che si sono iscritti, ogni mese, un oggetto speciale, realizzato nel rispetto delle tecniche artigiane di una di queste comunità. Famose su Instagram sono diventate, ad esempio, le tazze messicane in cui la fondatrice ogni mattina mescola latte e caffè, mostrando tutte le sfumature ambrate della bevanda.

Un modo per sentirsi vicini e per continuare a sostenere il proprio brand preferito anche quando, come in questo caso, è stato costretto a chiudere i suoi punti vendita. In Italia, gli sforzi della comunità della moda si sono rivolti in un’altra direzione ancora. Da mesi ormai, attraverso comunicati ufficiali, diverse figure rappresentative del settore hanno offerto il loro punto di vista. La direzione scelta? Un cambiamento radicale del sistema e del calendario tradizionale, legato alle stagioni p/e e a/i. Libertà assoluta di mostrare quando e dove si vuole, di riprendersi il proprio tempo creativo senza dover rispondere a obblighi esterni o superiori. Collezioni dimezzate e per questo più curate. Il primo a comunicare questa intenzione è stato Giorgio Armani, all’inizio del mese di maggio. Per lui, nel futuro, due sole sfilate. A settembre e a febbraio. Entrambe a Milano. Alta Moda compresa, senza stagionalità.

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“Da tempo dico che dovremmo rallentare il passo. Ho sempre pensato che questo bisogno eccessivo di mostrare sempre più collezioni e capsule speciali rispondesse a una forte esigenza del sistema più che a una reale richiesta della clientela, generando le sfilate-spettacolo delle pre-collezioni in una specie di tour per il mondo, e saturando i negozi. Questa tremenda esperienza ci lascia una lezione importante: risparmiare, fare di più e meglio, con meno. Io stesso voglio fare di questo concetto un modello per il mio business”. Dello stesso avviso anche Alessandro Michele, istrionico direttore creativo di Gucci. “Nel mio domani, abbandonerò il rito stanco della stagionalità e degli show per riappropriarmi di una nuova scansione del tempo, più aderente al mio bisogno espressivo”, scrive lo stilista su Instagram. “Ci incontreremo solo due volte l’anno”. Secondo Michele Ciavarella, giornalista di moda che sul Corriere della Sera cura una rubrica intitolata “Cambiare la moda – I temi della ripresa”, a cambiare non saranno solo le modalità espositive, ma anche quelle della creatività, della vendita e della comunicazione. Tutto suggerisce un futuro più libero e meno strutturato. Ma nello stesso tempo profondamente dipendente dal marketing digitale.

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L'arte del bere bene

Il Whisky del Sol Levante oggi piace anche agli scozzesi di Gabriele Gambini

Un tempo era sottovalutato: oggi è tra i migliori al mondo e insidia il primato occidentale per sapore ed estetica delle bottiglie

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ervite un bicchiere di whisky giapponese a un medio appassionato di distillati scozzesi. Occultate l'etichetta della bottiglia, tenetelo all'oscuro della sua provenienza. Lo gusterà con l'ingordigia sofisticata di chi fa del rito del bere bene un privilegio. Ma quando gli rivelerete che è frutto dell'ingegno del Sol Levante, salterà sulla sedia. "Whisky dal Giappone?", si chiederà, contraendo la mascella in una maschera che lo renderà simile a un napoletano a cui è stato appena rivelato di aver assaggiato una pizza neozelandese. Sono gli inconvenienti del purismo dogmatico: quando è applicato a cibi e prodotti portabandiera di una spiccata rilevanza geografica, c'è poco spazio per il relativismo culturale. E però il Giappone da tempo ha fatto breccia nel cuore degli amatori di bevande d'alta classe. Di più. Il whisky nipponico sta vivendo la sua età dell'oro. Oggi le sue bottiglie sono molto richieste in Occidente, la produzione fatica

Credit: Suntory

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a stare al passo con una domanda che non conosce crisi e abbraccia uno spettro di consumo ampio, a portata di tutte le tasche. Con picchi da capogiro. Una bottiglia di Yamazaki invecchiato 50 anni, prodotto dall'etichetta Suntory, è stata venduta all’asta per la cifra record di 343.000 dollari. Scalzando il primato mondiale di prezzo raggiunto per una bottiglia di whisky standard, non appartenente a edizioni celebrative. Nel 2017, il Giappone ha vinto alcuni noti premi di settore, il “World’s Best Blended Whisky”, “World’s Best Grain Whisky”, e “World’s Best Single Cask Single Malt Whisky” ai World Whiskies Awards e ha saputo ripetersi nel 2018 migliorandosi con il “World’s Best Blended Limited Release”. Merito del sincretismo tra una maniacale ricerca di perfezione e un'estetica capace di entrare nell'immaginario collettivo con tinte di esotismo, pionierismo, resistenza ai luoghi comuni. Fede, dedizione, sperimentazione, il crederci quia absurdum. La storia del whisky del Sol Levante ha radici piuttosto giovani - collocate all'inizio del '900 - corroborate dalla rivalità tra due aziende che ricorda la disfida ciclistica

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tra Coppi e Bartali: la Suntory e la Nikka Whisky. Nel panorama variegato delle produzioni giapponesi, sono i due nomi più popolari. Ma sarebbe stato impossibile imbastire una storia di successo senza un profeta ammantato di aneddotica leggendaria. Si chiama Masataka Taketsuru. Nato nel 1894 a Takehara, nei pressi di Hiroshima, nel 1918 si trasferì in Scozia per studiare chimica organica all'Università di Glasgow. Non era una novità per i tempi. Il Giappone si era da diversi decenni aperto al mondo occidentale, intuendo come uno studiato mix di tecnica europea e spirito nipponico avrebbe sviluppato la propria economia elevandola al rango di prima potenza del Pacifico. Il giovane Masataka iniziò a frequentare la famiglia alto borghese dei Cowen, diventando il precettore di arti marziali del rampollo Campbell. Neanche quello era un inedito. Già alla fine dell''800, sir Arthur Conan Doyle, plasmando il suo eroe letterario Sherlock Holmes, gli attribuì la specializzazione nel "Bartitsu", tecnica di combattimento scientifica, nata dalla fusione tra arti marziali e pugilato inglese, che certificava la fascinazione britannica per la nobiltà guerresca dell'estremo oriente. Campbell Cowen aveva una sorella maggiore, Rita. Masataka si innamorò di lei e, come nel più classico intreccio da feuilleton, la sposò nel 1920. Insieme tornarono nella terra del Crisantemo, cercando di trasformare un vecchio pallino di Taketsuru in realtà: creare una gamma di whisky capace di rivaleggiare con le più famose produzioni scozzesi. Quest'ambizione trovava terreno fertile. Nel 1923, il signor Shinjiro Torii fondò la Yamazaki, la prima distilleria commerciale giapponese di whisky di malto. La compagnia di Torii, la Kotobukiya (l'odierna

