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Cabane Arpitettaz
CABANE D'ARPITETTAZ
L'emozione dell'altitudine
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di Andrea Lehotska
Proprio quando l’Italia ha finalmente sperimentato tutta la scala di colori caldi nelle sue zone e lo stivale più famoso del mondo passa pian piano a zone gialle semi libere, la Svizzera entra in pieno lockdown.
Mi coglie alla sprovvista, lasciandomi come unica valvola di sfogo il mio salone che si affaccia sui gioielli più preziosi della mia terra - le vette del massiccio montuoso Weisshorn/
Zinalrothorn.
Mi ritrovo così ad affacciarmi dalla finestra e a guardare fuori perdendomi nella contemplazione delle cime innevate; un mondo da sempre presente, sempre uguale eppure sempre nuovo e sconosciuto, carico di dettagli da scoprire. Incredibile come con la sola luce del sole i ghiacciai vergini non risultino più lontane macchie grigie ma brillanti cristalli, così nitidi e autentici da illudermi di poterli toccare allungando il braccio.
Più volte al giorno mi fermo ammaliata da queste vette che mi accompagnano durante il giorno, dalle fredde ombre dell'alba fino ai soavi riflessi del tramonto. Mi accompagnano come hanno fatto e faranno con decine di altre generazioni, a testimoniare in silenzio la nostra evoluzione, le nostre quarantene, le nostre mattine frizzanti o piogge incessanti.
Come una dea sedotta dal suo dio al punto di conoscere ogni neo del suo corpo, imparo a memoria le posizioni delle pochissime luci
fisse sulla catena montuosa, e ogni nuova scintilla dà vita a un'immaginazione: è un gatto delle nevi, una stazione, un rifugio che qualcuno sta usando per ripararsi dalla notte? A cosa pensa la persona che sta lì proprio adesso, calpestando la neve millenaria, a 4000 metri e a meno 20 gradi? Questo osservare così semplice e istintivo mi ricorda quanto siamo piccoli, temporanei, un minuscolo granello di un intero deserto. Sento rinsaldarsi con forza un legame invisibile quanto essenziale, quello che lega ognuno di noi alla natura e, con la natura, al mondo. Ho deciso che un giorno ci andrò, raggiungerò quelle creste talmente definite da sembrare taglienti, talmente perfette da sembrare disegnate, talmente maestose da sembrare irraggiungibili. Sono anni che destano la mia ammirazione, bramano la mia attenzione, mi colpiscono giorno per giorno, mi incantano a ogni occhiata, mi conquistano a ogni apparizione. Camminerò finché non sarò la luce dispersa nel buio che qualcuno noterà, camminerò finché non saprò a cosa ci si pensa quando si arriva ai piedi di un ghiacciaio.
La primavera sta pian piano esplodendo nelle città, le gemme si trasformano in fiori profumati, l’aria si riempie di colori, di odori, di canti di uccelli: sembra di sentire tutto per la prima volta qui a Zinal, il mio punto di partenza verso La Cabane d'Arpitettaz, un solitario rifugio a circa 3000 metri dove sarà ancora la neve a fare da regina. Zinal, annidata a 1675 metri e incoronata da sommità di 4000 metri come Weisshorn, Bishorn, Zinalrothorn o Cervino, offre con una costante camminata in salita e vari percorsi per raggiungere la capanna di riparo. Scelgo un percorso blando a salire, considerando gli 1111 metri di dislivello e i 12 chili di zaino, mentre al ritorno, a provviste finite e carico più leggero, opterò per l'avventuroso 'Passo dei cacciatori'. Questo percorso diventerà il mio brivido preferito. Accorcia la distanza ma non il tempo, attraversa la ripida e fitta foresta e necessita di mani salde e piedi stabili nelle parti in cui richiede di calarsi nel vuoto assoluto, tenendosi aggrappati agli anelli delle catene fissate sulle rocce scivolose. La natura incontaminata con i suoi colori saturi è un potente energizzante, necessario per le 6 ore di faticosa ma estremamente suggestiva salita. Mi rendo conto che in ogni camminata, ciascuno riceve molto di più di quel che cerca e il tempo speso tra gli alberi non sarà mai tempo sprecato. I raggi del sole proiettati da ovest sulle mie spalle sono sempre più lunghi e gialli, e ormai non riesco a stare al passo con loro, salgono a vista d'occhio verso le cime, per dar loro l'esclusività di brillare di luce propria: si sta facendo tardi. Considero l'opzione di un pernottamento 'on the road' nella tenda, per assaporare la sensazione di sentirmi spaesata, per prolungare questa emozione divina fino a domani mattina e continuare l'avventura. Quando all'improvviso la foresta si dirada e si mostra completamente spoglia di alberi - chiaro segno di aver oltrepassato i 2000 metri di altitudine - scorgo un lago di montagna talmente azzurro e cristallino da volermi immergere dentro e permettere al suo gelo di risvegliare i miei sensi, ormai indeboliti da tanta fatica. Rintanato e protetto tra i giganti appuntiti con pinnacoli innevati, mi invita a smarrirmi nel riflesso della suo ghiaccio e della sua
