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È REBOOT MANIA
SIAMO SCHIAVI DEL PASSATO?
opinione diffusa che oggi tutto cambi velocemente, per alcuni ad una velocità talmente rapida da essere oramai insostenibile. Restano però, nonostante l’ansia da prestazione progressista, delle immutate certezze. Momenti che sanno adattarsi al tempo ma senza soccombere, cambiando volto, dinamiche e modalità, ma esistendo – e resistendo - ancora. Esattamente come quel piacere di ritrovarsianche solo per un momento, magari anche distratto – di fronte ad uno schermo che un tempo si sarebbe chiamato “televisione”, ma che oggi racchiude in sé troppe sfaccettature per avere la pretesa di un sostantivo unico e definitivo. Programmi, fiction, cinema, ma anche videogiochi che diventano serie tv, film di supereroi che si moltiplicano in un gioco caleidoscopico che vale miliardi di dollari e fiction firmate Rai che diventano serie tv per Netflix – per poi fare ritorno all’ormai anacronistico ovile della prima serata. Un universo complesso, più facile da “usare” che da spiegare, diventato oggi inspiegabilmente casa, a cui ogni sera (ma non solo) facciamo ritorno consapevoli che, di fronte alla possibilità infinita di novità, siamo pronti a scegliere ancora il passato. Che siano serie tv in formato originale oppure film re-impastati in chiave moderna, che abbiano gli stessi attori oppure re-intepretazioni più contemporanee, meglio ancora se in chiave gender fluid; che siano spin-off, reboot, revival o franchise, il puntatore – bussola digitale dei nostri desideri inconsci – muoverà per la maggior parte delle volte verso la nostalgia, in un gioco al futuro che non può fare a meno di guardare dallo specchietto retrovisore. Da questo nuovo ma vecchio universo narrativo nascono contenuti come And Just Like That, revival reboot di Sex and The City, una delle serie più rivoluzionarie di sempre, o la versione Gen Z di Gossip Girl. Ma anche la serie tv ispirata alla saga di Harry Potter scritta da J.K. Rowling, dopo il successo dei film; stesso destino riservato anche alla saga di Twilight.
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La tendenza a rispolverare le grandi glorie del passato – per evitare l’oneroso impaccio di spiegare al pubblico un nuovo titolo – è stata intercettata anche dall’Italia e dalla vecchia ma saggia emittente di servizio pubblico. Secondo alcune indiscrezioni infatti la Rai sarebbe pronta a riesumare dalla soffitta dell’avversaria Mediaset, Elisa di Rivombrosa, la fiction di Canale 5 diventata un cult negli anni Duemila italiani, per farne una nuova serie che sulla carta sarebbe il prosieguo della miniserie La figlia di Elisa –Ritorno a Rivombrosa, andata in onda nel 2007 con poche fortune. Una scelta che ha innescato un’ondata di scetticismo da parte di quel pubblico affezionato, pronto a tirare fuori le unghie dell’indignazione quando vengono scomodati i mostri sacri della fiction italiana; ma che, spinti dalla curiosità, sarebbero comunque i primi disposti a sedersi di fronte al televisore, pronti ad esprimere il proprio giudizio, qualora il sequel prendesse effettivamente forma. Al fianco di sequel, reboot e revival, si apre poi lo sconfinato universo dei franchise, quei racconti che hanno – per loro natura intrinseca – la capacità di moltiplicarsi quasi all’infinito, alimentando quanto più possibile le proprie linee narrative. Tale meccanismo, magistralmente sfruttato da colossi narrativi come l’universo Marvel, genera quindi un vorticoso gioco di riflessi, mosso dalla potente arma dell’autocitazionismo, il cui vantaggio economico resta quasi imbattuto – nonostante gli onerosi costi di produzione -, ma che alimenta allo stesso tempo un’oscura nemesi che prende il nome di franchise fatigue. Di fronte a tale stratificazione e moltiplicazione, il pubblico ha infatti iniziato a palesare una stanchezza, dovuta ad una sempre maggiore complessità delle storie per cui se non si riesce a stare al passo, si finisce per perdere la visione d’insieme – e con essa il piacere stesso dell’intera esperienza. Nonostante quindi la vasta quantità di titoli che scorrono dinanzi gli occhi del pubblico, sottoforma di una sconfinata biblioteca di Babele digitale, sembra che il confortevole agio del passato e del già noto eserciti un appeal nettamente maggiore rispetto alla novità. È però innegabile che alla base di tale attitudine ci sia una relazione dialettica tra i desideri del pubblico e la proposta creativa dell’industria, in uno scambio di reciproche influenze che conduce a quella che, per pressapochismo, viene spesso archiviata come una diffusa mancanza di creatività.
Infatti, è sempre più diffusa l’opinione secondo cui l’ormai palese volontà dell’industria audiovisiva di cavalcare l’eco sicuro che porta con sé un titolo di successo sarebbe da imputare ad una scarsa attitudine a creare nuove storie, la quale condurrebbe produttori e sceneggiatori a ripiegare sullo sfruttamento delle proprietà intellettuali. Ma se così fosse, le library delle piattaforme non avrebbero a disposizione, quasi a cadenza settimanale, una sostanziosa mole di titoli nuovi (non riconducibili a brand preesistenti) capaci di intercettare nicchie sempre più ristrette e profilate di pubblico. Sembra dunque che dietro alla proliferazione odierna di reboot, spin-off e franchise ci siano ragioni prettamente economiche, simbolo di un’industria che non si può più permettere il brivido costoso del rischio (riservato solo a casi isolati come Citadel, il nuovo franchise firmato Prime Video), ripiegando sul perseguimento della garanzia che solo i titoli dotati di storico possiedono. L’aspetto economico legato alle industrie creative fa sentire sempre di più il proprio peso, incidendo sui prodotti così come sui desideri del pubblico che subisce il fascino eterno del passato – che non per forza dev’essere quello remoto. Nella spasmodica voglia di apporre al mondo di oggi l'etichetta dell'avanguardia, la resistenza maggiore sembra essere quella di rinunciare al piacere di quel passato che non piace solo al pubblico, ma soprattutto all’industria stessa, in una dinamica win-win a cui sarà sempre più difficile rinunciare. Perché, in fin dei conti, forse aveva ragione Umberto Eco quando diceva che ogni storia racconta una storia già raccontata.