L'etica dell'estetica
Editoriale
Nella vita di tutti noi ci sono, in fin dei conti, pochi momenti salienti che determinano ciò che saremo a lungo termine. Solo i più fortunati o determinati ne possono contare svariati, molti altri un numero esiguo. Eppure, sono proprio quei punti chiave nella linearità della nostra vita che pesano tantissimo e ci indirizzano verso ciò che saremo negli anni successivi. A volte sono addirittura errori o imperdonabili leggerezze a scrivere pagine importanti della nostra esistenza, altre volte, sono le scelte caparbie, fortemente sentite e cariche di passione che permettono ad alcune persone di arrivare dove i loro sogni o il destino volevano che giungessero.
Queste persone le definirei speciali o, se non altro, rare. Sono coloro che hanno saputo dare un valore molto importante al proprio passato, leggerlo in maniera progettuale, tuffarsi dalla scogliera più alta. Insomma, rischiare e crederci fino in fondo.
Persone così non possono non affascinare e innegabilmente dovrebbero essere un esempio anche per i più giovani. Generalmente, nonostante abbiano avuto successo, non sono mai paghe e non si considerano “arrivate”, ma dentro di loro arde sempre il fuoco che le ha alimentate, per fare sempre di più, sempre meglio.
In questo numero Otto di Luxury Prêt à Porter Magazine il passato di alcune persone che abbiamo incontrato in questi mesi ci racconta un presente importante: per il fotografo Mario Gramegna, i set fotografici internazionali calcati come parrucchiere e truccatore sono stati il luogo ideale per decidere di prendere in mano una reflex e cominciare a narrare la propria visione del mondo con uno stile ritrattistico capace di mettere a nudo l’anima delle persone. Lo studio della filosofia intrapreso fin da giovanissima ha portato invece l’artista Chiara Bonalumi a creare un connubio del tutto innovativo tra l’Esistenzialismo e la pittura, riuscendo ad esprimere concetti fortemente complessi in modo vivace e originale sulle grandi tele che lei utilizza. E che dire di Alessandro Alunni Bravi? Pur avendo deciso di divenire avvocato la sua passione giovanile per i motori, condivisa in modo intenso con il padre, lo ha portato addirittura al ruolo di Managing Director and Team Representative di un team di Formula 1. Il passato di giornalista, infine, per Arianna Ciccone è stato l’humus progettuale per dare vita a Perugia ad uno dei più importanti festival del giornalismo internazionali.
Le loro figure ci insegnano che poco avviene per caso, moltissimo è invece frutto della determinazione, della passione, della dedizione, della capacità di mettersi in gioco, del saper affrontare con forza, orgoglio e, a volte, un po’ di incoscienza le difficoltà che la vita ci pone dinnanzi. Non tutti avranno successo, questo è chiaro, qualcuno potrà realizzare solo piccoli sogni, altri riusciranno a fare cose più ambiziose. Ma certamente l’insegnamento più grande è quello di non arrendersi, non scoraggiarsi, di valorizzare ciò che si è fatto e ciò che si è per agguantare ciò che si vuol essere. E nel mondo di oggi in cui regna sovrana soprattutto l’apatia, mi sembra una bella boccata d’aria fresca.
Buona lettura e buona scoperta
Filippo PiervittoriContenuti
Sette Mario Gramegna
Ventiquattro Slovenia
Quarantotto
Chiara Bonalumi
Sessantaquattro È reboot mania
Settantotto
Machu Picchu
Ottanta
Alessandro Alunni Bravi
Novantadue
#IJF23
Novantotto
One Night with Gianni
Centosei
Jordi Vila
Centoquattordici
Rinascimento Umbro
Centoventi
Profane.Photo
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Crediti copertina:
Foto: Mario Gramegna
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Supplemento alla testata Rumors.it
MARIO GRAMEGNA Ri evoluzione creativa
Agli esordi, una carriera come hair stylist e make-up artist, quasi da autodidatta. Così Mario Gramegna è approdato sui set dei più famosi fotografi degli anni Ottanta e Novanta, da Patrick Demarchelier a Gianmarco Chieregato. È da questi, e molti altri, autorevoli insegnanti che ha mutuato l’ispirazione e la maestria per porsi, anche lui, dietro all’obiettivo. Da quel momento in poi, uno dopo l’altro, i suoi scatti hanno visto protagonisti star dello spettacolo in una veste intima e inedita; oppure modelle sui set di importanti campagne e progetti editoriali. Abbiamo chiacchierato con Mario Gramegna, del (suo incredibile) passato e del (nostro) presente.
Le tue origini mi incuriosiscono molto. Non solo geografiche, anche professionali: hai iniziato lavorando come hair stylist.
Sì, all'inizio ero un parrucchiere. Ho lavorato con Aldo Coppola negli anni '80 insieme a Maurino (Mauro Situra ndr). Poi sono stato contattato da Piergiuseppe Moroni, che stava aprendo il salone in via Dell’Orto. Mi ha insegnato tantissime cose e soprattutto ha iniziato a coinvolgermi sugli editoriali. Facevamo servizi fotografici per Amica, Grazia, Gioia; lavoravo con Bert Stern e Patrick Demarchelier. Così è nato il desiderio di lasciare il salone per dedicarmi solo a questa attività. Sono entrato in un'agenzia chiamata Freelancer, che ha iniziato a rappresentarmi come parrucchiere, e ho iniziato a viaggiare per il mondo lavorando per vari magazine italiani e internazionali.
Poi, ad un certo punto, sei diventato anche make-up artist.
Questa storia ha dell’incredibile. Era scoppiata la Guerra del Golfo, una mia amica di Gioia mi disse: “Caro Gramegna, devi imparare a truccare perché non ci sono più i soldi per portare in viaggio due persone”.
E come hai fatto?
I rudimenti li avevo appresi da Nando Chiesa, quando lavoravo nello staff di Gianpaolo Barbieri. Poi sbagliando si impara; ho fatto diversi viaggi camuffandomi da truccatore e, alla fine, sono diventato un truccatoreparrucchiere. Questo mi ha permesso di continuare a viaggiare per il mondo, ho lavorato per dieci anni su editoriali e pubblicità, collaborando anche con Oliviero Toscani per Benetton.
©Mario GramegnaAlla fotografia, invece, come sei arrivato?
Un giorno eravamo ai Caraibi con Gianmarco Chieregato, che io considero il mio maestro. Ho lavorato con lui per 12 anni, ero io a cambiargli i rullini, a scegliere le location e le luci. Al punto che il suo assistente mi disse: “Ma perché non le fai direttamente tu le foto? Prendi in mano una macchina fotografica”. E così ho fatto. In quegli anni ero fidanzato con uno degli stilisti di Krizia, mi portava a casa gli abiti e io li fotografavo su un fondale; poi ho iniziato a fare test e composit per le agenzie e ho sentito che potevo raccontare qualcosa anche in quel campo. Anche perché io prima ancora di essere un parrucchiere ero stato un deejay.
Un deejay?
Sì e speaker di Radio Bari. Io non credo che un essere umano nasca per fare il dottore per tutta la vita. Io credo che l'essere umano, se è creativo, si evolve, cambia.
Quindi che cos’è accaduto a quel punto?
Seguivo la lingerie di Lise Charmel a Parigi, mi occupavo del trucco. Poi Anna Del Pino mi propose di scattare il catalogo della seconda linea, provai e andò bene. In quell’occasione conobbi Madalina Ghenea e ci innamorammo, al punto che lei venne chiamata dalla 3 (la linea di telefonia ndr) come testimonial e disse che voleva essere fotografata solo da me. Quindi lavorai con loro come fotografo per tre anni. Successe un po’ come era accaduto quando Piergiuseppe Moroni mi aveva mandato per la prima volta al Superstudio per fare capelli e trucco, andò così bene che continuarono a chiamarmi. Ad un certo punto però decisi di dedicarmi solo alla mia macchina fotografica.
Com’è nata secondo te questa passione per la fotografia?
Il make-up mi ha insegnato che si impara dai propri errori: una bocca se la sbagli una volta, quella dopo non la puoi più sbagliare. E poi mi ha fatto conoscere il mondo della fotografia di moda, l’importanza di una copertina, di un editoriale.
Se dovessi scegliere i tuoi grandi maestri, chi sarebbero?
Giovanni Gastel, Gianpaolo Barbieri, Bert Stern. Ho lavorato con tanti grandi fotografi, fino a quando non c’è stato il cambio generazionale.
Cioè?
Ad esempio, ho lavorato per tanto tempo con André Carrara, poi quando lui è diventato anziano hanno iniziato a chiamare il suo assistente, che però aveva addirittura paura di farmi vedere le Polaroid. Lì ho capito che stava avvenendo un cambio di generazione. E infatti poi c’è stato il crollo del Superstudio, tante cose non sono andate bene… Era un mondo meraviglioso che oggi non esiste più, che è riuscito a trasmettermi una grande lezione professionale e di vita. All’inizio non fu facile, perché io venivo dalla Puglia e negli anni Ottanta c’era ancora questa demonizzazione del “terrone”.
Infatti, dalla Puglia come sei arrivato a Milano?
Con un treno (ride) e centomila lire in tasca. Quando finii il militare dissi a mia madre: “Vado a Milano a trovare degli amici”, e non sono più tornato. Avevo trovato un lavoro in un negozio di Via Torino e riuscivo a pagarmi una pensioncina. Ricordo di un mese in cui ho patito la fame, cenavo con cappuccino e brioche. Però ce l’ho fatta. Oggi che ho 61 anni penso a tutto quello che ho fatto e dico “dovrei scrivere un libro”.
Hai vissuto anche negli Stati Uniti.
Sì, a Miami e New York. In Florida rimanevo intere settimane per lavorare alle campagne di Postal Market e Vestro, ero sempre in spiaggia circondato da donne bellissime. Poi però mi è venuta la crisi dello spaghetto: perché a New York ci devi nascere, altrimenti sarai sempre e soltanto un immigrato italiano.
Passando alla fotografia, tu hai scattato moltissimi ritratti. Che cosa significa realizzarne uno?
Cercare di catturare l’anima di una persona.
E quanto è importante l’empatia con il soggetto?
È una specie di energia. Io le amo le donne quando le fotografo, quando mi piacciono do il massimo di me stesso. Nel resto dei casi sono semplicemente professionale, diventa quasi una sfida.
Nella buona riuscita di una fotografia, quanto è merito di chi fotografa e quanto di chi è fotografato?
Io credo che sia un lavoro ancora più corale, non è solo la mia foto. Il merito di una fotografia ben riuscita è diviso tra tutti coloro che partecipano al processo: chi si occupa degli abiti, del trucco, dei fiori e così via. È un lavoro di squadra.
MARIO
Tu sei figlio dell’analogico, che cos’è cambiato nella fotografia con il passaggio al digitale?
Tantissimo. È svanita la magia di quando la foto era più sfumata, meno piatta e soprattutto generava attesa: per scoprire se le immagini fossero venute bene dovevi aspettare il giorno dopo.
C’erano dei rituali.
Sì, era quasi un rito. C’erano il fotografo e la macchina fotografica, si parlava di obiettivi e profondità di campo. Oggi c’è un computer, e poi si parla di ritocco e Photoshop.
E la fotografia di moda oggi?
È un po’ confusa.
Ha perso la sua identità?
Non so, io non voglio esagerare. Però sento che dalla scomparsa di Franca Sozzani sono cambiate tante cose, soprattutto nell’immagine. Io l’ho amata e odiata, però lei ha davvero dettato legge per l’arte. Un po’ come Gianni Versace, con la loro morte è cambiato tutto.
Possiamo dire che gli opinion leader hanno perso il loro peso culturale?
Oggi chi ci vuole influenzare in realtà non ha nulla da dire.
Sono d'accordo, e mi sconvolge vedere giovani fotografi che non conoscono i grandi classici della cultura e dell'arte. Ad esempio, la mia assistente non conosceva Anna Magnani. Prima di prendere una macchina in mano dovrebbero andare a Firenze e visitare tutti i musei. Anche io ho imparato così: ad esempio Aldo Fallai mi ha insegnato a conoscere Caravaggio; ora lo amo, perché le sue opere sono come fotografie. I giovani di oggi hanno perso la cultura, io vedo soltanto una grandissima confusione.
Pensi che la tecnologia abbia influito su questa deriva?
