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CHIARA BONALUMI
L’ARTE DI ESISTERE
Chiara Bonalumi, artista concettuale milanese classe 1985, trasforma la filosofia in arte figurativa e il pop in una declinazione provocatoria della fisica quantistica. Come? Attraverso enormi tele che raccontano molto della società contemporanea, con i suoi vizi e le sue virtù. L’abbiamo incontrata per comprendere meglio la sua arte, e insieme qualcosa di più del suo punto di vista su questo nostro mondo.
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Arte, filosofia, fisica quantistica: come si sono incontrate?
Nel corso degli anni ho coltivato l’amore per l’arte disegnando; poi ho studiato Filosofia all’università e a questa ho affiancato una passione per la fisica quantistica. In particolare, ho trovato nella fisica quantistica il risvolto scientifico della mia corrente filosofica, che è l’esistenzialismo. Come se tra le due ci fosse un trade d’union di ragionamento, tra l’approccio alla vita dell’esistenzialismo e le leggi della fisica quantistica.
Ci riassumeresti brevemente l’esistenzialismo?
Gli aspetti più importanti dell’esistenzialismo riguardano, lo dice il nome stesso, il tema dell’esistenza: è una filosofia che teorizza la priorità dell’esistenza sull’essenza. Prima esisto e poi sono, e questo pone l’uomo davanti alla più grande domanda: perché esisto? Ecco, citando Heidegger, l’uomo è gettato nel mondo: esiste senza avere una strada precostituita, è lui chiamato a dover dare un senso alla propria esistenza. Di fronte a questo vuoto l’uomo prova una grande angoscia, la nausea sartriana che si presentava davanti alla ciotola vuota. Ma questa angoscia non deve essere colmata, semplicemente accettata. Non avere risposte è il senso stesso della vita: il dubbio, non la certezza.
Qui si collega la fisica quantistica?
Sì, a suo modo. A differenza della relatività generale, la fisica quantistica non ragiona secondo un meccanismo di causa-effetto. Al contrario, nella fisica quantistica esiste il concetto di indeterminatezza: ad esempio, secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg, non si può stabilire la posizione esatta di un protone, ma soltanto calcolare un range di possibilità. In questa non certezza ho trovato il legame con la filosofia esistenzialista.
E come hai trasformato questi concetti in arte?
Tutto è nato da un personaggio pop, Felix the Cat: ho pensato che rappresentasse alla perfezione il Gatto di Schrödinger.
Hai preso Felix e l’hai messo nella scatola.
Esatto, e l’ho scelto non a caso: è un comics, è pop, è satira per eccellenza. Nonostante viva in una sovrapposizione di stati, vivo e morto contemporaneamente, lui reagisce. Ride, scherza: è vivo, soffre, accetta il dolore. È crudo e dissacrante davanti alla realtà: così l’essere pop diventa l’atto stoico dell’uomo profondo e l’accettazione attiva, e non passiva, dell’angoscia e delle non risposte. Il dolore diventa il modo di comprendere la gioia: un altro parallelismo con la fisica quantistica, che parla di materia e antimateria. Più il gatto riesce a ridere, più riesce a piangere, e quindi ad essere ondivago nella vita.
Il ridere del Felix, quindi, non è una maschera, ma la sua risposta all’esistenza?
Il gatto è Felix, che vuol dire felice in latino: lui ha scelto la resilienza, urtandosi senza rompersi, vivendo anche senza risposta alle sue domande più profonde. Sceglie di costruirsi rinunciando a dare un senso assoluto alla sua vita: ha accettato che vivere è il semplice atto di esserci nel tempo; ha accettato l’incertezza come parte dell’esistenza. Felix, però, è anche nero: rappresenta l’ansia del divenire. Nero è il colore della notte, il momento in cui si fanno spazio i pensieri più oscuri. Quindi è pop e al contempo rappresenta il lato più profondo di noi stessi.
Torniamo al concetto del Gatto di Schrödinger, ce lo riassumi?
Il Gatto di Schrödinger è un paradosso, emblema della fisica quantistica. Erwin Schrödinger ha messo (metaforicamente) un gatto dentro una scatola, con dentro un meccanismo in grado di ucciderlo in un’ora, con il 50% di possibilità che accadesse. Prima di aprire la scatola non c’è alcun modo di sapere se il gatto sia vivo o morto, vive in una sovrapposizione di stati: è vivo e morto contemporaneamente. La fisica quantistica deve palesarsi per esistere, ed è il motivo per cui si lega all’esistenzialismo: per essere, bisogna esistere. Noi, allo stesso modo, abbiamo aspetti inconoscibili di noi stessi, siamo fatti di piccole particelle che ragionano in maniera del tutto paradossale. Siamo frutto di un paradosso, è insito dentro di noi.
Felix The Cat è la rappresentazione perfetta di questo paradosso.
Esatto, lui sa di essere un paradosso, sa di non avere risposte: eppure vive serenamente. Noi dovremmo essere come Felix.
Venendo alle tue opere, quali sono i concetti che hai declinato nei tuoi quadri?
Ogni quadro della collezione Felix rappresenta un aspetto di questo macromondo che è il trade d’union tra filosofia e fisica quantistica. Nel quadro “The Big Yellow” ho preso una posizione contro l’idealismo: Idealism is your illusion. Dobbiamo avere infatti un approccio dubitativo nei confronti delle cose e non certezze. Bisogna avere idee e non ideologie, che diventano patologiche e generano scontri. Al contrario della libertà, che è data dal dubbio e non dalla certezza. In questo quadro, come in altri, mi sono schierata contro la Metafisica, che per citare Pessoa mi è sempre sembrata una forma comune di pazzia latente.
Il problema della Metafisica, secondo te, è legato a questo tentativo di voler comprendere la realtà al di là della realtà stessa?
Sì, è voler creare un senso per addolcirci, per addolcire la realtà. In questo quadro ho inserito la scritta The unknown terrifies me: lo sconosciuto è terrificante; e proprio per questo, ci sforziamo di aggiungere qualcosa che ci sembri familiare. In realtà, però, lo sconosciuto è il caposaldo dell’esistere. Il so di non sapere. Tutto il resto è soltanto un vano tentativo di riempire la ciotola di Sartre con contenuti insignificanti. Io non ho risposte, e per me il senso della vita è proprio questo.
Quindi credi che l’ignoto debba essere semplicemente ignorato?
No, è giusto considerarlo, studiarlo. Però poi devi fermarti e sentirti ciò che sei: un uomo che vive 100 anni in un universo di 15 miliardi di anni.
Senza sforzarsi di dargli a tutti i costi un senso.
Esatto, sopravvalutandosi. Alla fine, siamo soltanto essere umani fatti di particelle.
Il colore giallo di questo quadro ha un motivo preciso?
Sì, "The Big Yellow": perché la vita è un grande giallo, è un thriller senza finale. Per questo dobbiamo goderci il viaggio accettando che forse non esiste neppure una destinazione. Bisogna sì essere dissacranti, ma in una forma di nichilismo attivo e proattivo, come quello del Fanciullo di Nietzsche. Divieni ciò che sei, diceva il filosofo: noi siamo un libro bianco sul quale scrivere il senso della nostra vita. L’uomo è drammaticamente libero, ma questa “condanna” va accettata.