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ALESSANDRO ALUNNI BRAVI LA FORMULA 1 NEL DNA
Arriviamo a Hinwil, meno di mezz’ora di treno da Zurigo, in una assolata giornata di metà luglio. Ad aprirci le sue (blindatissime) porte è la sede di Sauber Motorsport, uno dei team più longevi del panorama della Formula 1 e negli ultimi anni tra i protagonisti del circus con un nome che ha risvegliato i cuori e gli animi di molti appassionati, quello di Alfa Romeo. A rivestire il ruolo di Managing Director and Team Representative di Alfa Romeo F1 Team Stake, è Alessandro Alunni Bravi, classe 1974 e umbro doc. Come me, Alessandro proviene da un piccolo paesino sulle sponde del Lago Trasimeno, Passignano. E noi sappiamo bene cosa abbiano significato per certi ragazzi nati tra gli anni Settanta e Ottanta nomi come Scuderia Coloni e Autodromo di Magione: in quel fazzoletto di terra dell’Umbria, infatti, allora si respirava aria di Formula 1. Piloti e ingegneri potevi incontrarli al bar del paese, mentre tutto il pathos si concentrava il venerdì: altro che Gran Premio, era quello il giorno in cui la Coloni tentava di passare la tagliola delle famigerate prequalifiche.
In questo contesto Alessandro venne contagiato dalla passione motoristica del padre Giampaolo, declinata dapprima in una vocazione giornalistica, poi approdata agli studi di giurisprudenza. E così andare per autodromi a raccontare le performance dei giovani kartisti è stata la porta di ingresso di una carriera in cui Alessandro Alunni Bravi ha saputo mixare in modo impeccabile passione, competenze, studio e tanta curiosità. Il risultato lo ha premiato: è al muretto box di Alfa Romeo F1 Team Stake nella posizione che era di Frédéric Vasseur, oggi grande capo della Ferrari in Formula 1. Un ruolo che non può non essere di ottimo auspicio. Insieme al CEO di SauberGroup, Andreas Seidl, poi, Alessandro dovrà anche traghettare il team verso un passaggio epocale: divenire nel 2026 il team di Formula 1 di Audi, che rappresenta l’ingresso ufficiale del gruppo Volkswagen nella massima serie.
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Di questa e altre sfide, traguardi e sogni abbiamo chiacchierato con Alessandro Alunni Bravi.
La passione ti lega al mondo del motorsport e delle quattro ruote da quando eri giovanissimo. Eppure, nella tua carriera hai fatto anche un percorso parallelo. Anzi, due percorsi. Da un lato l’attività giornalistica, agli esordi, e poi quella legale. Questo mix ti ha portato in Formula 1, ai vertici. Quali sono stati gli elementi che puoi considerare salienti per ciò che sei oggi?
Tutte le esperienze, in qualsiasi percorso professionale, sono importanti. Io oggi rivesto un ruolo che è sì manageriale, ma nelle vesti di Team Representative richiede anche la capacità di relazionarsi con la stampa e con i partner. Quindi le mie esperienze, sia come legale e manager, sia inizialmente come giornalista, mi aiutano tutt’oggi a svolgere al meglio l'incarico che ricopro all'interno di Alfa Romeo F1 Team Stake. È vero che ho avuto un percorso professionale molto ampio, ma probabilmente perché ho cercato di raggiungere un obiettivo che poteva sembrare molto lontano. Ogni cosa che ho fatto è stata dettata dalla passione e dalla volontà di arricchirmi, cercando di unire la mia competenza specifica di avvocato alla mia passione per il mondo dei motori e per il motorsport. Questo mi ha portato, non so se con meriti oppure no, ad avere il privilegio e l'onore di lavorare all'interno del gruppo Sauber e di rappresentare Alfa Romeo in Formula 1.