Sì, ha ridotto la curiosità, il sogno. I miei maestri mi hanno insegnato a cogliere l’attimo, perché la fotografia è l’unico mezzo che può fermare il tempo. Per questo non amo la fotografia programmata. Con me le donne devono saltare, ridere, urlare. E poi un tempo si facevano cose pazzesche: pensa all’editoriale “Water & Oil” voluto da Franca Sozzani. Noi aspettavamo con trepidazione ogni mese il giorno in cui sarebbe uscito Vogue, c’erano foto meravigliose.
Oggi sembra che manchino le idee, i contenuti.
È così, però è anche vero che è già stato fatto tanto. Oggi la difficoltà sta nel proporre cose nuove. La moda, nel momento in cui metti il marchio sulle scarpe, non è più moda, è solo marketing. Non si parla più di passamaneria, di tessuti. E questo si riflette nelle immagini. Secondo me sì. È vero che dobbiamo stare al passo con i tempi, però ora sono tutti fotografi, tutti truccatori, tutti parrucchieri. Lo sono tutti e quindi non lo è più nessuno.
Secondo te, i social media hanno influito su questo appiattimento?
Tu però hai anche saputo interpretare la tecnologia, ad esempio con il progetto della videoproiezione.
La videoproiezione è stata una mia idea. Ho provato prima con alcune luci cinesi che giravano, poi ho capito che con la proiezione potevo raccontare qualcosa. Così è nato il progetto con l’artista che vedete in copertina, Chiara Bonalumi (il progetto è stato sviluppato in collaborazione con Igloo Studios Milan, da un’idea di Matteo Perin e Annelie Strater ndr .).
C’è qualche personaggio in particolare che ti piacerebbe ritrarre?
Ce ne sono tanti, non ho una vera e propria mitologia del personaggio. Del passato, Anna Magnani. Oggi mi piacerebbe fotografare tutti, anche il Presidente degli Stati Uniti, se dovesse capitare.
E dei giovani fotografi che cosa pensi?
Io credo che con il digitale venga davvero fuori chi ha talento e chi non ce l’ha: in tutto lo staff, dallo styling al trucco. Oggi tutti vogliono fare questo lavoro, ma non è per chiunque. Ha a che fare con il talento, che è una cosa che hai dentro. Bisogna avere occhio.
Viaggio alla scoperta della SLOVENIA
Apochi chilometri dal confine che divide l’Italia dalla Slovenia si nasconde un porticciolo dal sapore veneziano. Qui inizia il nostro viaggio alla scoperta di paesaggi, specialità e modi di vivere che sanno di casa. Dal relax operoso dell’Istria slovena ci siamo diretti verso la capitale, Lubiana, ma non prima di goderci la pace di Laško. Tre universi battenti bandiera slovena con differenze inattese ed un filo rosso inaspettato fatto di cura dell’ospite e capacità di raccontarsi, dalle materie prime alle tradizioni, dall’acqua al vino. Malvasia su tutti.
Partiti in macchina da Trieste raggiungiamo in batter d’occhio le cittadine di Portorose e Pirano, vicine e complementari, esempi perfetti della mescolanza culturale, linguistica ed enogastronomia istriana. Buen retiro, ma anche rifugio silenzioso per coppie e famiglie, le due cittadine slovene incontrano le necessità di chi vuole godersi il silenzio mentre soffia un lieve vento primaverile. Se da una parte la calma è una vocazione, dall’altra Portorose e Pirano offrono a chi le visita e le vive una serie di esperienze uniche e difficili da imitare, di certo imperdibili. A tenere insieme ognuna delle emozioni vissute in Istria, il mare. Che fosse per la pesca, un semplice orizzonte o lo sfondo di una passeggiata nel centro storico, l’Adriatico fa sentire la propria presenza, fondamentale seppur discreta.
Dalle camere dell'Hotel Slovenija di Portorose è impossibile non notarlo. Del resto, il gioiellino a cinque stelle scelto per l’occasione ha l’acqua nel proprio DNA. Immergendosi nel centro nevralgico del gruppo Life Class ci si ritrova dalla camera ad un resort in cui l’acqua termale è la protagonista, assieme ai benefici del Mare Primordiale al quale gli ospiti possono accedere. Concluse le pratiche dell’arrivo e la parentesi termale, inizia un itinerario che osservando dall’interno l’Istria slovena ci porta a scoprire quanta Italia ci sia nella zona e viceversa. Con una manciata di minuti si arriva a Pirano e il porticciolo già citato suona come una dichiarazione d’intenti: omaggiare lo stile veneziano senza snaturare la tradizione piranese. Da piazza Tartini la nostra guida ci indica ogni dettaglio, ogni elemento, ogni ispirazione veneziana: difficile vederne così tante fuori dal nostro
Paese. Qualche esempio? La torre della Chiesa di San Giorgio è una riproduzione, in scala, del campanile di San Marco, mentre il palazzo veneziano che sovrasta la piazza, scendendo con lo sguardo, è figlio di una leggenda romantica. Un mercante giunto a Venezia, innamoratosi perdutamente di una giovane locale, acquistò l’edificio per lei e in risposta al mormorio dei concittadini fece scrivere la frase “lassa pur dire”. Lasciali parlare. Pensando all’amore senza confini dei due con gli occhi rivolti al tramonto sul mare è arrivato il momento di tuffarci nella cucina slovena. Circondati dalla luce soffusa e il design elegante del ristorante La bottega dei sapori, un menù degustazione a base di pesce e vino locale ci conquista, assieme all’affabilità del personale di sala. All’indomani, è il momento delle esperienze uniche offerte da Pirano e Portorose.
La storia di Pirano passa per le Saline di Sicciole
Le Saline di Sicciole sono uno storico complesso che ogni anno rende possibile la raccolta del pregiatissimo sale di Pirano e le sue imperdibili declinazioni, grazie a metodi antichi e all’esperienza dei salinai, trasmessa di generazione in generazione. La zona delle saline è aperta alle visite guidate, tenute in prima persona da chi le vive e vi lavora tutto l’anno. Passeggiando tra le vie delle saline si ha l'impressione che il tempo si sia fermato. Il silenzio, il legno delle vasche e gli strumenti dei salinai danno vita ad un'atmosfera unica nel suo genere, in cui immergersi per conoscere meglio Pirano, che dal primo secolo dice ancora la sua in un settore che si è profondamente trasformato.
Nella visita, superato il cancello d'ingresso, si entra subito nel cuore delle saline, tra i canali che fanno fluire l'acqua dal mare alle vasche in cui il sale verrà tirato fuori, già purissimo. La raccolta del sale di Pirano avviene mediante un processo difficile e minuzioso, che i salinai tramandano di generazione in generazione. La cura dei dettagli è fondamentale in ogni fase, dalla raccolta dell'acqua fino all'estrazione del sale, passando per lo sviluppo della petola, uno strada di microrganismi che separa l'acqua dal fango e incide sulla qualità del prodotto finale.
Al momento giusto, studiando la salinità dell'acqua, i salinai calzano i taperini e si spostano di vasca in vasca, tirando fuori il sale fino a caricarlo nei carrelli. Da lì in poi manca davvero poco alla "nascita" del sale di Pirano. Se passate da quelle zone, visitare le saline di Sicciole è un'esperienza da non perdere, sia per conoscerne la storia che per provare i prodotti a base di sale che si trovano nel loro shop, dal cioccolato ai prodotti per la skincare. Nella bella stagione, inoltre, c'è la possibilità di accedere alla spa delle saline, godendo dei benefici del sale sulla pelle e sullo spirito.
Allevamento ittico Fonda, dal mare alle stelle
I pregiudizi spesso sono duri a morire, ma nel caso dell'Allevamento ittico Fonda è impossibile non rimanere rapiti al cospetto della passione che il team di lavoro impiega ogni giorno per portare avanti un'idea, un modo speciale di vedere il mare e gli esseri viventi che lo abitano. Durante il nostro soggiorno nell’Istria slovena, abbiamo vissuto l’ennesima esperienza unica offerta dal territorio istriano, questa volta accolti dalla biologa Irena Fonda, figlia del fondatore dell’allevamento. Attraverso i suoi occhi, le sue parole e una degustazione dei suoi prodotti più prelibati, abbiamo avuto l’onore di entrare in punta di piedi nella storia della famiglia che porta in alto la fama
dei branzini di Pirano, apprezzati nei ristoranti sloveni ed europei.
Dal racconto di chi ha visto nascere, crescere e ora fa brillare l'impresa fondata da Ugo Fonda, un sogno diventato realtà, abbiamo scoperto da vicino quanta passione si possa mettere nel proprio lavoro, con il solo obiettivo di portare in alto la qualità.
La parola allevamento potrebbe essere fuorviante, perché l'attenzione posta in ogni fase della crescita dei branzini di Pirano rende il loro pesce un prodotto che sa di eccellenza.
Foto bonus - Fonda
La vera experience con Fonda non si ferma all'assaggio del branzino fresco: l'allevamento si può visitare, in modo da scoprirne segreti e peculiarità. Nel bel mezzo del parco nazionale delle saline di Pirano si estendono le gabbie
flottanti che accolgono gli avanotti, quotidianamente nutriti a mano dal team di Fonda con mangimi di altissima qualità, in tempi di crescita compatibili con la buona riuscita del prodotto: senza fretta, in modo che nulla sia lasciato al caso. Tutto questo, oltre all'ottenimento di branzini di altissima qualità, ha come fine ultimo uno scopo nobile: far diventare il mondo sottomarino di Fonda un rifugio per le specie marine che in passato hanno lasciato il loro habitat e ora stanno tornando pian piano "a casa". Un sogno diventato realtà.
Gramona Farm
A Portorose, quindi restava un’ultima esperienza da vivere, risalendo le verdi colline della cittadina. Tra ulivi e piante aromatiche sorge Gramona Farm, raggiungibile in pochi minuti in automobile dall’area marittima. Risalendo dalle coste che ospitano Fonda si scorge un angolo di paradiso: così si mostra Gramona Farm al nostro arrivo, incorniciata da un tepore piacevole e una vegetazione che più rigogliosa non si potrebbe. Non fatevi ingannare: non si tratta di una casa di campagna qualunque. È in effetti un un'impresa agricola a conduzione familiare che offre una fuga dalla città per tenere la frenesia quotidiana lontana. Accompagnati da chi lavora, cura e si occupa ogni giorno dei terreni che si affacciano sulle Saline di Sicciole, potrete passeggiare all'ombra degli alberi fino ad arrivare al patio fiorito dell’azienda agricola. Un luogo ideale per trascorrere una manciata di ore di relax, nel bel mezzo delle coltivazioni istriane. Tra un ulivo e l'altro potrebbe capitare di scorgere anche alcuni degli animali che popolano i terreni di Gramona. Volete di più? C’è la possibilità di consumare un picnic a pochi passi da caprette e gatti del posto, preparato dalle sapienti mani di Nina, la padrona di casa.
Olio e prodotti a chilometro zero, per davvero, sono il vero valore aggiunto alla visita. Con un blend tra varietà d'olive istriane e non, la famiglia che anima Gramona Farm realizza un olio inconfondibile dal profumo al gusto. La vera sorpresa, poi, l’olio al limone e all'arancia. Due specialità realizzate riuscendo a mantenere tutte le proprietà organolettiche dei prodotti, macinando insieme olive e agrumi. E poi sale di Pirano con il trito d'olive e paté sopraffini. Un tuffo tra i sapori istriani prima di tornare a bordo alla volta di Lasko.
Relax e benessere le parole d’ordine all’Hotel Thermana Park Lasko
Piscine, spa, massaggi ayurvedici e cene deliziose, con la possibilità di immergersi nella natura passeggiando lungo il fiume su cui affaccia l'Hotel Thermana Park Lasko. Tutto questo e molto altro ci ha accolti al termine del viaggio che dalla costa istriana ci ha condotti tra le colline di Lasko, una bomboniera più che una cittadina, ricca di case ordinate, colorate e accoglienti. Per scoprirle abbiamo seguito un percorso forse insolito, ma d'effetto certo.
Entrando nella hall dell'Hotel Thermana Park Lasko, un 4 stelle Superior, è subito chiaro cosa aspettarsi: una cascata di gocce domina la maestosa scalinata d'ingresso, che conduce ai ristoranti, pronti a mettere a disposizione degli ospiti una scelta vasta e ricercata di pietanze e stili culinari, con un unico obiettivo: occuparsi del benessere di chi si trova lì.
