LUXURY PRÊT À PORTER - Spring-Summer edition 2021

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FUGGIRE

per ripartire

SPRING - SUMMER 2021



EDITORIAL

L

L'associazione migliore che può venirci in mente se pensiamo alla prigionia è innegabilmente la fuga. Così, dopo un anno di libertà a metà, di chiusure, di senso di oppressione che ci ha accompagnato, dopo le rinunce e una libertà di muoverci assai parziale la voglia di scappare, di fuggire lontano, può rappresentare l'esigenza di una normalità che in alcuni casi ricordiamo vagamente. Non siamo quelli che eravamo più di un anno fa, siamo altro. L'esperienza della pandemia è uno choc che ci ha marchiato a fuoco e il fuggire può avere per noi una significato ben diverso da quello che avrebbe avuto mesi fa. Dobbiamo vincere nuove paure, timori che non avevamo mai avuto, a volte persino quello di stare all'aria aperta o in una piazza insieme ad altre persone, quello di muoverci tra le Nazioni, di rimanere senza cure mediche, di non saper gestire l'emergenza. Crediamo che sia giusto ripartire, seppur con cautela, per agguantare la normalità che ci spetta e che ci appartiene. E' nostro diritto e dovere esorcizzare i timori che invadono ancora le nostre menti, affrontare il senso di impotenza tornando a giocare la partita della nostra vita, dopo che per più di un anno un virus ha giocato la partita per noi. Questo numero di Luxury Prêt à Porter è dedicato alla fuga e alla ripartenza insieme. “Fuggire per ripartire” non è

solo una provocazione, ma è parte del racconto che offrirà questo numero del nostro magazine. C'è chi fugge per amore e si inventa una vita tutta nuova fatta di lunghi viaggi e panorami mozzafiato; chi nella pandemia è arrivato sulle vette delle montagne per trovarsi a tu per tu con la natura incontaminata lontano dai problemi di questi mesi. E ancora, raccontiamo le esperienze di lunghi viaggi in paesi dell'Asia tanto diversi dal nostro modo europeo di concepire la quotidianità. C'è anche chi viaggiando, anzi scappando, quasi da clandestino dalla propria realtà, ha avuto l’illuminazione della vita che gli ha permesso di diventare un imprenditore di successo e chi ha percorso un viaggio, non solo fisico, ma anche intimo e introspettivo per riscoprire se stesso e ritrovare la propria vera identità. Il poeta e scrittore gallese Dylan Thomas scriveva: “La vita offre sempre una seconda possibilità, si chiama domani” ebbene, questa ripartenza è il nostro domani, da vivere con coscienza, consapevolezza, stimoli. Da assaporare fino in fondo. Perché vogliamo fuggire dal buio di questi mesi e guardare il sole con un occhio nuovo.

Filippo Piervittori Publisher


CONTENTS 06 14 26 32 36 46 52

Upendo Vibes Due cuori e un van

Eroi di tutti i giorni Alla scoperta delle alte specializzazioni dei Vigili del Fuoco Moda e significati Il caso di Gucci e Harry Styles

Una serie di fortunati eventi Intervista a Simone Ciaruffoli, fondatore di Burgez

Malaysia Viaggio in una terra antica

Fenomeno Reselling L'hype e il mercato globale hanno ucciso la sneaker culture? San Leonardo La porta del Trentino

58 62 68 72 80 84 88

Manuel Otero Marti La sua realtà allo specchio

Roma in silenzio Ma mai così vuota in duemila anni di storia

Spollo Kitchen 2.0 Il gusto della creatività

Cabane Arpitettaz L'emozione dell'altitudine Basilicata La suggestione di Matera

Mini Sempre più originale, sempre più personale

Monopattini Elettrici Mobilità sostenibile per ogni occasione

Masthead Publisher & Editor-in-chief

Editorial Team

Printed by

Filippo Piervittori

Andrea Lehotska Franca D. Scotti Francesco Ippolito Manlio Giustiniani Marianna Stefani Priscilla Lucifora Sara Radegonda Cristina Foddai

Press Up S.r.l. Roma (RM)

Design & Art Direction Luca Lemma

Managing Direction Beatrice Anfossi Ruggero Biamonti

Headquarter: ToBiz Milano | Via Cerva 20, 20122 Milano | P.I.02358520548REA: MI – 2122087 | luxury@rumors.it | 02 - 87226968

Supplemento trimestrale alla testata Rumors.it

Registration N.1/2008 R.P. Trib.PG 12/01/2008

Copyright © 2021 Luxury prêt à porter All rights reserved

Advertising marketing@rumors.it +39 335-7060752 SB S.r.l. Via Rovigo 11, Milano colombo@sbsapie.it +39 366-5656462


Leggera, reattiva, aderente, perfetta per la corsa in montagna e su terreni sterrati: è studiata, sviluppata e testata in Val di Fiemme, Trentino, Dolomiti. Tomaia AirMesh a costruzione slip-on, stabilizzatore STB Control™, suola bi-mescola FriXion Red™.

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ESCAPES

di Sara Radegonda

UPENDO VIBES Due cuori e un van 6


ESCAPES

L

’insofferenza per l’impossibilità di vivere a pieno il loro amore ha spinto Jamie e Sandra a cambiare drasticamente la propria vita. Dall’insoddisfazione, dalla distanza e da una vita vissuta solo a metà è nato UpendoVibes, il progetto di due giovani che, dopo quasi dieci anni d’amore, hanno deciso di abbandonare le reciproche vite per lanciarsi nell’avventura della vita on the road. Jamie è un videomaker e fotografo molto noto nell'ambiente musicale, lei, Sandra, una fotografa e content creator. Come è nata l’idea di abbandonare la vita di tutti i giorni per lanciarsi verso l’ignoto? È nata da un desiderio di cambiamento. Quattro anni fa Jamie abitava a Milano e io vivevo ancora a La Spezia; ci vedevamo una volta al mese, sentivamo la necessità di fare qualcosa per il nostro rapporto, che non stava andando troppo bene. A entrambi piaceva molto viaggiare, quindi un giorno Jamie mi ha detto: “Mandiamo a fanculo tutto, prendiamo una Jeep e vendiamo corsi di fotografia itineranti”. L’idea iniziale, embrionale, era quella; da lì è partito tutto. Dopo aver preso in considerazione mille soluzioni, alla fine è arrivata l’idea di comprare un van. L’abbiamo cercato tanto e, nell’estate del 2017, abbiamo trovato Djambo. E così tutto ha avuto finalmente inizio: ha preso forma l’idea di fare dei viaggi, di provare a collaborare con aziende, di cercare gli sponsor. Sono partite milioni di mail a profusione, fortunatamente qualcuno lo abbiamo trovato e siamo riusciti ad avviare il nostro progetto. L’obiettivo rimane quello di far diventare la nostra vita un viaggio. Infatti, negli ultimi mesi che siamo stati costretti a casa rischiavamo d'impazzire.

Credit: Upendo Vibes #upendovibes | @upendovibes www.upendovibes.com

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ESCAPES

Da dove nasce il nome UpendoVibes?

Il viaggio del cuore?

Abbiamo pensato tanto al nome, e ad un certo punto mi sono messa a fare un po’ di traduzioni in zuahili, che è la lingua parlata in Kenya (paese di origine del padre di Jamie). Ho cercato alcune parole e tra queste c’era anche amore, perché in fin dei conti alla base di questo progetto c’è la voglia di stare insieme. Pensandoci bene, la nostra prima convivenza l’abbiamo fatta su Djambo; abbiamo deciso di lanciarci in questa avventura senza mai aver vissuto insieme, se non qualche weekend a Milano. Tant’è che siamo partiti dicendo “se sopravviviamo a questa, è amore vero”. Quindi ho tradotto la parola “amore” e mi piaceva molto come suonava “upendo”, poi ci abbiamo aggiunto “vibes” per un discorso di orecchiabilità. Sono nate queste “vibrazioni d’amore” che rendono perfettamente l’idea. In uno dei primi post in cui abbiamo raccontato questa cosa, molti ci hanno fatto notare che “upendo” ricorda anche l’espressione “up and down”, ovvero gli alti e bassi che sono parte dei rapporti di coppia; quindi tutto torna alla fine.

Sandra: Per me, senza dubbio, la Patagonia. Jamie: Io sono indeciso tra l’Europa con il furgoncino e la Patagonia. Il viaggio con il furgoncino in Europa è stato il primo “viaggione” di questo progetto; emozione pura, soprattutto di fronte all’aurora boreale a cui abbiamo assistito in Norvegia. In Patagonia invece non c’era Djambo, ma è stata lo stesso un’esperienza unica: panorami che toglievano il fiato e il nostro ambiente preferito, la montagna. Tutto era molto dinamico, si passava in poco tempo dalla montagna al deserto, dall’estate all’inverno, quindi è stato nel complesso molto variegato. In Asia, invece, forse complice la pandemia, non abbiamo trovato panorami che ci facessero dire: “Oddio che bello vorrei rimanere qui per sempre”.

Le mete le scegliete voi oppure programmate i viaggi in base alle richieste degli sponsor? Fortunatamente le abbiamo sempre scelte noi, perché agli sponsor bastano foto in contesti fighi e, in realtà, ovunque tu vada trovi dei luoghi altamente fotografabili. Siamo riusciti sempre noi a scegliere dove andare. Magari ci dicessero dove andare, vorrebbe dire che ci pagano per farlo, fino ad ora non è stato così.

Credit: Upendo Vibes #upendovibes | @upendovibes www.upendovibes.com

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ESCAPES

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ESCAPES

Quali difficoltà si possono incontrare in queste tipologie di viaggi? Per quanto riguarda i viaggi in van sicuramente quelle legate ai problemi meccanici del mezzo stesso. Prima di partire per la Norvegia, tutti ci avevano raccomandato di stare attenti, perché se si fosse rotto qualcosa lì sarebbe stato un disastro a livello di costi. E, ironia della sorte, appena messo piede in Norvegia si è rotto l’ammortizzatore. Gli inconvenienti sono stati il leit motiv di tutto il mese in cui siamo stati lì, perché ogni settimana si rompeva un pezzo di Djambo. Però siamo stati fortunatissimi ad aver trovato dei ragazzi appassionati di Volkswagen t3 (che è il nostro van) che ci hanno ospitato, ci hanno riparato il van e non hanno voluto nulla in cambio. È stata una cosa stupenda. Sempre in Norvegia ci siamo anche ribaltati su un fianco, abbiamo rischiato grosso. In tempo di pandemia invece abbiamo avuto diversi problemi nell’essere accettati dagli alberghi in quanto occidentali. Gli italiani in particolare hanno iniziato ad essere mal visti quando eravamo in Vietnam: a quel punto abbiamo iniziato a fingere di essere tedeschi, francesi o spagnoli.

Non avete mai pensato, in occasione di una situazione difficile, di voler tornare a casa? Mai, neanche ora con la pandemia. Ci abbiamo messo due settimane a decidere se tornare in Italia o restare in Asia. Saremmo voluti restare su un’isoletta della Cambogia, poi invece abbiamo fatto l’errore dell’anno: nel tempo che abbiamo impiegato a tornare a casa (tra ambasciate e ritardi), sull’isola era tornato tutto normale, lockdown finito e tutti felici in giro per la Cambogia. Noi chiusi in casa in Italia.

Credit: Upendo Vibes #upendovibes | @upendovibes www.upendovibes.com

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ESCAPES

Quest’estate avete deciso di intraprendere un viaggio tutto italiano, che fa parte di un progetto un po’ più grande che si chiama “Cambiare vita”, in che cosa consiste? Cambiare vita ci rappresenta in pieno, perché parla proprio della nostra esperienza. L’idea è quella di creare una serie che parli di persone che hanno dato una svolta alla propria vita chi in piccolo chi in grande - o chi ha scelto di intraprendere la strada della felicità, perché non era soddisfatto prima. Quindi, per iniziare, abbiamo incontrato un po’ di persone che hanno scelto di intraprendere un percorso di vita diverso e le abbiamo intervistate. Con Cambio vita vogliamo raccontare non tanto la nostra avventura, ma le storie degli altri.

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ESCAPES

La prossima meta importante?

Come vi gestite con le attrezzature soprattutto durante i viaggi zaino in spalla?

Probabilmente ora saremmo già partiti per il Kenya. È un viaggio che abbiamo fatto nel 2011, perché Jamie ha tutta la famiglia là. È tanto che non andiamo, perciò partiremo il prima possibile indipendentemente dal clima, monsonico o meno. Il primo vero progetto di lavoro sarà invece la continuazione di “Cambiare vita”; vogliamo vedere se riusciamo ad andare a Berlino oppure a intervistare alcuni ragazzi che attualmente sono in Sardegna.

Quando siamo partiti la prima volta in Europa con Djambo avevamo più spazio, quindi ci siamo ritrovati ad avere attrezzatura da vendere, anche troppa. Valige di attrezzature che non abbiamo mai usato e, in questo, l’essere troppo professionisti è un’arma a doppio taglio. Invece, nei viaggi zaino in spalla - come abbiamo fatto in Asia o in Argentina - devi selezionare accuratamente tutto quello che ti porti, deve essere essenziale a livelli esagerati. Hai quello zaino per i due mesi di viaggio, non c’è spazio per comprare nulla. Ora che eravamo in giro per l’Italia per girare la prima parte del progetto “Cambiare vita” abbiamo trovato finalmente la formula giusta: abbiamo creato tutta la parte di video, stile vlog, arrangiandoci con il minimo indispensabile, pur riuscendo a mantenere una qualità alta.