Credit: Suntory

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Suntory) produceva diverse merci, dal vino al dentifricio, espedienti economici per finanziare un sogno: superare l'Occidente nella creazione di whisky pregiato. Torii assunse Masataka Taketsuru nell'azienda, sfruttandone le competenze maturate in Scozia. A Taketsuru fu affidata la gestione del ciclo produttivo. Ma due galli nel pollaio erano destinati a scontrarsi. Taketsuru voleva un whisky dal sapore intenso e pervasivo. Torii pensava a bevande eleganti, ma delicate, compiacenti verso il palato dei suoi connazionali, foraggiato da secoli di sake. Nel 1934, con un gruppo di investitori, Taketsuru si mise in proprio. Fondò la sua distilleria nell’Hokkaido, la Yoichi - la futura Nikka - attingendo dall'eccellente materia prima a disposizione nel Paese.

a guerra finita, nonostante le disastrose condizioni economiche della ricostruzione, il consumo di whisky non diminuiva, complice la presenza di forze armate statunitensi assetate sul suolo nipponico. I decenni successivi garantirono alle due aziende, con correttivi ed esperimenti costanti, l'egemonia sull'Arcipelago. Ma il mondo non era ancora stato conquistato. E nei rampanti anni '80 rischiò addirittura di allontanarsi. La moda dello shochu, un distillato di riso tipico, aveva avuto il sopravvento, innescando una spirale nefasta che ridusse del 60% la produzione nazionale di whisky. Fino ai primi anni del Duemila, quando un'attenzione alle strategie promozionali, un'estetica delle bottiglie in grado di permeare l'immaginario con l'eleganza di chi persegue un egotismo visuale lontano, catturarono l'occhio dei critici internazionali di settore. Il resto è storia recente, con il presidio degli avamposti europei e americani che strapperebbe più di un applauso al signor Masataka Taketsuru, morto nel 1979, oggi sonnecchiante osservatore dalla terra di Yomi, l'aldilà secondo la cultura shintoista.

Arrivò il 1941, l'imperatore Hiroito entrò a gamba tesa nel secondo conflitto mondiale. Le due compagnie approfittarono del confronto bellico: il whisky era la bevanda più richiesta dai soldati al fronte. Suntory e Nikka potevano confrontarsi senza bisogno di ingenti operazioni di marketing. Anche

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Il perfetto connubio

Donne e motori: una storia che passa anche dall’abbigliamento di Priscilla Lucifora

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La moda ha contribuito più di quanto si possa pensare al processo di emancipazione della donna, soprattutto nella sua declinazione legata allo sport, o alle automobili

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he cosa mette in relazione Marilyn Monroe e gli pneumatici? Lo sport, la tecnologia, gli impermeabili e l’emancipazione della donna? La risposta è più semplice di quanto possiate pensare: stiamo parlando della moda. Moda e società vanno di pari passo sin dall’invenzione dell’abbigliamento. Mentre il mondo cambia il vestiario cambia insieme a lui, si adatta. Nuovi capi vengono creati per rispondere a nuove esigenze. Un esempio banale ma significativo è quello dell’abbigliamento femminile da lavoro e sportivo. Secondo Sofia Gnoli, storica della moda e giornalista, per la storia dell’emancipazione femminile lo spartiacque più importante è la Prima guerra mondiale. Secondo Giorgio Riello, invece, a cambiare davvero le cose fu quella che lui definisce l’ “invenzione dello sport e del tempo libero”, risalente alla seconda metà dell’Ottocento. Sono vere entrambe le cose, probabilmente. Da una parte infatti lo sport cambia completamente la moda, chiedendo a gran voce un abbigliamento diverso e, di fatto, spianando la strada verso quello spaventoso simbolo di emancipazione che sono stati i pantaloni da donna. Dall’altro lato è proprio durante la Prima guerra mondiale - quando le donne hanno iniziato a lavorare anche in campi considerati prima strettamente maschili - che la tradizionale divisione di ruoli tra i sessi si incrina definitivamente. Il risultato è una moda

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femminile mascolinizzata, semplificata, androgina, libera. Basti pensare alla tennista di Jean Alexandre Patou e a quella che venne definita “la moda povera” di Coco Chanel che, come una volta ha detto Janet Flanner: “Ha vestito le regine con tute da meccanico!” Lavoro e sport non sono e non devono essere considerate scindibili, soprattutto quando si considera il lento ma costante percorso storico nella sua totalità. L’automobilismo è l’esempio perfetto di pratica considerata sportiva ma che risponde anche ad esigenze pratiche. È insieme mezzo di trasporto, sport e nuova forma di intrattenimento. L’invenzione dell’automobile, come quella della bicicletta e della motocicletta prima e dell’aviazione poi, ispira nuove forme di vestiario. Scarpe comode per utilizzare i pedali, abbigliamento leggero, che consenta i movimenti e che non risulti insopportabile da tenere addosso durante i viaggi lunghi. Protezioni per testa e viso, soprattutto se parliamo di automobili cabrio, soprabiti. Le donne si affacciano con interesse nel mondo dei motori. Moda, design e pubblicità si fanno così interpreti di questo

