LUXURY PRÊT À PORTER - Numero sette

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PERSONE FABIO MANCINI SEBASTIEN JACQUES LUOGHI NORVEGIA THAILANDIA CILE TEMI REGINA ELISABETTA FOTORACCONTO SETTE Euro 10 | A.2023| ISSN 2704-7695 FOTO: ROBERTO SALA LIMITED EDITION BY
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Editoriale

Di tanto in tanto, passeggiando per le vie di qualche città italiana - e in generale occidentale - cerco con lo sguardo chi, seduto su di una panchina o magari in metropolitana, sta leggendo un giornale cartaceo o un libro. È sempre più raro trovare qualcuno che non abbia in mano uno smartphone e con lo sguardo e la gestualità non si uniformi a quello che sembra ormai un codice di condotta comune verso lo schermo luminoso. La mente mi ripropone in queste occasioni scene di vecchi film distopici come Minority Report o Equilibrium, in cui l’omologazione era una condizione imposta per mantenere la quiete sociale, quasi una sorta di anestesia della società civile per evitare che l’emotività umana, persino il richiamo della arti o dell’amore, potesse prendere il sopravvento e creare fratture nell’assetto organizzato e tecnocratico del mondo. La mia curiosa e feticistica “caccia al tesoro umana” nel cercare di individuare persone che in pubblico abbiano il coraggio di tirare fuori della carta - un libro, una rivista, un quotidiano, magari addirittura una propria agenda o un taccuino dove appuntare pensieri, frasi, i più virtuosi ed ispirati persino schizzi e disegni di pregio - ha fatto sì che io potessi seguire con l’occhio persone che a volte mi sono sembrate diverse dalle altre: interessanti, con una certa profondità, persino un po’ strambe. È stato forse quell’uso di un oggetto cartaceo ormai non proprio mainstream ad attirare la mia attenzione su di loro; o forse, ancora di più, il loro andare controcorrente esprimendo una propria essenza meno omologata ha permesso che fossero per me figure iconiche. Molto più di chi si veste, ad esempio, in modo del tutto improbabile alla ricerca dello sguardo curioso e meravigliato del potenziale pubblico. Non voglio far qui un’apologia della carta contro la tecnologia digitale, perché io sono, ahimè, uno di quelli che si aggira frequentemente con lo smartphone in mano. La mia è, forse, più una sorta di invidia verso chi riesce ad evadere agevolmente dalle dinamiche digitali, addirittura esserne immune o, se non altro, poco toccato. Se quindi noi non disdegniamo il digitale, ci inorgoglisce parecchio portare avanti e far crescere il nostro baluardo di carta; il rifugio delle idee, il custode delle parole e delle immagini che vogliamo non scorrano via con la rapidità e la brutalità del web, la sintesi tra pensieri e materia. Eccola qui, dunque, una nuova edizione di Luxury prêt à porter Magazine. Il “sette”, numero che vuol dire già tante cose e

ha parecchi richiami importanti, numero della filosofia e dell'analisi, ma anche della solitudine e della completezza. Sette sono anche i peccati capitali, i giorni della settimana, i sacramenti e decine di altre cose ancora.

Abbiamo lavorato moltissimo a questo numero “sette”, trascorrendo giornate intense e impegnative a Londra per documentare i funerali della Regina Elisabetta II, o intervistando personaggi giovani e interessanti e a loro modo dirompenti - un super modello internazionale che vuole insegnare qualcosa della vita lavorativa ai più piccoli e un ragazzo canadese che ha deciso di comunicare temi di solidarietà importanti semplicemente camminando lungamente. C’è chi di noi ha viaggiato nelle zone desertiche del Cile, lungo le coste della Thailandia e raccontato ben cinque mesi di vita norvegese, la Norvegia più vera e meno turistica che si possa concepire. Siamo andati oltre, non solo nella cura di testi e foto, ma nella lavorazione stessa della copia cartacea che, chi avrà voglia e fortuna di sfogliare (la tiratura è volutamente limitata per dargli il valore che merita) non potrà non notare. È stato costruito un vero e proprio laboratorio creativo per dare a questo “numero sette” un’anima forte a livello visuale e ci rende felici e onorati il fatto che questo progetto sia stato abbracciato da una realtà internazionale come Ricoh, che nel mondo della tecnologia è sinonimo di stampa digitale, ma anche di tanti altri prodotti noti per la loro altissima qualità. E così siamo usciti dalla nostra “comfort zone cromatica”, provocati proprio dallo staff di Ricoh Italia, che ci ha dato libertà creativa nell’utilizzare cromie vivaci e coinvolgenti, che difficilmente passano inosservate: i colori neon, ma anche l’oro e l’argento. Un’esperienza creativa unica: come avere a disposizione cavalletto, tela e colori e poter decidere di esprimere se stessi con il pennello che si ha in mano. Questo è il numero di Luxury prêt à porter Magazine che abbiamo deciso di proporre per celebrare il nuovo anno, il 2023, con l’augurio per tutti voi (e noi) che nella quotidianità ci sia sempre, anche solo per qualche istante, un bel colore squillante che ci regali emozioni forti, grandi ispirazioni e la realizzazione di desideri inespressi.

Buona lettura Filippo Piervittori

Contenuti

Otto

Fabio Mancini

Ventidue

Sebastian Jacques

Trentotto

Norvegia

Sessantaquattro

Thailandia

Settantasei

Cile

Novanta

Elisabetta

Fotoracconto

Filippo

I suoi segreti

La settima arte

Re Carlo

Centoventisei

Ricoh

Centotrentadue

Rudy Falomi

Masthead

Publisher & Editor-in-chief

Filippo Piervittori

Design & Art Direction

Luca Lemma

Managing Direction

Beatrice Anfossi

Editorial Team

Andrea Lehotska

Cristina Penco

Eleonora Galli

Franca Cutilli

Marianna Stefani

Nadia Pieri

Sara Radegonda

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Supplemento alla testata Rumors.it

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PERSONE

7 PERSONE | FABIO MANCINI

FABIO MANCINI

Basta essere perfetti

FRANCA CUTILLI

Dalle passerelle più prestigiose del mondo ai progetti nelle scuole, senza mai dimenticare le proprie origini. Il percorso di Fabio Mancini si potrebbe riassumere in poche parole, ma non gli renderebbero giustizia. La sua storia professionale è iniziata per caso, ma per rimanere all’apice così a lungo il caso non basta. Così come non è abbastanza la sola bellezza: servono valori saldi e testa sulle spalle. Dal momento in cui Giorgio Armani lo ha scelto per la prima volta a quando è diventato un’icona del brand sono trascorsi 15 anni, costellati di successi, set e riconoscimenti che lo hanno portato a toccare le vette più alte del mondo della moda. Nonostante tutto, Fabio Mancini non ha mai perso di vista l’obiettivo più importante: trasformare la fama in un veicolo per diffondere messaggi e valori positivi, in primis ai giovani. Per questo alla carriera di modello richiesto dalle più grandi case di moda internazionali, pur sempre grato e fedele a Giorgio Armani, ha affiancato progetti di natura differente, ma che ben fanno comprendere quanta profondità possa celarsi dietro un volto.

9 PERSONE | FABIO MANCINI
Credit: © Roberto Sala x Igloo Studios Milano Abiti: De Santis By Martin Alvarez Hairstyle: Beauty Call Plus

Classe 1987, nato in Germania da mamma indiana e papà italiano. Come ti sei ritrovato a Milano e sulle passerelle più importanti del mondo?

La mia è una storia di pura fortuna. Mia madre da giovane conobbe mio padre nelle Puglie, si innamorarono e scapparono in Germania, dove sono nato. Più tardi sono arrivato a Milano per necessità legate al lavoro dei miei genitori. Un giorno, camminando per le strade del Quadrilatero della Moda - zona in cui lavoravo part-time in un negozio - una persona che lavorava a stretto contatto con il signor Armani mi vide per strada e mi chiese di fare il modello. Così è iniziato tutto.

Nella tua lunga carriera di successo vanti una collaborazione davvero solida con Armani. Cosa significa per un modello avere all’attivo una partnership tanto importante?

Per un modello italiano lavorare per un’icona della moda italiana e mondiale, come lui, è molto bello. Ancora oggi, quando penso a questi 15 anni di collaborazione, mi sembra incredibile. Mi ha insegnato questo lavoro, ad amare la moda, a scendere in passerella con garbo, ad essere una persona elegante anche nella vita di tutti i giorni. Lo ringrazio sempre. È uno stakanovista sia nella vita che nel lavoro, sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, e da questo ho preso spunto.

11 PERSONE | FABIO MANCINI

Oltre 50 passarelle consecutive per Armani e 10 campagne pubblicitarie da protagonista. Con il re della moda italiana hai un rapporto personale oltre che professionale?

Il rapporto che c’è tra me e il signor Armani è sempre stato professionale. L’ho sempre frequentato solo a livello lavorativo e questo mi ha fatto capire molto su chi avessi di fronte. Tanti altri designer con cui ho lavorato mi hanno chiesto di passare del tempo insieme, ad esempio proponendomi un pranzo o un caffè in loro compagnia, mentre Giorgio Armani ha sempre tenuto una linea differente: lui era il designer e noi i collaboratori. Questo mi ha insegnato molto sul mondo del lavoro, ma anche della vita, soprattutto il rispetto per l’altro. Di persone come lui ce ne sono veramente poche: riesce a mettere un paletto tra la vita privata e quella lavorativa, una cosa estremamente complicata.

Che rapporto hai con in colleghi? C’è competizione o al contrario sono nate delle amicizie negli anni?

Personalmente non ho mai avuto nessun tipo di problema con i miei colleghi. Quando ho avuto di fronte modelli alle prime armi ho sempre tentato di metterli a loro agio. Dare un consiglio o del conforto in situazioni simili penso sia la soluzione più giusta e sono contento di aver agito così in passato.

Ora hai 35 anni. Dai tuoi esordi ad oggi pensi che il mondo della moda sia cambiato o sia pressoché lo stesso?

È un settore in piena evoluzione, che va di pari passo con il mondo attuale. Non è un caso che le collezioni si stiano semplificando: invece che andare di sei in sei mesi, iniziano ad essere uniche. È un discorso che riguarda anche gli sprechi: si sta andando in una direzione in cui la salvaguardia del mondo è al centro, anche per ciò che concerne la produzione degli abiti. La moda di oggi è portatrice di messaggi positivi.

12 PERSONE | FABIO MANCINI

C’è qualcosa che cambieresti del settore in cui lavori?

Sì, la superficialità. A partire dalle scelte sull’abbigliamento, spesso compiute in nome dell’apparenza. Lavorando con grandi artisti come Armani, Dolce&Gabbana o Vivienne Westwood, che ho visto arrivare sul set a piedi scalzi, mi sono accorto che le collezioni nascono dall’anima, dal cuore, da una storia.

Il tuo successo sulle passerelle e sui set si riflette sui social. Che rapporto hai con i tuoi follower?

È un rapporto molto onesto e sincero. Cerco di rispondere a tutti quando posso, tra un viaggio e l’altro. Quello che provo di trasmettere quando sono in contatto con loro, talvolta dal vivo, è che il mio Instagram è un’agorà di persone reali. Sono un amante della storia e le agorà, ai tempi dei greci, erano piazze in cui la gente scambiava idee, merci, energie. Il mio profilo Instagram è questo, il mio profilo Facebook è questo: cerco di rispondere a chiunque mi scriva, anche alle critiche. Alle persone che mi seguono voglio dire: “Il mio successo è merito anche del vostro supporto”.

14 PERSONE | FABIO MANCINI

Questa tua propensione al dialogo ha un risvolto positivo, che ti fa onore: la scelta di mettere il tuo volto al servizio di campagne in favore del benessere di bambini e ragazzi…

È un progetto di cui vado molto fiero. Lo porto avanti da circa un anno e mezzo. Sto cercando di girare per le scuole di tutta Italia per mettermi in contatto con i giovani. Voglio cercare di far capire loro che anche se lavori nella moda, sei un’icona, un modello importante o un imprenditore di successo, puoi fare due passi indietro, parlare del tuo percorso e delle tue difficoltà, mescolandole alle loro. I ragazzi sono il futuro e bisogna dar loro la possibilità di credere nei sogni, cosa che manca in questa Italia. Ho avuto un’educazione solida: non ho mai bevuto, non ho mai fatto uso di droghe, né ho avuto vizi plateali. Al contrario, ho sempre agito con l’intento di aiutare il prossimo.