Tu vieni da una regione, l’Umbria, e da una zona che aveva delle caratteristiche che sono state per te molto importanti. Citiamo in particolare Passignano sul Trasimeno e Magione, due località che al mondo del motorsport dicevano qualcosa anni fa. E anche oggi, in un certo senso. Questo per te è stato “contaminante”?
Io sono molto legato alle mie radici. Vengo da Passignano sul Trasimeno che, come mi piace ricordare, è stata la patria della Coloni, una squadra che negli anni Ottanta è stata vincente in Formula 3, fino ad arrivare poi come costruttore in Formula 1 nel 1987. Erano gli anni della mia gioventù, quando iniziavo a sognare e cercare di capire che cosa volessi fare da grande. E poi l'autodromo di Magione, che è stato il mio “oratorio”. I sabati e le domeniche passate in pista sono stati per me estremamente importanti, il terreno fertile in cui ho potuto coltivare la mia passione per i motori. Poi naturalmente ho dovuto fare delle scelte, anche professionali. Ho deciso di seguire la strada dell'avvocatura, ma il richiamo verso queste radici e questa passione è stato sempre fortissimo. Poi ho avuto la fortuna di abbinare le mie competenze come avvocato alla mia passione per i motori, e senza dubbio l'Umbria, il mio Paese e l'autodromo di Magione hanno rappresentato un elemento fondamentale in questo processo.
Hai qualche ricordo peculiare della tua gavetta, qualcosa che consiglieresti di vivere ai giovani, anche se i tempi sono cambiati?
Ai giovani consiglio innanzitutto di sporcarsi le mani. Sporcarsi le mani non vuol dire solo fare lavori manuali, vuol dire mettersi in gioco, rischiare, non guardare ai benefici immediati. È importante iniziare a lavorare, è importante fare tutte le esperienze possibili. Noi abbiamo molti ingegneri oggi che arrivano in Formula 1 direttamente dall'università, ma a volte spiego loro quanto è importante, ad esempio, lavorare nelle formule minori, iniziare dalle categorie junior, dai kart, dalla Formula 4, ricoprendo anche ruoli che non corrispondono esattamente alla propria preparazione o al proprio percorso professionale. È stato estremamente importante per me poter iniziare, ad esempio, a svolgere il ruolo di avvocato per piccoli team e per piloti che iniziavano la loro carriera nelle monoposto agli inizi degli anni 2000. C'era la Formula Renault, ad esempio, in Italia, e io seguivo come legale alcuni team e alcuni piloti. Poi l'esperienza con Coloni nella Formula 3000. Da lì ho cercato di aggiungere esperienze internazionali, perché oggi il motorsport è un ambiente molto complesso, molto dinamico ma soprattutto di carattere quasi globale. Per me è importante non fermarsi soltanto a quello che è stato l'oggetto del proprio percorso di studi, ma iniziare a mettersi in gioco nel lavoro.
Parliamo invece di Formula 1, che sta vivendo anni i suoi anni d'oro dopo un periodo in cui sembrava essere un po’ appannata. Probabilmente c'era necessità di nuove dinamiche, persone diverse, oltre che di un approccio innovativo verso le nuove generazioni. Come valuti questo cambiamento?
La Formula 1 sta vivendo oggi un periodo di popolarità straordinaria, con un pubblico davvero trasversale. È lo sport cresciuto di più negli ultimi tre anni nella fascia dai 15 ai 35 anni. Oggi il pubblico femminile rappresenta quasi il 50% e la Formula 1 è popolare negli Stati Uniti e in Asia, non solo in Europa. Stiamo vivendo una fase di crescita entusiasmante. Basti pensare che il Super Bowl, il principale evento annuale della NFL (National Football League), raduna circa 400.000 spettatori. Noi abbiamo un Super Bowl ogni due domeniche, perché in ogni nazione in cui andiamo quest'anno ci sono mediamente 400.000 spettatori. Questo dà l'idea di quello che è diventata la Formula 1, grazie anche al lavoro di Liberty Media e a tutti quelli che sono gli stakeholder impegnati, dai costruttori ai team. La Formula 1 ha avuto la capacità, in particolare negli anni del Covid, di fare squadra e di crescere insieme come sport, guardando al di là degli interessi singoli delle squadre, dei promoter o della FIA. Questo ci ha portato ad uno sviluppo esponenziale del nostro modello di business, pur mantenendo intatto il DNA e l'elemento di ricerca tecnologica, che è fondante della Formula 1.