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rapporto, da sempre sminuito ma in realtà ben presente. L’emancipazione, dopotutto, passa anche attraverso la guida. Lo sa bene il Mauto, Museo dell’Automobile di Torino, che nel marzo del 2019 ha organizzato una visita guidata che mirava ad esplorare da un punto di vista diverso il binomio donne e motori. Anche il titolo era molto eloquente: “L’automobile: sostantivo di genere femminile”. A volte, poi, il movimento è inverso. E così è l’automobile stessa, nelle sue componenti e nei suoi materiali, a ispirare la creazione di articoli di abbigliamento. Con esperienze industriali che mettono insieme la produzione di elementi automobilistici, di moda e di design. Un esempio tutto italiano di questo connubio inscindibile è la storica azienda Pirelli. Oggi a questo marchio associamo prima di tutto la produzione di pneumatici, ma non è sempre stato così. La storia ha inizio nel 1873. Nel complesso milanese per la lavorazione di gomma naturale e caucciù prende il via la produzione di articoli da merceria: soprabiti, mantelle, cappotti. Capi tecnici, per viaggiatori. Ben presto questa produzione si allarga, arrivando nel 1877 a cuffie e costumi da

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“Il risultato è una moda femminile mascolinizzata, semplificata, androgina, libera”

L’esperienza Pirelli, seppur unica nel suo genere, non è la sola. Nel 1963, ad esempio, viene brevettato da Gianni Mostile il marchio italiano The Original Car Shoe. Il nome parla chiaro: l’ispirazione per questi mocassini è l’automobile. La volontà è quella di creare una scarpa comoda e versatile, che permetta una buona presa sui pedali. Sul sito del brand, che nel 2001 è stato acquisito da Prada, il modello storico e iconico - il mocassino con la suola fatta di piccole sporgenze di gomma - si chiama proprio Driving Shoe. Più chiaro di così.

bagno, tacchi, soprascarpe, cinture da nuoto e ancora, negli anni Venti e Trenta del Novecento, impermeabili e stoffe impermeabilizzate, pinne e mute. Torna il nostro legame tra automobile, tempo libero, sport e abbigliamento sportivo, mentre Pirelli è sempre più glamour. A contribuire a questa nuova immagine sono le indimenticabili campagne pubblicitarie, in cui vediamo donne e uomini al volante indossare l’abbigliamento Pirelli. Ma anche le collaborazioni con artisti di fama mondiale (ricordiamo Alberto Bianchi, Fulvio Bianconi, Renato Guttuso, Bob Noorda e Giorgio Tabet) e l’efficace creazione di una vera e propria cultura Pirelli fatta di velocità, qualità, modernità e classe. Indimenticabile a questo proposito il poster pubblicitario del 1952 per il Pirelli Lastex, costume realizzato con il filato in lattice di gomma da cui prende il nome. Protagonista di questa immagine, che ritrae una ragazza di spalle sulla spiaggia con un costume intero bianco e un ombrellino per ripararsi dal sole sottobraccio, è una non ancora famosa Marilyn Monroe. L’importanza di questo capo è duplice. Il tessuto Pirelli, infatti, elastico e sottile, contribuisce anche alla lenta ma progressiva “liberazione” della donna dall’abbigliamento tardo Ottocentesco e primo Novecentesco, anche al mare.

Pubblicità dei pneumatici Pirelli e dei filati elastici Lastex per costumi da bagno, rivista Pirelli, 1952 (Fondazione Pirelli)

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ESCAPES

Mete da sogno

AlUla: un viaggio nel tempo tra le dune del deserto di Beatrice Anfossi

La regione dell’Arabia Saudita si apre al turismo, per mostrare al mondo i secoli di storia che l’hanno resa un tesoro inestimabile

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na regione grande all’incirca come la Lombardia, situata a nord di Medina; un viaggio nel tempo fino all’età del Bronzo, un salto nel vuoto del deserto, un volo in mongolfiera. Nell’ottobre del 2020 l’Arabia Saudita aprirà al turismo internazionale la regione di AlUla, tesoro archeologico che ospita diversi siti dichiarati Patrimonio mondiale dell’UNESCO. Una zona crocevia di popoli fin dalla Preistoria, che ha visto susseguirsi diverse civiltà. Dal regno Nabateo alla dominazione romana, fino al periodo islamico. Una stratificazione di culture che si mostra in tutta la sua complessità e insieme lampante semplicità: un tesoro storico da ammirare, custodire e proteggere. AlUla ha rappresentato per secoli un punto nevralgico – un’oasi di pace in cui trovare ristoro e riposo – lungo le rotte di scambio di incenso, mirra e altre materie prime che provenivano dall’Arabia meridionale, dirette a nord verso l’Egitto e oltre, verso l’Europa. Una valle circondata da montagne di arenaria, che per millenni l’hanno protetta definendone il profilo e la maestosità. Proprio da questa pietra è nata Hegra, primo sito dell’Arabia Saudita a essere dichiarato patrimonio mondiale dell’UNESCO. L’antica città, con un’estensione di circa 52 ettari, è stata la più importante del regno

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di Nabateo, in un periodo compreso tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Poi, con la conquista romana, divenne l’avamposto più meridionale dell’Impero. Ricoprì quindi per centinaia di anni un ruolo di spicco, testimoniato dai suoi splendidi monumenti funerari. Intorno all’insediamento urbano infatti, ancora oggi si possono ammirare le oltre centotrenta tombe scolpite in enormi affioramenti di arenaria, che continuano lasciare a bocca aperta. Ma la città di Hegra non è l’unico sito storico e archeologico di rilievo nella regione, e soprattutto non il più antico. Al-Khuraybah, l’antica Dadan, è una città costruita nella pietra e considerata una delle più sviluppate del I millennio a.C. nella penisola arabica, capitale dei regni di Dadan e Lihyan. La sua prosperità era dovuta al ruolo centrale che il sito svolgeva lungo le tratte del commercio di incenso a lunga distanza, diretto verso il Mediterraneo. Gli scavi archeologici, condotti dalla King Saud University, hanno portato alla luce colossali sculture di figure umane – probabilmente situate all’interno di un più ampio tempio – oltre che diverse iscrizioni in arabo antico. I siti di AlUla sono oggi una sorta di Babele a cielo aperto. In quelle terre infatti si sono incontrate nel corso dei secoli lingue anche molto diverse tra loro – aramaico, minaico, nabateo, arabo e latino – che hanno lasciato centinaia di iscrizioni ed epigrafi destinate a durare nei secoli. Quando poi nel VII