È questo che vorrei trasmettere loro.

Cosa ti porti a casa da questi incontri?

16 PERSONE | FABIO MANCINI
Mi porto a casa la testimonianza di tanti ragazzi che stanno affrontando un periodo delicato. Un giorno, una di loro mi ha scritto: “Sono tornata a casa e ho abbracciato mamma, non lo facevo da mesi”. Vuol dire che il messaggio che sto lanciando è positivo, va nella giusta direzione. FABIO

Pensi che la tua bellezza abbia spinto gli altri talvolta a sottovalutarti, o al contrario sopravvalutarti?

È una domanda che mi pongo tuttora. Sono circondato sempre da tantissime persone: giornalisti, ragazzi normali, famosi o meno. Non so mai se le persone siano attratte da me o vengano da me per il personaggio che sono, per i vantaggi che possono trarre o semplicemente per passare qualche minuto a parlare. Questo è il dilemma più grande della mia vita.

MANCINI

C’è un’esperienza in particolare che ti ha fatto pensare che qualcuno si stesse avvicinando a te solo per essere il volto iconico di Armani e non per la persona che sei davvero?

Tutti i giorni, anche quando vado a fare la spesa.

Per il futuro hai progetti che puoi rivelarci?

Il mio obiettivo più grande per il futuro è avere una famiglia, trasmettere ai miei figli quello che ho imparato con il mio lavoro e soprattutto avere una donna che mi ami per ciò che sono e non per quello che faccio.

E sul fronte professionale invece?

Ciò che intendo fare adesso è trovare i progetti giusti. Per il futuro non lo so quello che sarà di me: sicuramente sarò una persona sincera.

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SEBASTIEN JACQUE S

Camminare per rinascere

Questa è la storia di Sebastien Jacques, un ragazzo di origini canadesi che ha attraversato l’Italia a piedi, in cinquanta giorni. Non è la prima volta che lo fa, la stessa impresa l’ha già compiuta negli Stati Uniti. Perché? Ve lo racconterà lui, in questa intervista realizzata prima della sua partenza. Come è arrivato sul nostro magazine? Il merito è di Giulia Valentina, influencer torinese trapiantata a Milano, che nel bel mezzo del deserto dell’Arizona l’ha incontrato e ha raccontato la sua storia alle sue centinaia di migliaia di follower. Da quel momento è un po’ come se l’Italia avesse adottato Sebastien, che ha deciso di restituire tutto l’affetto ricevuto nel modo che gli riesce meglio: camminando senza sosta.

BEATRICE ANFOSSI

Partiamo dall’inizio: da ragazzo eri un giocatore di tennis, poi nel 2010 hai iniziato a perdere peso, non riuscivi a camminare per più di 15 minuti al giorno. Che cosa stava succedendo?

Frequentavo l’Università negli Stati Uniti. Ero un giocatore di tennis, mi allenavo cinque ore al giorno. Poi ho iniziato ad avere problemi di salute: non potevo camminare più di 15 minuti al giorno. Alla fine, abbiamo scoperto che avevo un tumore al cervello, ma ci sono voluti quattro anni di inferno. Quattro anni in cui a stento potevo stare in piedi per più di cinque minuti, e passavo la maggior parte delle giornate sul divano dei miei genitori, sforzandomi di non perdere la speranza, di restare positivo, oltre a cercare una soluzione ai miei problemi di salute.

Alla fine, mi hanno operato al cervello in California, quattro anni dopo.

Esatto, hai trovato un chirurgo che ha acconsentito ad operarti, ma ovviamente hai dovuto ricorrere a una raccolta fondi per ottenere i soldi necessari.

È stato incredibile: ho trovato il dottore per fare l’operazione, ma sarebbe costata 110.000 dollari. Così ci siamo rivolti ai media per chiedere aiuto, e abbiamo raccolto 110.000 dollari in due settimane.

È stato bellissimo vedere come le persone possano unirsi per aiutare qualcuno, ed è stato davvero emozionante per me perché la maggior parte dei donatori, che io neppure conoscevo, mi dicevano: “In bocca al lupo Sebastien, spero che riuscirai ad avere indietro la tua salute”. È stato incredibilmente toccante per me e allo stesso tempo spaventoso, perché ovviamente più vedevo i soldi aumentare, più pensavo: “Okay, sono davvero ad un passo dall’essere operato al cervello”. È stato commovente ed entusiasmante allo stesso tempo.

24 PERSONE | SEBASTIEN JACQUES

Dopo l’operazione, dopo esserti sentito dire che non avresti più potuto camminare per più di 15 minuti al giorno per il resto della tua vita, hai ritrovato le forze e hai deciso di fare la “Great Walk”, una lunga camminata attraverso gli Stati Uniti. Raccontaci qualcosa di questa decisione un po’ folle.

Fondamentalmente volevo trovare un modo per dare speranza alle persone che stavano attraversando un momento difficile. Io, che ero stato incapace di camminare per più di 15 minuti al giorno, volevo poter dire alle persone: “Guarda, ora sto facendo una maratona al giorno attraverso gli USA, da Est a Ovest”. Volevo far capire che è normale attraversare situazioni difficili nella propria vita; non solo puoi superarle, ma dopo puoi anche fare cose bellissime. Per me lo scopo era far sorridere qualcuno che stava vivendo un momento di dolore. Era il fulcro di tutto: se fossi riuscito a far sorridere anche solo una persona, allora sarebbe valsa la pena di tutte le ore interminabili, il dolore e i dubbi che ho affrontato ogni giorno per sei mesi. E alla fine è stata una delle avventure più belle e incredibili della mia vita.

27 PERSONE | SEBASTIEN JACQUES
LA SFIDA

E poi hai trovato tantissime persone lungo la strada che ti hanno aiutato, ti hanno ospitato, offerto da mangiare.

Sì, e non me lo aspettavo affatto. Avevo la mia tenda sul carrello e pensavo che avrei dormito in quella ogni notte. Invece alla fine sono rimasto nella tenda soltanto nove notti in totale. Quindi sì, ho incontrato persone meravigliose che mi hanno aperto le loro case, mi hanno dato da mangiare e hanno fatto una grande differenza in quei sei mesi. Ed è tuttora l’aspetto di questa avventura che ricordo di più. Poteva sembrare una sfida sportiva, perché percorrevo intere maratone, ma era più il lato umano della storia ad avere valore per me: infondere speranza e vedere le persone farsi avanti e dirmi: “Ti voglio aiutare Seb, puoi stare a casa mia questa notte e possiamo cenare insieme”. Ecco, questa per me è stata la parte più bella di tutta l’avventura.

E poi, sempre lungo la strada, hai incontrato Giulia Valentina (influencer italiana da quasi 1 milione di follower, mentre scriviamo). Lei ha raccontato la tua storia su Instagram e tu hai iniziato ad avere moltissimi follower italiani, mentre qui tante persone parlavano della tua storia. È stata una sorpresa per te?

Decisamente, Giulia è stata una delle sorprese più belle. Ero in Arizona e mi stavo avvicinando alla fine della mia impresa. Tantissime persone ogni giorno si fermavano sul ciglio della strada e ho pensato che Giulia fosse soltanto una turista curiosa di sapere che cosa stessi facendo. Così le ho raccontato la mia storia e lei mi ha chiesto “Posso farti una foto? Posso postarla sui social media?”. Mi disse solo questo. E io ovviamente acconsentii. Poi ricordo quella sera, ero al McDonald’s e quando ho guardato il mio telefono ho realizzato che i miei follower su Instagram erano passati da 2.000 a 12.000 in sei ore. Mi sono chiesto “Cosa sta succedendo?” e poi ho visto che Giulia aveva tantissimi follower. Ho capito che tra i suoi follower c’era tantissima umanità, i messaggi che ricevevo erano incredibili. Da quel momento mi è balenata l’idea di fare il cammino anche in Italia.

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Credit: Sebastien Jacques

Infatti hai deciso di tradurre e pubblicare il tuo libro anche in italiano: lì racconti la tua storia, e che cos’altro?

Il libro per me rappresenta il miglior modo di spiegare perché sto facendo tutto questo. Non sono qui per dire “Posso camminare 47 maratone in 50 giorni”, non mi interessa questo aspetto. Nel libro racconto la mia storia: sei in cima alla montagna e un giorno crolli, cadi, sei finito, i tuoi sogni svaniscono. E poi di come ho attraversato quattro anni di inferno, di come ho affrontato il cammino. Racconta molto di chi sono io come persona, del perché questa cosa: non è una sfida fisica o sportiva, non è questo il motivo per cui lo faccio; è un cammino di speranza, perché penso che siamo fortunati a essere vivi e che ognuno di noi ha ogni giorno l’opportunità di compiere qualcosa di straordinario.

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C’è qualcosa in particolare dell’Italia, e degli italiani, che ti affascina?

Quello che mi ha colpito, incontrando Giulia e poi tutti i follower che ne sono derivati, è il modo in cui voi, gli italiani, parlate e interagite: è intenso, commovente, davvero sincero. Io sono una persona che non riesce a mentire, e voi sembrate realmente sinceri. Non avete paura di mostrare le vostre emozioni, ed è una cosa che mi piace molto. Negli ultimi cinque anni hanno continuato a chiedermi: “Sebastian, quando verrai in Italia?”. Ora finalmente sta accadendo. Sono molto emozionato e ho ricevuto davvero una splendida accoglienza qui.

Che cosa ti aspetti da questa avventura?

Camminerò per circa 1970 km, ovvero quasi 47 maratone. Dovrò percorrere almeno 42.2 km al giorno, tutti i giorni, uno dopo l’altro. Questa per me è la sfida. Si tratta di capire quanto sei forte mentalmente, di continuare a camminare un passo alla volta, così che un passo alla volta tu possa portare a termine cose incredibili. In questo modo cerco di trovare un legame con le persone, il motto è: “Sto semplicemente camminando, puoi farlo anche tu. Perché non dovresti?”

È ovviamente uno sforzo fisico, ma soprattutto psicologico. E io non vedo l’ora, senza dubbio.

SEBASTIEN

32 PERSONE | SEBASTIEN JACQUES

Quando hai attraversato gli Stati Uniti hai fatto qualche errore che ti servirà da lezione per questo nuovo viaggio?

Sì, innanzitutto la preparazione prima del cammino. Quando ho fatto quello negli Stati Uniti non ho camminato molto prima, perché pensavo:

“Camminerò già così tanto, non voglio farmi male o stancarmi troppo”. Bene, non è stato un buon piano. Quindi questa volta ho camminato tanto negli ultimi mesi. Poi dagli States ho imparato a fare piccoli passi invece che lunghe falcate, così che io non possa farmi troppo male camminando

così tanto. Inoltre, so già quanto sarà dura. E non so se sia una cosa buona. Quando ero negli States avevo questo lato ingenuo che diceva: “Okay, dovrò soltanto camminare”. Ora so già che cosa succederà al mio corpo e alla mia mente. So cosa aspettarmi, sono preparato un pochino meglio ma sono anche molto consapevole delle difficoltà che mi aspettano. Infatti cerco di non pensarci troppo.

JACQUES

Dopo questo incredibile viaggio, quali sono i tuoi piani per il futuro?