Sicuramente la Formula 1 si è aperta molto ai canali social, che non sono narrativi del Gran Premio nel vero senso della parola, esteso a tutte le 2 ore di gara. Ma è riuscita anche a parcellizzare la comunicazione diventando crossmediale, aprendosi tanto ai giovanissimi e al pubblico femminile. Quindi, secondo te, questi sono gli elementi vincenti per il futuro dello storytelling della Formula 1?
L'apertura ai nuovi media è stata fondamentale, e non solo i social media. Noi dobbiamo parlare differenti linguaggi per diversi target, perché ormai la Formula 1 è diventata un evento di entertainment. Dobbiamo avere la capacità di parlare allo stesso modo ai giovani, perché lo sport deve sempre rappresentare un modello, ma dobbiamo anche comunicare ai C-level, perché lo sport oggi è tecnologia, investimenti, organizzazione.
Parlando invece del connubio con Alfa Romeo, che ha costituito per voi una sorta di faro puntato a livello mediatico, quanto ha influito su quello che siete oggi?
Alfa Romeo è stata fondamentale per lo sviluppo del nostro team. Mi ricordo con grande piacere e, devo dire, anche con un po’ di nostalgia, il periodo in cui abbiamo iniziato a discutere di questa partnership con il dottor Marchionne. Marchionne aveva una visione del futuro molto chiara e sapeva sempre leggere con grande anticipo quello che sarebbe stato il domani, anche in Formula 1. Alfa Romeo è stata molto importante per Sauber, ci ha accompagnato nella crescita dopo anni difficili per il gruppo, ci ha permesso di posizionare il nostro team all'interno della Formula 1 con un ruolo chiave e di attirare persone e partner, per poter creare quello che oggi è diventata Sauber, cioè un gruppo che ha avuto la capacità di essere scelto come partner strategico di Audi per l'ingresso in Formula 1 dal 2026 del costruttore tedesco. Alfa Romeo è stata più che un partner, è stata una compagna di viaggio. Grazie alle persone che lavorano in Alfa Romeo e hanno condiviso questa visione e soprattutto l'ambizione di restituire un marchio storico agli appassionati.
Hai accennato al futuro. La Formula 1 si sta evolvendo, i nuovi regolamenti porteranno tanti cambiamenti e in questo senso voi rappresenterete per il Circus una novità a livello di brand, di immagine e di organizzazione. Diventerete un player sul quale sono riposte tante aspettative…
È chiaro che la trasformazione di Sauber in quello che sarà il works team di Audi è sicuramente una novità importante per la Formula 1, forse la più importante degli ultimi due decenni. È la prima volta che il gruppo Volkswagen decide di entrare in Formula 1 con un progetto globale, telaio e motore. Per questo ha deciso di entrare in Sauber con una partecipazione che andrà sviluppandosi nel tempo. Le aspettative sono tantissime, è chiaro che è un percorso che porterà alla trasformazione del team in termini di organico, con un aumento importante del personale, un investimento in tecnologie e tutto quello che sarà necessario per trasformare la squadra in un team ufficiale con la parte motori e la parte telaio integrata.
Da manager secondo te quali sono gli elementi vincenti nella Formula 1 di oggi, in un contesto in cui si parla a volte di decimi e addirittura di millesimi di secondo tra le monoposto in griglia? Quali sono le variabili su cui si può lavorare per fare il salto qualitativo?
La Formula 1 è uno sport particolare, che combina la tecnologia con l'elemento umano. È chiaro che l'aspetto organizzativo è fondamentale, quindi avere una struttura efficiente e avere dei processi in ogni area efficienti è importante. Tutto questo però non si può fare se non si hanno risorse per investire in tecnologia e le persone idonee per poterlo fare.