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secolo d.C. venne fondato l’Islam e La Mecca venne scelta come capitale spirituale, due insediamenti in particolare nella valle dell’oasi divennero un luogo di ristoro ideale lungo il percorso di pellegrinaggio, Qurh e AlUla. Quest’ultima in particolare era una delle tappe della ferrovia di Hijaz, la cui costruzione ebbe inizio nel 1900 ad opera dell’Impero Ottomano, con il sostegno della Germania. L’obiettivo del progetto era collegare la città di Damasco a La Mecca, ma la costruzione venne interrotta a Medina. Dopo essere stata danneggiata nel corso della Prima guerra mondiale la ferrovia venne smantellata e oggi non rimangono che alcuni manufatti e binari abbandonati. Ancora oggi però questi resti testimoniano il ruolo di spicco che la regione ha sempre avuto nell’area araba e

nel collegamento tra il Mediterraneo e il Medio Oriente. È questo ruolo centrale e significativo che AlUla vuole ritrovare aprendosi al turismo internazionale, forte di secoli di storia e di paesaggi mozzafiato. L’incontro tra la bellezza della natura e l’ingegnosità umana ha infatti prodotto – e continua a produrre – spettacoli di incommensurabile fascino. E se quello che già c’è va protetto e custodito con cura, è importante nello stesso tempo guardare al futuro e aprirsi all’innovazione. Con questo spirito nella zona sono nati lussuosi resort che uniscono l’esperienza del deserto più puro a tutti i comfort che una vacanza richiede. O ancora si è concretizzata la possibilità di assistere a veri e propri concerti immersi nell’abbraccio della natura: proprio in

Credit: Royal Commission for AlUla #experiencealula | @experiencealula www.experiencealula.com

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ESCAPES

quello spazio incontaminato è sorta infatti la Maraya Concert Hall, un gigantesco cubo fatto di specchi che si integra perfettamente nel paesaggio circostante, riflettendolo in un gioco infinito di prospettive da togliere il fiato. Dopo aver ospitato artisti del calibro di Andrea Bocelli la Maraya Concert Hall è entrata nel Guinness World Records™ per essere l’edificio a specchi più grande del mondo. La parola “Maraya” in arabo significa proprio specchio e l’edificio, non a caso, ha ricevuto l’appellativo di “meraviglia riflessa”. Un esempio perfetto di come l’intervento umano non debba per forza stravolgere l’ambiente che lo ospita, ma possa al contrario valorizzarlo e rispettarlo. È proprio questa la mission che la Royal Commission for AlUla si è posta nell’attuare il piano di riqualificazione e sviluppo della zona, perché è giusto che tali bellezze siano accessibili a quante più persone possibili. Senza dimenticarsi però di fare in modo che anche tutti coloro che verranno dopo di noi possano ammirarle, perché il passato continui a incontrare il futuro.

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ESCAPES

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AUTOMOTIVE

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DESIGN

Design a misura d'uomo

Progettare esperienze di Alessandro Biamonti* Come il design sta imparando a produrre significati più che semplici soluzioni estetiche, in una società in cui è necessario superare il concetto di “consumatore” per tornare a parlare alle persone

*Architetto, PhD in Disegno Industriale e Comunicazione multimediale Professore Associato presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano

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DESIGN

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esperienza dell’acquisto, sia di prodotti che di servizi, deve ormai fare i conti con un pubblico preparato, per il quale diventa importante – a volte addirittura cruciale – la questione dell’identità del venditore. Identità che non va intesa nel mero senso di immagine, ovvero ricondotta ad una questione puramente estetica da attribuire ad un luogo. Il tema della progettazione dell’immagine coordinata, degli spazi interni e così via ha assorbito molte energie progettuali negli ultimi decenni, arrivando a generare concept di altissimo livello, ormai presenti in tutto il mondo. Concept di spazi e ambienti che però a volte rischiano di risultare una sorta di make-up di situazioni meno interessanti, o di prendere il predominio sul concetto più generale di Identità. Infatti, se negli ultimi decenni si è posta molta attenzione ed energia verso gli spazi, a cui il personale doveva adattarsi, domani sarà forse più importante partire dalle persone e creare luoghi dove poter

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attivare relazioni sincere tra esseri umani. Questo perché ormai siamo un “pubblico” più preparato, pronto a cogliere la sincerità di un prodotto o servizio. Da anni assistiamo ad un fenomeno interessante, nuovo se confrontato con le epoche precedenti, sul fronte dell’estetica: la continua conferma di come la contemporaneità non abbia un unico linguaggio, ma anzi come una delle caratteristiche della nostra epoca sia proprio la compresenza di linguaggi differenti, a volta anche radicalmente contrastanti. Il linguaggio è certamente responsabile della condizione estetica, ma contribuisce anche – non va dimenticato – quando si tratta di un linguaggio proprio, originale e chiaro, alla costruzione delle condizioni di comfort ambientale di uno spazio, soprattutto in riferimento ad una dimensione esperienziale dell’acquisto. L’esperienza dei luoghi del commercio è

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una delle caratteristiche della vita urbana, in quanto questi luoghi sono storicamente un elemento importante delle nostre città, che coinvolge aspetti estetici, economici e sociali. Oggi esistono già da tempo situazioni dove pubblico e privato sono definiti da soglie fisiche meno percepibili. L’affaccio su strada, tipico dell’esperienza classica a cui siamo abituati, rappresenta una soglia ed un luogo dove sono ancora possibili ampi margini di manovra in termini comunicativi, tipologici, esperienziali. Emerge quindi l’esperienza urbana di questi luoghi, che sono e saranno sempre più in futuro oggetto di sostanziali modifiche basate sulle nuove modalità di commercio, unitamente alle nuove modalità di relazione. Rischia oggi di essere fuori luogo l’etichetta “consumatore” e peggio ancora il più tecnico “cliente”, in quanto tali termini hanno costituito il punto di riferimento di un’esperienza tipica del secolo scorso. Un’esperienza che si basava su un’interazione di natura puramente commerciale, mettendo in relazione vendita e acquisto, con una dinamica all’interno della quale, oggi, avrebbe forse la meglio solo la migliore offerta economica, che probabilmente si troverebbe in quello che viene proposto online. Il superamento di questo può avvenire attraverso un rapporto creato con persone. Non “profili” o “personas”, ma reali esseri umani, tra i quali esiste la dimensione di un dialogo diretto e soprattutto può essere avviata una dinamica finalizzata alla costruzione di fiducia reciproca.