Non vi manca mai la vecchia vita? Direi di no. Vivevamo separati e il nostro rapporto non procedeva benissimo. Lui viveva a Milano e mi chiedeva di trasferirmi lì, io non volevo assolutamente andarci: alla fine questo è stato un buon compromesso. Non rimpiango nulla di quel periodo, preferisco mille volte questa vita. L’abbiamo scelta, non possiamo che esserne contenti.

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ESCAPES

Voi partite da un background come fotografi professionisti e videomaker, secondo voi quanto ha aiutato questa componente nel reportage dei viaggi o nello sviluppare i progetti? In realtà lo può fare chiunque, è sufficiente avere un minimo di inventiva e forza di volontà. Oggi ci sono cellulari che fanno foto pazzesche e abbiamo visto che tante persone che hanno successo in questo campo, pur non utilizzando mezzi ricercati, hanno comunque un bellissimo profilo. Paradossalmente il mondo social finisce per penalizzare noi professionisti, che abbiamo un prodotto molto valido ma non sufficientemente ripagato. Ad oggi siamo in un limbo e dobbiamo realmente decidere la strada da intraprendere: se continuare a fare le cose da youtuber, quindi mantenendo un profilo basso ma con una serie di tecnicismi che ti aiutano, oppure puntare al lato più professionale e di qualità. In ogni caso, l’essere inseriti nel settore ci ha aiutato in molte cose: tanti ad esempio ci scrivono per sapere quale camera o programmi di editing usiamo. Noi abbiamo semplicemente preso quello che sapevamo già fare e lo abbiamo sfruttato per partire con il piede giusto. 13

Qual è il viaggio della vita che, prima o poi, vorreste fare? Jamie vorrebbe andare in Nepal, però a me mettono ansia il freddo e la fatica. Io vorrei vedere i gorilla e visitare meglio l’Africa, perché per ora abbiamo visto solo il Kenya. Vorrei anche andare in Namibia e in Antartide, sarebbe bello trovare qualcuno da intervistare che ha cambiato vita ed è andato a vivere là. Quando eravamo in Argentina, avevamo guardato come raggiungere l’Antartide, però costava veramente troppo. Bisognerebbe trovare una collaborazione per poterci andare, per le persone “normali” è un viaggio impensabile. E Djambo? L’idea è risistemare Djambo per far sì che si possa, non dico viverci, ma avere un’autonomia maggiore. In modo che realmente se vogliamo stare in giro cinque mesi per intervistare le persone possiamo farlo. Ad oggi mancano ancora molte piccole cose che ti facilitano la vita: non c’è la doccia ad esempio, d’estate non è un problema, ma d’inverno è infattibile. Quindi il progetto è di attrezzarlo per poter vivere realmente on the road.


SOCIETY

L

a Spezia, parete centrale del Muzzerone. Un arrampicatore rimane vittima di una caduta di sassi. È una lotta contro il tempo prima che subentri la sindrome da imbraco [schiacciamento dei grossi vasi che porta ad una insufficienza cardiocircolatoria], quindi morte certa. I tecnici operativi del Nucleo SAF vengono allertati e si recano sul posto per il recupero in parete. Il tempo stringe, gli operatori predispongono l’attrezzatura per la calata controllata e l’imbarellamento del ferito, ancora privo di sensi. E questa è soltanto una tra le simulazioni a cui abbiamo assistito. Perché, diciamoci la verità: I Vigili del Fuoco affascinano. A sirene spiegate arrivano, pronti a prestare soccorso e assistenza in ogni scenario. Il personale italiano, poi, è tra i più qualificati e preparati al mondo. Spesso si dà per scontata la professionalità, senza soffermarsi sull'alta specializzazione che gran parte di loro ha acquisito, per senso del dovere o più semplicemente per passione personale. Perché i vigili del fuoco non spengono solo incendi o salvano i gattini sugli alberi. Si addestrano, svolgono impegnativi corsi organizzati internamente dai comandi e si preparano per garantire soccorso in ogni situazione. Le alte specializzazioni sono molteplici: SAF, NBCR, SAPR, USAR, TAS, CRA sono solo alcuni degli acronimi che descrivono le competenze all’interno del Corpo.

di Luca Lemma

EROI DI TUTTI I GIORNI Alla scoperta delle alte specializzazioni dei Vigili del Fuoco 14


SOCIETY

L’iter per arrivare alla certificazione è lungo e graduale. Tutti gli operatori si addestrano in ambienti o simulatori ricreati ad hoc, veri e propri fiori all'occhiello delle esercitazioni di soccorso, volti ad accrescere la preparazione delle squadre. Per capire meglio questo tipo di formazione, siamo andati a visitare una delle eccellenze dislocate sul territorio, il comando di La Spezia. Qui è presente un simulatore di incendio navale, imponente opera ingegneristica alimentata a GPL, unica nel Nord Italia e una delle quattro presenti in tutta la Penisola [le altre sono a Roma, Brindisi e Gioia Tauro ndr].

“Il nostro simulatore è molto operativo a livello nazionale e internazionale. Sta lavorando tanto negli ultimi anni, abbiamo avuto un’intensa attività che coinvolge tutti gli effettivi del Nord Italia, ma non solo. Abbiamo svolto esercitazioni con squadre croate e slovene in merito all'attività addestrativa internazionale NAMIRG (North Adriatic Maritime Incident Response Group), per il rischio di incendi navali nell'alto Adriatico” - dichiara il Comandante dei Vigili del Fuoco di La Spezia Dott. Ing. Leonardo Bruni, aggiungendo - “Il fatto che sia una nave non preclude altre occasioni 15


SOCIETY

di addestramento e di specialità; perché, in realtà, l'incendio in ambiente confinato - che può essere di tipo industriale o civile - ha le medesime caratteristiche: ambienti bui con il fumo, stretti, con alte temperature; dunque l’apprendimento attraverso questo strumento è una scuola che vale per la formazione completa dei Vigili del Fuoco”. Non si tratta solo di un addestramento in ambiente marittimo, è versatile per diversi scenari. Ed è per questo che il simulatore è diventato un vero e proprio campo prove, dove vengono testate anche la vestizione e gli autoprotettori per svolgere un tirocinio della durata di una settimana, molto realistico. “Abbiamo voluto arricchire il sistema nave con il sistema dei cunicoli, che diventano percorsi di simulazione di soccorso in ambienti confinati, anche sotto le macerie (entrare nel tubo è un po' come entrare sotto le macerie di un terremoto). Si può addirittura mettere il fumo dentro al cunicolo. Poi il pozzo, che è l'ultima realizzazione e che stiamo ancora

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SOCIETY

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SOCIETY

“Sono corsi molto tecnici, per i quali occorre la massima preparazione e prestanza fisica”. Il Comando di La Spezia è ben ferrato in questo settore, sia per la conformazione geografica del territorio adiacente, sia per il numero di istruttori nell'ambito del settore SAF, e più in generale nell’ambito degli istruttori professionali. Significa la parte navale e quella del soccorso tout court. Se il soccorso in verticale, le calate e le

migliorando, è la simulazione di un soccorso in verticale, in un ambiente stretto. Insomma, tutte quelle occasioni che ci vedono impegnati nella realtà”. Il Comandante Bruni ci spiega l’importanza dell’alta preparazione e delle specializzazioni che il personale operativo deve svolgere e a cui ambisce: “È un metodo di crescita, un modo di mettersi in discussione. Un Vigile del Fuoco è colui che vuole per sua vocazione, per DNA, portare soccorso nel modo migliore, aspira ad acquisire tutte le competenze utili, persino le più estreme. È il logico sviluppo della nostra carriera”. E se le specializzazioni sono numerose, diverse tra loro, forse la più ambita resta quella del SAF (Speleo Alpino Fluviale) dove, con l’ausilio di tecniche speleo alpine, gli operatori prestano soccorso alla persona in ambiente confinato: da una parete montana al soccorso in spazi confinati. Questa tecnica, nata agli inizi degli anni 2000, è suddivisa in due gradi, il basico e l'avanzato.

attrezzature di derivazione alpinistica affascinano gli operatori, nel corso del tempo si sono aperti nuovi scenari, anche grazie alla tecnologia. Nel 2016, durante il terremoto di Amatrice, la passione e preparazione personale di alcuni operatori ha fatto sì che questo nuovo modo di affrontare la ricerca prendesse vita. Il Nucleo SAPR (Sistemi Aeromobili a Pilotaggio Remoto), in particolare, è composto da personale specializzato nella ricerca di persone, o cose, in diversi scenari. I piloti abilitati affrontano un lungo corso di formazione: sei settimane per quella di base, più altre cinque presso l'aeronautica militare. Perché sì, i droni pilotati da questo Nucleo sono "aeromobili di Stato", autorizzati a sorvolare spazi aerei, e come tali soggetti a normative e leggi specifiche.

Credit: Jamie Robert Othieno #jamierobert | @jamierobert www.jamierobert.com 18


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L'equipaggio di terra, quando si alza il drone, è composto da pilota e copilota, quest'ultimo pronto a intervenire in caso di necessità e riportare a terra l'aeromobile. Attualmente il Nucleo è richiesto e impegnato in molti fronti: nel 2020 le ore in volo (tra operazioni e addestramenti) sono state circa 980. Tantissimi i campi d’impiego: dalla ricerca di persone disperse, al controllo perimetrale di un incendio boschivo, passando per la mappatura di una zona sismica e per la fotogrammetria con cui si ricostruiscono in 3d strutture storiche e cedimenti strutturali. Questi sono solo alcuni dei campi d’intervento dei Vigili del Fuoco italiani, senza dimenticare gli ambiti del soccorso acquatico e alluvionale, della ricerca e del recupero dei dispersi in ambito urbano, del nucleo NBCR (nucleare - biologico - chimico - radiologico), il Servizio di Topografia Applicata al Soccorso e i nuclei di ricerca e soccorso mediante mezzi speciali. Tutte preparazioni, queste, che dimostrano la dedizione e la passione con cui i vigili del Corpo Nazionale svolgono il proprio lavoro, consci dei rischi e dei sacrifici.

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SOCIETY

G LO S SA R I O CRA

SAF (Speleo Alpino Fluviali): nuclei

NBCR

assicura una efficace e precoce risposta

(Contrasto

Rischio

Acquatico):

operativi

Radiologico):

operativa nelle emergenze con scenari di

strumenti e procedimenti di derivazione

emergenze

rischio acquatico.

di

soccorso

che

usano

(Nucleare

Biologico

per legate

Chimico

la

gestione

di

alla

presenza

di

Speleo-Alpinistica.

sostanze

Rescue):

SCTS (Servizio Trattamento Criticità

radioattive e il monitoraggio ambientale.

squadre abilitate alla ricerca e recupero

Strutturali): gestione di problematiche

NEVE GHIACCIO: soccorso in ambienti

in ambiente urbano.

riguardanti l’edificato in condizioni di

montuosi e in caso di valanghe.

TAS (Topografia Applicata al Soccorso):

emergenza.

SOMMOZZATORI:

servizio

NAUTICI: specialisti che intervengono in

ricerca di persone disperse ma anche di

operazioni tramite approccio geografico.

ambito portuale.

veicoli e simili fino a 50 mt di profondità.

SOCCORSO ACQUATICO: si occupano

NUCLEO ELICOTTERI: utilizzati

di

ricerca/salvataggio

USAR

(Urban

per

salvataggi

Search

il

And

monitoraggio

tempestivi

in

delle

acqua

di

persone

dalla alle

cooperando spesso con i sommozzatori.

operazioni di spegnimento di incendi.

SAPR (Sistema Aeromobili a Pilotaggio

NUCLEO CINOFILI: unità di soccorso per

Remoto): piloti di Droni usati per le

la ricerca di dispersi in superficie e sotto

operazioni di ricerca in aree estese,

le macerie con l'ausilio di cani.

remote o ostili.

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pericolose,

si

in

particolare

occupano

della


SOCIETY

FOCUS Il simulatore navale

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SOCIETY

Credit: Damaride Arzà #damaridearza | @damaridea

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SOCIETY

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SOCIETY

In alto a sinistra: Una squadra in esercitazione attacca l'incendio nel simulatore. A destra: il funzionario responsabile nella cabina di comando, da cui si pilotano gli incendi e si controlla la sicurezza degli operatori. In basso a sinistra: Un vigile, con l'ausilio di un termoscanner, ispeziona l'ambiente circostante. 25


FASHION

M O D A E S I G N I F I CAT I Il caso di Gucci e Harry Styles

di Priscilla Lucifora

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FASHION

C

osa distingue la moda dal semplice abbigliamento? La ricerca costante del concetto, non è un segreto. La moda, negli anni sempre un po’ sottovalutata e messa da parte, sminuita e trascurata, tacciata di frivolezza e di utilitarismo, cerca di guadagnarsi un posto tra le arti con le unghie e con i denti e lo fa ammantando di significati superiori e trascendenti le sue creazioni, sfiorando e sfidando l’arte pittorica e la scultura prima e il cinema e la musica poi. Quello che porta alla creazione del concetto, per un brand di alta moda, è un percorso complesso e stratificato, composto da tanti elementi, ed è sempre profondamente legato a un designer e all’uso che il designer fa della storia della maison. Una volta costruito, ammanterà l’identità della casa di moda da capo a piedi, si rifletterà nella scelta delle location per eventi, sfilate e campagne, nella scelta dei testimonial e, ironicamente per ultimo, nella creazione dei capi vestimentari. È il mood, è l’aura, è la fotografia di un momento preciso nella storia di un nome, e influenzerà chi verrà dopo. Quando è congegnato bene, il concetto si trasforma magicamente in storytelling. A volte, la ragione d’essere di un brand viene cercata nel passato, nell’archivio, nel fondatore. È quello che ha fatto Karl Lagerfeld fin dal 1982, quando ha preso le redini della maison francese per eccellenza, Chanel. Individuando e mescolando i codici di Coco ha creato un linguaggio, un alfabeto di elementi da mescolare e comporre, che non ha ancora smesso di sorprendere ed è ancora in uso. La donna Chanel non ha bisogno di cercare le motivazioni del suo essere in luoghi trascendentali e lontani: suo status si spiega in se stesso, forte, imbronciato, misterioso, cocciuto. Kristen Stewart ne è il volto forse più azzeccato del decennio.