IG: @thermana_lasko #thermanalasko #thermelasko
Le camere, essenziali ma spaziose, sono evidentemente pensate per accogliere ospiti di tutte le età, nessuno escluso. Tornando alla hall un passaggio sul retro si apre sul fiume, dove un ponte collega l’hotel al sentiero che conduce al centro, dove vi suggeriamo di provare la birra Lasko, prodotta nella città a cui ha soffiato il nome ma apprezzata anche fuori dai confini sloveni. Lo stesso vale per le piscine, il vero punto di forza dell'Hotel. Il nome lo lascia intuire: se siete alla ricerca del relax che solo le terme possono regalare, probabilmente siete nel posto giusto. Sette piscine interne, con caratteristiche diverse e complementari, compongono il grande complesso termale al quale si può accedere direttamente dalle camere. Con la bella stagione la grande cupola di vetro che sovrasta le piscine viene aperta e finalmente anche gli spazi esterni diventano un'attrazione irrinunciabile. Idromassaggio per tutti,
scivoli e divertimento per i bambini, specchi d'acqua che affacciano sul fiume. Uno spettacolo per gli occhi e la mente.
Se si sceglie l'Hotel Thermana Park Lasko è tuttavia impossibile non trascorrere qualche ora nel centro benessere, con cui in un batter d'occhio ci si ritrova in India. Un team di esperti arrivati direttamente dalle zone in cui l'approccio ayurveda è nato. Massaggi a base d'olio, percorsi personalizzati e un medico specializzato saranno a disposizione per farvi vivere un'esperienza insolita e speciale, da estendere anche ai pasti. Chi questo approccio multidisciplinare alla vita nel soggiorno a Lasko ha l’occasione di assaggiare i menù pensati e bilanciati dallo chef ayurveda. Per un’esperienza dal sapore tradizionale invece vi suggeriamo il ristorante À la carte, un trionfo di prodotti locali rivisitati in chiave moderna.
Lubiana da bere, da visitare e da amare
Ebbri di oli aromatici e con il silenzio della città a fare da sfondo alla ripartenza, il nostro viaggio in Slovenia si dirige verso una tappa irrinunciabile, che dovreste valutare se siete alla ricerca di un luogo da raggiungere con una manciata di ore dall'Italia, per una fuga all'insegna del divertimento, del relax o della cultura. Difficile raccontare tutte le sfaccettature di Lubiana, ma provarci è d’obbligo. Per orientarsi nella capitale slovena c'è solo una cosa da fare: seguire il fiume Ljubljanica e guardarsi intorno, scrutando i tanti orologi presenti in città, uno per ogni campanile. Da un lato la città antica, dal gusto medievale, in larga parte ha mantenuto per quanto
possibile intatto, dall'altra una nuova estetica che avanza, le grandi piazze, i palazzi che contano e un mondo enogastronomico da scoprire in ogni sua declinazione. Alzando gli occhi al cielo tra le vie di Lubiana, una presenza ingombrante catturerà il vostro sguardo, oltre alla moltitudine dei suoi campanili: il Castello, che svetta sul colle che sovrasta la città. In virtù di una restaurazione moderna ma non invasiva, il Castello si può visitare arrivando a piedi o con la funicolare, che in pochi minuti vi farà entrare nella fortezza per farvi scoprire com'era vivere lì nel medioevo. Oltre alla visita canonica, potrete ascoltare tutto quel che circonda la leggenda del drago che avrebbe salvato la città dagli
invasori, o ancora visitare il museo che si trova all'interno della struttura e guardare rappresentazioni animate sulla storia della città. Se siete lì, poi, vi consigliamo di salire sulla torre panoramica, dalla quale avrete una visione a 360° della città, dal suo punto più alto.
Dal cortile in pochi minuti di passeggiata sarete in grado di tornare nel bel mezzo della capitale, seguendo il sentiero che dalla collina scende verso il fiume. Nell’attraversarlo, magari al tramonto, quando i locali che si trovano ai suoi fianchi si animano, avrete l'imbarazzo della scelta: se tanti sono gli orologi, tanti sono anche i ponti sul Ljubljanica. I più curiosi?
Il ponte dei macellai, ricoperto di lucchetti come ponte Milvio a Roma,
il ponte dei draghi, che omaggia la mascotte della città, e infine il triplice ponte, unico nel suo genere. Ogni grande città che si rispetti ha il suo grande fiume e attraversando il Ljubljanica si va alla scoperta dei punti d'attrazione più moderni, dalle piazze ai palazzi delle istituzioni. In ogni angolo c'è un elemento, un’iscrizione o un monumento che racconta la storia della città, significativa nonostante la giovane età. Cosa vedere in questa zona? Non perdete la piazza del Congresso, dove sorgono l'edificio dell'Università e la Filarmonica, ma anche il palazzo della Biblioteca nazionale, progettata dall'architetto Jože Ple č ni k, e la piazza della Repubblica. Nella stessa zona troverete ristoranti, hotel e locali per tutti i gusti.
Per apprezzare al meglio una località bisogna conoscere chi la abita e assaggiare i sapori tipici. Nei nostri giorni di permanenza nella capitale slovena "accoglienza" è stata la parola d'ordine. Dai ristoranti all'hotel selezionato per il weekend a Lubiana, abbiamo toccato con mano cosa voglia dire non lasciare nulla al caso e saper coccolare gli ospiti. All'arrivo il personale dello Zlata Ladjica Boutique Hotel vi accoglierà con un drink nella hall diffusa, dai toni accesi a contrasto con la pietra chiara e ruvida delle pareti.
Parte integrante del soggiorno presso lo Zlata Ladjica Boutique Hotel è la visita alle camere, ognuna con un nome che ne racconta la storia o una peculiarità. Qualche esempio? La stanza ribattezzata "The cut" prende il nome dal taglio di una porzione dell'edificio originario, necessario per facilitare la viabilità nella zona. Un'altra, "The bell", ospita tra le mura la campanella che si utilizzava per annunciare il coprifuoco. Non solo di storia ci si nutre, ma di certo il fascino si sente tutto. Lo standard è tenuto decisamente alla stessa altezza dalla colazione, rigorosamente servita a tavola e capace di soddisfare ogni palato, rubando il meglio della cucina europea.
Design impeccabile e posizione strategica sono la ciliegina su una torta già squisita. L'hotel si trova in pieno centro e affaccia sul fiume Ljubljanica; un dettaglio non trascurabile e che consente agli ospiti di spostarsi a piedi per raggiungere i punti d'attrazione della città, dai ponti al centro storico, dalle grandi piazze al mercato, fino alla funicolare che porta al castello. Tenendosi sulla stessa riva dell'hotel, attraversando la piazza del Congresso, in pochi minuti si arriva ad esempio al P.E.N. Klub.
Immersi nell'atmosfera sofisticata della sala del ristorante, dominano la scena i sapori creati dallo chef Mojmir Marko Šiftar e dal suo staff, cordiale e presente al punto giusto, capace di raccontare materie prime e preparazioni. Attraverso il menù degustazione, disponibile in diverse versioni, si passa da paté raffinatissimi a preparazioni complesse e ricercate, tartare, mousse e salse elaborate. Il P.E.N. Klub di Lubiana rappresenta la sintesi enogastronomia di una Slovenia che tiene alla propria tradizione ma non ha paura di osare e tutto ciò si avverte in ogni portata. La cura del dettaglio tutta slovena è una lezione di empatia e attenzione al prossimo. Provare per credere.
IG: @zlataladjica_boutiquehote
IG: @restavracija.penklub
CHIARA BONALUMI
L’ARTE DI ESISTERE
Chiara Bonalumi, artista concettuale milanese classe 1985, trasforma la filosofia in arte figurativa e il pop in una declinazione provocatoria della fisica quantistica. Come? Attraverso enormi tele che raccontano molto della società contemporanea, con i suoi vizi e le sue virtù. L’abbiamo incontrata per comprendere meglio la sua arte, e insieme qualcosa di più del suo punto di vista su questo nostro mondo.
Produzione: Igloo Studios Milan
Makeup: Matteo Perin @beautycallplus
Styling & Hair: Annelie Strater @beautycallplus
Arte, filosofia, fisica quantistica: come si sono incontrate?
Nel corso degli anni ho coltivato l’amore per l’arte disegnando; poi ho studiato Filosofia all’università e a questa ho affiancato una passione per la fisica quantistica. In particolare, ho trovato nella fisica quantistica il risvolto scientifico della mia corrente filosofica, che è l’esistenzialismo. Come se tra le due ci fosse un trade d’union di ragionamento, tra l’approccio alla vita dell’esistenzialismo e le leggi della fisica quantistica.
Ci riassumeresti brevemente l’esistenzialismo?
Gli aspetti più importanti dell’esistenzialismo riguardano, lo dice il nome stesso, il tema dell’esistenza: è una filosofia che teorizza la priorità dell’esistenza sull’essenza. Prima esisto e poi sono, e questo pone l’uomo davanti alla più grande domanda: perché esisto? Ecco, citando Heidegger, l’uomo è gettato nel mondo: esiste senza avere una strada precostituita, è lui chiamato a dover dare un senso alla propria esistenza. Di fronte a questo vuoto l’uomo prova una grande angoscia, la nausea sartriana che si presentava davanti alla ciotola vuota. Ma questa angoscia non deve essere colmata, semplicemente accettata. Non avere risposte è il senso stesso della vita: il dubbio, non la certezza.
Qui si collega la fisica quantistica?
Sì, a suo modo. A differenza della relatività generale, la fisica quantistica non ragiona secondo un meccanismo di causa-effetto. Al contrario, nella fisica quantistica esiste il concetto di indeterminatezza: ad esempio, secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg, non si può stabilire la posizione esatta di un protone, ma soltanto calcolare un range di possibilità. In questa non certezza ho trovato il legame con la filosofia esistenzialista.
E come hai trasformato questi concetti in arte?
Tutto è nato da un personaggio pop, Felix the Cat: ho pensato che rappresentasse alla perfezione il Gatto di Schrödinger.
Hai preso Felix e l’hai messo nella scatola.
Esatto, e l’ho scelto non a caso: è un comics, è pop, è satira per eccellenza. Nonostante viva in una sovrapposizione di stati, vivo e morto contemporaneamente, lui reagisce. Ride, scherza: è vivo, soffre, accetta il dolore. È crudo e dissacrante davanti alla realtà: così l’essere pop diventa l’atto stoico dell’uomo profondo e l’accettazione attiva, e non passiva, dell’angoscia e delle non risposte. Il dolore diventa il modo di comprendere la gioia: un altro parallelismo con la fisica quantistica, che parla di materia e antimateria. Più il gatto riesce a ridere, più riesce a piangere, e quindi ad essere ondivago nella vita.
Il ridere del Felix, quindi, non è una maschera, ma la sua risposta all’esistenza?
Il gatto è Felix, che vuol dire felice in latino: lui ha scelto la resilienza, urtandosi senza rompersi, vivendo anche senza risposta alle sue domande più profonde. Sceglie di costruirsi rinunciando a dare un senso assoluto alla sua vita: ha accettato che vivere è il semplice atto di esserci nel tempo; ha accettato l’incertezza come parte dell’esistenza. Felix, però, è anche nero: rappresenta l’ansia del divenire. Nero è il colore della notte, il momento in cui si fanno spazio i pensieri più oscuri. Quindi è pop e al contempo rappresenta il lato più profondo di noi stessi.
©Roberto SalaTorniamo al concetto del Gatto di Schrödinger, ce lo riassumi?
Il Gatto di Schrödinger è un paradosso, emblema della fisica quantistica. Erwin Schrödinger ha messo (metaforicamente) un gatto dentro una scatola, con dentro un meccanismo in grado di ucciderlo in un’ora, con il 50% di possibilità che accadesse. Prima di aprire la scatola non c’è alcun modo di sapere se il gatto sia vivo o morto, vive in una sovrapposizione di stati: è vivo e morto contemporaneamente. La fisica quantistica deve palesarsi per esistere, ed è il motivo per cui si lega all’esistenzialismo: per essere, bisogna esistere. Noi, allo stesso modo, abbiamo aspetti inconoscibili di noi stessi, siamo fatti di piccole particelle che ragionano in maniera del tutto paradossale. Siamo frutto di un paradosso, è insito dentro di noi.
Felix The Cat è la rappresentazione perfetta di questo paradosso.
Esatto, lui sa di essere un paradosso, sa di non avere risposte: eppure vive serenamente. Noi dovremmo essere come Felix.
Venendo alle tue opere, quali sono i concetti che hai declinato nei tuoi quadri?
Ogni quadro della collezione Felix rappresenta un aspetto di questo macromondo che è il trade d’union tra filosofia e fisica quantistica. Nel quadro “The Big Yellow” ho preso una posizione contro l’idealismo: Idealism is your illusion. Dobbiamo avere infatti un approccio dubitativo nei confronti delle cose e non certezze. Bisogna avere idee e non ideologie, che diventano patologiche e generano scontri. Al contrario della libertà, che è data dal dubbio e non dalla certezza. In questo quadro, come in altri, mi sono schierata contro la Metafisica, che per citare Pessoa mi è sempre sembrata una forma comune di pazzia latente.