È una bella domanda, non lo so. Con la malattia ho imparato a vivere un giorno alla volta e per il momento sto solamente cercando di essere una persona migliore. Sembra stupido, lo so, ma quando le persone mi dicono che non sanno cosa vogliono fare nella vita io rispondo: “Cerca solo di essere una persona migliore domani, lavora su te stesso”. È quello che io faccio ogni giorno: magari provando ad ascoltare di più i miei amici, ad essere più rispettoso, più generoso, cercando di offrire un po’ del mio tempo. Lavoro costantemente su me stesso come essere umano, e il resto viene da sé, come una magia. Dopo l’Italia tornerò a casa e continuerò a fare il mio lavoro. Poi, ovviamente, una volta fatto un secondo cammino forse ne vorrò fare anche altri. Non la pensavo così quando ero negli States, ma è diventata una bellissima avventura ed è il mio modo di restituire tutto ciò che ho ricevuto, dopo quello che ho passato.

34 PERSONE | SEBASTIEN JACQUES
Credit: Sebastien Jacques

Quindi hai un lavoro “normale” in Canada. Che cosa fai?

Sì, sono general manager di un tennis club in Canada. È in linea con quello che facevo da giovane, ma è un lavoro importante che mi porta via molto tempo. D’estate lavoro circa 80-90 ore a settimana, ma in inverno per due-tre mesi posso fuggire e fare quello che voglio. Quindi anche questo. Quando incontro persone per interviste o conferenze, dico sempre che sono un essere umano normalissimo, non sono diverso da nessuno. Sono il ragazzo che la sera sta a casa a mangiare cereali e guardare la tv. Per me sta proprio qui il punto: non troverai un ragazzo più normale di me, eppure sono stato in grado di superare tempi difficili e anche di compiere grandi imprese dopo. Sono solo un ragazzo normale, ordinario. È la mentalità, forse, a fare la differenza, ma sono sicuro al 100% che chiunque possa avere quella giusta.

È vero, sei uno di noi. Proprio per questo sei una fonte ispirazione. Ma tu, ce l’hai un grande sogno?

Un grande sogno… questa è una bella domanda. Non sono sicuro di averne uno, solo continuare a migliorare me stesso come persona. E spero che quando sarò sul letto di morte sorriderò e non avrò rimpianti riguardo alla mia vita, che sarò stato una brava persona per i miei amici, per la mia famiglia. E magari che sarò stato in grado di provare a rendere il mondo un posto migliore. È un po’ questo, per me.

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LUOGHI

NORVEGIA Un viaggio lungo 5 mesi --------

LUCA LEMMA

Norvegia. Terra di ghiacci e roccia, di fiordi e vaste distese di prato. Quando io e la mia fidanzata Martina siamo arrivati, le premesse non erano sicuramente delle migliori: "Preparatevi a lunghi mesi di pioggia e vento. Le temperature si faranno sentire nelle ossa". Così Jonny e Olaug ci hanno messo in guarda appena arrivati a Stavanger, capitale del petrolio della Norvegia e d'Europa. In questa terra abbiamo vissuto per cinque (lunghi e insieme brevissimi) mesi, l’abbiamo esplorata in lungo e in largo: da Stavanger a Tromsø per vedere l'aurora boreale; da Alta alle Lofoten, con la loro tradizione nell'essiccazione del pesce. Ma quindi: com'è la Norvegia? E soprattutto: chi sono Jonny e Olaug?

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DIARIO DI VIAGGIO Credit: Luca Lemma

Facciamo un passo indietro. 1° agosto: tutto è pronto per la partenza. Il caldo torrido milanese ci assale e con la mente siamo già al fresco estivo norvegese. Nelle valigie l’abbigliamento tecnico e i giubbotti invernali Columbia, per il freddo "vero" dei successivi mesi. La partenza è prefissata per il giorno seguente, con una compagnia aerea scandinava. E poi, l’imprevisto più temuto: il volo viene cancellato e non ce ne sono altri previsti per le successive due settimane. Delusi e amareggiati, decidiamo di partire lo stesso, in auto. Il viaggio per arrivare dura due giorni interi, guidando dodici ore al giorno e attraversando Svizzera, Liechtenstein, Germania e Danimarca. Arriviamo finalmente a Stavanger, distrutti. Questa città, precisamente il comune di Sola, diventerà il nostro campo base. La nostra casa norvegese. Ad attenderci, in piena notte, Jonny e Olaug: i padroni di casa. Lui è un omone altissimo, ex presidente del Kitesurf Club di Stavanger e ingegnere elettronico.

Lei, invece, è una professoressa dell'Università di Stavanger. Hanno tre bellissimi figli: Sondre, Eva e il piccolo Tarjei. Un bambino con i capelli così biondi da sembrare bianchi e due grandissimi occhi azzurri. Per tutti loro, eravamo gli "Italiensk"; i due ragazzi italiani che, quando potevano, impastavano la pizza e facevano crostate. Delle apocalittiche previsioni climatiche, complice anche il riscaldamento globale, non tutto si è avverato. A Stavanger ha piovuto. Tanto, ma non quanto annunciato. La città è situata nella contea di Rogaland, nei pressi di cinque laghi che sfociano verso est nel Mare di Norvegia. Nei giorni di sole, però, era facile perdersi a guardare il tramonto sugli spettacolari fiordi di quella zona. Là intorno, erano diversi i luoghi da non perdere.

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Tra questi, il Preikestolen (o Pulpit Rock), una meta di trekking irrinunciabile, considerata una delle più famose di Norvegia. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri che termina a strapiombo sul Lysefjord, uno dei fiordi più belli di Norvegia. Abbiamo avuto la fortuna di visitarlo due volte: ad agosto e a ottobre. Durante il mese più caldo dell'anno è meta di pellegrinaggio da tutto il mondo; la coda per salire e soprattutto per la foto di rito sul pulpito è lunghissima e capita spesso di doversi fermare lungo il sentiero per aspettare il suo defluire. Ad ottobre, invece, abbiamo incontrato solamente tre persone sul nostro cammino; la condizione ideale per una salita in totale serenità.

46 LUOGHI | NORVEGIA

La vita norvegese scorreva così tra una spesa al Kiwi (uno dei super market più famosi del Paese), le multe salatissime dei parcheggi a pagamento e l'adattarsi a uno stile di vita totalmente differente da quello a cui eravamo abituati. Dimenticate la frenesia milanese, i ritmi nella terra scandinava sono estremamente lenti. Pacati. La percezione che si ha è quella di una società famiglio-centrica: lo dimostrano in particolare i weekend, durante i quali tutte le attività sono strettamente correlate al benessere dei bambini e le città si svuotano, a favore dei territori circostanti. Parlando con Jonny e Olaug, infatti, abbiamo scoperto che quasi tutti i norvegesi possiedono una Cabin: una sorta di baita – rigorosamente in legno – nella quale fuggire appena possibile.

E proprio in tema di fuga, vivere in Norvegia per cinque mesi voleva dire fare un'infinità di cose e visitare tantissimi luoghi. Prima tappa: Isole Lofoten. Dopo essere atterrati a Bodø, prendiamo un traghetto gratuito (dobbiamo ammetterlo, una sorpresa) per Moskenes. Arrivati, andiamo incontro alla prima sfida: non ci sono auto a noleggio disponibili. Tutte prenotate. Ora, affrontare le Lofoten a piedi si presenta come una missione piuttosto ardua, considerando le lunghe strade in mezzo al nulla e un clima non propriamente amico. Il meteo, infatti, non ci ha quasi mai graziato. Senza perderci d’animo e sfruttando i mezzi pubblici a nostra disposizione raggiungiamo Å, il villaggio più famoso dell'arcipelago per via delle sue caratteristiche Rorbuer, le vecchie

dimore sull'acqua dei pescatori dal tipico colore rosso o giallo. Noi alloggiamo proprio in una di queste casette, ristrutturata e convertita in alloggio per turisti. L'atmosfera è suggestiva: è facile immaginarsi la vita dei pescatori dell'epoca, grazie anche alle hjell, rastrelliere in legno - tuttora utilizzateper l'essiccazione dello stoccafisso. Queste grandi strutture permettono di appendere centinaia di merluzzi, che vengono pescati nelle gelide acque del mar di Norvegia, lasciati essiccare all'aria per circa tre mesi e poi venduti o esportati. Passano i giorni e finiamo per abituarci al freddo e alla pioggia, quasi come dei veri autoctoni. Non ci risparmiamo neanche dal mangiare le prelibatezze locali: lo stoccafisso essiccato, usato come snack, il pesce Halibut, o la balena. Quest’ultima, in particolare, potrebbe essere tranquillamente confusa con una qualsiasi bistecca: il gusto è piuttosto ambiguo e solo sul finale il sapore del pesce diventa preponderante. Ci è piaciuta? La risposta è sì, molto.

51 LUOGHI | NORVEGIA

Una volta spuntata questa prima meta dalla nostra check list – e un po’ per sfuggire dal tran tran della routine ormai diventata parte della nostra vita quotidiana – decidiamo di andare a caccia dell'aurora boreale. Destinazione: Tromsø, famosa per essere una delle città norvegesi con la più alta probabilità di vederla. Ad attenderci un velivolo a doppia elica, di quelli visti quasi solo nei film. Accantonato lo stupore, carichiamo gli zaini: l’aspettativa è a mille. La città è viva, illuminata. Le attrazioni non mancano: si può dare da mangiare alle renne, oppure immergersi totalmente negli usi e costumi dei Sami, una popolazione indigena stazionata nella parte settentrionale della Finnmark. Un’esperienza che ci ha lasciato alcuni dubbi sulla sua effettiva autenticità, ma che finisce per essere comunque godibile e interessante.

55 LUOGHI | NORVEGIA
Credit: Martina Pelà

La vera protagonista del nostro viaggio, però, si è presentata la sera, intorno alle 23. In luogo buio e lontano da qualsiasi fonte di luce abbiamo potuto ammirare uno dei fenomeni naturali più maestosi del mondo: l’aurora boreale. Eccola lì. Nel cielo. Danzare sopra le nostre teste in un susseguirsi armonioso e ipnotico di sfumature verdi e rosse. Era da tempo che non appariva in maniera così intensa, ci dicono: un’ulteriore conferma della nostra enorme fortuna. La nostra avventura durata cinque mesi a questo punto sta per concludersi. Da Tromsø torniamo a Stavanger,

certi di aver assistito a qualcosa di indimenticabile. In città, lo spirito natalizio è estremamente sentito: luci, mercatini e addobbi rallegrano le vie del centro. Il 25 dicembre, il nostro ultimo giorno in Norvegia, riceviamo l'invito di Jonny e Olaug per il pranzo di Natale. L'atmosfera di festa ci fa sentire a casa e non manca neppure un lauto banchetto: salmone, polpette, coscia di agnello stagionata, montone disidratato. Un vero tuffo nella cultura norvegese, completato dai più piccoli della famiglia che montano casette di pan di zenzero con un sottofondo di canzoni tradizionali.

58 LUOGHI | NORVEGIA

I mesi trascorsi in questo diverso quanto bellissimo Paese ci hanno fatto imparare molte cose sulla Norvegia e sui suoi abitanti: tutto è estremamente caro ma efficiente; i supermercati sono aperti fino alle 23, ma la domenica le città muoiono; i bambini il sabato sera cenano con le caramelle gommose e, d’estate, dormono con la tenda in giardino; mentre i regali, a Natale, si scambiano il 24 dicembre sera. Ma anche che la parola "Pusa" può avere tre significati: busta, salsiccia e pausa; infine, soprattutto, che abbiamo trovato un secondo posto nel mondo che possiamo definire casa.

61 LUOGHI | NORVEGIA

THAILANDIA

Alla scoperta di เกาะพระทอง , un'isola per pochi

ANDREA LEHOTSKA

Se Buddha dovesse ricordare a memoria i numeri che durante le sue numerose reincarnazioni lo hanno colpito, tra questi figurerebbe indubbiamente il 6, il 9, il 98 e il 17 - ovvero le coordinate geografiche di una delle più sperdute e incontaminate isole della Thailandia del Sud. No, non si tratta del classico e quasi banale paradiso terrestre, piuttosto di una terra paradisiaca. Lei, portatrice sana del nome เกาะพระทอง , concede alle poche anime vagabonde e sensibili che al posto di trovare preferiscono cercare, tutta la sua fragile maestosità, selvaggia forza, palpabile magia e serenità. Si fa desiderare: non è semplice da localizzare o raggiungere, non offre nessuna comodità, corrente elettrica, ATM, strada, o sdraio in riva al mare delle Andamane.