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DESIGN

Nel confronto tra persone si apre quindi la più ampia questione antropologica delle emozioni, che trova una collocazione anche all’interno delle riflessioni in atto nell’ambito del design degli spazi. Riflessioni che ampliano il ruolo e le responsabilità del progettista, sulla base delle attuali condizioni di ampia possibilità di scelta. La componente emozionale delle esperienze e dei luoghi è oggetto di attenzione, in quanto rappresenta una frontiera inedita del progetto. Una dimensione non più ancorata alle questioni tecnico-prestazionali, quanto piuttosto a un livello esperienziale, di natura molto più ampia, che necessità una nuova conoscenza e nuovi strumenti. Infatti la vasta possibilità di scelta oggi presente sul mercato rende necessaria una grande capacità di selezione e interpretazione. Caratteristiche che non possono che essere coltivate soprattutto attraverso l’esperienza e una buona dose di intuito personale. Queste riflessioni riguardano in realtà la dimensione del progetto nel suo complesso ed hanno come elemento centrale lo spostamento dell’obiettivo principale, dalla produzione di soluzioni alla produzione di senso. Rispetto ad una stessa necessità, esiste un vasto repertorio di soluzioni a

disposizione per il raggiungimento di un risultato, con la possibilità di declinarle su differenti linguaggi. Questa situazione è principalmente frutto delle crescenti possibilità che le tecnologie digitali ci consentono e, soprattutto, dell’enorme massa di informazione che viene veicolata in tempo reale, teoricamente senza limiti geografici. La produzione di senso, nell’accezione di significato, è invece un’operazione più complessa, che vede le possibilità tecnologiche come strumenti che, per quanto efficaci, sono a servizio della visione personale del progettista, che assume così il ruolo di regista dell’esperienza. Saranno quindi sempre meno le soluzioni tecniche tout-court ad emozionarci, quanto piuttosto la scoperta di nuovi significati e la messa in scena di esperienze inedite ad alto coinvolgimento emotivo.

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Summer Wedding

Idee per nozze romantiche sul Lago Maggiore di Daniela Puddu

Un matrimonio da sogno in luoghi ricchi di storia e bellezza, amati anche dalle star internazionali

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arrivo dell’estate ha avviato la cosiddetta wedding season. Complici le giornate lunghe e soleggiate, i mesi primaverili ed estivi sono quelli senza dubbio più gettonati dalle coppie per il proprio matrimonio. Se poi si aggiunge il fatto che l’emergenza sanitaria degli ultimi mesi ha costretto al rinvio di moltissime cerimonie e ricevimenti, ora è arrivato sicuramente il momento di ricominciare a sognare. I laghi italiani, con i loro paesaggi da cartolina e le eleganti strutture ricettive, hanno avuto un vero e proprio boom di prenotazioni negli ultimi decenni. Tra questi, uno di più gettonati è il Lago Maggiore. Le sue dolci sponde lo rendono un luogo perfetto per un matrimonio dallo stile elegante e romantico. Il Lago Maggiore rappresenta una meta ottimale anche per un Destination Wedding. Di che cosa si tratta? Il Destination Wedding è a tutti gli effetti un matrimonio “lontano da casa”, spesso svolto in un luogo al quale gli sposi sono particolarmente affezionati. Questa tendenza, nata ormai qualche anno fa, dà vita a tutti gli effetti a un matrimonio con un valore aggiunto: un viaggio, una luna

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di miele, un’occasione unica per stare con i propri cari e naturalmente festeggiare il proprio amore. Oltre al Grande Giorno vengono organizzate attività culturali, enogastronomiche e rilassanti che coinvolgono sposi e invitati, creando un clima di grande festa.

“Il Lago Maggiore rappresenta una meta perfetta per un Destination Wedding”

Perché scegliere il Lago Maggiore?

Diviso tre due regioni italiane – Lombardia e Piemonte – e la Svizzera, il Lago Maggiore è costellato di luoghi ricchi di storia e bellezza. Vediamone insieme alcuni: Stresa

Adagiata sul Golfo Borromeo, è una delle località più visitate della zona. L’elegante lungolago, con i suoi lussuosi alberghi e le dimore storiche, è un simbolo della maestosità del Lago Maggiore. Isole Borromee

Proprio di fronte a Stresa si trovano le Isole Borromee. Le tre più conosciute – Isola Madre, Isola Bella e Isola dei Pescatori molto diverse tra loro, incantano con la loro bellezza poetica ed a tratti pittoresca. Tre meraviglie tutte da scoprire. Pallanza

L’elegante cittadina, che insieme ad Intra costituisce il Comune di Verbania, è ricca di storia ed eleganza. Chiese, alberghi, ville, palazzi e parchi ne fanno una meta irrinunciabile per i visitatori del Lago Maggiore.