Credit: IPA #ipaagency | @ipa_agency www.ipa-agency.net

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Gucci sceglie la strada più affascinante e ambigua, quella del pastiche


FASHION

Altre volte, invece, nella ricerca del concetto si parte dal rifiuto di tutto quello che c’è stato prima. Pensiamo al Dior di John Galliano, con la sua dirompenza politicamente scorretta che lo ha inciso a fuoco, indelebilmente, nella storia dell’alta moda. Il caso che prendiamo qui in esame, quello della casa di moda fiorentina Gucci, sceglie una terza strada, forse la più affascinante per

Angelo Flaccavento in un articolo per Uomo Vogue del gennaio 2020 lo definisce: “un ubermassimalista, un cantastorie nato, colui che ha trasformato Gucci in un luogo eccentrico costruito su un bric-à-brac di questo e quello: un locus amoenus pesantemente profumato di vintage, un laboratorio dove forme e stili sono scelti dall’intera storia della moda e del costume”. La sua scelta in fatto di testimonial è stata, come

la sua ambiguità: quella del pastiche. La visione di Alessandro Michele, nominato direttore creativo nel gennaio del 2015, è una foresta fatata senza spazio e senza tempo, in cui creature sovrannaturali e senza genere vivono in armonia con api, leoni, leopardi e soprattutto serpenti, che Michele definisce “gli animali più ambigui di tutti”: ambigui come la sua estetica. Le sue ispirazioni sono teatrali, labirintiche, stratificate, postmoderne e molteplici: dal barocco agli anni ‘70, passando per il mito greco e latino e per la città di Roma in toto, senza dimenticare del mondo bucolico, delle sale da ballo e dell’ambiente scolastico statunitense dell’immaginario comune, quello dei nerd, dei geek e degli hipster, i suoi protagonisti assoluti. Questo salto creativo, che ha proiettato Gucci in uno spazio completamente diverso rispetto al passato, ugualmente distante sia dal glamour estremamente erotico e sleek di Tom Ford sia dalla fantasia floreale di Frida Giannini, ha fatto scatenare gli esperti di moda. La sua operazione è stata analizzata nei minimi dettagli, scomposta, discussa. La sua influenza è stata immediata e travolgente. A 5 anni dal suo debutto, si fa fatica a ricordare cosa ci fosse prima. Nel febbraio 2016 il Guardian parlava di “abiti che guardi per la prima volta e istantaneamente senti di averli sempre voluti. Michele inizia trend che hanno un appeal di massa. Forse non avete mai sentito parlare di lui, ma se i vostri occhi sono stati catturati da una gonna a pieghe o da una blusa con fiocco negli scorsi mesi, allora siete sotto il suo potere”.

il resto della sua direzione creativa, in larga parte abile e azzeccata, un ulteriore mattoncino nella creazione della sua legacy, una pesca a strascico nel mondo della musica, del cinema, della moda, ma anche del diverso, del non conforme, dello scomodo. Il rischio di immergersi in un’estetica così prepotente per natura, però, è di essere risucchiati completamente da questo turbine di immagini e di uscirne fantocci anni '70, bambole del trasgressivo e del gender bender; passive, che non riflettono nulla se non lo storytelling che Gucci gli ha cucito addosso. Un rischio doppiamente grave, se consideriamo che il designer ci tiene particolarmente a legare alla maison personaggi particolari, che hanno fatto dell’espressione di sé, senza vincoli e senza paura, la loro bandiera. Michele ha selezionato tra le sue muse la cantante folk Florence Welch, la modella Hari Nef, l’attrice Dakota Johnson, Lana Del Rey, Jared Leto, Ellie Goldstein e Armine Harutyunyan. Personaggi che nella maggior parte dei casi erano esteticamente fortemente connotati anche in precedenza, e che in qualche modo si sposano benissimo con il concetto del brand, collocandosi con facilità nella visione sfaccettata del creativo e che ne rispecchiano gli angoli più reconditi, creando uno scambio alla pari tra la loro estetica e quella di Gucci. Non con tutti i testimonial, però, si è realizzata questa armonia di significato e significante, e il risultato, a volte, è molto diverso.

Credit: IPA #ipaagency | @ipa_agency www.ipa-agency.net

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FASHION

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FASHION

Credit: Luca D'amelio

Due esempi? Achille Lauro e Harry Styles. Entrambi cantanti, italiano uno e inglese l’altro, questi due giovani uomini esemplificano alla perfezione il rovescio della medaglia del modello Gucci. Dove ricercare le responsabilità di questo spiacevole appiattimento, quasi una zombificazione del concetto, che trasforma giovani personaggi pieni di potenziale in cartelloni pubblicitari ambulanti? Abbiamo già rilevato la naturale prepotenza dello storytelling made in Gucci. Un altro responsabile, però,

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potrebbe essere l’identificazione completa di questi artisti con il brand, utilizzato come copertina di Linus per nascondere, forse, una mancanza di contenuti reali o di una strategia di comunicazione e d’immagine personale, forte e strutturata. A dare il colpo di grazia, infine, un modo tutto social di vivere la moda e i personaggi celebri ad essa connessi assolutizzandone significati e messaggi e facendone rimbalzare le immagini nell’etere a una velocità spropositata. Una modalità che i brand sfruttano, ma che sul medio lungo periodo va tutto a scapito dei testimonial e, forse, anche dei marchi stessi, che risultano ripetitivi e stancanti, e in ultima analisi forzati, agli occhi degli utenti. Il futuro di questo modello sembra segnato. Le soluzioni possibili sono molteplici. Senza giungere agli estremi, basterebbe creare maggiore equilibrio, rifuggendo le sovrapposizioni totali, scegliendo testimonial più autonomi e meno bandiere.


FASHION

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WINE&FOOD

U N A S E R I E D I F O R T U N AT I EV E N T I Intervista a Simone Ciaruffoli, fondatore di Burgez

di Sara Radegonda

"A

d un certo punto della mia vita decido di partire per New York alla ricerca di un lavoro. Mi imbarco clandestinamente su una nave e una volta raggiunta la mia meta, mentre cammino per le strade della città, incontro un senzatetto. Dopo aver scambiato qualche parola, lui mi regala un piccolo diario che conservava nelle tasche da una vita, donatogli molto tempo prima dai genitori. In questo diario era custodita la famosa ricetta dell’hamburger. Se ero partito per New York con l’idea di sfondare nel mondo della creatività e del marketing, dal quale venivo, a quel punto

cambio idea e torno in Italia pensando di aprire un hamburgeria. Diciamo un fast food di qualità, ma pur sempre un fast food”. Così inizia, nel 2015, l’avventura imprenditoriale di Simone Ciaruffoli, che grazie a una serie di fortunati eventi ha realizzato il primo di tanti sogni: Burgez, un fast food tutto italiano. Ciaruffoli ha voluto raccontare l'incredibile storia di Burgez nel suo libro "Il vangelo secondo Burgez", edito da Mondadori. Qui si ripercorrono, fin dalle origini, tutte le vicissitudini e le tappe di una burocrazia spesso ostile, spiega Simone, in cui gli ostacoli maggiori sopraggiungono

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Avrei agito nello stesso identico modo, anche se invece di fare hamburger avessi fatto bulloni o carta vetrata. L’obiettivo era svecchiare un sistema per molti versi fermo a diversi anni fa” racconta Ciaruffoli. Ciò che distingue Burgez dalla concorrenza è il ruolo centrale riservato ai clienti: “Noi facciamo una cosa simpatica: non creiamo contenuti ex novo, ma usiamo quelli realizzati dagli utenti. Siamo stati i primi a farlo nel 2015, allora perché non avevamo soldi per pagare la creatività, e poi non abbiamo più smesso”. Un sistema che mette al primo posto l’autenticità e sceglie di “snobbare” consapevolmente l’influencer marketing: "L’influencer è semplicemente una persona che fa pubblicità a un prodotto, niente di più. Oggi sponsorizza il tuo panino, può essere che il giorno dopo promuova quello di un competitor. L’affezione al brand non esiste. Quella la trasmettono soltanto i clienti. Un cliente che si fa una foto mentre mangia il tuo hamburger vale cento mila influencer. E questa è una cosa che pochi brand hanno capito”.

soprattutto per un'impostazione di marketing sicuramente originale, nata con un intento dichiaratamente provocatorio. Una provocazione però non fine a se stessa, bensì volta a sostenere una strategia di comunicazione proiettata nella contemporaneità, massicciamente presente sui social e molto focalizzata sulla cura dell’immagine stessa del brand. Un insieme di competenze che derivano dal background lavorativo del fondatore, che dopo un’esperienza di scrittura per la televisione (in cui firma la sceneggiatura di programmi come "Camera Caffè") diventa direttore creativo e editoriale, lavorando con Ford, Adidas e altre importanti aziende. Il marketing di Burgez rispecchia, non a caso, una visione ampia e approfondita del settore, insieme alla parallela volontà di dare vita a qualcosa di nuovo. "Quello che mi interessava creare era un fast food a cui legare una comunicazione diversa.

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Un business che punta tutto sull’autenticità, sapendo sfruttare i canali del mondo contemporaneo. Eppure, nonostante la vena avanguardistica, Simone sceglie di affidare i propri pensieri non al web, ma alle pagine di un libro. “Io credo molto in quello che viene definito out of home o offline, ovvero tutto ciò che non è web”, spiega Ciaruffoli, “non a caso noi di Burgez puntiamo molto sull’advertising su strada. Per tre mesi un tram ha girato per Milano con un manifesto che affermava che l’hamburger di Burgez fosse il più schifoso di tutti. Scriverlo in un post su Instagram sarebbe stato forte, ma farlo comparire ogni giorno sotto gli occhi dei milanesi è stato decisamente più impattante”. D’altronde, la caratteristica distintiva del brand è proprio una forma di guerrilla marketing aggressiva e sfacciata. L’ultima provocazione è arrivata con la campagna di apertura del nuovo locale a Monza, con cui Burgez è arrivato a quota undici store in giro per l’Italia. Sulle vetrine di un locale in ristrutturazione sono apparsi i manifesti con il marchio “Burghy” – la catena di fast food che per prima portò in Italia, più precisamente in piazza San Babila a Milano, hamburger e patatine – accompagnato dalla scritta “Stiamo tornando”. Una campagna che ha fatto sognare i nostalgici degli anni Ottanta, ma che in realtà, non era che l’ultima trovata di marketing firmata Burgez.

Simone ha ora davanti agli occhi solo le possibilità del futuro, ma se dovesse voltarsi per un istante indietro a riguardare il suo percorso, al sé del passato direbbe “che sta facendo bene, ma di dormire un po’ di più la notte”. E a chi si trova in difficoltà che “se non incontra ostacoli non sta facendo probabilmente una cosa importante”. Così Simone Ciaruffoli ci insegna che oggi come ieri, per fare tendenza, bisogna lasciare in qualche modo il segno.