Il problema della Metafisica, secondo te, è legato a questo tentativo di voler comprendere la realtà al di là della realtà stessa?
Sì, è voler creare un senso per addolcirci, per addolcire la realtà. In questo quadro ho inserito la scritta The unknown terrifies me: lo sconosciuto è terrificante; e proprio per questo, ci sforziamo di aggiungere qualcosa che ci sembri familiare. In realtà, però, lo sconosciuto è il caposaldo dell’esistere. Il so di non sapere. Tutto il resto è soltanto un vano tentativo di riempire la ciotola di Sartre con contenuti insignificanti. Io non ho risposte, e per me il senso della vita è proprio questo.
Quindi credi che l’ignoto debba essere semplicemente ignorato?
No, è giusto considerarlo, studiarlo. Però poi devi fermarti e sentirti ciò che sei: un uomo che vive 100 anni in un universo di 15 miliardi di anni.
Senza sforzarsi di dargli a tutti i costi un senso.
Esatto, sopravvalutandosi. Alla fine, siamo soltanto essere umani fatti di particelle.
Il colore giallo di questo quadro ha un motivo preciso?
Sì, "The Big Yellow": perché la vita è un grande giallo, è un thriller senza finale. Per questo dobbiamo goderci il viaggio accettando che forse non esiste neppure una destinazione. Bisogna sì essere dissacranti, ma in una forma di nichilismo attivo e proattivo, come quello del Fanciullo di Nietzsche. Divieni ciò che sei, diceva il filosofo: noi siamo un libro bianco sul quale scrivere il senso della nostra vita. L’uomo è drammaticamente libero, ma questa “condanna” va accettata.
CHIARA
Questo concetto del divieni ciò che sei come si rappresenta nel Felix?
Nel quadro “Liquifying”, ad esempio, Felix si scioglie. È la rappresentazione del concetto di società liquida di Bauman, che nel frattempo si è estremizzato: l’individuo non è più liquido, è fluido. Felix si scioglie, come se volesse scollarsi di dosso quello che gli è stato detto di essere. E così come i valori si sono distrutti, anche Felix per ricostruirsi deve sciogliersi.
BONALUMI
©Mario Gramegna © Roberto SalaQuindi siamo condannati ad essere fluidi o riusciremo a ricostruirci, secondo te?
Noi siamo in divenire, siamo tutti diversi e nella fluidità troveremo la nostra forma. La nostra però, non quella precostituita. Poi potremo liquefarci e ricostruirci un’altra volta, quando vogliamo e dove vogliamo.
Cambiamo forma ma rimaniamo sempre noi stessi.
Esatto, lo mostro bene nel quadro “Obsession”: ci sono tanti Felix con lo stesso volto ma di colori diversi. La frase che si lega al concetto è Restio a ogni versione, per rimanere sempre se stesso. Ma in realtà è vivere ogni versione di noi stessi che ci permette realmente di esistere.
Non esiste un Felix triste?
Esiste. Ma più che triste, vuol dire che è stato vinto in quel momento, per un attimo ha solo accusato il colpo.
Da quadri molto colorati sei passata a uno quasi del tutto nero, “Felix close to a Black Hole”.
È un quadro collegato all’Universo, che fa riferimento sia alla fisica quantistica che alla fisica generale. La teoria quantistica della gravità è il più grande problema scientifico della nostra epoca. Mentre nella Relatività Generale esiste una legge di gravità, nella fisica quantistica non esistono teorie sulla gravità, perché nei fenomeni descritti dalla meccanica quantistica la gravità è trascurabile. E così intorno al buco nero si dispongono i Felix, che per contrapposizione diventano bianchi e vengono deformati. Felix diventa una sorta di Avatar di noi stessi, che rimaniamo inghiottiti in un Metaverso illusorio e irraggiungibile, come se l’uomo tendesse a volere una realtà che non esiste. Il Metaverso diventa Oltreverso, ma questo è pura finzione oppure è davvero la manifestazione della fine dell’esistenza concreta dell’uomo? Oppure è la dichiarazione dell’uomo che rinuncia a se stesso, stanco della banalità che vede nel vivere la sua vita reale? O ancora, distorcersi significa sopravvivere?
L’assumere nuove forme quindi è positivo, a patto che la distorsione sia consapevole e non imposta.
Esatto, quando una forza esterna ci costringe a deformarci è negativo, quando è un atto voluto diventa esistenza. Alda Merini diceva: "Mi sveglio sempre in forma ma mi deformo attraverso gli altri: se la vita ci forgia e ci deforma a tal punto da avere l’impressione di perdere la nostra identità, allora è sbagliato".
©Armando RebattoPerò questa frase può essere interpretata anche in maniera duplice, come se la mia esistenza venisse influenzata dagli altri in modo positivo.
Esatto, ogni cosa è un Giano bifronte: c’è un lato negativo e positivo in tutto, non esiste una verità assoluta.
"Felix close to a Black Hole", 2022 Still Life: Giacomo SantanielloIl tema del Metaverso rientra quindi secondo te nello sforzo di cercare sempre qualcosa di altro, perché non ci accontentiamo della realtà?
È un po’ come se nel tempo non fossero bastate le ideologie, le religioni, la superstizione: quelle sono cadute, quindi ci siamo inventati qualcos’altro, fino ad arrivare alla fantascienza, a vivere una vita che non è la nostra.
A dire il vero non ci siamo neanche inventati qualcosa, abbiamo soltanto duplicato la realtà senza alcuno sforzo creativo. Anzi, è la versione più scadente della realtà che già abbiamo.
È così, come se dovessimo creare dei noi che non siamo noi, perché non ci accontentiamo di vivere la vita che abbiamo.
Torniamo ai quadri, ci sono altri personaggi oltre a Felix the Cat?
Sì, ci sono altri due soggetti: in una collezione utilizzo la figura del serpentedrago; in un’altra invece il cammello, il fanciullo e il leone, per ricollegarmi alle tre metamorfosi di Nietzsche. Con il serpente e il drago (entrambi legati al greco drakon) in realtà ho voluto mettere a fuoco la dicotomia tra giusto e sbagliato: chi è il serpente e chi è il drago? Siamo un insieme di giusto e sbagliato, di bene e male, e anche questa è una cosa che dobbiamo accettare. Si tratta quindi di un fluire di concetti che sono stati dicotomici e oggi si mischiano uno con l’altro. Il caos e l’ordine convivono dentro di noi: siamo bene e male, siamo giusto e sbagliato.
©Armando RebattoE invece cammello, fanciullo e leone cosa rappresentano?
Nella metamorfosi descritta da Nietzsche il cammello diviene leone e poi fanciullo, distrugge i valori per ricostruirli. Allo stesso modo, con la società liquida i valori si sono disgregati e poi si sono ricostruiti: però non solo valori assoluti, sono personali. Solo in questo modo l’individualismo può avere un valore positivo.
Non pensi che questi valori rischino però di essere autoreferenziali?
Vero. Ci sono solo tre valori che secondo me devono essere comuni a tutti per far convivere l’individualismo: libertà, responsabilità ed etica. Nel momento in cui esistono responsabilità ed etica non c’è bisogno di leggi o ideologie.
Che ruolo ha in questo il fanciullo?
Il fanciullo rappresenta gli occhi con cui guardare il mondo: è indomato dalla vita. Rappresenta la bellezza che va ricercata nonostante l’angoscia.
E Felix The Cat questi occhi ce li ha?
Sì, ce li ha: è come se vedesse tutto per la prima volta.
È REBOOT MANIA
SIAMO SCHIAVI DEL PASSATO?
opinione diffusa che oggi tutto cambi velocemente, per alcuni ad una velocità talmente rapida da essere oramai insostenibile. Restano però, nonostante l’ansia da prestazione progressista, delle immutate certezze. Momenti che sanno adattarsi al tempo ma senza soccombere, cambiando volto, dinamiche e modalità, ma esistendo – e resistendo - ancora. Esattamente come quel piacere di ritrovarsianche solo per un momento, magari anche distratto – di fronte ad uno schermo che un tempo si sarebbe chiamato “televisione”, ma che oggi racchiude in sé troppe sfaccettature per avere la pretesa di un sostantivo unico e definitivo. Programmi, fiction, cinema, ma anche videogiochi che diventano serie tv, film di supereroi che si moltiplicano in un gioco
caleidoscopico che vale miliardi di dollari e fiction firmate Rai che diventano serie tv per Netflix – per poi fare ritorno all’ormai anacronistico ovile della prima serata. Un universo complesso, più facile da “usare” che da spiegare, diventato oggi inspiegabilmente casa, a cui ogni sera (ma non solo) facciamo ritorno consapevoli che, di fronte alla possibilità infinita di novità, siamo pronti a scegliere ancora il passato. Che siano serie tv in formato originale oppure film re-impastati in chiave moderna, che abbiano gli stessi attori oppure re-intepretazioni più contemporanee, meglio ancora se in chiave gender fluid; che siano spin-off, reboot, revival o franchise, il puntatore – bussola digitale dei nostri desideri inconsci – muoverà per la maggior parte delle volte verso la nostalgia, in un gioco al futuro che non può fare a meno di guardare dallo specchietto retrovisore. Da questo nuovo ma vecchio universo narrativo nascono contenuti come And Just Like That, revival reboot di Sex and The City, una delle serie più rivoluzionarie di sempre, o la versione Gen Z di Gossip Girl. Ma anche la serie tv ispirata alla saga di Harry Potter scritta da J.K. Rowling, dopo il successo dei film; stesso destino riservato anche alla saga di Twilight.
La tendenza a rispolverare le grandi glorie del passato – per evitare l’oneroso impaccio di spiegare al pubblico un nuovo titolo – è stata intercettata anche dall’Italia e dalla vecchia ma saggia emittente di servizio pubblico. Secondo alcune indiscrezioni infatti la Rai sarebbe pronta a riesumare dalla soffitta dell’avversaria Mediaset, Elisa di Rivombrosa, la fiction di Canale 5 diventata un cult negli anni Duemila italiani, per farne una nuova serie che sulla carta sarebbe il prosieguo della miniserie La figlia di Elisa –Ritorno a Rivombrosa, andata in onda nel 2007 con poche fortune. Una scelta che ha innescato un’ondata di scetticismo da parte di quel pubblico affezionato, pronto a tirare fuori le unghie dell’indignazione quando vengono scomodati i mostri sacri della fiction italiana; ma che, spinti dalla curiosità, sarebbero comunque
i primi disposti a sedersi di fronte al televisore, pronti ad esprimere il proprio giudizio, qualora il sequel prendesse effettivamente forma. Al fianco di sequel, reboot e revival, si apre poi lo sconfinato universo dei franchise, quei racconti che hanno – per loro natura intrinseca – la capacità di moltiplicarsi quasi all’infinito, alimentando quanto più possibile le proprie linee narrative. Tale meccanismo, magistralmente sfruttato da colossi narrativi come l’universo Marvel, genera quindi un vorticoso gioco di riflessi, mosso dalla potente arma dell’autocitazionismo, il cui vantaggio economico resta quasi imbattuto – nonostante gli onerosi costi di produzione -, ma che alimenta allo stesso tempo un’oscura nemesi che prende il nome di franchise fatigue. Di fronte a tale stratificazione e moltiplicazione, il pubblico ha infatti
iniziato a palesare una stanchezza, dovuta ad una sempre maggiore complessità delle storie per cui se non si riesce a stare al passo, si finisce per perdere la visione d’insieme – e con essa il piacere stesso dell’intera esperienza. Nonostante quindi la vasta quantità di titoli che scorrono dinanzi gli occhi del pubblico, sottoforma di una sconfinata biblioteca di Babele digitale, sembra che il confortevole agio del passato e del già noto eserciti un appeal nettamente maggiore rispetto alla novità. È però innegabile che alla base di tale attitudine ci sia una relazione dialettica tra i desideri del pubblico e la proposta creativa dell’industria, in uno scambio di reciproche influenze che conduce a quella che, per pressapochismo, viene spesso archiviata come una diffusa mancanza di creatività.