65 LUOGHI | THAILANDIA
Credit: Andrea Lehotska

In cambio, concentra nei suoi ottanta chilometri quadrati portentose coste disabitate, fauna e flora insolite e un’apparenza unica che la distingue nettamente dal resto della superficie thailandese e asiatica: inspiegabilmente, qui l’estesa natura è quella della Savana tropicale, con infinite pianure verdi, fiumi dolciastri, cervi selvatici, qualche coccodrillo scappato dalle fattorie dove è stato allevato, tronchi di maestosi alberi secolari sopravvissuti a ciò a cui l’esser umano non è stato immune: lo Tsunami. Qualche anno fa, l’isola ospitava appena trecento Moken - una rara tribù di nomadi del mare facente parte della famiglia degli austronesiani. La tribù attingeva alle ricchezze dell’isola soltanto per motivi di sopravvivenza. Paradossalmente, la stessa isola che nutriva la tribù, l'ha esposta ad un disastro fatale che ha devastato tutto ciò che ha trovato in mezzo al suo sfogo: l'isola stessa.

I danni dello Tsunami sono stati inquantificabili, persino superiori alle altre località colpite, proprio per via delle pianure dell’isola. La Thailandia ha reagito prontamente e in pochissimo tempo ha costruito semplici ma funzionali alloggi per i pochi superstiti, decisi fermamente a non abbandonare ciò che rimaneva del loro habitat. Ma così come questa misteriosa terra dei sorrisi, anche i suoi abitanti sono molto particolari: non accettano la coesistenza del cemento con la foresta pluviale, e su 30 abitazioni offerte dallo stato ed ammassate una sopra l'altra nella parte meno a rischio dell’isola, tuttora solo una delle strutture è abitata. I resto dei Moken sopravvissuti ha preferito disperdersi nella giungla e, senza alcuna rassegnazione, ha ricominciato a crearsi nuove capanne in mezzo al nulla, e questa volta un 'nulla' del tutto distrutto. A ragione, chi sceglie di trascorrere la propria esistenza in uno dei posti più lontani

68 LUOGHI | THAILANDIA

dalla (in)civiltà, non accetterà lo sconvolgimento edilizio e culturale della propria terra. Le priorità dei cento abitanti dell’isola non sono mai state corrotte dal turismo, dalla visione del guadagno facile e comodo, come è successo alle altre isole sorelle, ormai molto frequentate per le loro acque cristalline: Koh Surin e Koh Similan. Le due isole della Thailandia più distanti dalla costa detengono anche il record mondiale della visibilità dell’acqua a occhio nudo: ben 30 metri. Tutto questo lo imparo da Uan, un fedele nativo dell'isola a cui non sfugge nessun rumore, animale, ombra, pianta o lieve cambiamento di umidità nell'aria. Ad occhi chiusi sa riconoscere foglie nutritive da quelle velenose o indicare la barriera corallina e il giorno in base al livello della marea - il suo udito, olfatto e tatto sono così sviluppati da riuscire persino ad identificare il ramo sul quale sta strisciando un serpente. Questa sua totale, assoluta e impressionante simbiosi con tutto ciò

che lo circonda mi fa commuovere e allo stesso tempo mi imbarazza - io che dopo cinque anni nel mio palazzo, non so nemmeno che faccia abbia la mia vicina di casa. Dopo un'ora di motorino sullo sterrato attraverso la giungla, laddove ognuno si aspetterebbe che finisse l’isola, il mondo o almeno la benzina, regna fiera la minuscola capanna della famiglia di Uan, mimetizzata con la natura e costruita esclusivamente con le riserve della giungla. Ogni sette anni circa, le foglie intrecciate delle palme che fungono da tetto, perdono pian piano la loro impermeabilità e vengono sostituite da quelle fresche, verdi, così come gli altri componenti in legno, prevalentemente tronchi, che tengono rialzata la capanna per proteggerla da alluvioni, alcuni animali e l'umidità della terra. Quando il legno delle pareti comincia a cedere, si taglia semplicemente un albero, lo si sostituisce o ci si sposta di qualche metro e si costruisce una nuova dimora.

71 LUOGHI | THAILANDIA

Dopo un’altra quarantina di minuti a piedi attraverso la giungla, a colpi di machete, paludi a sorpresa e imponenti mangrovie, i miei occhi che ormai si sono arresi all'oscurità della fitta foresta, vengono abbagliati. Quella luce, quell'abbaglio, non saprei definirli diversamente dall’Assoluto - assoluto blu, assoluta esposizione, nitidezza, saturazione, assoluta luminosità, ma anche assoluto contrasto, punti di luce e ombre, assoluta temperatura. Faccio fatica a digerire così tanta bellezza inaspettata, tutta in un colpo. Se potessi essere così ingrata da chiedere qualcosa di più, vorrei che la mia Nikon avesse come valore aggiuntivo la funzione 'scatto con odore e rumore', così che il rumore delle migliaia di tonnellate di acqua marina che vaporizza il sale nelle narici e sulla lingua della mia bocca che ancora non riesco a chiudere, potessero rimanere impressi sulla foto per sempre. L’Assoluto offre in lontananza un timido contorno delle isole parenti, un accenno di Birmania e una ventina di sfumature di blu: tra il mare prismatico e l'orizzonte ininterrotto, difficile indovinare l'inizio o la fine del successivo. Per scoprire le sfumature di verde, basta girarsi di 180 gradi verso la giungla appena attraversata e lasciata alle spalle: la visione cambia completamente. File chilometriche di palme di cocco costeggiano le deserte spiagge sabbiose e baie pittoresche con altarini buddisti, collegando gli unici due punti abitati dell’isola: il villaggio Thapayoi con una piccola scuola all’est e Thung Dap al sud.

72 LUOGHI | THAILANDIA

In mezzo, orchidee selvatiche uniche in Thailandia, uccelli in estinzione, famiglie di buceri e i nidi di tartarughe sono ancora autentici e a disposizione per i curiosi e rispettosi amanti della natura. Al nord dell’Assoluto si espande una lunga e montagnosa isola, Koh Ra, coperta di foresta tropicale, rendendo così il terreno poco ospitale agli umani, ma proprio per questo motivo molto adatto a una larga scala di specie animalesche. Al sud dell’isola, la sua sorella siamese di nome Koh Kho Khao gode di condizioni identiche, se non fosse che una sua parte è già stata contaminata dal turismo proveniente da Khao Lak. Sembra che il cerchio intorno all'isola del 'Buddha d'oro' si stia stringendo e che fra non molto, l'isola dove centinaia di anni fa è stata seppellita un'antica e costosa immagine di Buddha, verrà calpestata dai turisti e non più dai viaggiatori. Che verrà visitata, ma non ammirata. Che verrà toccata, ma non coccolata. Che finirà sulle cartoline, ma non nelle anime. Che avrà ancora tanto da dare, ma sempre meno da ricevere.

Perciò, correte, andate a viverla ora, finché siete in tempo. La trovate nella provincia di... No, no, dovete cercarla!

75 LUOGHI | THAILANDIA

CILE

Uno sguardo inedito sul deserto di Atacama

MARIANNA STEFANI

Gli ultimi due anni sono stati una sfida per tutti. Io, viaggiatrice appassionata, ho contato i giorni che mi separavano dal mio prossimo viaggio. Nonostante la mia paura di volare, non vedevo l'ora di saltare su un aereo, pronta per la prossima avventura. Ho lavorato senza sosta per due anni, fino a che ad un certo punto ne ho avuto abbastanza: ho lasciato il mio lavoro e il mio appartamento, venduto o dato via i miei effetti personali e con i miei due migliori amici, il mio zaino e la mia macchina fotografica, ho lasciato l'Australia per visitare il Sud America. Dopo due weekend di pioggia incessante in Nuova Zelanda, sono finita in Cile. È un posto spaventosamente bello, terra delle meraviglie, un Paese con una tale diversità geografica che non saprei nemmeno da dove cominciare.

77 LUOGHI | CILE
Credit: Marianna Stefani

È giugno, quindi inverno nell’Emisfero Sud, un periodo poco fortunato a causa del tempo rigido. L’incredibile Patagonia, la regione che copre la parte più meridionale del Sud America, è praticamente inaccessibile. La stagione "turistica" va da novembre a marzo. Ero davvero fuori tempo.

Ho deciso di optare per visitare il posto più arido della Terra e 23 ore di autobus mi hanno condotto da San Pedro di Atacama ad una piccola città al confine con la Bolivia, che funge da punto di snodo per coloro che vogliono sperimentare lo straordinario deserto di Atacama.

Un'esperienza come nessun'altra, un posto come niente ho visto prima (e ho visto un bel po' di posti, oserei dire).

Conosciamo il deserto di Atacama come il deserto più secco del mondo, il cui clima rigido deriva dalla sua posizione geografica. Atacama è una striscia di terra localizzata tra la Costa Cilena lungo l’Oceano Pacifico e le Ande.

Le due catene montuose parallele hanno creato un clima arido, impedendo all'umidità di raggiungere l'interno.

Dopo il tempo umido sperimentato in Nuova Zelanda, il mio corpo era in shock per la siccità di San Pedro, nonostante la temperatura fosse quasi la stessa. Nella notte questa ha raggiunto i -3°, e dormire nelle tipiche costruzioni fatte con adobe (un mix di fango e paglia) non avrebbe garantito un gran comfort. Ogni fastidio, però, era compensato dalla meraviglia offerta dal deserto.

Come al solito, ho saltato i tour organizzati che molti operatori della città offrono e ho iniziato a camminare.

Nei primi due giorni ho girovagato per la città, camminando per ore e ore, godendomi il silenzio, la sabbia, il sole. Ho poi affittato un 4WD e mi sono avventurata nella natura selvaggia, assorbendo tutto ciò che Atacama aveva da offrire.

78 LUOGHI | CILE

VALLE DE LA LUNA e VALLE DELLA MORTE

A ovest di San Pedro si trova la principale attrazione del Deserto di Atacama, La Valle de la Luna. Il nome dice tutto, l'aspetto lunare di questa terra è un must-see. Le sue peculiari formazioni rocciose e dune di sabbia creano un paesaggio inquietante che al tramonto diventa assolutamente magico. Un'esperienza ultraterrena, direi. Una passeggiata di 13 km mi ha portato a Mirador Piedra del Coyote, un belvedere da cui ho potuto godere la splendida vista della valle dall'alto. Sulla strada per la Valle de la Luna, un altro luogo ha attirato la mia attenzione: Valle de la Muerte, o Valle della Morte, nota anche come Mars Valley. Il suo nome deriva dal fatto che chi ha tentato di attraversare questa valle è morto nel farlo. Resti umani e animali sparsi lungo tutto il tragitto lo confermano.

LAGUNA CHAXA

A un paio di ore di auto da San Pedro si può trovare Laguna Chaxa, punto centrale del Salar de Atacama. Questa salina ospita il più grande stormo di fenicotteri della regione; serve anche come area di conservazione per la flora vulnerabile, tra cui tamarugo e carrubi.

LAGUNA ESCONDIDAS DE BALTINACHE

All'interno dell'aridità del deserto, queste 7 piccole piscine turchesi sembrano un'oasi. Come parte dell'Atacama Salt Flat, questa posizione offre la possibilità di fare un tuffo in due di queste piscine, mentre il resto è off limits a causa di scopi di ricerca e conservazione. Durante l'estate sembrano allettanti, ma in inverno la temperatura è sull'orlo del congelamento. La piscina infatti si gelerebbe se non fosse per la salinità dell'acqua.

82 LUOGHI | CILE

SALAR DE TARA

A est di San Pedro, a un'altitudine di 4.300 m, all'interno della Riserva Nazionale di Los Flamencos, si trova il Salar de Tara, dell'Atacama Altiplano. Vicino ai confini della Bolivia e dell'Argentina, Salar de Tara non è un posto per i deboli di cuore. L'altitudine può causare mal di montagna, e il vento feroce può trasformarsi in fastidio ed essere anche pericoloso se non si è preparati. La più grande attrazione a Tara è il Monjes de Pacana (Monaci di Pacana), rocce verticali giganti che, a causa dell'erosione del vento ora assomigliano alla sagoma dei monaci. Lungo la strada si può anche godere della splendida vista del Salar de Pujsa e si può avvistare la fauna locale, come le graziose vigogne.