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che storicamente popolano i più conosciuti centri lacustri italiani, fanno il resto. Il Lago Maggiore è un luogo ricco di location favolose, che con la loro bellezza richiamano lo scintillio di un’eleganza senza tempo. Villa Claudia dei Marchesi dal Pozzo è una perla sulle sponde del Lago Maggiore. Nel 1827 fu dono di nozze di Ferdinando Arborio – Duca di Sartirana e Marchese di Breme – alla sua sposa, la principessa Luisa Dal Pozzo della Cisterna. La famiglia la scelse come propria residenza lacustre e ancora oggi la villa appartiene ai Marchesi Dal Pozzo d'Annone, che ne hanno saputo conservare quell'autentico sapore. La Villa, Residenza Storica, può essere raggiunta direttamente dal lago: l’arrivo degli sposi sarà così ancora più romantico e scenografico. Le sale – arricchite da

Arona

Passeggiando sulle sponde del Lago, Arona offre un paesaggio da cartolina verso la Rocca di Angera (da visitare!), posta sulla sponda lombarda del Lago. Protetta dalla famosa Statua di San Carlo, è una località vitale e giovane. Il centro è ricco di locali, ristoranti, gelaterie e negozi. La location – Villa Claudia dei Marchesi dal Pozzo

Molte coppie sognano di sposarsi su uno dei meravigliosi laghi italiani, ammirati da migliaia di persone provenienti da tutto il mondo. Le loro rive calme e silenziose e i paesaggi mozzafiato li rendono luoghi perfetti per scambiarsi le proprie promesse d’amore. Le sofisticate strutture ricettive,

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quadri di grande levatura e preziosissimi complementi di arredo – accolgono gli ospiti in un’ambientazione d’altri tempi, mentre le verdi terrazze, con vista diretta sul Lago, regalano momenti magici. La Villa può ospitare matrimoni civili legalmente validi, celebrati nella cornice mozzafiato offerta dal Lago e dalla magnificenza della Villa. La Villa dispone inoltre di una riservata piscina all’aperto, ad uso esclusivo della location. Il servizio, attento e premuroso, offre ai propri ospiti un indimenticabile soggiorno: la Villa dispone infatti di alcune suites e camere, luminose e finemente arredate, che renderanno il proprio Destination Wedding unico.

I consigli del Floral Designer Alberto Menegardi Non c’è matrimonio senza fiori. L’allestimento floreale dona significato, ricercatezza e colore all’evento simbolo dell’amore. Ma chi c’è dietro la scenografia dell’evento? Abbiamo intervistato Alberto Menegardi, uno dei più talentuosi ed eclettici Floral Designers italiani. Alberto è un artista floreale a tutto tondo, che si occupa non solo di matrimoni ma realizza anche scenografie per show room di prestigiosi brand, sfilate di moda, installazioni per eventi, arredi per particolari kermesse. Esperto vivaista, intraprende inizialmente un percorso lavorativo giocato su diversi fronti, fino ad approdare in una azienda di organizzazione eventi. Archiviata questa bellissima esperienza, nasce Alberto Menegardi Flower Designer, che diventerà anche volto del programma Rai Detto Fatto, in cui darà vita a originali composizioni basate su riciclo, ingegno e creatività: caratteristiche che continuano ad emergere in tutte le sue creazioni. Ora più che mai, Alberto è guidato infatti dal desiderio di lavorare steli e arbusti con attenzione allo spreco e rispetto della natura, guardando sempre al ciclo delle stagioni e studiando soluzioni green e sostenibili. I suoi lavori rispecchiano un approccio organico al mondo botanico, senza eccessiva invadenza. L’utilizzo dello stelo “come colto” – come se i fiori fossero germogliati spontaneamente in quel punto e si appropriassero degli spazi naturalmente – permette di creare composizioni eleganti e sofisticate. Una vision moderna che viene trasmessa anche agli studenti dei suoi corsi.

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rose, fiori rustici e da campo dai colori accesi. Girasoli, fiordaliso e graminacee doneranno vivacità e spensieratezza.

Quali sono le ultime tendenze in fatto di Flower Design?

La tendenza internazionale è avvicinarsi allo stile naturale e botanico, utilizzare accessori o dettagli ricercati e puntare sul colore acceso e vivace. Le coppie richiedono soprattutto allestimenti personalizzati che riflettano la loro personalità e gusti, emerge sempre di più il desiderio di inserire il colore preferito, la pianta più amata ed elementi che rispecchiano il percorso della coppia.

Cosa bisogna tenere presente per un matrimonio estivo? Suggerimenti?

Indipendentemente dalla stagione, bisogna tener conto delle temperature esterne per tutelare il fiore e prolungarne la durata. Pertanto, affidarsi ad un esperto è più che mai essenziale: la scelta migliore è concentrarsi sui fiori di stagione che sono più vigorosi e resistenti, anche per contenere i costi. Consiglio di non fissarsi su un determinato tipo di fiore anche se non è la sua stagione, ad esempio in estate si potrebbero sostituire le peonie con le rose inglesi.

Quali sono i fiori maggiormente consigliati e scelti per l'estate?

Se in primavera trionfano le peonie, molto amate dalle spose, per l’estate abbiamo

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ESCAPES

La nuova ammiraglia di Costa Crociere, inaugurata dalla madrina Penelope Cruz, parte per le sue rotte nel Mediterraneo Occidentale

Vacanze in relax

Costa Smeralda una regina sul mare di Franca Dell’Arciprete Scotti

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ESCAPES

I

l rito è ancora quello classico, seppure con un tocco di tecnologia all’avanguardia: la madrina taglia il nastro, la bottiglia di champagne si infrange sul bordo della nave e la nave è battezzata. Così, glamour ed emozionale, si è svolto anche il battesimo di Costa Smeralda, la nuovissima ammiraglia di Costa Crociere. Madrina la bellissima Penelope Cruz, fasciata di nero, sorriso smagliante, arrivata nell’enorme anfiteatro del Colosseo al centro della nave, al braccio del comandante Paolo Benini. Costa Smeralda parte sotto i migliori auspici: costruita nei cantieri di Turku in Finlandia, ha dimensioni imponenti: lunga 337 metri e larga 42; con 2612 cabine passeggeri, rappresenta un miliardo di euro di investimenti, con la previsione di ospitare nel suo ciclo di vita 10 milioni di passeggeri. L’importanza di Costa Smeralda appare anche nella cerimonia di inaugurazione a cui hanno partecipato in prima persona Michael Thamm, CEO del Gruppo Costa e Carnival Asia, Arnold Donald, presidente e amministratore delegato di Carnival Corporation e Neil Palomba, Direttore Generale di Costa Crociere. Una nave che, a detta degli appassionati crocieristi, promette di essere essa stessa una destinazione, prima ancora delle tappe che propone la sua rotta. Sedici ristoranti e aree dedicate alla “food experience”, tra cui l’innovativo e coinvolgente Ristorante LAB; la bellissima area Spa Solemio con ricca offerta di trattamenti; l’eccezionale Acquapark con lo scivolo posizionato sul ponte più alto; la spettacolare passeggiata Volare, a 65 metri di altezza; piscine esterne e interne, sale giochi, gallerie di