Infatti, è sempre più diffusa l’opinione secondo cui l’ormai palese volontà dell’industria audiovisiva di cavalcare l’eco sicuro che porta con sé un titolo di successo sarebbe da imputare ad una scarsa attitudine a creare nuove storie, la quale condurrebbe produttori e sceneggiatori a ripiegare sullo sfruttamento delle proprietà intellettuali. Ma se così fosse, le library delle piattaforme non avrebbero a disposizione, quasi a cadenza settimanale, una sostanziosa mole di titoli nuovi (non riconducibili a brand preesistenti) capaci di intercettare nicchie sempre più ristrette e profilate di pubblico. Sembra dunque che dietro alla proliferazione odierna di reboot, spin-off e franchise ci siano ragioni prettamente economiche, simbolo di un’industria che non si può più permettere il brivido costoso del rischio (riservato solo a casi isolati come Citadel, il nuovo franchise firmato Prime Video), ripiegando sul perseguimento della garanzia che solo i titoli dotati di storico possiedono. L’aspetto economico legato alle industrie creative fa sentire sempre di più il proprio peso, incidendo sui prodotti così come sui desideri del pubblico che subisce il fascino eterno del passato – che non per forza dev’essere quello remoto. Nella spasmodica voglia di apporre al mondo di oggi l'etichetta dell'avanguardia, la resistenza maggiore sembra essere quella di rinunciare al piacere di quel passato che non piace solo al pubblico, ma soprattutto all’industria stessa, in una dinamica win-win a cui sarà sempre più difficile rinunciare. Perché, in fin dei conti, forse aveva ragione Umberto Eco quando diceva che ogni storia racconta una storia già raccontata.
DAL CILE AL PERÙ
Alla scoperta di Machu Picchu
MARIANNA STEFANILe due settimane che ho trascorso nel deserto cileno sono state costellate di paesaggi surreali, infinite strade vuote, tempeste di sabbia e splendidi tramonti. Per mantenere alto il livello qualitativo del mio viaggio ho deciso di visitare una delle 7 meraviglie del mondo: il Machu Picchu. Il Sud America è notoriamente famoso per la lunga distanza tra le città, ma si dà il caso che io viva in Australia… Mentre in Oceania prendere un volo è più economico di un viaggio in treno, qui il modo più comune per spostarsi è l'autobus. Adoro gli autobus, li ho guidati per 2 anni nelle stradine della periferia ovest di Sydney. Da San Pedro de Atacama, il fulcro del deserto, mi ci sono voluti 3 viaggi in autobus per un totale di 26 ore di strada per raggiungere il Perù.
© Marianna StefaniMi sono diretta a ovest verso la costa, prendendo la Panamericana Sur fino a Tacna, al confine peruviano. La Panamericana è una serie di strade che collegano le Americhe, dall'Alaska a Ushuaia in Argentina, il punto più meridionale del continente.
Dopo Tacna sono salita su un altro bus e dopo qualche ora in più sono finita ad Arequipa, la mia prima tappa in Perù. La scelta delle attività in questa splendida città spazia dai tour del centro storico alle escursioni di più giorni nelle Ande. In quanto antica capitale dell'era coloniale, Arequipa offre una selezione infinita di edifici storici, soprattutto intorno alla sua popolare Plaza de Armas, cuore della città bianca. È soprannominata "la città bianca" perché la maggior parte di questi edifici iconici sono realizzati con una pietra vulcanica bianca.
Dal belvedere più popolare, il "mirador de Yanahuara", si può godere di una fantastica vista sul "El Misti", il più
famoso dei tre vulcani che circondano la città. Ho optato per un trekking di un paio di giorni nel Canyon del Colca, situato a poche ore a nord di Arequipa. È uno dei canyon più profondi del mondo e si estende per oltre 70 km. È anche la dimora del Condor delle Ande, il più grande uccello del mondo, che con la sua apertura alare può raggiungere quasi i 3 metri. Ho avuto il privilegio di confermare questa affermazione quando un enorme condor maturo è volato a 5 metri sopra la mia testa mentre sorseggiavo tranquillamente un caffè nella Cruz del Condor, il miglior punto panoramico del Canyon. Dopo aver osservato i rari avvoltoi presenti nella zona, un trekking di 4 ore mi ha portato a Sangalle, un'oasi in fondo al Canyon. Lì, sorseggiando silenziosamente una tazza di tè, grazie ad una notte senza luna ho avuto modo di ammirare il cielo che si era trasformato letteralmente in un tappeto di stelle.
Alle 3 la sveglia ha suonato e dopo colazione mi sono diretta in salita su un ripido sentiero a zig zag. Ho raggiunto la cittadina e sono saltata su un altro autobus per tornare ad Arequipa. Lungo la strada però mi sono fermata alle vicine sorgenti termali e mi sono poi immersa nelle distese praterie della Pampa peruviana.
La meta successiva è stata Ollantaytambo, alle porte della Valle Sacra, nel cuore dell'impero inca. Da qui ho raggiunto Aguas Calientes, un paesino da cui partono giornalmente autobus che portano i viaggiatori alle rovine di Machu Picchu. La cittadella inca è stata eletta come una delle 7 meraviglie del mondo moderno. La storia della sua fondazione è ancora un mistero e si ritiene che sia stato abitata per meno di cento anni. Gli studiosi teorizzano che dopo essere
stata costruita a metà del XV secolo, la cittadella sia perita sotto la conquista spagnola.
I capolavori architettonici situati nella cittadella hanno lasciato perplessi gli ingegneri di oggi, e l'UNESCO ha lottato dagli anni '80 per preservare le sue unicità. Ogni giorno è consentito l’accesso di un numero limitato di visitatori, ecco perché le persone di solito prenotano con mesi di anticipo. Diversi biglietti danno accesso a luoghi diversi ed è anche possibile fare escursioni sulle montagne circostanti: Machu Picchu, che è la montagna dove si trova effettivamente la cittadella, e Huayna Picchu, la cui bellissima vetta si erge dietro la città Inca in tutti gli scatti fotografici che vengono realizzati in questa località.
Onorata di poter visitare un luogo così magico, mi sono diretta poi a Cusco,
capitale storica dell'impero inca prima dell'invasione spagnola. La città, patria di mezzo milione di persone, ha vinto per tre anni consecutivi il premio di migliore città dell'intero continente americano dal prestigioso brand travel+leisure. Dopo alcuni giorni di relax a Cusco sono decollata nel cuore della notte per raggiungere i piedi di Vinicunca, meglio conosciuta come Rainbow Mountain. Una camminata di 5 km a 5.200 m di altitudine ti sveglia davvero. Il trekking ti porta in cima, per una vista unica sui pendii colorati e spogliati della montagna. Un mix di composizione minerale del terreno gli conferisce dei colori davvero peculiari. Questa zona è diventata popolare alcuni anni fa, a causa dello sfortunato problema del riscaldamento globale. Il picco era un tempo un ghiacciaio, ora completamente sciolto a causa dell'aumento della temperatura. Nonostante spunti un altro Paese dalla mia lista dei desideri, continuo ad aggiungere luoghi che voglio vedere e cose che voglio fare.
No rest for the wicked.
© Marianna StefaniALESSANDRO ALUNNI BRAVI
LA FORMULA 1 NEL DNA
Arriviamo a Hinwil, meno di mezz’ora di treno da Zurigo, in una assolata giornata di metà luglio. Ad aprirci le sue (blindatissime) porte è la sede di Sauber Motorsport, uno dei team più longevi del panorama della Formula 1 e negli ultimi anni tra i protagonisti del circus con un nome che ha risvegliato i cuori e gli animi di molti appassionati, quello di Alfa Romeo. A rivestire il ruolo di Managing Director and Team Representative di Alfa Romeo F1 Team Stake, è Alessandro Alunni Bravi, classe 1974 e umbro doc. Come me, Alessandro proviene da un piccolo paesino sulle sponde del Lago Trasimeno, Passignano. E noi sappiamo bene cosa abbiano significato per certi ragazzi nati tra gli anni Settanta e Ottanta nomi come Scuderia Coloni e Autodromo di Magione: in quel fazzoletto di terra dell’Umbria, infatti, allora si respirava aria di Formula 1. Piloti e ingegneri potevi incontrarli al bar del paese, mentre tutto il pathos si concentrava il venerdì: altro che Gran Premio, era quello il giorno in cui la Coloni tentava di passare la tagliola delle famigerate prequalifiche.
In questo contesto Alessandro venne contagiato dalla passione motoristica del padre Giampaolo, declinata dapprima in una vocazione giornalistica, poi approdata agli studi di giurisprudenza. E così andare per autodromi a raccontare le performance dei giovani kartisti è stata la porta di ingresso di una carriera in cui Alessandro Alunni Bravi ha saputo mixare in modo impeccabile passione, competenze, studio e tanta curiosità. Il risultato lo ha premiato: è al muretto box di Alfa Romeo F1 Team Stake nella posizione che era di Frédéric Vasseur, oggi grande capo della Ferrari in Formula 1. Un ruolo che non può non essere di ottimo auspicio. Insieme al CEO di SauberGroup, Andreas Seidl, poi, Alessandro dovrà anche traghettare il team verso un passaggio epocale: divenire nel 2026 il team di Formula 1 di Audi, che rappresenta l’ingresso ufficiale del gruppo Volkswagen nella massima serie.
Di questa e altre sfide, traguardi e sogni abbiamo chiacchierato con Alessandro Alunni Bravi.
La passione ti lega al mondo del motorsport e delle quattro ruote da quando eri giovanissimo. Eppure, nella tua carriera hai fatto anche un percorso parallelo. Anzi, due percorsi. Da un lato l’attività giornalistica, agli esordi, e poi quella legale. Questo mix ti ha portato in Formula 1, ai vertici. Quali sono stati gli elementi che puoi considerare salienti per ciò che sei oggi?
Tutte le esperienze, in qualsiasi percorso professionale, sono importanti. Io oggi rivesto un ruolo che è sì manageriale, ma nelle vesti di Team Representative richiede anche la capacità di relazionarsi con la stampa e con i partner. Quindi le mie esperienze, sia come legale e manager, sia inizialmente come giornalista, mi aiutano tutt’oggi a svolgere al meglio l'incarico che ricopro all'interno di Alfa Romeo F1 Team Stake. È vero che ho avuto un percorso professionale molto ampio, ma probabilmente perché ho cercato di raggiungere un obiettivo che poteva sembrare molto lontano. Ogni cosa che ho fatto è stata dettata dalla passione e dalla volontà di arricchirmi, cercando di unire la mia competenza specifica di avvocato alla mia passione per il mondo dei motori e per il motorsport. Questo mi ha portato, non so se con meriti oppure no, ad avere il privilegio e l'onore di lavorare all'interno del gruppo Sauber e di rappresentare Alfa Romeo in Formula 1.
Tu vieni da una regione, l’Umbria, e da una zona che aveva delle caratteristiche che sono state per te molto importanti. Citiamo in particolare Passignano sul Trasimeno e Magione, due località che al mondo del motorsport dicevano qualcosa anni fa. E anche oggi, in un certo senso. Questo per te è stato “contaminante”?
Io sono molto legato alle mie radici. Vengo da Passignano sul Trasimeno che, come mi piace ricordare, è stata la patria della Coloni, una squadra che negli anni Ottanta è stata vincente in Formula 3, fino ad arrivare poi come costruttore in Formula 1 nel 1987. Erano gli anni della mia gioventù, quando iniziavo a sognare e cercare di capire che cosa volessi fare da grande. E poi l'autodromo di Magione, che è stato il mio “oratorio”. I sabati e le domeniche passate in pista sono stati per me estremamente importanti, il terreno fertile in cui ho potuto coltivare la mia passione per i motori. Poi naturalmente ho dovuto fare delle scelte, anche professionali. Ho deciso di seguire la strada dell'avvocatura, ma il richiamo verso queste radici e questa passione è stato sempre fortissimo. Poi ho avuto la fortuna di abbinare le mie competenze come avvocato alla mia passione per i motori, e senza dubbio l'Umbria, il mio Paese e l'autodromo di Magione hanno rappresentato un elemento fondamentale in questo processo.
Hai qualche ricordo peculiare della tua gavetta, qualcosa che consiglieresti di vivere ai giovani, anche se i tempi sono cambiati?