acqua che ai più attenti regala il doppio delle emozioni, riproducendo l'intero spettacolo circondante anche sulla sua immobile superficie. Pianto la tenda senza alcuna esitazione con l'apertura verso il lago, la mia preziosa fonte di liquidi: a quest'altezza tanti animali attingono alla stessa per dissetarsi come me e sarà quindi necessario bollirla prima di riempire i miei thermos per la notte. Domani alla Cabane basterà sciogliere la neve candida o ascoltare il gorgoglio dell'acqua per trovare una delle sorgenti che nascono e si trovano proprio lì, tra le rocce. La legna da ardere mi riscalda due volte: prima mentre la cerco e la trascino fino al campo base, e poi mentre la brucerò per
riscaldarmi, sfamarmi e tenere lontani gli animali curiosi questa notte. Ne servirà tanta e servirà svegliarsi regolarmente per mantenere la fiamma viva. Mi separo dalle poche provviste; è sempre meglio dividersi da odori troppo invitanti, soprattutto per la notte. Il fuoco scoppietta nel buio assoluto, fa danzare le fiamme rosse armoniose come fossero liquide, e solo grazie all'orizzonte più chiaro a ovest, sopra le creste, riesco a vedere qualcosa di diverso dall'oscurità più totale che mi inghiottisce. Nuvolette bianche mi escono dalla bocca mentre infilzo un würstel su un ramo. Quando, con la torcia in testa, calpesto la brina e mi abbasso per rompere il ghiaccio del lago e riempire il pentolino, penso fra me e me: "Andrea, ma chi te lo fa fare ?!".
Insieme alla zip del sacco a pelo termico chiudo le palpebre, accompagnata dal canto delle marmotte, con tanto freddo sul naso quanto caldo nell'anima, consapevole di esser sempre più vicina alla mia meta. Qui il mattino non ha l'oro, ma direttamente i diamanti in bocca: il sonno letteralmente face à face con la natura, per terra, non ha pari per quanto riguarda la qualità del riposo. Pimpante, impaziente e parzialmente scongelata dai primi raggi di sole, ispirata dagli stambecchi che in lontananza saltellano incuriositi (più loro da me che vice versa), punto la bussola verso l'accecante neve dei colossi intorno a me. Dietro a qualche parete rocciosa da attraversare, ruscello da saltare e salite ripide da sconfiggere a mo' di serpentina, dovrebbe esserci finalmente la capanna. Immense montagne alla mia sinistra, orlo della valle a picco alla mia destra e sentiero di fango e ghiaccio largo 20 centimetri sotto i miei piedi richiedono tanta attenzione quanta concentrazione. La cosa più importante è tenere lucida la mente, distribuire bene il peso nello zaino, tenere il tempo della camminata sempre costante e gli indumenti a contatto con il corpo asciutti. A un certo punto, sembra impossibile che un qualsiasi tipo di abitazione possa esistere da queste parti; mi sento come se girassi a vuoto, in una stupenda ma infinita spirale a salire. Gli stambecchi mi guardano sempre più perplessi, la neve è sempre più alta. L’unico sentiero visibile è la lancetta della bussola che mi indica la presunta posizione della capanna, tuttora impercettibile. Secondo i miei conti, mancano 100 metri, ma a guardarmi bene intorno, saranno 100 di dislivello. Le dita dei piedi reclamano circolazione del sangue e allora scelgo la parete ripida di una montagna, sperando di scorgere dalla sua cresta un tetto. Infilzo i bastoni uno dopo l’altro per assicurarmi che il terreno sotto la neve mi regga; questa parte della salita è in assoluto la più fredda e la più lenta. Desidero immensamente i sacchetti col carbone scaldante ma sono nello zaino e so che se mi fermo e lo tolgo, o non lo rimetto più, o non trovo il coraggio di continuare. Tutte le frasi di motivazione che ho letto proprio per queste occasioni mi frullano per la testa ma per la situazione non ce n'è una appropriata. Quando tocco l’ultima cresta a vista - scommetto che è una di quelle che dalla finestra mi tentava - e mi siedo su essa per riprendere le forze, un inaspettato paesaggio mi si apre a 360 gradi, con panorami da togliere il fiato. Come una minuscola perla in un’immensa ostrica ben racchiusa per proteggerla, ecco che mi accoglie, vegliata dal Weisshorn, dallo Zinalrothorn e dal Besso, La Cabane d’Arpitettaz tanto anelata, cercata, e quasi raggiunta. Colpita nell’immediato per l’impressionante ambiente alpino d’alta