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PALAZZO DUCALE

MANTOVA

Uno dei complessi monumentali più

grandi d’Europa

www.mantovaducale.beniculturali.it


ESCAPES

M A L AYS I A

Viaggio in una terra antica

di Marianna Stefani

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evo ammettere di essere finita in Malesia per cause puramente logistiche. Dopo aver trascorso un mese ad abbrustolirmi al sole sulle splendide spiagge thailandesi avevo bisogno di riposo (sapete, no? Abbronzarsi, gustare cibo buonissimo e divertirsi tutto il giorno sono attività estremamente faticose) e avevo ancora tre settimane prima di dover rientrare a Sydney. Ci sono un sacco di voli che collegano Kuala Lumpur all’Australia, perciò ho pensato “perché no?”, e così mi sono ritrovata su un vecchio bus polveroso a viaggiare sulla costa Sud della Thailandia, diretta in Malesia. Non so quale ragione mi abbia portata fino a lì, ma sono felice che sia successo. Ho scoperto un Paese incredibile con una società multietnica ricca di

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sfumature, cibo squisito, un patrimonio artistico incredibile e uno stile di vita occidentalizzato quanto basta, che aiuta i turisti ad integrarsi e interagire con la gente del posto. Fin dal XIII secolo, la Malesia ha visto i commercianti cinesi e indiani stabilirsi nella parte più a Sud della penisola. Lo stato di Malacca, situato nell’estremità meridionale di fronte all’omonimo stretto, fu un porto importante e uno snodo commerciale che attirò prima l’attenzione dei portoghesi e poi degli olandesi, che all’epoca si giocavano il monopolio del mare. Poi nel XVIII secolo sono arrivati gli inglesi, che hanno governato il Paese fino all’indipendenza della Federazione della Malesia, proclamata nel 1957, che ha unito gli staterelli della penisola. Nel 1963 l’unione con Sarawak, Borneo del Nord e Singapore (espulso poi nel 1965 per differenze politiche e culturali troppo

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profonde) ha dato vita al Paese che oggi conosciamo come Malesia. Il retaggio dell’Inghilterra è ancora oggi evidente sia nel sistema politico che nella moda e nell’architettura, mentre la lingua inglese è parlata molto bene in tutto il Paese. Questo costituisce una spinta enorme allo sviluppo dell’economia del turismo. Ma torniamo al mio viaggio. Ho attraversato il confine sul bus. Dopo un paio d’ore di viaggio sono scesa a George Town, capitale dello stato del Penang, che si trova ad est dell’isola di Penang, connessa alla terraferma da due ponti. George Town è stato il primo insediamento britannico nel Sudest asiatico: divenne fin da subito un porto internazionale e ha giocato un ruolo fondamentale nella crescita della comunità multiculturale malese. Dopo gli anni Settanta, però, i vecchi

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palazzi dell’era coloniale sono stati abbandonati dai governi locali, che non potevano permettersi un processo di urbanizzazione appropriato per la zona. Gli sforzi impiegati negli ultimi anni per restaurare le bellezze storiche della città, hanno portato all’inclusione nel 2008 di George Town nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. La varietà architettonica della città la rende un santuario di etologia. Tra i siti più conosciuti c’è Armenian Street, quartiere storico che ospita moltissime installazioni artistiche e street art. Andare alla ricerca delle opere d’arte è una delle attività preferite dei turisti, e in ogni negozio è possibile trovare brochures con le indicazioni per trovare questi gioielli di arte di strada. Nonostante la maggior parte della popolazione sia musulmana, la città è disseminata di templi e chiese, a dimostrazione dell’immensa varietà culturale della zona. Quella di St. George, ad esempio, è la chiesa anglicana più antica del Sud-est asiatico, mentre il tempio di Arulmigu Sri Mahamariamman, costruito nel 1833, è il luogo di culto induista più antico di Penang. Nel distretto storico è possibile imbattersi in templi buddisti e birmani, così come nella moschea Kapitan Keling, costruita dalla comunità indiana, che con la sua magnifica architettura domina la periferia di Little India, adiacente all’Armenian Street.

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Indiani e cinesi costituiscono i due principali gruppi etnici della popolazione malese, e le loro influenze si notano in ogni dove. Il “Chew Jetty” ne è l’esempio perfetto. Si tratta di un vecchio insediamento cinese a specchio sull’acqua, un pontile che vanta ormai più di cento anni. Originariamente vi erano diciassette moli, da cui si caricavano e scaricavano le imbarcazioni per il commercio con la madrepatria. In seguito, si sono trasformati in pittoreschi villaggi sull’acqua. Dei diciassette originari ne restano solo sei, che ospitano ancora famiglie di diversi clan cinesi. Il Chew Jetty è il più conosciuto e quello più aperto ai turisti: un punto strategico per scattare foto sensazionali al tramonto. Oltre alla bellezza architettonica e al trambusto di George Town, l’isola di Penang offre molto altro. La maggior parte dell’isola è coperta dalla foresta

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tropicale, e questo garantisce tantissimo spazio per attività all’aperto: così, i viaggiatori possono trovare il perfetto equilibrio tra immersioni nella natura e nella cultura del luogo. Gli amanti della campagna prendano nota di Langawi, un piccolo arcipelago di novantanove isole a trenta kilometri al largo della costa nordoccidentale della Malesia, vicino al confine con la Thailandia. Solo quattro di queste isole sono abitate: la più grande è l’isola di Langkawi. Quasi interamente coperta da foreste e vegetazione selvaggia, l’isola di Langkawi offre parecchie strutture turistiche, pur mantenendo allo stesso tempo un’atmosfera rilassata e genuina. Non ci sono trasporti pubblici, ma la mia curiosità mi ha portata a noleggiare uno

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scooter per sfrecciare sull’isola e vedere coi miei stessi occhi la bellezza delle sue colline e l’incanto della giungla nell’entroterra. Mi sono quindi lasciata alle spalle lo splendore di Langkawi per spostarmi verso l’entroterra, dove ho esplorato una zona particolare della Malesia: le Cameron Highlands. Questo piccolo distretto, che prende il nome da un esploratore inglese, ha un clima unico, che spazia dalla foresta tropicale

distruzione della gran parte della foresta pluviale del Paese. La deforestazione mette infatti a repentaglio la salvaguardia di piante e animali, minacciati dal disboscamento del terreno e incapaci di adattarsi a un habitat in continua evoluzione. Sarà difficile invertire la tendenza, dal momento che la Malesia è uno dei maggiori produttori di olio di palma nel mondo. Nonostante l’economia, in passato più

all’aria di montagna: una caratteristica che permette lo sviluppo di un ecosistema estremamente diversificato. Innumerevoli specie di flora e fauna risiedono nella zona, inclusa la splendida rafflesia, una pianta che genera il fiore più grande del mondo. Una parte di quest’area fu ripulita negli anni Trenta per costruirvi campi e fattorie, frutteti e vivai. Il tè è sicuramente il prodotto più popolare, e grazie ai tour organizzati è possibile esplorare diverse tenute di piantagioni di questa preziosa pianta. L’agricoltura è senz’altro una parte importante dell’economia della Malesia, ma ha portato nello stesso tempo alla

rurale, si stia muovendo rapidamente verso il settore tecnologico, la Malesia fa ancora troppo affidamento sull’esportazione del petrolio. Le risorse di greggio e di gas della nazione sono controllate in particolare dalla Petronas, un’azienda del governo che trova il suo quartier generale nelle Petronas Towers, le torri gemelle più alte al mondo. Un progetto senz’altro ambizioso: i due palazzi sono ormai il simbolo della capitale della Malesia, Kuala Lumpur. Questo, unito ad altri piani di espansione delle infrastrutture, è un chiaro segno di come la Malesia stia avanzando e si stia espandendo per guadagnarsi lo status di Paese industrializzato.

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FASHION

di Beatrice Anfossi

FENOMENO RESELLING L'hype e il mercato globale hanno ucciso la sneaker culture?

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Dimenticate la scarpiera da sogno di Carrie Bradshaw. Oggi le scarpe che contano si chiamano sneakers, e per indossarle non si è costretti a fare sport

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partire dagli anni Sessanta del Novecento l’alta moda cessò di essere il solo e unico punto di riferimento dello stile. Il proliferare di subculture giovanili infatti – una su tutte il punk – aveva portato a un’esplosione di nuovi codici di abbigliamento, che potevano essere mescolati tra loro oppure diventare un forte elemento identitario. A New York ad esempio, verso la fine degli anni Settanta si affermò un nuovo genere musicale, che portò con sé una peculiare attitude vestimentaria: abiti larghi e comodi, t-shirt a tinta unita, cappellini e sneakers. Era nato l’Hip Hop, e con esso era iniziata la scalata dello streetwear. Con il tempo le influenze legate a questo mondo – che nel frattempo si era esteso al rap, alla skate culture, alla break dance – hanno iniziato a infiltrarsi sulle passerelle, condizionando scelte e gusti dei brand, e quindi dei consumatori. Sulla scia di queste nuove tendenze, negli anni Novanta – mentre gli stilisti ancora si dividevano tra grunge e minimalismo – esplose negli USA un fenomeno destinato a fare scuola e a ripercuotersi sui ritmi dell’intero sistema moda. Nel 1994 James Jebbia, classe 1963, aprì a New York il primo negozio Supreme: vendeva capi di abbigliamento inizialmente pensati per gli skateboarder, oggetti e accessori, tutti caratterizzati dall’iconico logo su sfondo rosso. A determinare il successo del brand fu però il sistema di vendita: le novità venivano rilasciate in “drop” settimanali, del tutto sganciati rispetto al ritmo stagionale tipico delle grandi aziende di moda, e soprattutto prodotti in minime quantità. Secondo una legge di mercato ben nota, la scarsità finiva per incrementare enormemente il desiderio di acquisto, spingendo le persone a fare code lunghissime fuori dal negozio o a ricomprare gli item online a prezzo triplicato. Il reselling iniziava così ad assumere le caratteristiche a cui lo associamo ancora oggi.

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Di per sé il reselling è in realtà di un fenomeno diffuso, anche in ambiti diversi dall’abbigliamento. È strettamente legato alla pratica del collezionismo, in cui un gruppo ristretto di persone accomunate dal medesimo interesse si scambiano o vendono oggetti. Il prezzo di questi oggetti non viene dettato dal loro valore intrinseco, ma come in ogni mercato è strettamente legato al rapporto tra domanda e offerta, quindi alla loro rarità. Se un tempo era pratica piuttosto comune collezionare monete antiche e francobolli, oggi il mondo guarda sorpreso alla ricerca ossessiva dell’ultimissimo paio di sneakers.

Backdoor: pratica scorretta adottata da alcuni store, che riservano alcune sneaker esclusive per affermati reseller; letteralmente le scarpe passano dalla porta sul retro. Cop: rappresenta l’atto di aggiudicarsi l’item desiderato; “Ho coppato” rappresenta l’espressione di massima soddisfazione di un reseller. Deal: indica la chiusura di un accordo di vendita tra reseller e compratore. Drop: il momento esatto in cui un brand mette in commercio un nuovo item. Release: rilascio di nuovi capi o sneakers da parte di un brand. Raffle: sorta di lotteria in cui viene messa in palio la possibilità di acquistare un item. Sneakerhead: appassionato e in molti casi collezionista di sneakers. Sold/Sold out: indica la chiusura di una vendita e, nel secondo caso, la fine di tutti i pezzi disponibili.


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La sneaker culture non è certamente un’invenzione della Generazione Z, che pure l’ha fatta diventare un fenomeno da oltre 30 miliardi di dollari. La sua origine può essere fatta risalire ai primi anni Ottanta ed è legata ad un avvenimento in particolare: la firma, da parte di un ancora giovane Michael Jordan, di un contratto con il brand di sportswear Nike per la realizzazione di una propria linea di sneakers. Nascevano le Air Jordan, destinate a diventare alcune tra le calzature più conosciute a livello globale. Basti pensare che oggi Nike rilascia circa un paio di nuove Air Jordan ogni mese in edizione limitata, spende poche decine di euro per produrle e le vende a centosessanta a persone che a loro volta le rivendono a prezzi che possono superare i mille euro. E si parla qui di scarpe nuove, rilasciate entro l’anno. Se si entra invece nel mondo dei vecchi modelli,

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tra i prezzi presenti su StockX – una delle piattaforme di riferimento del settore, che segue i trend e l’andamento del mercato – si trovano cifre che superano i trentamila euro. Follia, potrebbe pensare qualcuno. Una passione come un’altra, potrebbe rispondere qualcun altro. Passione che in qualche modo ha finito però per impattare enormemente sull’ampio e complesso mondo della moda. Innanzitutto lo streetwear, sneakers in primis, è ormai entrato a pieno titolo nei circuiti ufficiali: un punto di svolta segnato in particolare dalla collaborazione tra il colosso francese Louis Vuitton e Supreme, che nel 2017 ha sancito forse il punto più alto (e poi la sua inesorabile ricaduta) dell’evoluzione del brand newyorkese e la definitiva consacrazione dello streetwear nell’olimpo dei grandi del sistema. E poi perché gli stessi big player, memori del modello di business vincente di Supreme, hanno capito che la scarsità rappresenta non soltanto la principale leva del mercato del lusso, ma può tradursi anche in uno strumento destinato alla sua democratizzazione.

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Quando brand come Adidas o Nike decidono di lanciare un nuovo prodotto esclusivo – perché prodotto in piccole quantità – non lo destinano naturalmente a una ristretta élite. Al contrario, lo mettono a disposizione di tutti attraverso il meccanismo delle raffle: una sorta di lotteria, il cui premio non è la vincita del prodotto in sé, ma la possibilità di acquistarlo – di solito a un prezzo ragionevole. Non tutti i vincitori acquistano però il prodotto per indossarlo o collezionarlo. Inevitabilmente la scarsità fa sì che ci siano persone che, pur di entrare in suo possesso, sono disposte a spendere cifre esorbitanti; quindi alcuni tra i fortunati vincitori decidono di rivenderlo. Ed ecco che l’hype cresce, e con lui il nome del brand. Il fenomeno del reselling finisce così per generare un suo mercato indipendente, che genera utili esorbitanti (per i reseller più affermati) e finisce per accentuare disparità e ineguaglianze. Se da un lato infatti è normale – e legale – che il prezzo venga stabilito da chi è in possesso dell’oggetto, basandosi sull’andamento del mercato, è anche vero che questo meccanismo ha finito per determinare fenomeni non del tutto regolari. Uno dei più eclatanti, nel settore, è definito backdoor, letteralmente “porta sul retro”: si verifica quando negozi esclusivi, a cui viene destinato uno stock del numero limitato di calzature rilasciate del brand, invece di venderle regolarmente a chiunque desideri comprarle preferiscono destinarle ad affermati reseller con le giuste conoscenze, che a quel punto sono liberi di venderle a prezzo maggiorato. Una forma di concorrenza sleale che spesso finisce per impedire a coloro che sono fuori dal giro di assicurarsi un paio di sneakers al costo di vendita stabilito dalla casa madre.