84 LUOGHI | CILE
86 LUOGHI | CILE
1926
- 2022

03

TEMI

90 TEMI | ELISABETTA

L'ULTIMO SALUTO ALLA REGINA

Da Londra, il racconto in presa diretta dei due giorni che hanno preceduto i solenni Funerali di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.

I tributi, la commozione e la devozione del popolo britannico. Infine la parata, il feretro e i protagonisti della Famiglia Reale.

FOTORACCONTO
93 TEMI | ELISABETTA
96 TEMI | ELISABETTA
104 TEMI | ELISABETTA
106 TEMI | ELISABETTA

ELISABETTA

Emblema del Novecento, simbolo imperituro di tenacia e sicurezza, presenza confortante, icona pop. Sovrana. Madre, moglie, figlia e sorella. Infine, e prima di tutto, Elisabetta

ccade poche volte nella storia che il peso di un avvenimento, o del personaggio che lo vede protagonista, venga percepito nella sua interezza mentre accade.

È successo il pomeriggio dell’8 settembre, mentre il mondo intero con il fiato sospeso si chiedeva se quel momento fosse davvero arrivato. La fine di un Regno durato più di 70 anni, la morte di un’icona – eppure un essere umano a suo modo come tutti gli altri – riuscita a costruire nel tempo il proprio inossidabile ricordo, semplicemente adempiendo al ruolo per il quale era stata designata. Ma non siamo qui per scrivere un elogio di Elisabetta II, la cui esistenza è stata senza dubbio costellata anche da errori e passi falsi. Siamo qui per analizzare l’impatto che la sua vita, e ancora di più la sua morte, hanno avuto sulla sua gente: i suoi sudditi, i follower di un’epoca ormai conclusa per sempre.

Dall’8 al 19 settembre 2022, giorno dei solenni funerali di Sua Maestà, Londra e tutto il Regno Unito si sono raccolti in un lungo periodo di lutto. Dall’esterno, una prassi convenzionale e un po’ ingessata, quasi ipocrita: sì, aveva 96 anni; sì, era il simbolo di un’istituzione a tratti arcaica e superata, forse di un’epoca passata. Non a caso in quegli stessi momenti, a Edimburgo, si beveva al canto di “Lizzie’s in a box”. Accanto però a chi con scetticismo o noncuranza osservava compiersi la storia, c’erano migliaia di persone che con sincero dolore piangevano colei che per 70 anni aveva rappresentato il faro a cui guardare nei momenti di tempesta. Siamo stati a Londra, in occasione dei funerali della Regina. Abbiamo osservato le persone, le abbiamo intervistate. L’affetto che si respirava nei confronti della Regina Elisabetta era reale, viscerale, commovente: lo si percepiva camminando per una città scaldata da un tiepido sole e finalmente brulicante di cittadini inglesi e non soltanto

BEATRICE ANFOSSI
A

di turisti disinteressati; oppure muovendosi lentamente in fila per avvicinarsi a quella che per tutta la vita è stata la casa della Regina - Buckingham Palace – dove, come ogni giorno, si svolgeva uguale a se stesso il cambio della guardia, anche se all'ombra di una bandiera a mezz'asta. Lo si capiva sentendo il profumo dei fiori che tappezzavano il prato di Green Park, diventato in quei giorni un tributo a cielo aperto per la defunta Sovrana: una distesa di colori a perdita d'occhio, corone intrecciate, pupazzi, messaggi lasciati da adulti e bambini, i quali con grafia tremolante scrivevano: "Goodnight Maa'm", come se quel biglietto fosse stato scritto per la loro adorata nonna e non per un capo di Stato che ha segnato la storia, nonostante l’apparente svantaggio di essere nata donna. Perché Elisabetta II è stata prima di tutto una donna, che ha dovuto imparare a farsi rispettare ancora prima di farsi amare. E lo ha saputo fare con garbo, meritandosi l’affetto guadagnato con il duro lavoro. Probabilmente per questo la maggior parte dei suoi sudditi guardava a lei con sincera ammirazione, tale da spingere la gente a muoversi dalle proprie contee e a fare ore e ore di coda in piedi, soltanto per omaggiarla con un ultimo saluto. Abbiamo chiesto ad alcune delle persone giunte a Green Park e a quelle in fila per visitare il feretro di Elisabetta II come si sentissero a proposito della morte della loro Sovrana. La risposta è stata pressoché unanime: profondamente scossi. "Davvero molto triste, ma anche molto fiera di averla avuta come Regina",

ci ha detto una signora del Sud dell'Inghilterra sulla sessantina. Dell'enorme impatto della Regina sulle loro vite ha invece parlato un ragazzo dell'Oxfordshire, trentenne: "È stata un esempio per tutto il mondo, ma ha influito soprattutto sulle nostre vite. Questo evento ha colpito il Paese, è stato un fulmine a ciel sereno". A meravigliare poi gli stessi inglesi è stata la mobilitazione di tutto il popolo, in parte inaspettata e ben riassunta dalla frase di una signora londinese: "Sono molto orgogliosa del mio Paese". Gli inglesi erano pronti a questo momento? Probabilmente non del tutto. D'altronde la Regina Elisabetta era diventata ormai una presenza così costante da essere data quasi per scontata, come se fosse destinata a vivere per sempre. A colpire, d'altro canto, è l'organizzazione capillare ed efficiente con cui la città di Londra ha allestito un evento di portata internazionale e al contempo estremamente intimo. Intimo perché si percepiva il sentimento di unione che legava tutti coloro che in quei giorni si sono riversati nelle strade della città per un solo ed unico motivo: salutare per l'ultima volta uno dei massimi simboli del loro Paese. E lo hanno fatto con una gioia che ha sublimato il giorno di dolore - coperto, forse non per caso, dal tipico cielo plumbeo londinesetrasformandolo in un momento di collettiva solidarietà. Un qualcosa che forse in Italia non abbiamo mai davvero sperimentato, se non fosse per i pochi giorni in cui, all'inizio della pandemia, intonavamo l'Inno di Mameli dai balconi alle 18 in punto.

ELISABETTA E FILIPPO

ettantatré anni di matrimonio, quattro figli e una schiera di nipoti.

L’amore tra la Regina Elisabetta II e il Principe Filippo d’Edimburgo è stato uno dei più solidi e duraturi nella storia delle monarchie. Un sentimento forte e profondo, capace di resistere al tempo e soprattutto al peso della Corona. L’incontro decisivo tra i due avvenne nell’estate del 1939, quando la giovane Lilibet – così era chiamata dalla sua famiglia – fece visita al College navale di Dartmouth, nel Sudovest dell’Inghilterra, dove si trovava il Principe. Elisabetta e Filippo si erano già visti in un paio di occasioni in passato, nel 1934 e poi nel 1937, ma quel giorno scattò tra loro qualcosa di speciale. All’epoca Elisabetta aveva solo tredici anni, Filippo, Principe di Grecia e Danimarca, ne aveva diciotto. Entrambi erano poco più che ragazzi, ma capirono subito che tra loro sarebbe potuto nascere qualcosa di importante. Uno straordinario gioco del destino, inoltre, volle che la vita dei due giovani, ancora prima che i loro sguardi si incrociassero, fosse già legata. Elisabetta e Filippo, infatti, avevano la stessa trisnonna, la Regina Vittoria, e questo faceva di loro lontani cugini. Dopo l’incontro a Dartmouth, i due iniziarono una lunga e segreta corrispondenza

che durò per anni, in grado di alimentare a poco a poco il loro amore. Nell’estate del 1946, dopo la fine della guerra, Filippo venne invitato nella residenza scozzese di Balmoral. Iniziò a frequentare regolarmente la Famiglia Reale e divenne chiaro a tutti l’amore che provava per Elisabetta. Il padre della Principessa, Re Giorgio VI, inizialmente non appoggiò questa unione, soprattutto perché considerava sua figlia ancora troppo giovane per prendere una decisione così importante. Elisabetta, però, era già sicura di voler sposare Filippo, di cui era perdutamente innamorata. Con il passare del tempo, il Re iniziò ad affezionarsi al Principe e accettò infine di concedergli la mano di sua figlia. Accanto a lui Elisabetta era cambiata: era più sicura di sé, più vivace e scherzosa. Re Giorgio VI non poté fare a meno di notare l’influenza positiva che quel ragazzo aveva sulla sua Lilibet. Elisabetta e Filippo erano davvero innamorati. Il sentimento che li legava era qualcosa di raro per l’epoca, quando la maggior parte dei matrimoni erano combinati. I due ragazzi avevano avuto la possibilità di conoscere l’amore, ed erano ben consapevoli di questa enorme fortuna. Come racconta il biografo reale Andrew Morton in “The Queen. Elisabetta, 70 anni da regina”, poco prima del fidanzamento ufficiale

PIERI
S NADIA

il Principe Filippo mandò una lettera alla sua futura sposa che recitava: “Sono certo di non meritare tutte le cose positive che mi sono capitate. Essere sopravvissuto alla guerra ed aver assistito alla vittoria. Essere innamorato perdutamente e sinceramente fa apparire tutti i problemi personali e persino quelli del resto del mondo piccoli e meschini”. Il 20 novembre del 1947 Elisabetta, appena ventunenne, sposò il suo principe nell’Abbazia di Westminster, dove si tenne il più grande raduno di personaggi reali dall’inizio della guerra. Un matrimonio grandioso, simbolo di speranza e ripresa per il Paese. Le loro nozze, inoltre, furono le prime ad essere trasmesse in televisione.

Fu un giorno magico, in cui i due si giurarono amore eterno, promessa che solo la morte è stata in grado di spezzare. Filippo aveva sposato la futura Regina e dentro di sé sapeva che da lì a poco la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Diventando il marito dell’erede al trono il giovane rinunciò ai suoi titoli di Principe di Grecia e Danimarca, ricevendo quello di Duca di Edimburgo. Ma soprattutto accettò di rimanere sempre due passi indietro a sua moglie. Quasi un anno esatto dopo le nozze, il 14 novembre 1948, la Principessa partorì il suo primo figlio, il Principe Carlo. La coppia negli anni successivi ebbe altri tre figli: Anna, Principessa Reale, Andrea, Duca di York, ed Edoardo, Conte di Wessex.