quota, all’estremità della Valle d’Anniviers, ammiro finalmente da vicino questa catena, parte di un supergruppo alpino e delle Alpi Occidentali. Mentre l'accesso è adatto anche ai principianti, l'attraversamento alpino in direzione di un'altra splendida Cabane, quella di de Tracuit, è riservato agli escursionisti esperti. Alcuni cairn - costruzioni formate da pietre impilate a secco - delineano l'ultima salita verso il rifugio e rendono la scena al tramonto quasi regale. Ogni pietra dell'edificio rappresenta un essere umano passato dal 1953, quando la capanna fu realizzata da sette alpinisti. La terrazza del rifugio mi invita a farmi sedurre dall'incomparabile quiete e dal paesaggio glaciale ai piedi del Weisshorn sul versante ovest, di fronte al Blanc de Moming e al suo ghiacciaio. La costruzione in pietra e legno è in perfetta simbiosi con la natura e l'impeccabile manutenzione e l'equipaggiamento della capanna mi sorprendono e conquistano: sorvegliata dai membri volontari da aprile ad agosto, offre 32 posti letto divisi su vari piani e locali, con tutto il materiale e le misure di sicurezza adatti per contrastare il Covid-19. Nonostante abbia scelto un mese senza guardiano, il quale solitamente offre anche una cena e colazione semplici, circa la metà dei posti letto e l'accesso alla cucina rimangono aperti tutto l'anno per i più avventurosi o bisognosi. All'ingresso c'è una scorta di legna - da usare con giudizio, considerando che viene portata in elicottero e dovrà durare fino ad aprile - ciabatte di ogni taglia per mantenere il riparo pulito, secchi per trasportare la neve da sciogliere sul forno a legna e tutti gli attrezzi alpini del pronto soccorso. La pulizia, da mesi nelle mani degli escursionisti rispettosi della natura, è paragonabile a quella di un hotel. La cucina, attrezzata fino all'ultimo utensile immaginabile, rende la preparazione del proprio pranzo al sacco un piacere. Cestini di legno numerati abbelliscono l'ospitale salone/sala da pranzo e offrono comodi spazi personali, mentre una moderna stufa a legna riscalda lo spazio comune per la sera, protagonista di giochi di società forniti, tisane alle erbe, qualche racconto su animali avvistati, nuovi incontri, suggerimenti di itinerari, fonduta o raclette in compagnia, e qualche bicchiere di whisky per far rilassare i muscoli e la mente. L'assenza della compagnia non toglie però nulla al coinvolgente fascino dell'atmosfera: saper stare con se stessi non ha prezzo. Quando la notte tira il suo sipario scuro e il sole cede il suo turno alla luna, migliaia dei suoi aiutanti iridescenti, le stelle, si rendono visibili ai miei occhi.
Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com
La notte, gelida, è identica alla neve che la circonda: spettacolare, cristallina, quieta. La Via Lattea si fa strada tra innumerevoli frammenti luccicanti e illumina le costellazioni. Eterne nelle loro posizioni, più precise di una bussola, puntuali per lo spettacolo notturno, inducono a una scala di sensazioni che va dall'incredulità e lo scalpore al coinvolgimento, fino a un profondo e sereno riposo. Il termometro segna -18 gradi: cercando di non tremare, fisso la Nikon sul cavalletto nella neve per rendere eterna questa visuale indescrivibile a parole, troppo irripetibile per riuscire a ricordarmela per sempre nitidamente. Grazie all'esposizione lunga dello scatto, una palette di raggianti colori contenuti nel cielo apparentemente solo scuro, appaiono sulla foto. Invisibile alla mia cornea fino a poco fa, eccola impressa, come un arcobaleno, una luminosa fascia rosa che ne avvolge una smeraldo, che a sua volta abbraccia la fascia arancione, rimasuglio del sole di ieri. Decine di stelle cadenti lasciano incise sulla foto i loro percorsi verso le montagne, per poi sparire dietro le creste all'orizzonte, accompagnate da maestosi rumori delle valanghe: la forza della natura è qualcosa di unico. E' estremamente difficile assimilare tutta
questa bellezza in così poco tempo, cercando di coglierla appieno, senza sprecarne un solo frammento. Come una foto panoramica a 360 gradi, giro la testa senza sosta per fare il giro completo di questo spettacolo infinito. La mente, stimolata, non si dà pace nemmeno una volta infilata nel sacco a pelo, mentre il corpo finisce per trascinarla con se nelle braccia di Morfeo. Una volta sbiadito lo scuro sipario, il sole mattutino si riversa su ogni millimetro della valle e illuminandola scopre i sottili sentieri che salgono ancora più su, ancora più oltre, sul filo del crinale. La Pointe d'Arpitettaz splende, e l'impegnativo vertice Col de Milon che divide in due con le sue creste la valle è irresisitibile. Ovunque l'occhio si posi, gode di bucolici labirinti di ghiaccio e neve, che adescano il mio spirito di avventura. Mi allontano camminando all'indietro, non riuscendo a distogliere lo sguardo dall'idilliaca immagine del rifugio coccolato dai raggi di sole e dai fiocchi di neve. Nell'immensità della valle la mia capanna diventa un puntino sempre più basso, sempre più minuscolo, finché non si mimetizza con l'universo. E io camminerò e camminerò, perché non si va mai così lontano come quando non si sa dove si va.