Ai giovani consiglio innanzitutto di sporcarsi le mani. Sporcarsi le mani non vuol dire solo fare lavori manuali, vuol dire mettersi in gioco, rischiare, non guardare ai benefici immediati. È importante iniziare a lavorare, è importante fare tutte le esperienze possibili. Noi abbiamo molti ingegneri oggi che arrivano in Formula 1 direttamente dall'università, ma a volte spiego loro quanto è importante, ad esempio, lavorare nelle formule minori, iniziare dalle categorie junior, dai kart, dalla Formula 4, ricoprendo anche ruoli che non corrispondono esattamente alla propria preparazione o al proprio percorso professionale. È stato estremamente importante per me poter iniziare, ad esempio, a svolgere il ruolo di avvocato per piccoli team e per piloti che iniziavano la loro carriera nelle monoposto agli inizi degli anni 2000. C'era la Formula Renault, ad esempio, in Italia, e io seguivo come legale alcuni team e alcuni piloti. Poi l'esperienza con Coloni nella Formula 3000. Da lì ho cercato di aggiungere esperienze internazionali, perché oggi il motorsport è un ambiente molto complesso, molto dinamico ma soprattutto di carattere quasi globale. Per me è importante non fermarsi soltanto a quello che è stato l'oggetto del proprio percorso di studi, ma iniziare a mettersi in gioco nel lavoro.
Parliamo invece di Formula 1, che sta vivendo anni i suoi anni d'oro dopo un periodo in cui sembrava essere un po’ appannata. Probabilmente c'era necessità di nuove dinamiche, persone diverse, oltre che di un approccio innovativo verso le nuove generazioni. Come valuti questo cambiamento?
La Formula 1 sta vivendo oggi un periodo di popolarità straordinaria, con un pubblico davvero trasversale. È lo sport cresciuto di più negli ultimi tre anni nella fascia dai 15 ai 35 anni. Oggi il pubblico femminile rappresenta quasi il 50% e la Formula 1 è popolare negli Stati Uniti e in Asia, non solo in Europa. Stiamo vivendo una fase di crescita entusiasmante. Basti pensare che il Super Bowl, il principale evento annuale della NFL (National Football League), raduna circa 400.000 spettatori. Noi abbiamo un Super Bowl ogni due domeniche, perché in ogni nazione in cui andiamo quest'anno ci sono mediamente 400.000 spettatori. Questo dà l'idea di quello che è diventata la Formula 1, grazie anche al lavoro di Liberty Media e a tutti quelli che sono gli stakeholder impegnati, dai costruttori ai team. La Formula 1 ha avuto la capacità, in particolare negli anni del Covid, di fare squadra e di crescere insieme come sport, guardando al di là degli interessi singoli delle squadre, dei promoter o della FIA. Questo ci ha portato ad uno sviluppo esponenziale del nostro modello di business, pur mantenendo intatto il DNA e l'elemento di ricerca tecnologica, che è fondante della Formula 1.
Sicuramente la Formula 1 si è aperta molto ai canali social, che non sono narrativi del Gran Premio nel vero senso della parola, esteso a tutte le 2 ore di gara. Ma è riuscita anche a parcellizzare la comunicazione diventando crossmediale, aprendosi tanto ai giovanissimi e al pubblico femminile. Quindi, secondo te, questi sono gli elementi vincenti per il futuro dello storytelling della Formula 1?
L'apertura ai nuovi media è stata fondamentale, e non solo i social media. Noi dobbiamo parlare differenti linguaggi per diversi target, perché ormai la Formula 1 è diventata un evento di entertainment. Dobbiamo avere la capacità di parlare allo stesso modo ai giovani, perché lo sport deve sempre rappresentare un modello, ma dobbiamo anche comunicare ai C-level, perché lo sport oggi è tecnologia, investimenti, organizzazione.
Parlando invece del connubio con Alfa Romeo, che ha costituito per voi una sorta di faro puntato a livello mediatico, quanto ha influito su quello che siete oggi?
Alfa Romeo è stata fondamentale per lo sviluppo del nostro team. Mi ricordo con grande piacere e, devo dire, anche con un po’ di nostalgia, il periodo in cui abbiamo iniziato a discutere di questa partnership con il dottor Marchionne. Marchionne aveva una visione del futuro molto chiara e sapeva sempre leggere con grande anticipo quello che sarebbe stato il domani, anche in Formula 1. Alfa Romeo è stata molto importante per Sauber, ci ha accompagnato nella crescita dopo anni difficili per il gruppo, ci ha permesso di posizionare il nostro team all'interno della Formula 1 con un ruolo chiave e di attirare persone e partner, per poter creare quello che oggi è diventata Sauber, cioè un gruppo che ha avuto la capacità di essere scelto come partner strategico di Audi per l'ingresso in Formula 1 dal 2026 del costruttore tedesco. Alfa Romeo è stata più che un partner, è stata una compagna di viaggio. Grazie alle persone che lavorano in Alfa Romeo e hanno condiviso questa visione e soprattutto l'ambizione di restituire un marchio storico agli appassionati.
Hai accennato al futuro. La Formula 1 si sta evolvendo, i nuovi regolamenti porteranno tanti cambiamenti e in questo senso voi rappresenterete per il Circus una novità a livello di brand, di immagine e di organizzazione. Diventerete un player sul quale sono riposte tante aspettative…
È chiaro che la trasformazione di Sauber in quello che sarà il works team di Audi è sicuramente una novità importante per la Formula 1, forse la più importante degli ultimi due decenni. È la prima volta che il gruppo Volkswagen decide di entrare in Formula 1 con un progetto globale, telaio e motore. Per questo ha deciso di entrare in Sauber con una partecipazione che andrà sviluppandosi nel tempo. Le aspettative sono tantissime, è chiaro che è un percorso che porterà alla trasformazione del team in termini di organico, con un aumento importante del personale, un investimento in tecnologie e tutto quello che sarà necessario per trasformare la squadra in un team ufficiale con la parte motori e la parte telaio integrata.
Da manager secondo te quali sono gli elementi vincenti nella Formula 1 di oggi, in un contesto in cui si parla a volte di decimi e addirittura di millesimi di secondo tra le monoposto in griglia? Quali sono le variabili su cui si può lavorare per fare il salto qualitativo?
La Formula 1 è uno sport particolare, che combina la tecnologia con l'elemento umano. È chiaro che l'aspetto organizzativo è fondamentale, quindi avere una struttura efficiente e avere dei processi in ogni area efficienti è importante. Tutto questo però non si può fare se non si hanno risorse per investire in tecnologia e le persone idonee per poterlo fare.
Ai giovani che studiano e che si affacciano al mondo del lavoro, sognando magari un futuro nel mondo della Formula 1, quale consiglio daresti? Quali sono, secondo te, le figure più interessanti e richieste?
Per quanto riguarda l’ambito professionale in Formula 1 è chiaro che tutte le Facoltà tecniche di ingegneria sono fondamentali: ingegneria aeronautica, perché naturalmente la parte aerodinamica ha un ruolo essenziale nella performance, ingegneria meccanica, ingegneria elettronica. Poi tutto quello che riguarda la parte infrastrutturale - quindi IT, Cloud, AI - è importante, ma non va tralasciato anche l'aspetto organizzativo manageriale. Le nostre squadre, infatti, sono strutture molto complesse, che gestiscono non solo la parte tecnico-sportiva. Oggi, ad esempio, ci comportiamo come una media house per i nostri partner, produciamo contenuti, ci occupiamo della comunicazione, realizziamo campagne pubblicitarie. Ci sono quindi tantissime professionalità che possono svilupparsi e trovare il loro spazio in Formula 1.
C’è qualcosa che vorresti ancora realizzare, visto che sei già arrivato a livelli apicali molto importanti?
La realtà è che ancora non ho fatto nulla nella mia vita. Sono un giovane che sta ancora inseguendo i propri sogni, ed è questa la parte più importante. Sono una delle 600 persone che lavora in Sauber, ognuno dà il proprio contributo. Il mio obiettivo per questa stagione è arrivare alla fine dell'anno e sentire che le persone che hanno lavorato con me sono state orgogliose di come ho rappresentato il team, di come ho portato in ogni gran premio il volto di Sauber e riconosciuto quello che è il contributo e il lavoro di ognuno. Questo è il mio obiettivo: avere il rispetto delle persone che lavorano con me. Poi un obiettivo personale, è ovvio, è sempre quello di vincere, ma si può vincere in tanti modi. Non c'è solo la vittoria in Formula 1, per noi la vittoria è riuscire in ogni gara a lottare per i punti, ad esempio, o sviluppare questa struttura e arrivare pronti per il 2026. Ancora il libro dei sogni è tutto da sfogliare.
Per concludere, c'è un ricordo che vuoi condividere con i nostri lettori che senti molto rappresentativo del mondo in cui vivi, ma anche del tuo percorso in questo settore?
Il 17 luglio di otto anni fa veniva a mancare Jules Bianchi. Io ho gestito Jules per Nicholas (Todt ndr) e per molti anni ho vissuto con lui tantissimi momenti importanti. Ero con lui a Suzuka. Per me esiste una Formula 1 prima e dopo quel giorno, che è stato il momento più doloroso. Allo stesso tempo, il rapporto con Jules è ciò che mi ha lasciato di più come persona. Era un ragazzo eccezionale, che aveva un grandissimo rispetto per le persone che lavoravano con lui e una grandissima determinazione, ma sempre con il sorriso. Questo è ciò che vorrei trasmettere anche io: avere grande determinazione, non nasconderci gli obiettivi, ma farlo con il sorriso. Perché siamo dei privilegiati e spesso non ci rendiamo conto quanto è prezioso quello che facciamo e la vita che conduciamo. E questo ricordo di Jules è sempre presente. Oggi più che mai è un faro che deve illuminare quello che svolgo quotidianamente.
Con l’edizione numero diciassette del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia si è aperto un nuovo ciclo. Il progetto dei due co-fondatori Arianna Ciccone e Chris Potter ha infatti compiuto il passo definitivo per rendere centrali le prospettive dei Paesi ospiti rispetto al focus italiano e perugino. In occasione della giornata di chiusura dei lavori abbiamo incontrato Arianna Ciccone nella location più nota della rassegna, l’Hotel Brufani, per dialogare su passato, presente e futuro.
Quando è nata l’idea di un festival internazionale dedicato al giornalismo?
Diciassette anni fa ero giornalista - oggi ho restituito la tessera e non lo sono più - e mi muovevo in un mondo, quello giornalistico in Italia, molto complesso. Al tempo stesso avevo aperto la mia società, iniziando ad organizzare eventi. Ho pensato di unire i due mondi: così è nata l’idea di un Festival Internazionale del Giornalismo. Mai e poi mai ci saremmo aspettati che sarebbe diventato quel blob mostruoso che è oggi. Nonostante ciò, il format attuale è esattamente la realizzazione dell’idea nata diciassette anni fa. Sono partita con un progetto scritto su un foglio e ho convinto così diverse persone. In un primo momento l’impronta italiana era molto forte, ma nel tempo ha preso il sopravvento la spinta internazionale, che del resto era il nostro obiettivo.
Questa edizione ha sancito l’affermazione definitiva dell’impronta internazionale del Festival…
Sì, in effetti dopo anni di crescita graduale, con quest’edizione c’è stato un vero e proprio salto. Se ne sono accorti gli stessi speaker che negli anni scorsi erano stati qui con noi: è successo qualcosa di diverso. Noi lo avevamo avvertito già lo scorso anno, ma questa volta l’impatto è stato maggiore. Abbiamo visto giornalisti autorevoli venire qui nel pubblico ed è grazie all’opportunità di networking potentissima che rappresenta il Festival. Si impara tanto, c’è condivisione. Non è una passerella.
Per noi (lei e Chris Potter, ndr) è stato naturale scegliere Perugia dato che viviamo qui, pur non essendo perugini di nascita. Io sono napoletana, Chris è inglese, ma questa è la città che abbiamo scelto e in cui la nostra relazione è nata. È stata una scelta profonda di vita, indipendentemente dalla presenza dell’Università per Stranieri: essendo la nostra città è diventata la casa del Festival. Perugia e l’Umbria sono luoghi piuttosto chiusi e inizialmente, non essendo nati qui, non è stato facile. Adesso in particolare gli operatori economici sono contenti: l’impatto è notevole.
Archiviato il salto internazionale, quali sono i prossimi obiettivi di sviluppo?
Penso che quest’anno sia stato raggiunto l'equilibrio perfetto. Abbiamo sperimentato la formula vincente, dal numero di eventi al numero di speaker, passando per quello delle sale. Eccedere è sbagliato: la città non regge, non è sostenibile. L’offerta deve essere comunque importante, considerando i tanti ospiti che arrivano per il Festival dall’estero.
Ci tengo a dire che il Festival non è nato perfetto. Ora si è trovato il giusto equilibrio tra proposte internazionali e italiane, che sono meno ma proporzionate rispetto alle esigenze del pubblico.
In che modo il Festival si rapporta alla città di Perugia? C’è un sentimento di amore-odio?
Perché la scelta di lasciare libero accesso agli eventi, senza regolamentarne il flusso?