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Ma in tutto questo i brand come si collocano? Nel panorama della sneaker culture – che ci tiene a mantenere le distanze da quello che oggi viene definito lo sneaker game – c’è chi li accusa di appropriazione culturale a scopi meramente commerciali. Ma d’altronde è il destino che attente la maggior parte dei prodotti che escono da una nicchia per affacciarsi sul mercato generalista. Quando però questo mercato potrà dirsi saturo? Difficile a dirsi. Quel che è certo è che per il momento i grandi marchi non possono che giovare dell’hype generato da questo tipo di meccanismi, in termini di reputazione e di mercato.

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SA N L E O N A R D O La porta del Trentino

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di Manlio Giustiniani

n tempo feudo ecclesiastico, oggi sinonimo di una delle eccellenze che hanno fatto la storia del vino in Italia. San Leonardo in Sarnis è un piccolo borgo situato nei pressi di Avio, in Trentino, sulla riva sinistra dell'Adige. Lo circondano distese di vigneti, protetti dai venti freddi del Nord dai Monti Lessini e baciati dalla brezza dell'Ora, che soffia dal Garda creando un microclima temperato. Il borgo mostra testimonianze di coltivazione della vite già nel periodo medievale. Soltanto nel 1215 si è attestato però il toponimo San Leonardo, quando intorno alla Chiesa nacquero un monastero e un ospizio dell’ordine dei frati Crociferi, circondati da boschi, campi e vigneti. La famiglia De Gresti iniziò a gestire la tenuta nel 1646 e l’acquistò nel 1770; con il matrimonio della marchesa Gemma de Gresti con Tullo Gurrieri Gonzaga, padre di Anselmo e nonno di Carlo, nel 1894 questa divenne proprietà dei marchesi Gurrieri Gonzaga. Fu proprio Anselmo a guardare alla proprietà con nuovo spirito imprenditoriale e a introdurre grandi cambiamenti, animato dalla sua innata passione per l’enologia. Il vero e proprio momento di svolta avvenne però nel 1974, quando il compito di dare un nuovo volto alla proprietà di famiglia passò nelle mani del figlio, Carlo Guerrieri Gonzaga, enologo e conoscitore dei grandi vini di Bordeaux. Carlo aveva studiato enologia a Losanna ed era poi approdato in Toscana, in particolare nella Tenuta San Guido, dove approfondì le sue conoscenze sui vitigni bordolesi e sull’uso delle barrique, sotto la guida di Mario Incisa della Rocchetta. Al suo ritorno, molte cose cambiarono nelle vigne dell’azienda trentina: alla classica

pergola furono affiancati il guyot e il cordone speronato e accanto al Carménère (che si pensava fosse Cabernet Franc) e al Merlot, varietà presenti ormai da secoli, furono introdotti nuovi vitigni, tra cui Cabernet Sauvignon e il Cabernet Franc. Dal 1985 al 1999 il Marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, nobiluomo di grande eleganza e stile (come i suoi vini), si è affidato ai consigli di Giacomo Tachis, e poi, dal 2001, anche del figlio Anselmo, oggi amministratore dell’azienda, innamorato di questa terra trentina, dei suoi orizzonti, delle sue montagne e dei suoi profumi. Dagli anni Settanta però, ogni giorno in azienda con il ruolo di direttore della tenuta - c’è Luigino Tinelli, braccio destro dei Marchesi e attento “interprete” di quanto richiesto dai consulenti aziendali, come Carlo Ferrini, brillante enologo che oggi segue i principali progetti di San Leonardo. Una presenza preziosa sia sotto il profilo tecnico che come insuperabile memoria di tutti i passaggi che i vini della tenuta hanno affrontato negli ultimi quarant'anni. I vini di San Leonardo Il 1982 fu l’anno della prima vendemmia per il San Leonardo come lo conosciamo oggi, frutto di un rinnovamento radicale nato per volontà del marchese Carlo, che desiderava produrre un vino identitario di grande stile ed eleganza. In azienda arrivarono le prime barriques e in cantina si lavorò non più sulla base di uvaggi definiti in vigna ma sull’assemblaggio dei vini deciso dopo la maturazione in legno. Tutto ciò è il risultato della determinata convinzione di Carlo Guerrieri Gonzaga che la sua terra avesse caratteristiche così particolari da poter percorrere la strada dell’eccellenza viticola. Così il San Leonardo si

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impose tra i nomi di riferimento dell’enologia italiana. Tra il viale dei tigli, il laghetto, il parco, le vigne, il giardino regno delle rose e la villa de Gresti a San Leonardo ci si ritrova immersi in un ambiente magico, frutto di cure incessanti e di un insieme di eleganza e di equilibrio. Un totale di trecento ettari di proprietà di cui trenta vitati. La viticoltura prevede filari con vari orientamenti, che seguono le pendenze e l’esposizione alla luminosità solare. Un microclima ideale accompagna lo sviluppo dei grappoli e la maturazione, con la forte escursione termica tra giorno e notte che dona non solo spessore all’aroma delle uve ma ne dilata i tempi di maturazione: solo a

metà settembre infatti si prevede l’inizio della raccolta, che si protrae poi per gran parte del mese di ottobre. Principalmente cinque ettari impiantati a Merlot di cui uno coltivato a pergola e quattro a cordone speronato, a circa 150 metri s.l.m., su terreni ricchi di ciottoli che furono il letto di una diramazione dell’Adige. Mentre è prevalentemente un suolo sabbioso quello che tra i 150 e i 250 metri s.l.m. accoglie i dodici ettari di Cabernet Sauvignon coltivato a cordone speronato e le antiche vigne di Carménère, quattro ettari, il 50% a pergola e 50% a guyot. Tutti terreni a bassa fertilità e ben drenati da cui nascono quattro vini: San Leonardo, Carmenère, Villa Gresti e Terre di San Leonardo. I dieci ettari di Riesling e il Sauvignon destinato al Vette di San Leonardo, sono situati nel nord del Trentino, in Val di Cembra, dove terreni e clima assicurano alle uve bianche freschezza e mineralità.

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La conduzione agronomica delle vigne e in generale tutte le attività agricole della tenuta sono caratterizzate da un totale rispetto per il territorio, e seguendo questa filosofia, l'azienda ha iniziato nel 2015 il percorso di conversione all'agricoltura biologica, conseguendo la certificazione alla fine del 2018. Le fermentazioni dei vini si svolgono nell’antica cantina, con lieviti indigeni nelle vasche in cemento vetrificate, senza l’ausilio di tecnologia, mentre durante il processo di vinificazione sono eseguiti numerosi rimontaggi e délestages. San Leonardo 60% Cabernet Sauvignon, 30% Carmenère e 10% Merlot La vendemmia per il San Leonardo inizia solitamente a metà settembre con il Merlot e poi si protrae in ottobre avanzato per il Cabernet Sauvignon e il Carménère. Ciò che distingue il vino simbolo della tenuta e gli

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conferisce quell'unicità immediatamente percepibile è il suo terroir, la calda nordicità della terra in cui nasce, che non lascia margini a eccessi di opulenza ma dona un naturale equilibrio. Freschezza ed eleganza dopo qualche anno di affinamento in bottiglia sono i suoi dati distintivi, che si rivelano fin dai profumi in un crescendo lento ed affascinante. I vini fermentano con lieviti indigeni in tini di cemento vetrificato, con lo svolgimento della malolattica e un uso di anidride solforosa molto basso. Le lunghe fermentazioni spontanee consentono l’estrazione dei tannini nobili, mentre la maturazione avviene in barriques di rovere francese di primo, secondo e terzo passaggio per 24 mesi nella barricaia sotteranea, cui segue l’assemblaggio dei vini base e infine un affinamento in bottiglia di un anno.

Credit: San Leonardo Library Archivio #sanleonardo | @sanleonardo_

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San Leonardo 2000 L’annata meno piovosa dal 1983 al 2000. Ottimo il periodo della fioritura, tra maggio e giugno, con un settembre completamente asciutto. La vendemmia si svolse tra la metà di settembre e i primissimi giorni di ottobre con perfette condizioni climatiche. Color rubino, profumi fruttati in confettura e note balsamiche, sentori erbacei. Palato morbido, Vino complesso, tannini vellutati, di grande equilibrio, di un’ottima lunghezza e una persistenza aromatica esplosiva nel retrogusto mentolato. 96/100

San Leonardo 2005 Annata iniziata con un aprile molto piovoso, a cui seguirono però una bella primavera, un agosto abbastanza piovoso e poi un bellissimo settembre. La raccolta è iniziata il 19 di settembre con il Merlo e si è protratta fino al 9 di ottobre con la raccolta del Cabernet e Carménère. Colore rubino che vira verso il granato, naso evoluto con aromi di frutti di bosco, note di sottobosco, sentori speziati di pepe, note vegetali di peperone. Palato variegato e speziato, tannini setosi e bella mineralità con un finale sapido. 94/100

San Leonardo 2007 L’annata 2007 è iniziata con molto anticipo rispetto alla media. Un aprile asciutto e caldo ha portato ad una precoce fioritura, avvenuta a metà maggio. I mesi di giugno e luglio asciutti e le pioggie di inizio e fine agosto non hanno invece influito sulla maturazione. La vendemmia è durata più di un mese si è conclusa all’inizio di ottobre, donando uve sane. Colore rubino cupo, intensi sentori di frutta matura, amarena, sentori di grafite e cuoio, leggeri sentori tostati, cioccolato e nuance balsamiche. Al palato, tannini vellutati, grande materia con una bell’acidità, e un notevole equilibrio. Chiusura lunga e persistente. Un vino splendido. 97/100

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San Leonardo 2008 Annata asciutta, con un’ottima escursione termica ad agosto e un mese di settembre che ha permesso una perfetta maturazione delle uve e un ottimo rapporto zucchero/acidità. La vendemmia, iniziata verso il 20 di settembre con la raccolta del Merlot, è proseguita con la raccolta del Carménère per poi terminare il 10 di ottobre con la raccolta del Cabernet Sauvignon. Colore rubino brillante, olfatto tipico con note di more, lamponi, sentori di erba di montagna, toni balsamici, tabacco. Al palato ampio, elegante, equilibrato con una coerenza gusto olfattiva, con una chiusura persistente 95/100

San Leonardo 2011 Un inizio di stagione precoce. Agosto e settembre asciutti con un'importante escursione termica che ha portato le uve ad una perfetta maturazione. La vendemmia è iniziata il 20 settembre con il Merlot e si è conclusa il 10 ottobre con il cabernet Sauvignon e il Carménère. Colore rubino brillante, aromi fruttati di more e mirtilli, fresco nei toni balsamici, tabacco, erbe di montagna, sentori speziati di chiodi di garofano e liquirizia. Al palato ampio, ricco, elegante ed equilibrato con una perfetta rispondenza gusto olfattiva e una chiusura armonica e persistente. Strepitoso! 99/100

San Leonardo 2015 Annata con un inverno mite e una primavera nella norma. Un giugno piovoso ha favorito una rapida vegetazione e una buona riserva idrica per i mesi estivi, con temperature nella media e una buona escursione termica. La vendemmia ha avuto inizio il 22 settembre ed è proseguita fino al 12 ottobre. Colore rubino intenso, profumi fruttati di lamponi, ribes e mirtilli, seguono sentori di incenso e note empireumatiche e ferrose, fino a nuance di salamoia e tabacco. Al palato una bella freschezza nordica edelegante, con tannini setosi e raffinati e una chiusura lunga e persistente. 96/100

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MANUEL OTERO MARTI La sua realtà allo specchio

di Ruggero Biamonti

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È

un vulcano Manuel Otero Marti, argentino di nascita, giramondo per vocazione e ardore culturale. Nella sua vita ha studiato in Italia e negli Usa, ha vissuto in Angola e ha un solido rapporto con il Brasile. Per lui il viaggio è scoperta dell’altro, continuo incanto delle diverse lingue e culture che si sono susseguite

Uno dei personaggi intraprende un viaggio onirico, per trovare la sua realtà Di recente è uscito "Realtà allo specchio", il tuo romanzo. Vuoi parlarcene?

nei suoi spostamenti, ma soprattutto un mezzo per giungere all’essenza delle cose e di se stesso. Recentemente è uscito il suo libro Realtà allo specchio (Montabone Editore), un viaggio di consapevolezza personale della protagonista, una donna che fugge dal mondo sovrastato da relazioni virtuali per rifugiarsi in un universo inconscio, che la aiuterà però a ritrovare ciò che anela. Manuel ci ha parlato della sua ultima creazione letteraria, e siamo riusciti anche a strappargli qualche dettaglio sul futuro e sul secondo libro.

Il libro è divertente, ma non troppo. L'ho scritto tre anni fa – allora il Covid-19 non c'era – ed è nato in contemporanea con un progetto artistico. Racconta una storia d'amore tra un uomo e una ragazza, che sono chiusi in un posto e non hanno relazioni con l'esterno se non solo attraverso il virtuale. Una situazione assurdamente attuale. Poi uno dei personaggi intraprende un viaggio onirico, per trovare la sua realtà: ci porta in questo viaggio che svela molte cose delle donne, un tema importante in questo momento. C'è anche una forte critica al virtuale.