Ai giovani che studiano e che si affacciano al mondo del lavoro, sognando magari un futuro nel mondo della Formula 1, quale consiglio daresti? Quali sono, secondo te, le figure più interessanti e richieste?
Per quanto riguarda l’ambito professionale in Formula 1 è chiaro che tutte le Facoltà tecniche di ingegneria sono fondamentali: ingegneria aeronautica, perché naturalmente la parte aerodinamica ha un ruolo essenziale nella performance, ingegneria meccanica, ingegneria elettronica. Poi tutto quello che riguarda la parte infrastrutturale - quindi IT, Cloud, AI - è importante, ma non va tralasciato anche l'aspetto organizzativo manageriale. Le nostre squadre, infatti, sono strutture molto complesse, che gestiscono non solo la parte tecnico-sportiva. Oggi, ad esempio, ci comportiamo come una media house per i nostri partner, produciamo contenuti, ci occupiamo della comunicazione, realizziamo campagne pubblicitarie. Ci sono quindi tantissime professionalità che possono svilupparsi e trovare il loro spazio in Formula 1.
C’è qualcosa che vorresti ancora realizzare, visto che sei già arrivato a livelli apicali molto importanti?
La realtà è che ancora non ho fatto nulla nella mia vita. Sono un giovane che sta ancora inseguendo i propri sogni, ed è questa la parte più importante. Sono una delle 600 persone che lavora in Sauber, ognuno dà il proprio contributo. Il mio obiettivo per questa stagione è arrivare alla fine dell'anno e sentire che le persone che hanno lavorato con me sono state orgogliose di come ho rappresentato il team, di come ho portato in ogni gran premio il volto di Sauber e riconosciuto quello che è il contributo e il lavoro di ognuno. Questo è il mio obiettivo: avere il rispetto delle persone che lavorano con me. Poi un obiettivo personale, è ovvio, è sempre quello di vincere, ma si può vincere in tanti modi. Non c'è solo la vittoria in Formula 1, per noi la vittoria è riuscire in ogni gara a lottare per i punti, ad esempio, o sviluppare questa struttura e arrivare pronti per il 2026. Ancora il libro dei sogni è tutto da sfogliare.
Per concludere, c'è un ricordo che vuoi condividere con i nostri lettori che senti molto rappresentativo del mondo in cui vivi, ma anche del tuo percorso in questo settore?
Il 17 luglio di otto anni fa veniva a mancare Jules Bianchi. Io ho gestito Jules per Nicholas (Todt ndr) e per molti anni ho vissuto con lui tantissimi momenti importanti. Ero con lui a Suzuka. Per me esiste una Formula 1 prima e dopo quel giorno, che è stato il momento più doloroso. Allo stesso tempo, il rapporto con Jules è ciò che mi ha lasciato di più come persona. Era un ragazzo eccezionale, che aveva un grandissimo rispetto per le persone che lavoravano con lui e una grandissima determinazione, ma sempre con il sorriso. Questo è ciò che vorrei trasmettere anche io: avere grande determinazione, non nasconderci gli obiettivi, ma farlo con il sorriso. Perché siamo dei privilegiati e spesso non ci rendiamo conto quanto è prezioso quello che facciamo e la vita che conduciamo. E questo ricordo di Jules è sempre presente. Oggi più che mai è un faro che deve illuminare quello che svolgo quotidianamente.
Con l’edizione numero diciassette del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia si è aperto un nuovo ciclo. Il progetto dei due co-fondatori Arianna Ciccone e Chris Potter ha infatti compiuto il passo definitivo per rendere centrali le prospettive dei Paesi ospiti rispetto al focus italiano e perugino. In occasione della giornata di chiusura dei lavori abbiamo incontrato Arianna Ciccone nella location più nota della rassegna, l’Hotel Brufani, per dialogare su passato, presente e futuro.