Abbiamo sperimentato un anno fa le prenotazioni, viste le numerose richieste, ma è stato un tentativo fallimentare. A mio avviso perché si creano degli ostacoli nell’esperienza. Avere l’ingresso libero permette al pubblico di andare ovunque senza seguire un iter burocratico. Valutando pro e contro abbiamo optato per non regolamentare il flusso. Ho notato che le persone ormai hanno assorbito la necessità di attendere in fila: vengono prima, arrivano preparati e durante l’attesa si consolida la community.
Quali difficoltà avete riscontrato nel vostro percorso?
Tra le difficoltà maggiori di sicuro reperire i finanziamenti. In un primo momento sono stati solo italiani, poi questi sono spariti e si sono fatti avanti sponsor dall’estero. Essendo un festival internazionale agli italiani non interessava più. C’è inoltre una mentalità della sponsorizzazione all’italiana che non si sposa con questo evento. Spesso in Italia un brand non ti sostiene perché sposa la causa, ma con una volontà presenzialista, secondo cui deve intervenire il CEO o è legata alla presenza dell’ospite vip. La sponsorizzazione straniera ha un approccio completamente diverso, è più fluida, parte dal contenuto. Quest’anno c’è stato comunque un nome italiano tra gli sponsor, Angelini, al quale abbiamo spiegato il format ed ha accettato comunque.
Come sei riuscita a costruire negli anni una rete così fitta di speaker?
Per il secondo anno decidemmo di lanciare una call sia per i volontari che per le idee. Chiunque volesse poteva avanzare proposte da sottoporre al Festival, con noi ad occuparci della selezione. Dalle cinquanta proposte iniziali siamo arrivati ad avere migliaia di proposte da tutto il mondo. CNN, Al Jazeera, BBC, Washington Post, Guardian hanno portato le loro idee. Negli anni si è costruita una rete di passaparola per cui giornalisti autorevoli e attivisti ad ogni mese di settembre iniziano a candidarsi. Ovviamente è impossibile approvarle tutte, quindi ci sono diversi criteri di selezione, come la categoria, la diversity, il rifiuto di panel a predominanza maschile, il coinvolgimento di minoranze e community per dar voce alla realtà. Il Festival non può essere solo occidentale. Tutto ciò viene realizzato con successo senza sponsorizzazioni: è basato sul passaparola e ci si gioca tutto sulla reputazione. La cura degli speaker ad esempio è fondamentale, anche perché non sono pagati per venire qui, ma lo fanno per spirito di condivisione, nell’ottica di dare e avere.
Quali invece gli errori?
Gli errori negli anni hanno riguardato più le questioni logistiche, dalla gestione delle navette ai trasporti degli ospiti. Nel tempo ci è venuta in soccorso la tecnologia: abbiamo messo a punto dei software per la gestione degli speaker, delle tempistiche, di ogni aspetto di questa macchina complicata. Sono stati fatti errori a iosa, ma da questi abbiamo imparato. Viviamo in una società che vede il fallimento come una tragedia, ma in realtà significa accumulare esperienze, come essere umano e come professionista, che poi porterai altrove. Del resto, tutto è nato da un sogno ed è bello vedere dove siamo arrivati. Devo dire che siamo stati bravi e fortunati ad intercettare persone capaci.
A tal proposito, come prende forma il reclutamento dei volontari?
I volontari mandano le candidature, noi valutiamo i loro profili, le lingue che parlano, gli studi che stanno seguendo e il modo di approcciarsi ai social media, in breve come vivono la propria dimensione digitale. Le candidature arrivano da ogni parte del mondo, ma quest’anno abbiamo dato più spazio agli italiani, rispondendo alle richieste degli istituti intenzionati ad attivare l’alternanza scuola-lavoro con noi. Un altro motivo è la scarsa disponibilità degli ostelli: trovare una sistemazione per loro è più oneroso che in passato. Qui imparano, vengono affiancati e si mettono in gioco con le proprie competenze
Tra i temi centrali nell’edizione 2023 l’intelligenza artificiale e TikTok, abbinate al futuro del giornalismo in modo quasi provocatorio.
Gli eventi dedicati a questi temi sono stati seguitissimi, con le sale sempre piene. Il futuro del giornalismo non esiste: il giornalismo esisterà sempre e al suo fianco si trovano di volta in volta ambienti – più che strumenti – nuovi, come TikTok. Si tratta di un incontro tra tecnologie e persone. Non considero questi ambienti come una minaccia, anche se è chiaro che utilizzandoli nel lavoro bisogna saperne calibrare l’uso. Non temo che possano “rubare il lavoro” dei giornalisti. In un panel dedicato all’intelligenza artificiale è stato introdotto un concetto bellissimo: l’intelligenza artificiale non potrà mai rendere la testimonianza sul campo al pari dei giornalisti in carne ed ossa. Come sostituisci una Francesca Mannocchi? L’intelligenza artificiale può aiutarla nel suo lavoro, ma non può prendere il suo posto.
© Francesco CuoccioONE NIGHT WITH
GIANNI VERSACE BAROQUE TRIBUTE
In molti conoscono Gianni Versace, fondatore dell'omonima casa di moda nonché pioniere del prêt-à-porter italiano, insieme a quel novero di grandi nomi che negli anni Ottanta hanno portato Milano sul tetto del mondo. In pochi, invece, conoscono Palazzo Biscari: una perla rara incastonata nel cuore di Catania, un palazzo dallo stile Barocco (ma non solo, rococò e molto altro) che ha visto avvicendarsi all'interno delle proprie mura vicende e intrighi familiari. Dall'unione di queste due anime - perché gli edifici così ricchi di storia e bellezza sembrano quasi prendere vita - è nata una mostra tributo a suo modo perfetta, One Night with Gianni: Gianni Versace Baroque Tribute.
WITH GIANNI
"Ho fatto un tributo, non solo a Gianni Versace", ha spiegato la curatrice della mostra Sabina Albano, "ma alla Sicilia, alla città di Catania e soprattutto a questo luogo fantastico, immaginifico, che è Palazzo Biscari. Ho pensato di far dialogare gli abiti di Gianni Versace, in particolare quelli della collezione del 1992, con un grande eclettismo ispirato al Barocco. Ho pensato di far procedere il visitatore in un percorso quasi mitico, accompagnandolo in questa scatola effervescente dei saloni da ballo di Palazzo Biscari. Ho pensato quindi di guidarlo in una notte immaginifica con Gianni Versace, procedendo attraverso questi tessuti, guidati da quello che c'è intorno in un viaggio sempre più profondo".
Il risultato è un viaggio - appuntoalla scoperta di alcuni degli abiti più iconici tra quelli ispirati al Barocco e creati da Gianni Versace. Tailleur e abiti stampati in un connubio perfetto con le pareti delle stanze nelle quali sono ospitati, quasi a simulare un rapporto simbiotico tra moda e architettura. Procedendo per gradi di intimità, si
passa dai vestiti alla camera da letto, nel quale è presentato uno dei primi prototipi della collezione Versace Home Signature, un piumone disegnato da Gianni Versace per la sua casa di Miami. Quindi uno studio, con i libri più iconici dedicati allo stilista e una vestaglia in seta con il celebre motivo dorato, ispirato all'Antica Grecia e diventato l'inconfondibile segno di riconoscimento del brand. Infine, una profonda vasca in pietra con accappatoio e una tavola apparecchiata per due, a simulare una muta eppur coinvolgente conversazione con il celebre stilista, assassinato a Miami nel 1994.
Proprio in quell'anno, dopo la tragedia che sconvolse la moda italiana e non solo, nacque l'idea della collezione privata alla quale appartengono gli abiti in mostra. Il proprietario è Antonio Caravano, del quale Sabina Albano ha raccontato: "All'epoca era un giovane uomo che viaggiava molto: in quel momento diretto proprio a Miami e in lui nacque il desiderio riportare a casa dei pezzi di Versace.
Una sorta di revanche, la volontà di salvare ciò che in quel momento molti americani gettavano via quasi con vergogna, poiché la sua uccisione fu uno scandalo". Da quel primo moto di orgoglio tutto italiano è nata un'ampia collezione, curata appunto dalla prof.ssa Albano ed esposta in diverse mostre in giro per l'Europa. A fornire un prezioso contributo ai pezzi in mostra nell'esibizione One Night with Gianni: Gianni Versace Baroque Tribute è stato poi anche Franco Jacassi, fondatore e proprietario dell'iconico negozio milanese Vintage Delirium, meta imperdibile di stilisti e creativi fin dagli anni Ottanta. Tra di loro, ovviamente, c'era anche Gianni Versace. Di lui Jacassi ci ha detto: "Ho conosciuto Gianni Versace molto molto presto. In quegli anni per me è stato facilissimo: tutti quanti, compresi gli stilisti, avevano bisogno di idee. Io portavo idee. Lui (Gianni Versace) all'epoca lavorava da Alias e comprava tantissimi libri. Li strappava e se li appuntava: diceva che l'idea che lui vedeva doveva essere immediatamente messa da parte. La differenza fra Gianni e altri stilisti era che lui voleva far sparire tutto quello che gli dava delle idee. Non lo doveva vedere nessun altro. Magari comprava venti metri di tessuto quando gliene bastavano due". Un approccio eclettico, figlio di un genio creativo che ha lasciato un segno indelebile nel corso della storia della moda. Lo ha confermato con le sue parole Bruno Gianesi, che per sedici anni è stato a capo dell'ufficio stile di Versace a fianco del grande stilista: "Il barocco è stato uno dei segni che hanno contraddistinto Gianni. La medusa stessa è diventata poi l'emblema del marchio. Non dimentichiamoci che Gianni è nato a Reggio Calabria, la culla - come la Sicilia - del barocco e dell'arte greca. Tutte queste influenze poi sono state elaborate nel prodotto finale di Versace, in cui convivono in un equilibrio perfetto il neoclassico, il barocco, il punk e l'arte moderna. Questo è stato il segreto di Gianni: far dialogare questi elementi culturali tra di loro".
JORDI VILA
L'ARTE DELLA CUCINA ALLE SEYCHELLES
Jordi Vila è un eclettico chef nato a Barcellona, ma con il cuore ormai africano. Dopo una lunga gavetta, diventa l'Executive Chef del Constance Lemuria Seychelles. Lui stesso descrive la sua cucina come "naturale, divertente ed enigmatica", con un occhio sempre attento alla stagionalità delle materie prime e alle esigenze della clientela. Innovazione e classicità, queste le sue ispirazioni per creare un connubio perfetto tra sapore e gusto.
Da molti anni sei l'Executive Chef del Constance Lemuria Seychelles: come sei arrivato a questo traguardo? Qual è stata la tua carriera lavorativa?
Con una carriera culinaria internazionale, ho lavorato in rinomate strutture in tutto il mondo. Ho iniziato come Commis Chef nel 2001 al NH Hotel di Barcellona, poi promosso a Demi-Chef de Partie. Ho viaggiato in Irlanda, Nuova Zelanda, Indie Occidentali e Londra, affinando le mie abilità culinarie. Sono diventato Executive Chef alle Maldive e alle Seychelles. Sono orgoglioso dei miei successi e continuo a dare il meglio nella mia passione per la cucina.
Qual è il menù a cui sei più affezionato?
Il menu d'autore "The Caractère" offre piatti che riflettono uno stile di vita casual, contemporaneo e a spreco zero. Il 90% dei prodotti utilizzati sono locali e a base vegetale. Ogni piatto è un'interpretazione unica della filosofia del ristorante, che incarna carattere e personalità nella cucina e nell'ospitalità. Dalle delizie sofisticate, come il consommé di pomodoro della Val d'En Dor, ai piatti curiosi come il tornado di patate dolci, è un viaggio attraverso sapori complessi e nuove esperienze. I cannelloni di spinaci all'acqua rappresentano la forza, mentre il Rum Affogato conclude il pasto con gusto. Da non perdere anche "The Greedy Box" per un'esperienza golosa. Un invito a essere voi stessi mentre assaporate l'essenza del menu ispirato e accuratamente elaborato. Un'indimenticabile avventura culinaria al Caractère.
Come scegli i prodotti e le materie per le tue creazioni culinarie?