Iniziamo parlando di te. Come ti definiresti? Manuel Otero Marti è...? Mi definisco argentino, perché sono nato lì. Però in realtà ho vissuto in molti posti: sono metà francese e metà spagnolo e ho vissuto in Africa quando ero piccolo, in Angola. Mi ha cresciuto una tata brasiliana, a casa parlavo molte lingue: mio padre era spagnolo, ma galiziano del nord, quindi parlava dialetto. Sono andato a fare il college in America, poi sono tornato a vivere in Brasile e infine in Italia: il Paese in cui ho vissuto più a lungo.

Credit: Manuel Otero Marti #manueloteromarti | @manueloteromarti www.theessence.it

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C'è anche il fatto che la gente si abitua e in un certo senso ti idealizza. Qui torniamo a parlare della differenza fra apparenza ed essenza. Penso che sia un tema che ti è molto caro visto che hai creato The Essence Project, una performance realizzata a Roma, con un significato particolare: un ritorno all'essenza.

Il virtuale che influisce sulle nostre vite, dunque. Tu scrivi: “Il vissuto forma la parte più importante della propria personalità e fortifica l'anima”. Quindi c'è una differenza tra virtuale e vissuto. Cosa è più importante? Il sogno di una persona è il motore, ciò che ti spinge. Il vissuto di una persona invece è ciò che determina quello che sei.

Un ritorno all'essenza perché nella vita non si può essere qualcosa che non si è e non si sarà

Ormai noi viviamo sui social, noi andiamo sui social, anzi, sono loro che entrano nella nostra vita. Come gestirli per non farci sopraffare? Io non permetto che i social prendano il sopravvento sulla mia immagine, sulla mia vita. La gente che ti guarda sui social dice: “Okay questa persona sta benissimo” e magari tu non stai bene per niente! Quello che traspare agli altri è quello che gli altri vorrebbero vedere di te, ma a questo punto la gente si aspetta sempre di più non sapendo come veramente ti trovi.

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mai. Io mi sono dovuto svestire e togliermi le vesti di ciò che io credevo d’essere realizzando che ormai non lo ero più, così tornando alla mia vera essenza. Soprattutto l’atto del togliersi le vesti. Spesso per buona parte dell'esistenza si desidera raggiungere un obiettivo, perché in quel momento si ritiene che tutta la tua felicità dipenda da quello. Ma poi ti svegli, ti rendi conto che è apparenza. Ti rendi conto che l'apparenza non va più d'accordo con quello che tu sei…


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Dacci qualche dettaglio sul tuo libro...

Tu cosa hai fatto in questo lockdown? A parte tante cose che sappiamo, un libro e molto altro. Hai scavato ulteriormente in te? Molto, ho trascorso il lockdown in un posto di montagna, un luogo meraviglioso. Ho approfittato del tempo a disposizione per consolidare il progetto The Essence Project: l'idea originale era svestirmi nel museo davanti a 500 persone, togliendomi, in un gesto simbolico, le catene del passato. Quella era l'idea che attualmente si è evoluta con le istallazioni materiali, con le quali le persone possono interagire. La prima parte del lockdown mi ha insegnato che le persone non erano soddisfatte, nonostante avessero tutto il necessario intorno a loro per esserlo. Quello che io ho cercato di fare in quel primo periodo è stato raggiungere la consapevolezza di ciò che mi circondava. The Essence Project ha come idea principale: tu diventi una persona più sicura.

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Realtà allo specchio, il mio primo libro, è un romanzo particolare che non ha dialoghi, né capitoli, né riferimenti temporali. È onirico, molto scorrevole e con pochi personaggi. Questo nuovo romanzo è molto diverso, diviso in capitoli, con tantissimi dialoghi e personaggi e molti accenni storici. È una storia molto particolare che ho a cuore. Rappresenta la condivisione di quello che è stato il mio vissuto per poterlo trasmettere agli altri. Sono passato dall’astratto al molto particolare. È un libro molto fiorito, molto buffo, malinconico ma molto diverso dal precedente”

Più tradizionale più formale, diviso in capitoli con dialoghi e personaggi più definiti... quindi sei passato dal generale al particolare. Il titolo non si sa... forse prossimamente? Lo specchio è scorrevole, facile da leggere ma un po' onirico. Quello nuovo è un po' più lungo però è molto colorito. Bisognerà aspettare un po' per conoscere il titolo!


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di Filippo Piervittori

ROMA IN SILENZIO

Mai così vuota in duemila anni di storia 62


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gni ricordo che avevo di Roma era legato inscindibilmente alla vitalità, alle persone, ai suoni. A volte al rumore e ai profumi particolari che nella mia mente accompagnavano le immagini della Città Eterna. Un'immensità raccontata da tanti elementi, che si sommano per comporre non soltanto Roma ma l'essenza stessa della romanità. Anche in giornate trascorse al lavoro nella nostra Capitale questo mix di sensazioni è sempre stato un fil rouge, tanto da dare quasi per scontato da

parte mia che non potesse esistere una Roma diversa da ciò che è sempre stata. Potrei definirlo un privilegio, sebbene sia avvenuto proprio durante la pandemia, in un momento difficile e sfortunato per l'Italia e il mondo intero; ma trovarmi proiettato nel corso di uno dei lockdown più severi, in una Roma surreale - difficile persino da immaginarsi è un ricordo che porterò con me per sempre. Una città cristallizzata, sola con sé stessa in un silenzio surreale; forse l'elemento più difficile da immaginare se si pensa ad una metropoli così viva e latina... in tutti i sensi.

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Essere praticamente soli in Piazza San Pietro, o ammirare l'immensità del Colosseo avendo giusto due militari lontani che scrutano il Foro ti avvicina ancora di più alla città, che ti parla, ti racconta cose che tante altre volte sono passate in secondo piano. Ti proietta nel profondo della sua essenza. Il silenzio regna indisturbato anche davanti ai palazzi della politica, o a Trastevere. L'Altare della Patria svetta solitario in una Piazza Venezia dove non ci sono turisti, ma soltanto la bandiera italiana toccata dalla brezza, Villa Borghese dà spazio a nient'altro che al cinguettio degli uccelli, quasi fossimo in piena campagna. In un contesto così capiamo forse meglio quale fortuna abbiamo noi italiani: avere uno sterminato patrimonio artistico, architetture con storie millenarie, elementi che spesso sfuggono alla nostra vista per abitudine o per noncuranza. Il turismo di massa - tratto caratteristico delle città d'arte italiane spesso non ci permette di godere appieno di questa bellezza che forse solo questa volta ci intimidisce per la sua imponenza, facendoci sentire piccoli

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Credit: Filippo Piervittori #filippopiervittori | @filippopiervittori

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osa mangiano i designer? È una domanda che può far sorridere. Mangeranno quello che mangiano tutti gli altri, no? Beh, probabilmente sì. Ma per un designer è importante come qualcosa viene fatto: qual è il progetto che anima un artefatto, quale visione ha portato alla realizzazione di un’opera - in questo caso, di un gustoso piatto. La tipografia CTS Grafica ha cercato una risposta a questa domanda, diventando così la promotrice di Spollo Kitchen, un progetto iniziato nel 2013 che prosegue ancora oggi, evolvendosi in forme sempre nuove. Un’idea ha portato alla realizzazione di un incredibile ricettario visivo, risultato di un processo che ha creato un canale di comunicazione (e contaminazione) tra graphic design e cucina. Il volume, edito Corraini, è stato realizzato in collaborazione con Polyedra e con il patrocinio di AIAP (Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva) e ADCI (Art Directors Club Italiano). Tutto ha avuto inizio a marzo 2013, quando moltissimi progettisti italiani e internazionali sono stati invitati a creare delle illustrazioni per reinventare le loro ricette preferite. Una giuria formata da cinque professionisti della grafica editoriale ha selezionato dal gruppo di partecipanti “solo” cento designer. Il primo volume di Spollo Kitchen contiene le loro ricette, spiegate e illustrate. Ricette belle da guardare, ma soprattutto da provare.

di Cristina Foddai

S P O L LO KI T C H E N 2 .0 Il gusto della creatività 68


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Tutti i piatti sono stati infatti realizzati con la consulenza di uno chef professionista, spesso direttamente in tipografia. Tutte le fasi di lavorazione sono state fotografate, le ricette assaggiate e giudicate. Il volume è stato presentato al pubblico in due eventi organizzati nel 2014 da CTS Grafica: a Roma presso il Lanificio 159, e a Milano presso i Frigoriferi Milanesi. L’allestimento di questi eventi è stato studiato per dare spazio a tutti gli step del progetto. Un labirinto di totem con manifesti faceva da cornice

alle videoproiezioni di tutti i 570 progetti pervenuti, i backstage di cucina e il fatidico assaggio delle pietanze realizzate seguendo il ricettario. Il progetto ha avuto un enorme successo, tanto da essere rapidamente andato soldout. Quest’anno è stato realizzato perciò il “sequel”: Spollo Kitchen 2.0 è infatti la seconda edizione del progetto originario. Il secondo volume ripropone la raccolta di ricette e gli elaborati grafici dell’edizione originale, col valore aggiunto dato dalle nuove e sofisticate

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tecnologie di stampa impiegate, che lo rendono a tutti gli effetti un volume da collezione. Un tomo immancabile sul coffee table di ogni amante dell’arte e della buona tavola, oltre che un regalo utile e divertente che garantisce una bella figura (e probabilmente un invito a cena, per testare le gustose ricette al suo interno). Anche Spollo Kitchen 2.0 parte dal presupposto base della progettazione, ovvero che le nostre scelte sono sempre motivate da una forte emozione (anche quando si tratta di cibo, come in questo caso). Qualsiasi scelta, anche quella apparentemente più ragionata, parte da un primo moto istintivo. A volte la logica e la razionalità prendono il sopravvento, ma è praticamente quasi impossibile stabilire con esattezza perché si preferisca un gusto rispetto ad un altro. Spollo Kitchen è partito da questa idea, ambendo a diventare qualcosa di più affascinante di un semplice ricettario illustrato.

CTS Grafica Srl #ctsgrafica | @ctsgrafica www.ctsgrafica.it

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Si tratta di un vero progetto di graphic design, che fa convergere passioni e pensieri di questi artisti, la fotografia, la cucina e l'infografica. È un momento di riflessione sulle tendenze della grafica in Italia, soprattutto quando questa diventa espressione libera e divertita. L’utilizzo di tecnologie di stampa di ultima generazione ha permesso di ottenere un risultato di altissima qualità: un volume moderno e curato nei minimi dettagli. Inoltre, si tratta anche di un libro environment-friendly. Infatti, dal 2009 CTS Grafica è anche certificata per la catena di custodia FSC® (Forest Stewardship Council). La certificazione a marchio FSC® indica che la cellulosa impiegata per fabbricare il prodotto proviene da una foresta correttamente gestita secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

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CA BA N E D 'A R P I T ET TA Z L' e m o z i o n e d e l l ' a l t i t u d i n e

di Andrea Lehotska

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roprio quando l’Italia ha finalmente sperimentato tutta la scala di colori caldi nelle sue zone e lo stivale più famoso del mondo passa pian piano a zone gialle semi libere, la Svizzera entra in pieno lockdown. Mi coglie alla sprovvista, lasciandomi come unica valvola di sfogo il mio salone che si affaccia sui gioielli più preziosi della mia terra - le vette del massiccio montuoso Weisshorn/ Zinalrothorn. Mi ritrovo così ad affacciarmi dalla finestra e a guardare fuori perdendomi nella contemplazione delle cime innevate; un mondo da sempre presente, sempre uguale eppure sempre nuovo e sconosciuto, carico di dettagli da scoprire. Incredibile come con la sola luce del sole i ghiacciai vergini non risultino più lontane macchie grigie ma brillanti cristalli, così nitidi e autentici da illudermi di poterli toccare allungando il braccio. Più volte al giorno mi fermo ammaliata da queste vette che mi accompagnano durante il giorno, dalle fredde ombre dell'alba fino ai soavi riflessi del tramonto. Mi accompagnano come hanno fatto e faranno con decine di altre generazioni, a testimoniare in silenzio la nostra evoluzione, le nostre quarantene, le nostre mattine frizzanti o piogge incessanti. Come una dea sedotta dal suo dio al punto di conoscere ogni neo del suo corpo, imparo a memoria le posizioni delle pochissime luci

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fisse sulla catena montuosa, e ogni nuova scintilla dà vita a un'immaginazione: è un gatto delle nevi, una stazione, un rifugio che qualcuno sta usando per ripararsi dalla notte? A cosa pensa la persona che sta lì proprio adesso, calpestando la neve millenaria, a 4000 metri e a meno 20 gradi? Questo osservare così semplice e istintivo mi ricorda quanto siamo piccoli, temporanei, un minuscolo granello di un intero deserto. Sento rinsaldarsi con forza un legame invisibile quanto essenziale, quello che lega ognuno di noi alla natura e, con la natura,

al mondo. Ho deciso che un giorno ci andrò, raggiungerò quelle creste talmente definite da sembrare taglienti, talmente perfette da sembrare disegnate, talmente maestose da sembrare irraggiungibili. Sono anni che destano la mia ammirazione, bramano la mia attenzione, mi colpiscono giorno per giorno, mi incantano a ogni occhiata, mi conquistano a ogni apparizione. Camminerò finché non sarò la luce dispersa nel buio che qualcuno noterà, camminerò finché non saprò a cosa ci si pensa quando si arriva ai piedi di un ghiacciaio.