Quando è nata l’idea di un festival internazionale dedicato al giornalismo?
Diciassette anni fa ero giornalista - oggi ho restituito la tessera e non lo sono più - e mi muovevo in un mondo, quello giornalistico in Italia, molto complesso. Al tempo stesso avevo aperto la mia società, iniziando ad organizzare eventi. Ho pensato di unire i due mondi: così è nata l’idea di un Festival Internazionale del Giornalismo. Mai e poi mai ci saremmo aspettati che sarebbe diventato quel blob mostruoso che è oggi. Nonostante ciò, il format attuale è esattamente la realizzazione dell’idea nata diciassette anni fa. Sono partita con un progetto scritto su un foglio e ho convinto così diverse persone. In un primo momento l’impronta italiana era molto forte, ma nel tempo ha preso il sopravvento la spinta internazionale, che del resto era il nostro obiettivo.
Questa edizione ha sancito l’affermazione definitiva dell’impronta internazionale del Festival…
Sì, in effetti dopo anni di crescita graduale, con quest’edizione c’è stato un vero e proprio salto. Se ne sono accorti gli stessi speaker che negli anni scorsi erano stati qui con noi: è successo qualcosa di diverso. Noi lo avevamo avvertito già lo scorso anno, ma questa volta l’impatto è stato maggiore. Abbiamo visto giornalisti autorevoli venire qui nel pubblico ed è grazie all’opportunità di networking potentissima che rappresenta il Festival. Si impara tanto, c’è condivisione. Non è una passerella.
Per noi (lei e Chris Potter, ndr) è stato naturale scegliere Perugia dato che viviamo qui, pur non essendo perugini di nascita. Io sono napoletana, Chris è inglese, ma questa è la città che abbiamo scelto e in cui la nostra relazione è nata. È stata una scelta profonda di vita, indipendentemente dalla presenza dell’Università per Stranieri: essendo la nostra città è diventata la casa del Festival. Perugia e l’Umbria sono luoghi piuttosto chiusi e inizialmente, non essendo nati qui, non è stato facile. Adesso in particolare gli operatori economici sono contenti: l’impatto è notevole.
Archiviato il salto internazionale, quali sono i prossimi obiettivi di sviluppo?
Penso che quest’anno sia stato raggiunto l'equilibrio perfetto. Abbiamo sperimentato la formula vincente, dal numero di eventi al numero di speaker, passando per quello delle sale. Eccedere è sbagliato: la città non regge, non è sostenibile. L’offerta deve essere comunque importante, considerando i tanti ospiti che arrivano per il Festival dall’estero.
Ci tengo a dire che il Festival non è nato perfetto. Ora si è trovato il giusto equilibrio tra proposte internazionali e italiane, che sono meno ma proporzionate rispetto alle esigenze del pubblico.
Perché la scelta di lasciare libero accesso agli eventi, senza regolamentarne il flusso?
Abbiamo sperimentato un anno fa le prenotazioni, viste le numerose richieste, ma è stato un tentativo fallimentare. A mio avviso perché si creano degli ostacoli nell’esperienza. Avere l’ingresso libero permette al pubblico di andare ovunque senza seguire un iter burocratico. Valutando pro e contro abbiamo optato per non regolamentare il flusso. Ho notato che le persone ormai hanno assorbito la necessità di attendere in fila: vengono prima, arrivano preparati e durante l’attesa si consolida la community.
Quali difficoltà avete riscontrato nel vostro percorso?
Tra le difficoltà maggiori di sicuro reperire i finanziamenti. In un primo momento sono stati solo italiani, poi questi sono spariti e si sono fatti avanti sponsor dall’estero. Essendo un festival internazionale agli italiani non interessava più. C’è inoltre una mentalità della sponsorizzazione all’italiana che non si sposa con questo evento. Spesso in Italia un brand non ti sostiene perché sposa la causa, ma con una volontà presenzialista, secondo cui deve intervenire il CEO o è legata alla presenza dell’ospite vip. La sponsorizzazione straniera ha un approccio completamente diverso, è più fluida, parte dal contenuto. Quest’anno c’è stato comunque un nome italiano tra gli sponsor, Angelini, al quale abbiamo spiegato il format ed ha accettato comunque.