Nel mio lavoro culinario trovo grande gioia nell'utilizzare ingredienti stagionali: inverno, primavera, estate e autunno. Con particolare attenzione alla freschezza e alla qualità, ho un'affinità per incorporare nei miei piatti una varietà di deliziosi prodotti ittici come il dentice rosso, il tonno e il polpo. Solo i prodotti migliori entrano nelle mie cucine, perché non scendo mai a compromessi con l'eccellenza. Tuttavia, nel regno della mia cucina si nasconde un ingrediente segreto che distingue le mie creazioni: una polvere magica che porto sempre con me, discretamente nascosta nella tasca dei pantaloni. Questa polvere eccezionale non si ottiene facilmente, perché ho scoperto la sua essenza nel profondo del mio cuore. Permettetemi di presentarvi questo elemento incantevole che ho orgogliosamente chiamato passione. La passione, il mio ingrediente segreto, infonde in ogni piatto che creo un fervore distinto e un tocco di straordinario. È questo fuoco interiore che mi spinge oltre i confini del sapore e della creatività, dando vita a esperienze culinarie uniche per chi ha la fortuna di assaporare le mie creazioni.
Quali sono le sue tecniche di cottura preferite?
Il mio viaggio culinario mi ha portato ad apprezzare il connubio tra tecniche di cottura moderne e classiche. Dalla precisione artistica del sous vide e del forno Rational 50/50 alla maestria senza tempo della cottura lenta e al tocco etereo delle padelle in ghisa e delle griglie plancha, ogni metodo conferisce un fascino e dei pregi unici. Mentre continuo a esplorare le possibilità illimitate del regno culinario, trovo immensa gratificazione nell'amalgamare queste tecniche, assecondando il passato e abbracciando i progressi del presente.
Come fate a garantire che i vostri piatti siano equilibrati dal punto di vista nutrizionale?
Al Constance Lemuria diamo grande importanza alla fornitura di piatti equilibrati dal punto di vista nutrizionale per garantire il benessere generale dell'ospite. Selezioniamo meticolosamente ingredienti locali, come verdura e frutta, come parte del nostro impegno a incorporare elementi sani nei nostri pasti. Inoltre, poniamo l'accento sul controllo delle porzioni e lavoriamo per preservare il valore nutrizionale delle nostre offerte. La nostra dedizione a rimanere ben informati sull'evoluzione della ricerca in campo nutrizionale ci permette di migliorare costantemente i nostri menu.
Qual è il tuo consiglio per chi desidera migliorare le proprie capacità culinarie?
Quali sono le tue fonti di ispirazione per creare nuovi piatti?
Ho la fortuna di risiedere a Praslin, nelle Seychelles, una destinazione nota per la sua bellezza ineguagliabile. Lo scenario mozzafiato mi circonda è una fonte di ispirazione costante, che infonde un'energia vibrante in tutto ciò che faccio. Di conseguenza, le mie creazioni culinarie ruotano attorno all'essenza della natura, dando vita a una serie di piatti che ne racchiudono le meraviglie. Questa sinergia tra natura e creatività fa sì che l'innovazione rimanga viva e fiorente al Constance Lemuria.
Iniziare con un atteggiamento positivo e avere un obiettivo ben definito sono passi fondamentali in qualsiasi impresa. Quando ci si avvicina all'arte della cucina, è utile immaginarsi come un ingrediente e trattare ogni componente con la stessa cura e lo stesso rispetto che si riserva a se stessi. In questo modo si può raggiungere una comprensione più profonda dell'arte culinaria. Inoltre, è fondamentale procurarsi gli ingredienti più freschi disponibili. Questo non solo garantisce la massima qualità e il sapore dei piatti, ma favorisce anche l'apprezzamento per i prodotti naturali e genuini. Inoltre, dedicare un po' di tempo allo studio della storia della cucina può essere illuminante, in quanto fornisce indicazioni sulle tradizioni, sulle tecniche e sul significato culturale.
Qual è il tuo approccio all'estetica dei piatti?
L'importanza della presentazione nel mondo culinario non può essere sottovalutata, in quanto serve come piattaforma per uno chef per creare un'esperienza incantevole e visivamente sorprendente. Nella mia ricerca dell'eccellenza culinaria sono orgoglioso di selezionare meticolosamente ogni elemento per i miei piatti e bicchieri. Collaborando con il rinomato artigiano Xavier Vega di Barcellona, dove sono nato, traggo ispirazione dalla bellezza mozzafiato della natura delle Seychelles. Questa fusione tra la squisita maestria artigianale e l'unicità delle Seychelles crea un'esperienza culinaria davvero notevole. Alla luce dell'ambiente formale, ritengo che ogni dettaglio sia della massima importanza, assicurandomi che la mia presentazione sia una testimonianza della maestria e della cura con cui viene preparato ogni piatto.
Come descriveresti il tuo stile di cucina, in tre parole?
Descriverei il mio stile come: naturale, divertente ed enigmatico.
Qual è il tuo consiglio per i giovani chef?
Per i giovani chef che intraprendono il loro percorso culinario, il mio consiglio è di coltivare la propria passione, perseverare nelle sfide, migliorare continuamente le proprie capacità, promuovere la collaborazione e rimanere ispirati. Ricordate che il successo non viene solo dal talento, ma anche dalla dedizione e dall'amore genuino per l'arte culinaria.
Ritieni che i clienti siano sempre più esigenti e sempre alla ricerca di nuovi gusti?
Nell'era post-COVID, In Constance Lemuria si sta assistendo a una notevole trasformazione delle aspettative degli ospiti. Il desiderio di nuove diete e di concetti più salutari, unito all'attenzione per l'alta qualità e la sostenibilità, è diventato una caratteristica distintiva delle preferenze dei consumatori.
RINASCIMENTO UMBRO
LE VILLE CM CASA MIA - CENTUMBRIE
Lungo la costa est del Lago Trasimeno, in posizione perfetta per godersi tutte le sfumature del tramonto, c’è una nuova formula di lusso, che nasce dall’amore per l’essenza più intima di un territorio straordinario e che inscrive la sua unicità proprio nel dialogo con esso: si chiama CM Casa Mia e più che di un progetto si dovrebbe parlare di una visione. Quale? Far rinascere luoghi depositari di memorie fantastiche, che parlano di amore per la terra, di rispetto dei cicli della natura, di portato universale delle tradizioni locali, per definire un’inedita dimensione contemporanea di ospitalità, il cui concetto chiave è la gioia della conoscenza: dell’esprit di un luogo, quale canale d’elezione per la conoscenza di sé. Quella che scaturisce soltanto quando ci si abbandona alla bellezza.
La volontà di salvaguardare e recuperare i tratti più autentici di questa zona dell’Umbria, magnificata da autori quali il Perugino e Pinturicchio, ha letteralmente plasmato CM Casa Mia, guidando l’opera di recupero di sei antichi casali – Villa Battisole, Villa La Cotogna, Villa Bianca la Luna, Villa delle Rose, Villa Trasimena e Villa Polvese - e inserendoli nel mosaico di attività di CM Centumbrie, progetto giovane (la data di nascita è il 2018), portato avanti dalla famiglia umbra Cinaglia Menicucci: dopo aver dato vita a metà degli anni ’80 alla più grande e importante società di information technology italiana, quotata in borsa per oltre 20 anni e con filiali in tutto il mondo, nel 2017 l’ingegner Michele Cinaglia decide di voler tornare nei propri luoghi di origine e con la moglie Marilena Menicucci, anche lei umbra, e i figli Miriam e Giovanni dà il via al progetto CM Centumbrie.
Nel mosaico di attività di CM Centumbrie, sostenibilità, alta qualità, biologico, filiera corta, km0, design di ricerca e accoglienza autentica sono diventati elementi tangibili di un sistema basato sull'eccellenza e su principi etici di valore: in agricoltura, i campi umbri di proprietà vengono coltivati con olivi, grani, verdure e fatti prosperare piccoli allevamenti allo stato brado. Per valorizzare terreni e produzioni, sono stati avviati, inoltre, anche un frantoio, un molino a pietra e un impianto a legumi; attività di ristorazione di alto livello; un laboratorio di panificazioni dolci e salate; un bar-bottega e servizi pensati per nuove forme di turismo evoluto. Il prossimo futuro vedrà un’ulteriore diversificazione di realtà incentrate sulle produzioni di CM Centumbrie e sul rendere omaggio a un patrimonio culturale, che, insieme all’olio, al vino e al pane, comprende anche canti,
versi, detti e balli, aprendo il lavoro degli avi alla tecnologia contemporanea più avanzata e alla cura della bellezza degli spazi.
CM Casa Mia non è quindi solo ospitalità fuori dall’ordinario - con dettagli, per esempio, come la piscina interna riscaldata con vista sugli olivi e le SPA di alcuni casali, l’eccellenza artigiana delle cucine De Manincor, il campo da tennis privato o la scelta di pezzi storici del design italiano - ma è anche il nodo di una rete-territorio, che, se lo desiderano, gli ospiti possono incontrare per rendere infinito il perimetro della villa da loro prescelto, aprendolo all’incanto dell’Umbria. La materia principale di cui si compongono le opere di ristrutturazione dei sei casali è l’amore. Architrave di tutto il progetto e del percorso che ha portato alla nuova vita i casali di Casa Mia è, infatti, il desiderio di salvare dall’oblio sei edifici, espressione perfetta e preziosa del genius loci. Questa perfezione è fatta di storie e memorie, come, quelle, per esempio, di Villa La Cotogna, casa natale di Luisa Spagnoli, o quelle di Villa Battisole, posizionata su una collina affacciata sul lago Trasimeno a cui guardava, agli inizi del ‘900, la dimora di Vittoria Aganoor, poetessa tra le più grandi di quel periodo, autrice di numerosi versi dedicati proprio a questa altura baciata da sole, e del marito Guido Pompilj, importante figura politica che salvò il lago dal prosciugamento voluto da alcuni speculatori. Ma, oltre che di tracce impalpabili di storia, è fatta anche di materia come il cotto etrusco, il cotto umbro e le maioliche dei pavimenti; le canne lacustri, utilizzate o trasfigurate in altri materiali; la pietra che fa sì che il benessere nelle Spa sia anche per gli occhi, nonché di eredità legate all’uso che si faceva in passato di alcune aree dei casali, quali, per esempio i fienili, preservati e ritrasformati attraverso
nuove destinazioni pensate per il piacere dell’abitare.
A fare da controcanto a questi elementi, la scelta ragionate e all’insegna dell’eccellenza di pezzi particolari, disseminati senza serialità tra esterni ed interni delle diverse ville, come, per esempio, le poltrone in bambù originali Bonacina, disegnate da Gio Ponti, o la macchia di colore delle sedute Acapulco.
E per scrivere la nuova storia dei sei edifici di CM Casa Mia, il punto di partenza è stato, appunto, proprio il genius loci, ri-trovato: nel rispetto della cifra estetico-stilistica delle origini, con l’obiettivo di descrivere un futuro di apertura, capace di cogliere lo zeitgeist della contemporaneità; nel lavoro portato avanti fianco a fianco con maestri artigiani locali - autori del recupero filologicamente corretto di arredi e accessori e della creazione ex novo di pezzi unici per i diversi casali - che sanno tradurre senza tradirlo l’autentico in una nuova dimensione di funzionalità; nella ricerca di un dialogo costante con il territorio che polverizzi la soluzione di continuità tra esterno ed interno per far vivere agli ospiti un’esperienza di appagante completezza.
Obiettivo prefissato con la fine dei lavori e l’apertura delle ville agli ospiti, ricreare le condizioni perfette per ritrovare quello che la poetessa Vittoria Aganoor diceva dell’Umbria in uno scritto destinato all’amica Nerea: “Par fatta per chi vuol pensare, ricordare, sognare indisturbato … niente vale quest’ora di estasi e di riposo innanzi alle mie colline sognanti la dolce filosofia francescana”.
Scopri di più sulle ville CM Casa Mia su www.cmcasamia.com
PROFANE. PHOTO
Profane ama vagare per le metropoli, raccontare le città come se fossero avvolte dal silenzio, senza persone o caos. Trovare l'intimità con i luoghi e con le architetture. I chiaroscuri e i colori squillanti catturano l'attenzione dei suoi scatti. Atmosfere forti e grevi colpiscono l'occhio di chi osserva le sue immagini. Street photography e ritrattistica femminile sono i suoi cavalli di battaglia con cui partecipa da alcuni anni ad alcuni dei principali contest fotografici internazionali. Nei ritratti Profane cerca l'interiorità più profonda del soggetto fotografato, prova a svelare la complessità della persona e le molte facce della sua interiorità e del suo raccontarsi. In queste pagine Profane ci regala, invece, una New York City in bianco e nero austera e turbata, dopo gli anni del Covid che hanno segnato per la metropoli un momento di forte impatto sociale.
Ville da sogno affacciate sui tramonti mozzafiato del Lago Trasimeno