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shopping, casinò. E poi il CoDe - Costa Design Museum, il primo museo di design realizzato su una nave da crociera, che raccoglie in un percorso suggestivo 470 pezzi, oggetti iconici del design nella moda, nell’arredo, nell’automotive. L’italianità è la cifra stilistica di Costa Smeralda, sintesi della bellezza, dell’ospitalità e del design tipicamente italiani. “Sono molto orgoglioso di questa nave – ha detto Michael Thamm – vivo ormai da tre anni in Italia e da tempo pensavo all’opportunità di costruire una nave dedicata alla bellezza del Belpaese”. Sotto la guida dell’architetto Adam D. Tihany, hanno lavorato studi specializzati di interior design, scegliendo arredi di grandi griffe del design italiano: Cappellini, Cassina, Driade, Dedar, Flou, Kartell, Moroso, Alessi, Rubelli, Poltrona Frau.

Grandi brand italiani sono partner anche nelle aree specializzate: Illy caffè, Campari Bar, Aperol Spritz Bar, Nutella at Costa e Ferrari Spazio Bollicine, che ha fornito proprio la bottiglia Ferrari Trentodoc infranta sulla prua della nave al momento dell’inaugurazione. Gli ospiti più consapevoli apprezzeranno poi un altro punto forte di Costa Smeralda, l’ecosostenibilità, che ne fa una vera e propria “smart city” itinerante, dove si applicano tecnologie sostenibili e concetti di economia circolare per ridurre l’impatto ambientale. Gli itinerari Nell’arco del 2020 Costa Smeralda propone una crociera nel Mediterraneo Occidentale, con scali a Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Civitavecchia/Roma e

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La Spezia, nel corso dell’estate farà tappa anche a Cagliari e poi a Palermo a partire dall’inverno 2020/21. Numerose sono quindi le escursioni possibili, organizzate dalla Compagnia oppure in libertà. Con le navette messe a disposizione dalla nave si giunge di solito in pieno centro: da qui si possono visitare facilmente a piedi Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, mete perfette durante la bella stagione ma godibili anche in autunno. A Marsiglia imperdibile il Porto Vecchio con il mercato del pesce, le barche ormeggiate e i colori pastello delle case che si sviluppano nel quartiere Panier. Barcellona ci attende con le Ramblas assolate, gli allegri chioschi di fiori, il Barrio Gotico con la splendida cattedrale Santa Maria del Mar, vicinissima alla riviera; una passeggiata speciale porterà poi a scoprire le case di Gaudì, davanti alle quali file lunghissime di turisti attendono di entrare.

Palma di Maiorca offre tutto l’incanto di un’isola del Mediterraneo: clima dolcissimo, viali di palme, colori e profumi. La cattedrale domina altissima sul mare e svela un interno sorprendente con il gioco delle luci colorate provenienti dai rosoni. Anche qui intorno alla cattedrale si snoda il quartiere storico, arabeggiante, fatto di vicoli, giardini di limoni e grandiosi portali in stile plateresco. Se invece si vogliono esplorare anche le zone intorno a queste città, le escursioni organizzate da Costa Smeralda permettono di approfittare al massimo della giornata di sosta. Ad esempio da Marsiglia si può partire per una giornata nel cuore della Provenza, visitando Arles e Saint-Rémy, oppure si può arrivare sino ad Avignone, la “città dei Papi”, classificata come patrimonio mondiale dell’Unesco. Chi ama la natura più autentica sceglierà invece l’escursione

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nella regione della Camargue, selvaggia e suggestiva, con le sue aree umide, gli aironi e i famosi fenicotteri rosa. A Barcellona le escursioni approfondiscono itinerari dedicati sia alla gastronomia sia ai capolavori di Gaudì più lontani dal centro, come il parco Guell e la Sagrada Familia. Ma si spingono anche ben più lontano, per esempio al monastero di Montserrat in montagna. Da Palma di Maiorca ci si può avventurare con escursioni organizzate verso il pittoresco villaggio di Valldemossa, reso celebre da illustri intellettuali; oppure verso le Grotte del Drago, che si snodano sotto terra fino a un lago sotterraneo, dove si svolge un suggestivo concerto di musica classica. Le città italiane non sono da meno. Basti pensare alla loro collocazione in zone di grande fascino, che fanno presa soprattutto sugli ospiti stranieri. Da Civitavecchia si parte per una lunga escursione a Roma con un tour panoramico del periodo classico, rinascimentale e barocco. Per chi conosce già Roma una escursione molto intrigante sarà invece quella alle terme di Saturnia, per scoprire un vero regno del benessere; oppure il tour verso il lago di Bracciano e il castello Odescalchi, dove il tempo sembra essersi fermato o ancora alla affascinante Civita di Bagnoregio, la “città che muore”. Da La Spezia e Savona si esplorano i tesori di Liguria e Toscana: le Cinque Terre, Monte Marcello, l’acquario e il porto antico di Genova, le antiche botteghe di Sarzana, i capolavori di Firenze, la Piazza dei Miracoli di Pisa.