Come sei riuscita a costruire negli anni una rete così fitta di speaker?
Per il secondo anno decidemmo di lanciare una call sia per i volontari che per le idee. Chiunque volesse poteva avanzare proposte da sottoporre al Festival, con noi ad occuparci della selezione. Dalle cinquanta proposte iniziali siamo arrivati ad avere migliaia di proposte da tutto il mondo. CNN, Al Jazeera, BBC, Washington Post, Guardian hanno portato le loro idee. Negli anni si è costruita una rete di passaparola per cui giornalisti autorevoli e attivisti ad ogni mese di settembre iniziano a candidarsi. Ovviamente è impossibile approvarle tutte, quindi ci sono diversi criteri di selezione, come la categoria, la diversity, il rifiuto di panel a predominanza maschile, il coinvolgimento di minoranze e community per dar voce alla realtà. Il Festival non può essere solo occidentale. Tutto ciò viene realizzato con successo senza sponsorizzazioni: è basato sul passaparola e ci si gioca tutto sulla reputazione. La cura degli speaker ad esempio è fondamentale, anche perché non sono pagati per venire qui, ma lo fanno per spirito di condivisione, nell’ottica di dare e avere.
Quali invece gli errori?
Gli errori negli anni hanno riguardato più le questioni logistiche, dalla gestione delle navette ai trasporti degli ospiti. Nel tempo ci è venuta in soccorso la tecnologia: abbiamo messo a punto dei software per la gestione degli speaker, delle tempistiche, di ogni aspetto di questa macchina complicata. Sono stati fatti errori a iosa, ma da questi abbiamo imparato. Viviamo in una società che vede il fallimento come una tragedia, ma in realtà significa accumulare esperienze, come essere umano e come professionista, che poi porterai altrove. Del resto, tutto è nato da un sogno ed è bello vedere dove siamo arrivati. Devo dire che siamo stati bravi e fortunati ad intercettare persone capaci.
A tal proposito, come prende forma il reclutamento dei volontari?
I volontari mandano le candidature, noi valutiamo i loro profili, le lingue che parlano, gli studi che stanno seguendo e il modo di approcciarsi ai social media, in breve come vivono la propria dimensione digitale. Le candidature arrivano da ogni parte del mondo, ma quest’anno abbiamo dato più spazio agli italiani, rispondendo alle richieste degli istituti intenzionati ad attivare l’alternanza scuola-lavoro con noi. Un altro motivo è la scarsa disponibilità degli ostelli: trovare una sistemazione per loro è più oneroso che in passato. Qui imparano, vengono affiancati e si mettono in gioco con le proprie competenze
Tra i temi centrali nell’edizione 2023 l’intelligenza artificiale e TikTok, abbinate al futuro del giornalismo in modo quasi provocatorio.
Gli eventi dedicati a questi temi sono stati seguitissimi, con le sale sempre piene. Il futuro del giornalismo non esiste: il giornalismo esisterà sempre e al suo fianco si trovano di volta in volta ambienti – più che strumenti – nuovi, come TikTok. Si tratta di un incontro tra tecnologie e persone. Non considero questi ambienti come una minaccia, anche se è chiaro che utilizzandoli nel lavoro bisogna saperne calibrare l’uso. Non temo che possano “rubare il lavoro” dei giornalisti. In un panel dedicato all’intelligenza artificiale è stato introdotto un concetto bellissimo: l’intelligenza artificiale non potrà mai rendere la testimonianza sul campo al pari dei giornalisti in carne ed ossa. Come sostituisci una Francesca Mannocchi? L’intelligenza artificiale può aiutarla nel suo lavoro, ma non può prendere il suo posto.