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La primavera sta pian piano esplodendo nelle città, le gemme si trasformano in fiori profumati, l’aria si riempie di colori, di odori, di canti di uccelli: sembra di sentire tutto per la prima volta qui a Zinal, il mio punto di partenza verso La Cabane d'Arpitettaz, un solitario rifugio a circa 3000 metri dove sarà ancora la neve a fare da regina. Zinal, annidata a 1675 metri e incoronata da sommità di 4000 metri come Weisshorn, Bishorn, Zinalrothorn o Cervino, offre con una costante camminata in salita e vari percorsi per raggiungere la capanna di riparo. Scelgo un percorso blando a salire, considerando gli 1111 metri di dislivello e i 12 chili di zaino, mentre al ritorno, a provviste finite e carico più leggero, opterò per l'avventuroso 'Passo dei cacciatori'. Questo percorso diventerà il mio brivido preferito. Accorcia la distanza ma non il tempo, attraversa la ripida e fitta foresta e necessita

per le 6 ore di faticosa ma estremamente suggestiva salita. Mi rendo conto che in ogni camminata, ciascuno riceve molto di più di quel che cerca e il tempo speso tra gli alberi non sarà mai tempo sprecato. I raggi del sole proiettati da ovest sulle mie spalle sono sempre più lunghi e gialli, e ormai non riesco a stare al passo con loro, salgono a vista d'occhio verso le cime, per dar loro l'esclusività di brillare di luce propria: si sta facendo tardi. Considero l'opzione di un pernottamento 'on the road' nella tenda, per assaporare la sensazione di sentirmi spaesata, per prolungare questa emozione divina fino a domani mattina e continuare l'avventura. Quando all'improvviso la foresta si dirada e si mostra completamente spoglia di alberi - chiaro segno di aver oltrepassato i 2000 metri di altitudine - scorgo un lago di montagna talmente azzurro e cristallino

di mani salde e piedi stabili nelle parti in cui richiede di calarsi nel vuoto assoluto, tenendosi aggrappati agli anelli delle catene fissate sulle rocce scivolose. La natura incontaminata con i suoi colori saturi è un potente energizzante, necessario

da volermi immergere dentro e permettere al suo gelo di risvegliare i miei sensi, ormai indeboliti da tanta fatica. Rintanato e protetto tra i giganti appuntiti con pinnacoli innevati, mi invita a smarrirmi nel riflesso della suo ghiaccio e della sua

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acqua che ai più attenti regala il doppio delle emozioni, riproducendo l'intero spettacolo circondante anche sulla sua immobile superficie. Pianto la tenda senza alcuna esitazione con l'apertura verso il lago, la mia preziosa fonte di liquidi: a quest'altezza tanti animali attingono alla stessa per dissetarsi come me e sarà quindi necessario bollirla prima di riempire i miei thermos per la notte. Domani alla Cabane basterà sciogliere la neve candida o ascoltare il gorgoglio dell'acqua per trovare una delle sorgenti che nascono e si trovano proprio lì, tra le rocce. La legna da ardere mi riscalda due volte: prima mentre la cerco e la trascino fino al campo base, e poi mentre la brucerò per

riscaldarmi, sfamarmi e tenere lontani gli animali curiosi questa notte. Ne servirà tanta e servirà svegliarsi regolarmente per mantenere la fiamma viva. Mi separo dalle poche provviste; è sempre meglio dividersi da odori troppo invitanti, soprattutto per la notte. Il fuoco scoppietta nel buio assoluto, fa danzare le fiamme rosse armoniose come fossero liquide, e solo grazie all'orizzonte più chiaro a ovest, sopra le creste, riesco a vedere qualcosa di diverso dall'oscurità più totale che mi inghiottisce. Nuvolette bianche mi escono dalla bocca mentre infilzo un würstel su un ramo. Quando, con la torcia in testa, calpesto la brina e mi abbasso per rompere il ghiaccio del lago e riempire il pentolino, penso fra me e me: "Andrea, ma chi te lo fa fare ?!".

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Insieme alla zip del sacco a pelo termico chiudo le palpebre, accompagnata dal canto delle marmotte, con tanto freddo sul naso quanto caldo nell'anima, consapevole di esser sempre più vicina alla mia meta. Qui il mattino non ha l'oro, ma direttamente i diamanti in bocca: il sonno letteralmente face à face con la natura, per terra, non ha pari per quanto riguarda la qualità del riposo. Pimpante, impaziente e

i bastoni uno dopo l’altro per assicurarmi che il terreno sotto la neve mi regga; questa parte della salita è in assoluto la più fredda e la più lenta. Desidero immensamente i sacchetti col carbone scaldante ma sono nello zaino e so che se mi fermo e lo tolgo, o non lo rimetto più, o non trovo il coraggio di continuare. Tutte le frasi di motivazione che ho letto proprio per queste occasioni mi frullano per

parzialmente scongelata dai primi raggi di sole, ispirata dagli stambecchi che in lontananza saltellano incuriositi (più loro da me che vice versa), punto la bussola verso l'accecante neve dei colossi intorno a me. Dietro a qualche parete rocciosa da attraversare, ruscello da saltare e salite ripide da sconfiggere a mo' di serpentina, dovrebbe esserci finalmente la capanna. Immense montagne alla mia sinistra, orlo della valle a picco alla mia destra e sentiero di fango e ghiaccio largo 20 centimetri sotto i miei piedi richiedono tanta attenzione quanta concentrazione. La cosa più importante è tenere lucida la mente, distribuire bene il peso nello zaino, tenere il tempo della camminata sempre costante e gli indumenti a contatto con il corpo asciutti. A un certo punto, sembra impossibile che un qualsiasi tipo di abitazione possa

la testa ma per la situazione non ce n'è una appropriata. Quando tocco l’ultima cresta a vista - scommetto che è una di quelle che dalla finestra mi tentava - e mi siedo su essa per riprendere le forze, un inaspettato paesaggio mi si apre a 360 gradi, con panorami da togliere il fiato. Come una minuscola perla in un’immensa ostrica ben racchiusa per proteggerla, ecco che mi accoglie, vegliata dal Weisshorn, dallo Zinalrothorn e dal Besso, La Cabane d’Arpitettaz tanto anelata, cercata, e quasi raggiunta. Colpita nell’immediato per l’impressionante ambiente alpino d’alta

esistere da queste parti; mi sento come se girassi a vuoto, in una stupenda ma infinita spirale a salire. Gli stambecchi mi guardano sempre più perplessi, la neve è sempre più alta. L’unico sentiero visibile è la lancetta della bussola che mi indica la presunta posizione della capanna, tuttora impercettibile. Secondo i miei conti, mancano 100 metri, ma a guardarmi bene intorno, saranno 100 di dislivello. Le dita dei piedi reclamano circolazione del sangue e allora scelgo la parete ripida di una montagna, sperando di scorgere dalla sua cresta un tetto. Infilzo

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quota, all’estremità della Valle d’Anniviers, ammiro finalmente da vicino questa catena, parte di un supergruppo alpino e delle Alpi Occidentali. Mentre l'accesso è adatto anche ai principianti, l'attraversamento alpino in direzione di un'altra splendida Cabane, quella di de Tracuit, è riservato agli escursionisti esperti. Alcuni cairn - costruzioni formate da

sorprendono e conquistano: sorvegliata dai membri volontari da aprile ad agosto, offre 32 posti letto divisi su vari piani e locali, con tutto il materiale e le misure di sicurezza adatti per contrastare il Covid-19. Nonostante abbia scelto un mese senza guardiano, il quale solitamente offre anche una cena e colazione semplici, circa la metà dei posti letto e l'accesso alla cucina rimangono aperti tutto l'anno per i più

pietre impilate a secco - delineano l'ultima salita verso il rifugio e rendono la scena al tramonto quasi regale. Ogni pietra dell'edificio rappresenta un essere umano passato dal 1953, quando la capanna fu realizzata da sette alpinisti. La terrazza del rifugio mi invita a farmi sedurre dall'incomparabile quiete e dal paesaggio glaciale ai piedi del Weisshorn sul versante ovest, di fronte al Blanc de Moming e al suo ghiacciaio. La costruzione in pietra e legno è in perfetta simbiosi con la natura e l'impeccabile manutenzione e l'equipaggiamento della capanna mi

avventurosi o bisognosi. All'ingresso c'è una scorta di legna - da usare con giudizio, considerando che viene portata in elicottero e dovrà durare fino ad aprile - ciabatte di ogni taglia per mantenere il riparo pulito, secchi per trasportare la neve da sciogliere sul forno a legna e tutti gli attrezzi alpini del pronto soccorso. La pulizia, da mesi nelle mani degli escursionisti rispettosi della natura, è paragonabile a quella di un hotel. La cucina, attrezzata fino all'ultimo utensile immaginabile, rende la preparazione del proprio pranzo al sacco un piacere. Cestini di legno numerati abbelliscono l'ospitale salone/sala da pranzo e offrono comodi spazi personali, mentre una moderna stufa a legna riscalda lo spazio comune per la sera, protagonista di giochi di società forniti, tisane alle erbe, qualche racconto su animali avvistati, nuovi incontri, suggerimenti di itinerari, fonduta o raclette in compagnia, e qualche bicchiere di whisky per far rilassare i muscoli e la mente. L'assenza della compagnia non toglie però nulla al coinvolgente fascino dell'atmosfera: saper stare con se stessi non ha prezzo. Quando la notte tira il suo sipario scuro e il sole cede il suo turno alla luna, migliaia dei suoi aiutanti iridescenti, le stelle, si rendono visibili ai miei occhi.

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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La notte, gelida, è identica alla neve che la circonda: spettacolare, cristallina, quieta. La Via Lattea si fa strada tra innumerevoli frammenti luccicanti e illumina le costellazioni. Eterne nelle loro posizioni, più precise di una bussola, puntuali per lo spettacolo notturno, inducono a una scala di sensazioni che va dall'incredulità e lo scalpore al coinvolgimento, fino a un profondo e sereno riposo. Il termometro segna -18 gradi: cercando di non tremare, fisso la Nikon sul cavalletto nella neve per rendere eterna questa visuale indescrivibile a parole, troppo irripetibile per riuscire a ricordarmela per sempre

nitidamente. Grazie all'esposizione lunga dello scatto, una palette di raggianti colori contenuti nel cielo apparentemente solo scuro, appaiono sulla foto. Invisibile alla mia cornea fino a poco fa, eccola impressa, come un arcobaleno, una luminosa fascia rosa che ne avvolge una smeraldo, che a sua volta abbraccia la fascia arancione, rimasuglio del sole di ieri. Decine di stelle cadenti lasciano incise sulla foto i loro percorsi verso le montagne, per poi sparire dietro le creste all'orizzonte, accompagnate da maestosi rumori delle valanghe: la forza della natura è qualcosa di unico. E' estremamente difficile assimilare tutta

questa bellezza in così poco tempo, cercando di coglierla appieno, senza sprecarne un solo frammento. Come una foto panoramica a 360 gradi, giro la testa senza sosta per fare il giro completo di questo spettacolo infinito. La mente, stimolata, non si dà pace nemmeno una volta infilata nel sacco a pelo, mentre il corpo finisce per trascinarla con se nelle braccia di Morfeo. Una volta sbiadito lo scuro sipario, il sole mattutino si riversa su ogni millimetro della valle e illuminandola scopre i sottili sentieri che salgono ancora più su, ancora più oltre, sul filo del crinale. La Pointe d'Arpitettaz splende, e l'impegnativo vertice

Col de Milon che divide in due con le sue creste la valle è irresisitibile. Ovunque l'occhio si posi, gode di bucolici labirinti di ghiaccio e neve, che adescano il mio spirito di avventura. Mi allontano camminando all'indietro, non riuscendo a distogliere lo sguardo dall'idilliaca immagine del rifugio coccolato dai raggi di sole e dai fiocchi di neve. Nell'immensità della valle la mia capanna diventa un puntino sempre più basso, sempre più minuscolo, finché non si mimetizza con l'universo. E io camminerò e camminerò, perché non si va mai così lontano come quando non si sa dove si va.