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NUOVI CENTRI SPACES STANNO ARRIVANDO A MILANO. Un ambiente prestigioso e stimolante, dove nascono le idee, le aziende crescono e le relazioni evolvono. Un posto in cui puoi occuparti del tuo business, controllare le e-mail e organizzare le riunioni, e intanto goderti un’ottima tazza di caffè e un buon pranzo. Ora puoi trovarci a Milano nei centri Spaces Porta Nuova, Spaces Isola e Spaces San Babila. Prossime aperture Spaces Turati e Spaces Piazza Vetra. Visita il sito spacesworks.com/milan o chiamaci al numero 800 82 84 30 per saperne di più. Uffici, spazi di coworking, sale riunioni, community.

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All’epoca non lo sapevamo, ma stavamo plasmando la nostra vera identità aziendale, che oggi rappresenta il nostro successo

Etica & Made in Italy

Carbotti, il fiore all'occhiello dell'artigianato italiano di Cristina Occhinegro with compliments

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L'

azienda Carbotti nasce nel 1956 a Martina Franca, una piccola cittadina in provincia di Taranto, nell’entroterra pugliese. All’epoca, era una piccola realtà artigianale curata dal suo fondatore, Domenico Carbotti, un signore noto nel martinese per le sue virtù di gentilezza, riservatezza, ospitalità, oltre che capacità professionale. Un uomo che si era realizzato con l’impegno e la passione, muovendo i primi passi nell’artigianato tarantino fino all’apertura della sua ditta di borse; unico pellaio, all’epoca, a creare quel tipo di accessorio in zona. Un laboratorio - diventato poi azienda che i suoi figli custodiscono con cura e con orgoglio. Gianni, Angelo e Michele Carbotti, attenti ai gusti del pubblico e alla comunicazione pubblicitaria, hanno saputo dare una nuova impronta manageriale all’azienda; un salto verso il futuro che non ha mai smesso però di guardare alla tradizione e alla storia delle proprie radici.

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Immergendosi negli archivi storici è possibile osservare e studiare l'evoluzione delle borse Carbotti, vero e proprio simbolo del Made in Italy; oggetti e foto diventano la testimonianza di un periodo, quello del secondo dopoguerra, in cui la moda iniziava a farsi conoscere nei salotti aristocratici e borghesi. Si tratta di materiale prezioso, soprattutto se si considera che l'archivistica di quegli anni è molto scarsa. Si ottiene così il racconto della storia di un'azienda - di quell’heritage di cui oggi tanto si parla – ma soprattutto la visione reale della "fatica di un piccolo artigiano che trasforma la sua attività in un'azienda che si affaccia sul mercato internazionale", come disse Domenico Carbotti in un'intervista conservata negli archivi storici nazionali di Roma. Gianni Carbotti, che dal 2001 gestisce la parte commerciale e marketing dell'azienda, ha puntato tutto sul mondo

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del web e sull'esportazione, riuscendo a guadagnarsi una buona fetta di mercato negli Stati Uniti, in Giappone e in Uk. Una scommessa sui mezzi di comunicazione e scambio del futuro, che ha dato i frutti sperati. Angelo Carbotti è l'artigiano, colui che mette nel suo lavoro tutta la passione e l'amore che il padre Domenico gli ha trasmesso, curando con minuzia ogni minimo dettaglio, dal disegno alla scelta dei materiali, fino alla realizzazione vera e propria. Il codice etico aziendale infatti impone di eseguire le lavorazioni nel pieno rispetto dell’ambiente, tutelando la manodopera esclusivamente italiana, al fine di preservare la qualità di un prodotto unico e originale, realizzato sperimentando e facendo ricerca. Creare lusso diventa così sinonimo di attenzione per i dettagli, dedizione, ricerca ed esclusività, in una sola parola: artigianalità. Michele, invece, coadiuva l’attività di produzione. Il know-how acquisito collaborando con le più prestigiose concerie italiane, insieme alla tradizione decennale nella lavorazione artigianale di borse da donna in pelle, hanno permesso alla maison Carbotti di affermarsi sul mercato del lusso con ottimi risultati, anche all’estero. Punto di forza dell’azienda è la grande flessibilità e capacità di adattamento ai cambiamenti che la moda, i tempi e le esigenze impongono, senza sacrificare la tradizione e la manualità delle lavorazioni. Tradizioni a cui Gianni e Angelo sono particolarmente legati e che fanno parte degli archivi della storia della moda del Novecento.

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Vacanze italiane La tua estate all'insegna del relax nelle strutture selezionate dalla redazione

Gaiole In Chianti (SI)

Venezia (VE)

Fasano (BR)

Napoli (NA)

Raffinato e accogliente relais di charme con Spa e piscine nella campagna

Lasciatevi trasportare in un regno di fascino vintage senza limiti

Offre un connubio perfetto tra patrimonio locale e lusso

A pochi passi dal centro storico, con una meravigliosa vista mare

Castello di Spaltenna

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Masseria Torre Maizza

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Immerso in una rigogliosa pineta sulla spiaggia di Campolongu

All'interno di un parco secolare che domina il Giardino di Boboli

Al centro di una lussureggiante macchia mediterranea

Rifugio incantato dove vivere emozioni, immersi nella cornice del lago

Excelsior Belvedere Hotel

Villa Crespi Relais&Châteaux

Via Spaltenna, 13, 53013 Gaiole In Chianti (+39) 057 7749483 www.spaltenna.it

Hotel Stella Maris

Località Campulongu, 09049 Villasimius (+39) 070 797100 www.stella-maris.com

Villa Cora

Viale Machiavelli, 18, 50125 Firenze (+39) 055 228790 www.villacora.it

Via Emanuele Gianturco, 19, 80077 Ischia (+39) 081 991522 www.excelsiorischia.it

Via Giuseppe Fava, 18, 28016 Orta San Giulio (+39) 0322 911902 www.villacrespi.it

Lago Trasimeno (PG)

Milano (MI)

Potrete godere di una vista mozzafiato sul lago trasimeno

Il viaggio non avrà termine e troverai mondi che non ti stancherai di esplorare

Casa Mia

The Yard Hotel

Lago Trasimeno, Perugia (+39) 389 9344898 www.cmcasamia.com with compliments

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Piazza Ventiquattro Maggio, 8, 20123 Milano (+39) 02 89415901 www.theyardplaces.com

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