111 TEMI | ELISABETTA

Poi, il 6 febbraio 1952, all’età di 25 anni e in seguito alla morte di suo padre, Elisabetta divenne regina. Il giorno tanto temuto era arrivato. La sovrana conosceva il suo destino da quando Re Edoardo VII, per lei semplicemente lo Zio David, decise di abdicare in favore del fratello Giorgio VI per sposare la divorziata Wallis Simpson.Come spiega Andrew Morton nel suo ultimo libro, il sogno di Elisabetta era quella di vivere in campagna circondata dall’amore della sua famiglia e degli animali. Sapeva bene, però, che questo non sarebbe stato possibile, e decise di ricoprire con grande responsabilità il ruolo che le spettava. La salita al trono di Elisabetta non cambiò solo la sua vita, ma anche quella di Filippo, che per starle accanto decise di rinunciare alla sua brillante carriera nella Royal Navy. Da quel momento iniziò per la coppia un’esistenza fatta di obblighi e protocolli, che finirono per creare più volte tensioni tra di loro. La figura dominante della sovrana fu difficile da sopportare per Filippo, uomo irrequieto, deciso e molto sicuro di sé. Proprio per questo la Regina cercò sempre di attribuire importanza al ruolo del marito, consultandolo nelle decisioni

più importanti e facendolo così diventare non solo la sua spalla, ma anche il suo fidato consigliere. Secondo quanto emerso negli anni, infatti, sembrerebbe che il Duca di Edimburgo fosse l’unico da cui Elisabetta accettasse di essere rimproverata. Inoltre, molte delle decisioni prese da Sua Maestà, anche se non ufficialmente, furono opera di Filippo. Quest’ultimo contribuì all’avanzata della monarchia verso la modernità: fu sua, ad esempio, l’idea di organizzare pranzi e feste in giardino con ospiti appartenenti ad estrazioni sociali diverse. Anche se spesso nell’ombra, il Duca diede il suo contributo al lungo regno di Elisabetta II, mantenendo fede alla promessa fatta al momento della sua incoronazione: essere “il signore della vita di Sua Maestà”. Sebbene Filippo sia rimasto sempre fedele al “finché morte non ci separi”, secondo diverse voci negli anni avrebbe avuto molte amanti. Il suo debole per le donne era argomento noto a Buckingham Palace, e anche fuori. Il Principe Consorte, infatti, tutti i giovedì si concedeva un’uscita in compagnia del suo gruppo storico di amici in un club di Soho. Una sorta di appuntamento fisso che non fece

112 TEMI | ELISABETTA

altro che alimentare le voci sulla sua presunta infedeltà. I tradimenti sono sempre rimasti semplici voci ma, secondo alcune indiscrezioni, la Regina ne era perfettamente a conoscenza. Per Elisabetta, però, il divorzio non è mai stata un’opzione, tanto che quando tre dei suoi quattro figli decisero di percorrere quella strada lei ne rimase profondamente scossa. Ma la Regina, a sua volta, è sempre rimasta fedele a Filippo? Anche se non è mai stato confermato, alcune voci insinuarono negli anni che anche lei avesse intrattenuto una relazione extraconiugale. L’uomo in questione sarebbe il capo delle scuderie reali, Lord Porchester, suo amico di infanzia. I due condividevano la stessa passione per i cavalli e, proprio per questo motivo, trascorrevano molto tempo insieme. La loro amicizia era così stretta che Elisabetta fece anche da madrina ai figli di Porchie - così lo chiamava lei - e gli rimase vicina fino alla sua morte, sopraggiunta nel 2001. Negli anni, quindi, non sono mancate le dicerie sul matrimonio reale e nemmeno i dissapori tra i due sposi. Elisabetta e Filippo hanno però continuato ad amarsi e sostenersi fino alla morte del Duca, avvenuta

il 9 aprile 2021 nel Castello di Windsor. Le immagini della Regina ai funerali del defunto marito hanno fatto il giro del mondo. La commozione di Elisabetta ha colpito il cuore dei suoi sudditi e di tutti coloro che hanno seguito con affetto la loro lunga storia d’amore. Complici le restrizioni dovute al Covid, in chiesa la sovrana si è isolata, chinando la testa in raccoglimento durante il minuto di silenzio dedicato a Filippo, forse rivivendo, in quei sessanta secondi, i settantatré anni di vita trascorsi insieme. In una nota rilasciata da Elisabetta poco dopo la morte del marito è possibile capire tutto ciò che lui ha rappresentato per lei: "È stato semplicemente la mia forza e il mio sostegno durante tutti questi anni e io, la sua intera famiglia, questo Paese e molti altri abbiamo nei suoi confronti un debito più grande di quanto lui possa rivendicare o persino di quanto potremo mai sapere". L’8 settembre 2022, a poco più di un anno dalla morte del Duca di Edimburgo, la Regina si è spenta nella sua tenuta di Balmoral e oggi riposa accanto all’unico uomo che abbia mai davvero amato.

113 TEMI | ELISABETTA

ELISABETTA E I SUOI SEGRETI

Le dinamiche e i rapporti che caratterizzano la Corona inglese possono sembrare incomprensibili all’occhio comune, pieni di segreti e rituali indecifrabili. Un tessuto intrecciato a maglie strette dentro le quali anche Lady Diana ha fatto fatica ad entrare. E colei che ha avuto il compito di tenere ogni filo del tessuto perfettamente teso e ben intersecato, è proprio la Regina Elisabetta II. Apparentemente forte e imperturbabile, la Sovrana più longeva della storia della Monarchia Inglese è stata un vero e proprio punto di riferimento per la Famiglia Reale: austera e severa, ma allo stesso tempo capace di mettere in discussione la sua figura istituzionale per coprire gli scandali dei membri più “vivaci” della famiglia. Celando gli scandali altrui, Elisabetta II ha costruito intorno a sé un muro di segreti e silenzi che l’hanno seguita nella tomba. Ma non solo, anche la vita della Regina è stata a suo modo costellata di misteri. Alcuni sono stati svelati, altri rimarranno per sempre custoditi tra le mura di Buckingham Palace.

Uno di quelli più curiosi riguarda un segnale in codice che la Regina avrebbe utilizzato per comunicare alle proprie dame di compagnia

che non gradiva trovarsi in un determinato posto o in una determinata situazione. Secondo le voci di corridoio, qualora non si fosse trovata a suo agio, Elisabetta II con un veloce gesto della mano si sarebbe messa un velo del suo amatissimo rossetto. A quel punto, le sue dame avevano il compito di raccogliere tutte le sue cose - borsetta, giacca e guanti - e accompagnare la sovrana verso l’uscita. E questo non è l’unico stratagemma che la defunta sovrana utilizzò nel corso del tempo: secondo la commentatrice reale Kristen Meinzer, quando la Regina si stancava di interloquire con qualcuno era stata solita spostare la borsetta da una mano all’altra. A questo segnale i suoi funzionari dovevano tempestivamente interrompere la conversazione, che evidentemente aveva annoiato o infastidito Elisabetta. Ma non esistevano solo questi gesti “nascosti”.

ELEONORA GALLI

Secondo gli studiosi di etichetta e comportamento dei membri della Royal Family, esistevano altri codici segreti pensati per esprimere in maniera discreta il disagio della Regina: appoggiare la borsetta per terra durante un banchetto, spostarla sul tavolo oppure girare la fede intorno al dito. È difficile immaginare che una figura così esposta all’occhio del mondo nascondesse dei segreti, eppure. Andrew Morton, giornalista ed esperto biografo dei membri della Famiglia Reale, nel suo romanzo The Queen ha cercato di portare alla luce tutti i misteri che tuttora aleggiano intorno alla figura di Elisabetta II. Il giornalista ha dimostrato che, nonostante l’immagine severa e algida di facciata, la Regina lungo tutto il corso della sua vita fu sottoposta ad altissimi livelli di stress.

Come ci si potrebbe immaginare, la vita da sovrana non è stata semplice: anche se la carica è ormai solamente rappresentativa, l’immagine di forza e autorevolezza che caratterizza

la monarchia inglese è stato frutto di grande lavoro da parte di Elisabetta II, che più di una volta ha cercato di contenere crisi e sfiducia da parte del popolo inglese. In particolare, due occasioni hanno portato l’ex sovrana a momenti di estremo sconforto: il naufragio dei matrimoni dei suoi due figli, il divorzio dell’erede Carlo da Diana Spencer e del figlio prediletto Andrea da Sarah Ferguson. Secondo alcune voci interne, in quei momenti la Regina avrebbe infranto una delle sue regole auree di bere un solo bicchiere di alcol al giorno, eccedendo nel consumo di sostanze alcoliche per ridurre il forte stress dovuto alla pressione mediatica. I funzionari di corte hanno raccontato che all’annuncio della separazione dei figli dalle rispettive mogli, Elisabetta era completamente fuori di sé: la Regina, infatti, era sempre stata contraria al divorzio, considerato come una via “facile” di affrontare i problemi.

È opportuno ricordare anche che è proprio per colpa di un divorzio che la sovrana è salita al trono: Edoardo VIII, suo zio, era stato costretto ad abdicare al trono in favore del fratello, padre di Elisabetta, dopo aver deciso di sposare una donna divorziata. In molti la descrivevano come una donna glaciale, lo stesso Carlo la definì una madre fredda e distante: bisogna considerare, però,

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che la sua impostazione e il suo ruolo molto spesso non le permettevano di far trasparire emozioni. Proprio per questo, i momenti in cui ciò è accaduto sono spesso ricordati con enfasi dalla stampa e dai media. L’unica volta in cui Elisabetta II è stata vista piangere genuinamente in pubblico è stata dopo il disastro di Aberfan: quando nel 1966, in un piccolo villaggio del Galles, il crollo di una miniera causò una frana che si riversò su una scuola elementare causando più di 120 morti tra minatori e bambini. La stampa accusò la Corona di non essersi mobilitata per tempo; infatti, la Regina e il Principe Filippo giunsero sul posto solo 8 giorni dopo la tragedia: fu uno dei più grandi rimpianti della sovrana. Se commuoversi fu una rarità, la Regina Elisabetta ha sempre amato ridere: nota per la sua risata contagiosa, la defunta sovrana aveva sempre la battuta pronta e amava scherzare con i propri interlocutori. Era dotata di autoironia e aveva un

senso di autocritica molto spiccato. Uno dei suoi guilty pleasure della domenica, negli ultimi anni, sembra essere stato quello di guardare una puntata di The Crown, la serie televisiva sulla Corona Inglese incentrata principalmente sulla vita della Regina, con lo scopo di vedere come il pubblico immaginasse la vita all’interno della Famiglia Reale. Secondo i commentatori di corte, la Regina avrebbe apprezzato moltissimo le prime due stagioni della serie, che trattano dell’incoronazione e dei primi anni di regno. Al contrario, sembra che Elisabetta non abbia per nulla gradito la rappresentazione del rapporto con Lady D e il modo in cui sono state trattate le vicende legate al matrimonio con Carlo, affrontato nel corso della quarta stagione. Suo marito il Principe Filippo, al contrario, non apprezzava particolarmente il passatempo del fine settimana di Sua Maestà. I due avevano pochi interessi

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in comune e passavano molto tempo separati, occupati nelle loro mansioni quotidiane; tuttavia, la sera non poteva mancare il loro rituale segreto: raccontarsi la giornata a vicenda e scherzare insieme. Altrettanto sacro era poi il rituale del the delle cinque, al quale sembra fossero ammessi soltanto i membri della famiglia più cari ad Elisabetta: sua nipote Zara Tidall, figlia della Principessa Anna, la nuora Sophie, moglie del Principe Edoardo, e Lady Sarah Chatto, figlia di sua sorella Margherita. Infine, la Regina Elisabetta aveva due passioni alle quali non riusciva proprio a rinunciare: i cani e i cavalli. I suoi amati Corgi sono stati ciò che più la rallegrava durante i duri anni di Regno, tanto che i cani dormivano in una stanza a loro adibita accanto alla camera padronale. Il suo primo cane, Susan, le fu regalato dell'amatissimo padre quando ancora era una bambina: da quel piccolo amico peloso derivò una vera e propria discendenza allevata ed educata

da Elisabetta in persona. Anche la passione per i cavalli le venne tramandata da Giorgio VI, che le regalò il suo primo esemplare, Peggy, quando lei aveva solo quattro anni. Sua Maestà, a quanto pare, era anche una grande scommettitrice alle corse di cavalli: dicono che amasse lei stessa tentare la fortuna senza l’ausilio di statistiche e tabelle, giusto per il gusto del divertimento. La passione per i cavalli era talmente radicata nell’infanzia di Elisabetta II che si narra che il suo gioco preferito da bambina fosse quello di tirare la barba del severissimo nonno, Re Giorgio V, facendo finta fosse un cavallo da corsa. Uno spirito indomito, il suo, racchiuso in un rigore che l’ha contraddistinta per tutta la vita. Proprio dietro a questo muro si celano però tutti quei piccoli e grandi segreti, le strane abitudini e i rituali che hanno fatto di lei una vera e propria icona, intramontabile.