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BA S I L I CATA

La suggestione di Matera

di Franca D. Scotti

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on stupisce davvero che Matera, già patrimonio Unesco dal 1993, nel 2019 sia stata nominata Capitale della Cultura europea. Un riconoscimento che ha contribuito a riscoprire e valorizzare una città unica nel panorama mondiale. E se il 2019 è stato l’anno degli arrivi in massa – fino al punto di congestionare il centro storico – ora, è tempo di visitare Matera con calma, senza fretta, come merita questa straordinaria città. Un suggerimento? Cominciare a visitare Matera al tramonto. Quando le luci si accendono, lo scenario è davvero sorprendente. Presepe? Visione dantesca? Favola delle Mille e una notte? La stratificazione della Città dei Sassi rivela un groviglio di case-grotta che sembrano occhi spalancati nel buio, sfarzosi palazzi barocchi, incredibili chiese rupestri, gradinate e vicoletti, chiese e campanili, loggiati, orti e terrazze, facciate ricurve degradanti dall’alto della Civita fino al fondo buio della Gravina. Uno spettacolo pittoresco e impressionante, già descritto da artisti e intellettuali. Come Carlo Levi, che qui trascorse un anno al confino: “Un groviglio di coni rovesciati, strade che sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto”. Una città che ha conosciuto vicende alterne: nel 1948, Palmiro Togliatti vide la miseria a cui era stata abbandonata e la definì una «vergogna nazionale»; evacuata nel 1952,

rimase semideserta per quasi trent’anni, quando le leggi del 1986 sul restauro conservativo dei siti storici favorirono la sua riscoperta, quindi il ripopolamento e la nascita di attività imprenditoriali. Fino al meritato inserimento tra i siti Patrimonio Mondiale Unesco nel 1993. E uno dei paradossi di Matera è che, nonostante lo stereotipo di Città dei Sassi – di case-grotta poverissime – è stata in passato una città ricca, soprattutto tra il Cinquecento e il Seicento, con una vivace borghesia mercantile. Una città in cui, tuttavia, alla fine dell’Ottocento, la forbice sociale si ampliò per il sovraffollamento demografico, quando le fasce sociali più ricche si spostarono nella parte alta della Civita e invece gli abitanti più poveri rimasero nei Sassi, in condizioni igieniche davvero inaccettabili. Oggi questa struttura urbanistica così spettacolare invita a lente passeggiate, in cui perdersi tra le gradinate e scoprire scorci improvvisi: la Fontana dell’Amore, un piccolo gruppo scultoreo dedicato all’importanza della raccolta delle acque piovane; le lunghe poesie scritte tra i gradini delle scalinate, oppure il maestoso Duomo in cima alla Civita con la facciata in stile romanico e l’interno riccamente decorato con oro e marmi intarsiati; la Chiesa di San Francesco in stile barocco leccese; Palazzo Lanfranchi, sede del Museo Nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata; San Giovanni Battista romanico con i famosi capitelli antropomorfi.

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E ancora Piazza Vittorio Veneto, che si estende sopra il vecchio piano cittadino ora riaperto e restaurato: una vera e propria città sotterranea dove si visita l’incredibile Palombaro Nuovo, enorme cisterna scavata dal XVI secolo per conservare le acque sorgive. Le chiese rupestri: Santa Lucia alle Malve, che ricorda ancora una Murgia ascetica e poi benedettina di piccole comunità; oppure la chiesa Madonna de Idris, che ingloba la cripta di San Giovanni in Monterrone, con affreschi di gusto orientale in colori intensi o velati, che guardano stupiti il visitatore, in una iconografia antica di gesti simbolici.

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Infine merita una visita la Casa Grotta di Vico Solitario, situata nel Sasso Caveoso e perfetta per comprendere realmente gli spazi in cui si viveva fino al 1952: un ambiente unico, con piccole nicchie dedicate alla cucina, al ripostiglio, alla stalla per l’asino, la cisterna per raccogliere l’acqua piovana, la cassa del corredo e quella del pane, gli utensili del mondo contadino e pastorale. Di fronte a Matera il paesaggio biblico della Murgia, brullo e assolato, davvero perfetto come set cinematografico per esprimere la spiritualità di film come “Passione di Cristo” di Mel Gibson nel 2004 e “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini del 1964. Mentre il dedalo verticale di case, vicoli e chiese della città si è rivelato l’ambientazione perfetta dell’ultimo film della saga di James Bond “No Time To Die”. La sua uscita, rimandata a causa dell’emergenza Covid-19, mostrerà ancora una volta al mondo la rara bellezza di questa terra.

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AUTOMOTIVE

MINI Sempre più originale, sempre più personale

di Francesco Ippolito

A

vent’anni dal suo primo lancio, per la moderna Mini è il momento di rinnovarsi. Senza stravolgimenti, ma rimanendo fedele al design e allo spirito che ne ha fatto un’automobile cult. La missione rimane la stessa: costruire vetture premium per il segmento delle compatte, un concetto che si è trasformato in una storia di successo unica e globale.

Su strada da marzo con uno stile rinnovato È iniziato a marzo il lancio dell’ultima edizione dei modelli Mini tre porte, cinque porte e cabrio, che introdurranno una serie di innovazioni importanti, sia sotto il profilo degli allestimenti e delle dotazioni di bordo che del design. E proprio lo stile rinnovato è l’elemento centrale, con gli esterni che esaltano l'aspetto inconfondibile della Mini in chiave decisamente purista.

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AUTOMOTIVE

La vista frontale della Mini 3 porte, della Mini Cooper SE, della Mini 5 porte e della Mini Cabrio è particolarmente espressiva: dominata più che mai dalla caratteristica griglia del radiatore, il cui contorno

LED. E sempre a proposito di LED, una nuova versione dei fari dal design incisivo diventerà di serie sulla Mini 3 porte, sulla Mini 5 porte e sulla Mini Cabrio. L'alloggiamento interno delle caratteristiche luci rotonde non è più

esagonale occupa ora molto più spazio, e dai fari tondi caratteristici di Mini. Le luci di posizione sono sostituite da prese d'aria verticali poste molto all'esterno, che tagliano le barriere d'aria per ottimizzare l'aerodinamica. La striscia centrale del paraurti, che funge anche da porta targa, è ora del colore della carrozzeria invece che nera. Le proporzioni tipiche di Mini e gli sbalzi ridotti continuano a definire la vista laterale, con i contorni dei bordi del passaruota che si fanno particolarmente accattivanti. Inoltre, gli indicatori laterali integrati nei Side Scuttles, rivisitati per l’occasione, sono ora dotati di tecnologia

in cromo, ma in nero. Le unità LED per le luci anabbaglianti e abbaglianti assicurano un'illuminazione brillante e uniforme della strada. I fari Adaptive LED opzionali offrono la funzione Cornering Light, la luce abbagliante a matrice e l’illuminazione in caso di maltempo. Durante la svolta, un fascio di luce separato cade automaticamente sulla corsia in cui il conducente è diretto. Anche la luce abbagliante viene controllata automaticamente in base alla situazione del traffico a velocità superiori a 70 km/h. Ogni tetto è unico: l'esclusivo Multitone Roof I colori a contrasto per il tetto e per le calotte degli specchietti retrovisori esterni sono tra le caratteristiche di design più sorprendenti

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del brand e rendono la Mini una vera pioniera in fatto di personalizzazione. Oltre alle colorazioni Jet Black, Aspen White, Melting Silver – e Chili Red per la Mini John Cooper Works – per la Mini 3 porte e la Mini 5 porte, viene offerta una variante innovativa e unica al mondo per la verniciatura del tetto. Il nuovo Multitone Roof presenta infatti un gradiente di colore che va dal San Marino Blue attraverso il Pearly Aqua fino al Jet Black, creata con una nuova tecnica di verniciatura che si estende dalla cornice del parabrezza alla parte posteriore. Interni: design pulito e finiture di alta qualità Gli interni ridisegnati della Mini 3 porte, della Mini 5 porte e della Mini Cabrio sono sofisticati, moderni e di qualità

particolarmente elevata. Una novità per la gamma sono i sedili sportivi nella variante colore Light Chequered, che completano perfettamente la verniciatura esterna in Zesty Yellow. La rinomata qualità del tessuto Black Pearl è dotata di un nuovo ed espressivo look a scacchiera, nel tipico stile britannico Mini. Le cuciture sulla finta pelle nera dei cuscini presentano una combinazione di colori che si abbina al tessuto delle superfici dei sedili. La strumentazione: personalità unica Uno degli elementi distintivi di Mini è sempre stata la strumentazione, con i suoi display circolari che nel corso degli anni hanno subito diverse evoluzioni. In quest’ultimo restyling anche il look premium della strumentazione centrale è stato ottimizzato. Un display touchscreen a colori da 8,8 pollici, pulsanti touch per selezionare i preferiti e le superfici lucide Piano Black sono ora di serie. Inoltre, il sistema audio, i pulsanti di funzione per le luci di emergenza e i sistemi di assistenza alla guida sono integrati in modo ancora più armonioso nella centralina circolare. In combinazione con l'opzione Ambient Light, un nuovo design delle superfici con incisione laser ottimizza l'aspetto dell'anello luminoso a LED che circonda la strumentazione centrale.

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Le nuove modalità Lounge e Sport Per il display della strumentazione centrale e per il display del quadro digitale sono disponibili due schemi cromatici, che possono essere selezionati nel menu del sistema di controllo. In modalità Lounge, il contenuto viene visualizzato all’interno di un rilassante set di colori che va dal turchese al blu petrolio. Attivando la modalità Sport invece, gli sfondi dello schermo diventano rosso e antracite. In corrispondenza con la nuova opzione Ambient Light, i colori dei display possono essere combinati anche con la regolazione delle luci interne. Per ciascuna delle due modalità Lounge e Sport inoltre, è possibile scegliere tra sei diversi colori per le luci interne. Motori con tecnologia Mini TwinPower Turbo e conformi alle emissioni previste dall'Euro 6d Potenti ed efficienti motori a benzina a tre o quattro cilindri costituiscono la gamma di motori per Mini 3 porte, Mini 5 porte e Mini Cabrio. La tecnologia Mini TwinPower Turbo è composta da un'unità di sovralimentazione integrata nel collettore di scarico, dall'iniezione 87

diretta di benzina e dalla fasatura variabile delle valvole. I motori a tre cilindri, ciascuno con una capacità di 1,5 litri, sono disponibili in tre versioni con potenze che vanno da 55 kW/75 CV a 75 kW/102 CV e 100 kW/136 CV. Il motore a 4 cilindri da 2,0 litri genera una potenza massima di 1131 kW/178 CV o 170 kW/231 CV nei due modelli John Cooper Works. Grazie a una tecnologia di controllo delle emissioni costantemente ottimizzata, che comprende un filtro antiparticolato per il motore a benzina, tutte le varianti di modello sono conformi alla normativa sulle emissioni Euro 6d. Mini è anche elettrica Con il suo motore elettrico da 135 kW/184 CV, la Mini Cooper SE offre un divertimento di guida senza emissioni. La potenza viene trasmessa tramite un cambio automatico a uno stadio. La batteria agli ioni di litio ad alta tensione, situata in profondità nel pavimento del veicolo, ha un contenuto energetico lordo di 32,6 kWh e consente un'autonomia da 203 a 234 chilometri secondo il ciclo di prova WLTP.


M O N O PAT T I N I E L ET T R I C I Mobilità sostenibile per ogni occasione

Lamborghini AL1 Dotato di tecnologia molto silenziosa che richiede una manutenzione minima, con un bassissimo livello di usura e con ottime prestazioni ai diversi livelli di velocità. Le linee e le forme di ogni componente sono studiate e progettate per integrarsi in modo armonioso con il design che contraddistingue Lamborghini. Prezzo: 499€

Aprilia eSR1 Pensato per la massima comodità di utilizzo, eSR1 è dotato di batteria estraibile per una ricarica più comoda in casa o in ufficio, ma anche per duplicare l’autonomia del mezzo semplicemente portando con sé una batteria di riserva. Prezzo: 659€


Ducati PRO II Il monopattino è realizzato con telaio in lega di magnesio, materiale di pregio, leggerissimo e molto resistente spesso utilizzato anche per alcune componenti delle moto Ducati. In un apposito vano integrato nel telaio stesso si trovano le sospensioni posteriori. Richiudibile in poche mosse grazie al meccanismo easy-folding. Prezzo: 549€

Micro Explorer Dotato di display integrato e connessione bluetooth alla app Micro, il monopattino Micro Explorer si può anche chiudere con l'app che agisce da ulteriore protezione dal furto insieme ad un eventuale lucchetto. Explorer è dotato di acceleratore e freno a manopola, simile alle moto e più intuitivo, preciso e divertente da usare di una leva a pollice. Prezzo: 1099€

BMW E-Scooter Il BMW E-Scooter è un monopattino elettrico dal design moderno, perfetto per muoversi in città senza emissioni. Disponibile con quattro modalità di guida (Personale, Eco, Standard e Sport) permette di adattarsi ad ogni esigenza di mobilità. Grazie a un meccanismo di chiusura e al peso ridotto è facilmente trasportabile e può essere agilmente caricato in qualsiasi bagagliaio. Prezzo: 825€


EN PLEIN AIR EATALY

PIAZZA VENTICINQUE APRILE, 10 MILANO

Pizze al padellino, farinate e la patata croccante di Avezzano, oltre a una selezione di piatti freschi e stagionali, si accompagnano a una vasta gamma di birre artigianali, cocktail, gin italiani e internazionali, bollicine, vini bianchi e rosé della cantina di Eataly Smeraldo.

AL MERCATO STEAKS & BURGERS VIA SANT'EUFEMIA, 16 MILANO

Il paradiso dei meat lovers, riapre e presenta un nuovo dehors, aperto a pranzo e a cena. Il menù, pensato dallo Chef Eugenio Rancoroni, vede protagonisti nuovi tagli di carne e verdure di stagione. Fra le novità poi, anche le proposte di carne “vegetale” di Heura Foods.

28 POSTI

VIA CORSICO, 1 MILANO

La cucina sofisticata e d’avanguardia dello Chef Marco Ambrosino offre un perfetto equilibrio tra la cucina sperimentale nordica e quella tradizionale mediterranea, da scoprire a pranzo o a cena negli spazi dell’elegante dehors , a due passi dal Naviglio Grande.

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Un piatto bilanciato e salutare, gustato in una delle piazze più iconiche di Milano: simply good food è il mantra che accompagnerà le vostre serate estive in compagnia degli amici, oppure i pranzi di lavoro più informali. God Save the Food vi aspetta anche in zona Tortona e viale Piave.


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