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ELISABETTA E LA SETTIMA ARTE

8 settembre 2022 è una data che entrerà presto in quella Storia del mondo che tiene traccia degli eventi che costellano lo scorrere ineluttabile del tempo. Ma l’8 settembre 2022 non sarà ricordato soltanto come il giorno della morte della regina Elisabetta II, bensì per aver segnato uno spartiacque storico, sociale e politico dell’Inghilterra e insieme di quel mondo che Sua Maestà ha visto progredire e perfezionarsi, per poi piano piano andare alla deriva. E mentre l’inevitabile fine di una vita – e insieme di un’era – portano il mondo a chiedersi “che cosa succederà dopo”, c’è chi cerca di contrastare la caducità della vita con la forza dell’eternità racchiusa in 24 fotogrammi al secondo. In un mondo così dipendente dai racconti per immagini, la settima arte - anche nelle sue più moderne forme seriali - sembra essere lo strumento prediletto per combattere la finità delle cose, regalando loro il dono dell’eternità. Così la regina Elisabetta II continuerà a vivere per sempre in tutte le pellicole cinematografiche che l'hanno omaggiata, nelle moderne serie tv ispirate alla famiglia reale e in quei famosi spot a cui si è prestata, con ironia e leggerezza. Nei suoi lunghi 96 anni di vita e 70 di regno, la Regina Elisabetta è stata protagonista

di grandi film che si sono ispirati alla sua storia di sovrana - e di donna. Primo tra tutti il film The Queen – La Regina, diretto da Stephen Frears, che racconta il periodo successivo alla morte di Lady Diana, quando la regina Elisabetta, indifferente allo sgomento del popolo inglese, decise di ritirarsi tra le mura del castello di Balmoral insieme alla sua famiglia. La fortuna del film è da imputare soprattutto alla chiave di lettura scelta dal regista per raccontare una delle tragedie che più hanno colpito Buckingham Palace, da cui emerge un ritratto di Elisabetta che si discosta dal mondo dei frivoli pettegolezzi per portare sullo schermo una sovrana tosta, dignitosa e intelligente, catapultata in una modernità che la vede schiava di un'opinione pubblica superficialmente emotiva. Il film, inoltre, custodisce una delle interpretazioni migliori di Helen Mirren, nei panni della compianta sovrana d’Inghilterra, la cui memorabile performance è valsa all'attrice britannica il premio Oscar come Miglior attrice protagonista agli Academy Awards del 2007. O ancora, il più moderno Spencer, che vede protagonista Kristen Stewart nei panni di Diana, o il documentario Elizabeth diretto da Roger Mitchell (regista della commedia romantica Notting Hill), in cui la sovrana viene raccontata come un’icona pop, analizzando il rapporto tra la sua figura e - come lo definisce

SARA RADEGONDA
L'

Anna Pasetti - “il sistema immaginifico circolare che si ri-definisce e autoalimenta continuamente rispetto a sé stesso”. Infatti, non solo il cinema, ma il mondo dei media in generale, da sempre deve scendere a patti con l’inevitabile ostacolo di non sapere mai effettivamente la verità sui fatti riguardanti la Royal Family; un relativismo che si traduce, nel cinema e nelle serie tv soprattutto, in un’oscillazione perpetua tra la volontà di essere docu e la rassegnazione di dover essere, per forza, fiction. Tale movimento indeterministico che permea tutte le produzioni intorno ai componenti della famiglia reale inglese è stato – e continua ad essere – l’ingrediente alla base del successo di The Crown, la serie scritta da Peter Morgan che, dal 2016, appassiona il

pubblico di tutto il mondo. La serie drama firmata da Netflix si ispira ad eventi reali e racconta la storia della regina Elisabetta II e gli episodi politici e personali che hanno contraddistinto il suo regno. Dal matrimonio con Filippo e la successiva proclamazione come regina d’Inghilterra e del Commowealth il 6 febbraio del 1952, allo storico rapporto con Winston Churchill, fino ai duri anni Ottanta con la controversa relazione tra Carlo e Diana e la profonda crisi dell’istituzione monarchica agli occhi dei sudditi. La serie ha regalato al grande pubblico, di ogni età e provenienza, un ritratto dettagliato della storia della monarchia e delle dinamiche interne alla famiglia con una ricchezza e bellezza estetica, tra fotografia e dialoghi, che difficilmente si è vista in precedenza.

Proprio la minuziosità dei dettagli, data anche dall’incredibile somiglianza del cast - che cambia ogni stagione per rispettare l’aderenza fisiognomica dei personaggi -, ha contribuito non solo al successo della serie, ma anche a quel misunderstanding di fondo per cui spesso lo spettatore è spinto a pensare che tutto ciò che vede sul piccolo schermo sia la riproduzione esatta degli eventi. Il pubblico, infatti, si è spesso lasciato cullare dalla verosimiglianza dei fatti e dei protagonisti della serie, dimenticando quel sostantivo “drama” posto a sottolineare la natura inevitabilmente romanzata del racconto. Un dettaglio che è stato soprasseduto anche dalla stessa famiglia reale, soprattutto in seguito alla pubblicazione - nel novembre del 2020 - della quarta stagione di The Crown, dedicata al periodo degli anni '80 in cui la regina Elisabetta si scontra con la prima ministra Margaret Thatcher e il principe Carlo convola a tumultuose nozze con Lady Diana Spencer. Il quarto capitolo della serie Netflix, giudicato dalla critica un capolavoro, avrebbe creato un malcontento generale nei corridoi di Buckingham Palace, tanto da “far infuriare” la famiglia reale, come avevano al tempo riportato alcuni insider al The Sun. Soprattutto in questa stagione, infatti, emerge in modo dirompente la freddezza

e imperturbabilità della regina Elisabetta di fronte alla sofferenza della principessa Diana. Dinanzi a tali polemiche e critiche, tuttavia, Netflix non ha potuto fare altro che sottolineare nuovamente quanto già esplicitamente dichiarato del sottotitolo della serie: ovvero che si tratta di un contenuto “drammatizzato” e che, per quanto si ispiri a fatti realmente accaduti, non ha mai avuto la pretesa di raccontarli sotto forma di documentario. E mentre i componenti della famiglia si indignavano per gli eventi narrati da The Crown, la regina Elisabetta ogni domenica si concedeva la visione di un episodio tra le mura calde del Castello di Windsor. A rivelarlo durante i gloriosi funerali, in diretta mondiale, è stato il collaboratore reale George Jobson, a riprova di quanto la sovrana sapesse essere severa e serafica, ma allo stesso tempo capace di un’autoironia e leggerezza rare. Infine, così come nei migliori film e serie tv, anche nella vita vera arriva sempre il momento dei titoli di coda. E mentre il 19 settembre 2022 il mondo intero si è riunito per dare l’ultimo saluto alla sovrana d’Inghilterra, il giorno seguente quello stesso mondo ha assaporato la bellezza dell’eternità, ritrovando la sovrana lì, dove sempre sarà, raccontata in 24 fotogrammi al secondo.

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RE CARLO

E LA MONARCHIA

CRISTINA PENCO

È

sempre un momento delicato, il passaggio generazionale in un’azienda. Grande, media o piccola che sia. Non si tratta di un mero avvicendamento al potere o di uno scambio di consegne nei ruoli e nelle responsabilità. Il più delle volte, la transizione ha a che vedere con un cambio di passo dovuto a esigenze esterne e interne che richiedono nuovi equilibri. Non fa eccezione la Royal Family, a partire dal profondo spartiacque segnato, l’8 settembre 2022, dalla morte di Elisabetta II e dall’ascesa al trono di Carlo III. Non a caso il compianto principe consorte Filippo, scomparso nell’aprile 2021, aveva definito “The Firm” (“La Ditta”) la grande impresa di famiglia il cui bene collettivo – che era ed è quello della nazione che nella figura del monarca si specchia e si riconosce – è sempre stato prioritario rispetto a quello dei singoli componenti. E a fronte di intemperanze e interessi personali – leggasi, oggi, Harry e Meghan, ma negli anni Novanta, per prima, ne fu esempio Lady Diana – abbiamo visto quel che accade: a Palazzo non c’è posto per ribelli e secessionisti che non sanno stare al loro posto. Scatta l’estromissione immediata anche per chi, ovviamente, infanga il decoro dei Windsor; com’è successo al principe Andrea, nella vicenda a luci rosse e a tinte fosche legata all’affaire Epstein. Dopo sette decenni di attesa, “lo stagista più vecchio del mondo”, secondo la definizione che diede The Economist, quel “principe dimenticato” compatito in un titolo omonimo di The Time è finalmente chiamato ad assolvere al compito per cui si è preparato per mezzo secolo.

Il nuovo regno di Carlo III, il primo sovrano britannico con una laurea in tasca – presa a Cambridge nel 1970, diventando Bachelor of Arts in seguito a un triennio sui libri di Archeologia, Antropologia e Storia – è sorto in un contesto di enorme insicurezza: in piena crisi economica, con un costo della vita quantomai elevato, un’inflazione alle stelle, scioperi a destra e a manca, una Brexit che ancora si fa sentire con le sue criticità. Nell’era post Boris Johnson, l’esecutivo guidato da Liz Truss è caduto dopo nemmeno un mese e mezzo dal suo insediamento. Tutto ciò mentre incalzano le spinte secessioniste di Irlanda del Nord e Scozia. Per non parlare di vari Paesi del vecchio Commonwealth – in testa Giamaica, Antigua e Barbuda – che, seguendo l’esempio di Barbados, potrebbero trasformarsi in repubbliche indipendenti.

Come ha sempre annunciato lo stesso Carlo, il suo regno sarà di transizione, all’insegna di riforme innovative che, presumibilmente, spianeranno la strada a William. Sull’immagine di Carlo III – ma forse molto più all’estero, che non nel Regno Unito, assicura chi vive sull’isola – gravano parecchi pregiudizi, dovuti al disastroso esito del matrimonio con Diana e, forse, involontariamente alimentati dalla natura introversa e schiva del figlio di Elisabetta. Lo scetticismo che ha finito per avvolgere la sua figura, suo malgrado, dopo il naufragio delle prime nozze con la donna all’epoca più famosa e ammirata al mondo – una narrazione mediatica che ha consegnato l’immagine di un uomo infedele, anaffettivo e irresoluto – ha inciso tacitamente e indirettamente

123 TEMI | ELISABETTA

sulla percezione della qualità della sua formazione. Nulla di più sbagliato. Quasi per un tragico contrappasso, le sue vicende private hanno scoperchiato il “vaso di Pandora” e hanno fatto emergere i danni profondi che il privilegio della Corona arriva a provocare su chi è destinato a portarla. Eppure, sempre lo stesso Carlo ha dimostrato di saper reagire con grande capacità nelle situazioni più difficili, inclusa la tragica e improvvisa morte di Diana Spencer, madre dei suoi figli. Un suo amico stretto – parlando con i tabloid britannici – ha sostenuto che Carlo “sa che non avrà tempo di diventare un grande re”, ma continuerà a occuparsi degli affari dello Stato con energia e dedizione. Come ha detto il diretto interessato in un’intervista, in linea con gli insegnamenti materni, “non c’è niente di strano. Si chiama dovere”.

Allo stesso tempo, la scomparsa di Elisabetta II impone alla Corona la necessità di ripensare se stessa, in parallelo all’affermarsi di nuove sensibilità popolari. Non ha mai fatto mistero, Carlo, di avere in testa l’idea di una monarchia slim down, più snella e moderna, riducendo titoli e privilegi solo alle primissime linee dei Windsor, evitando ulteriori sprechi e rendendo l’Istituzione finanziariamente autonoma. È soprattutto una questione di buon gusto: in periodi di estrema crisi e austerità, gli inglesi paiono meno disposti a tollerare i privilegi abitualmente riconosciuti allo status e alla ricchezza. In una simile ottica, Buckingham Palace potrebbe diventare un museo o una sede di rappresentanza e di ricevimento, mentre il castello di Windsor ospiterebbe il nuovo centro operativo della monarchia.

King Charles, inoltre, vuole plasmare un’istituzione moderna che sia aperta e inclusiva. Si porrà come il Difensor Fidei (titolo che Leone X aveva dato all’antenato Enrico VIII, prima che

promuovesse lo Scisma anglicano), ma intende essere anche il “Difensore delle Fedi”, in perfetta sintonia con l’Inghilterra attuale: multiculturale, multietnica e multireligiosa. Rishi Sunak, classe 1980, succeduto a Liz Truss alla guida dei Tories presso il numero 10 di Downing Street, è l’emblema di una simile realtà. I suoi genitori si erano trasferiti in UK dall’Africa orientale, ma sono entrambi originari del Punjab, in India. Il padre era un medico, la madre gestiva una farmacia. Sunak è nato a Southampton. È il primo premier in UK con radici etniche asiatiche e il primo devoto al credo induista. Ha lavorato nel mondo dell’alta finanza, che tuttora lo vede di buon occhio. È sposato con Akshata Murthy, la figlia del miliardario Narayana Murthy, considerato il “Bill Gates indiano”. Soprattutto quando Carlo era piccolo, ha sofferto del rapporto freddo e distaccato con i suoi genitori. La madre era chiamata a far fronte a continui e gravosi doveri istituzionali e, nel privato, si mostrava distratta e poco coinvolta. “Sa come trattare i primi ministri, ma non suo figlio maggiore”, confessò successivamente un ex segretario privato, ai tempi del divorzio dei principi di Galles. Il padre, dal canto suo, pensava a educare la prole più come un piccolo esercito di soldatini o una ciurma di marinai, che non dei bambini. Carlo soffrì molto di più dei suoi fratelli per l’assenza di abbracci e baci, così come per la mancanza di attenzione e sensibilità nei suoi confronti. Deve essere stata per lui una forte emozione quella ricevuta al suo settantesimo compleanno, nel novembre 2018, quando la regina lo omaggiò pubblicamente: “Durante i suoi 70 anni, Filippo e io abbiamo visto Carlo diventare un campione in fatto di arte, un grande leader caritatevole – un erede al trono rispettato – e un padre meraviglioso. Più di tutto,

124 TEMI | ELISABETTA

sostenuto dalla moglie Camilla, è un uomo appassionato e creativo”. Un riconoscimento tardivo, ma che alla fine è stato espresso, sia nei confronti di Carlo, sia in quelli di Camilla. Oggi, a corte e sul fronte mediatico, sono rose e fiori per Shand rispetto al passato, ma anche in questo caso ce n’è voluto di tempo. Sono servite tutta la sua tenacia e la sua determinazione per farsi rispettare. E dopo decenni di ostilità da più parti, è stato premiato il suo sentimento granitico, sincero, ricambiato, per Carlo, così come la sua devozione e la sua lealtà nei confronti della Corona. Tanto che, pochi mesi prima di partire per il viaggio eterno, dopo anni trascorsi a farle la guerra, Elisabetta II aveva deposto l’ascia e aveva riconosciuto alla nuora, davanti ai sudditi, il titolo di regina consorte, ruolo che oggi ricopre ufficialmente

con il passaggio dello scettro nelle mani del primogenito. A ridosso del Giubileo di Platino, per i 70 anni di regno di Elisabetta II, Shand risultava simpatica a quasi il 50% dei britannici, che hanno imparato ad apprezzarne lo spirito pratico da donna senza fronzoli e concreta, appassionata alla campagna e ai cavalli, non ai red carpet e alle telecamere. E dire che, solo due decenni fa, Camilla doveva proteggersi da lanci di uova o pagnotte, aggredita da folle furenti che le attribuivano la sofferenza – ben più complessa e profonda – di Lady D. Tempo fa, quando era ancora duchessa di Cornovaglia – avendo avuto l’intelligenza e il buon gusto di non assumere il titolo di principessa del Galles, appartenuto alla “rivale” – Camilla aveva fatto sapere che, una volta sul trono, si sarebbe ispirata alla saggia fermezza del defunto suocero

Filippo: “Il duca di Edimburgo aveva una filosofia molto chiara: “Guarda in alto, fai attenzione, poni domande, parla di meno, fai di più e vai avanti con il lavoro.” È esattamente quello che intendo fare io”. Parafrasando le sue parole, è esattamente quello di cui la monarchia inglese ha bisogno in un momento così delicato della storia del Regno Unito e della stessa Royal Family. Tra mille incertezze, re Carlo III sa di poter contare su quella presenza solida, costante e discreta al suo fianco. Una guida mossa da dolce fermezza, un rifugio sicuro per le intemperie passate e per quelle che verranno. La regina consorte che forse non ha conquistato l’immaginario collettivo, ma che di certo è perfetta per lui. L’amore della sua vita.

Cristina Penco, giornalista professionista dal 2009, scrive di famiglie reali, celebrities, costume e società, lifestyle, attualità e spettacolo. Con Diarkos ha pubblicato "Meghan Markle. Una Duchessa ribelle" nel 2019, "La saga dei Windsor" nel 2020 e "I Windsor. La dinastia di Elisabetta II" nel 2022.

125 TEMI | ELISABETTA

LA STAMPA DIGITALE DI RICOH ISPIRA IL MONDO DEL LUSSO

Il quinto colore incontra Luxury Pret à Porter

uxury prêt-à-porter Magazine nasce da un’idea un po’ folle, nel dicembre del 2019. Un pessimo tempismo per un prodotto fisico, pensato per essere toccato,

L

statunitensi, ci siamo posti l’obiettivo di capire se ci fosse un modo diverso di realizzare una narrazione cartacea periodica non troppo simile a quella che già si poteva trovare in edicola, in Italia. Un prodotto ibrido tra un libro e un magazine; un oggetto che doveva tendere a diventare perpetuo e iconico. Dopo aver analizzato circa 15 case history, spesso ancora in una fase di incubazione o sperimentazione, abbiamo realizzato che la narrazione, quando viene traslata nel cartaceo – qualora si tratti ovviamente di un magazine di nicchia e di alto profilo –passa anche dalla valutazione di ogni minimo aspetto del prodotto fisico.

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“La stampa digitale di elevata qualità garantita dalle tecnologie Ricoh offre una grande opportunità per un prodotto editoriale creativo e flessibile come Luxury prêt-à-porter Magazine. Ricoh Pro C7200X offre tutti i vantaggi della stampa digitale, riproducendo però la vividezza e la brillantezza dei colori tipiche dell’offset”.

Quindi la scelta della carta, o di carte differenti; dei colori, delle tecniche di stampa, dell’aspetto tattile, dei tagli del foglio di carta o della rilegatura. Tutti elementi che diventano parte integrante della narrazione stessa. La stampa, così, non è più semplicemente il punto di arrivo di un prodotto commerciale, ma è parte stessa del processo ed elemento focale grazie al quale poter fare la differenza. In un sodalizio indissolubile, ovviamente, con l’immagine di alta qualità, che insieme alla scrittura contribuisce alla completa riuscita del progetto. Questo nuovo equilibrio, difficile da raggiungere anche – e soprattutto – per gli alti costi di stampa, incontra un alleato inaspettato: la stampa digitale. Questo tipo di editoria, infatti, ha per sua natura tirature limitate (spesso anche numerate), ha spesso la necessità di importanti personalizzazioni nei processi di stampa e flessibilità sui tempi di eventuali ristampe. Così l’analogico per eccellenza – la carta – trova nel digitale l’opportunità del dato variabile, fondamentale nella realizzazione di prodotti quasi sartoriali.

La stampa digitale di alta qualità –garantita, ad esempio, da una realtà dal calibro internazionale come Ricoh – può diventare una grande opportunità per un prodotto editoriale indipendente creativo e flessibile come Luxury prêt-à-porter Magazine, ma non solo, vedendo come si sta muovendo il mercato europeo e mondiale. Oggi, inoltre, le tecnologie come quelle di Ricoh offrono un’ulteriore grande opportunità: la pressoché inesauribile possibilità di sperimentazione sul colore. Con questa idea è nata la partnership con Ricoh Italia che ha dato vita a Luxury prêt-à-porter Magazine - Numero Sette. Il nostro magazine, caratterizzato da molto spazio bianco e per sua natura votato a un solo colore, si è aperto alla narrazione cromatica giocando con una delle più recenti –ed efficaci – conquiste della stampa digitale: l’utilizzo del quinto colore. Per i meno avvezzi ai processi di stampa, si tratta semplicemente di tinte speciali che si distinguono dalle tonalità ottenibili sovrapponendo gli elementi della classica quadricromia: i tre colori primari ciano, magenta e giallo, con l’aggiunta del nero.

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Giorgio Bavuso , Direttore Commercial and Industrial Printing di Ricoh Italia

Ecco quindi comparire, a rappresentare le nostre diverse sezioni, i colori fluo Yellow e Pink, l’Oro del sontuoso racconto dedicato alla Regina, l’Argento a simboleggiare l’accecante luce del flash dei fotografi nella rubrica dedicata. Una miscellanea di tinte forti, così come lo sono le esperienze, le storie e le immagini che cerchiamo di raccogliere all’interno di ogni nostro numero.

E se fino a qualche anno fa riprodurre tutti questi colori speciali in un unico prodotto avrebbe significato elevatissimi costi di stampa e complicati processi di lastratura, oggi tutto è possibile grazie ad un’unica

macchina: la RICOH Pro C7200X Series Graphic Arts Edition. Uno strumento che offre tutti i vantaggi della stampa digitale e ne amplifica le possibilità con funzionalità di alto valore, che i sistemi tradizionali in quadricromia non sono in grado di eguagliare. Una su tutte, appunto, la possibilità di applicare il quinto colore, oltre a una gestione dei supporti all'avanguardia che può portare la creatività ad un livello decisamente superiore, con una grammatura fino a 360 g/m² e opzioni di fogli sovradimensionati. Non da meno, poi, la riproduzione di immagini con dettagli eccezionali a risoluzione di 2400 × 4800 dpi.

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“Il progetto creativo di Luxury prêt-à-porter Magazine sfrutta al massimo le potenzialità della stampante Ricoh PRO C7200X, sommando alla classica quadricromia l'utilizzo del quinto colore. Un valore aggiunto che rende il prodotto ancora più ricercato dal punto di vista sensoriale e visivo”.

Gianluca Ravasi , stampatore e proprietario dell'azienda Restart Printing Solution

Tutti questi strumenti, e non solo, sono stati sfruttati nelle loro potenzialità grazie all’incontro creativo tra Luxury prêt-à-porter Magazine e il team marketing di Ricoh Italia, con un’ulteriore provocazione artistica: un inserto materico a pattern realizzato in carta da parati, stampato grazie ad un'ulteriore macchina digitale targata Ricoh. Si tratta della serie ProL, con stampanti che gestiscono applicazioni di stampa su grande formato, da manifesti e insegne in outdoor a pannelli pubblicitari per negozi, pellicole per display retroilluminati e molto altro ancora.

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RUDY FALOMI

Rudy Falomi nasce a Milano nel 1964, si diploma in comunicazioni visivecinema, televisione, grafica e fotografia - presso l’Itsos di via Pace a Milano. In quarant’anni vissuti nel campo della stampa, dove si occupa principalmente di lavori nell’ambito dell’arte, del teatro e della musica live, la passione per la fotografia non lo abbandona mai, riemergendo sempre più e imponendosi in questo momento epocale in cui si vive una realtà aumentata. Il suo lavoro fotografico è fortemente influenzato dalla sua storia professionale. L’artista, infatti, spesso sceglie come supporto per le sue fotografie la lastra, quella stessa lastra utilizzata come matrice per la stampa di migliaia di copie, che diventerà poi la sua tecnica prediletta e caratterizzante. Unicità creata dallo strappo della fotografia, la tecnica del décollage regala pezzi di carta incollati come se fossero figli che non si vogliono staccare dalle proprie origini. Lembi di carta che evidenziano un particolare,confondendo la percezione. Lo strappo, visto dall’artista già nel momento in cui scatta, diventa il dettaglio che renderà unica quella fotografia, che muta l’immagine pur conservandola. Le sue opere sono esposte presso la galleria d'arte contemporanea Fabbrica Eos a Milano.

www.rudyfalomi.com

FOTOGRAFI
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NUMERO SETTE. FINE. PRINTED IN A LIMITED EDITION BY RICOH
WWW.LUXURYPRETAPORTER.IT

Limited edition stampata con Ricoh Pro™ C7200x Quinto colore: neon pink, neon yellow, gold & silver

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