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MARIO GRAMEGNA Ri evoluzione creativa

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RINASCIMENTO UMBRO

RINASCIMENTO UMBRO

Agli esordi, una carriera come hair stylist e make-up artist, quasi da autodidatta. Così Mario Gramegna è approdato sui set dei più famosi fotografi degli anni Ottanta e Novanta, da Patrick Demarchelier a Gianmarco Chieregato. È da questi, e molti altri, autorevoli insegnanti che ha mutuato l’ispirazione e la maestria per porsi, anche lui, dietro all’obiettivo. Da quel momento in poi, uno dopo l’altro, i suoi scatti hanno visto protagonisti star dello spettacolo in una veste intima e inedita; oppure modelle sui set di importanti campagne e progetti editoriali. Abbiamo chiacchierato con Mario Gramegna, del (suo incredibile) passato e del (nostro) presente.

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Le tue origini mi incuriosiscono molto. Non solo geografiche, anche professionali: hai iniziato lavorando come hair stylist.

Sì, all'inizio ero un parrucchiere. Ho lavorato con Aldo Coppola negli anni '80 insieme a Maurino (Mauro Situra ndr). Poi sono stato contattato da Piergiuseppe Moroni, che stava aprendo il salone in via Dell’Orto. Mi ha insegnato tantissime cose e soprattutto ha iniziato a coinvolgermi sugli editoriali. Facevamo servizi fotografici per Amica, Grazia, Gioia; lavoravo con Bert Stern e Patrick Demarchelier. Così è nato il desiderio di lasciare il salone per dedicarmi solo a questa attività. Sono entrato in un'agenzia chiamata Freelancer, che ha iniziato a rappresentarmi come parrucchiere, e ho iniziato a viaggiare per il mondo lavorando per vari magazine italiani e internazionali.

Poi, ad un certo punto, sei diventato anche make-up artist.

Questa storia ha dell’incredibile. Era scoppiata la Guerra del Golfo, una mia amica di Gioia mi disse: “Caro Gramegna, devi imparare a truccare perché non ci sono più i soldi per portare in viaggio due persone”.

E come hai fatto?

I rudimenti li avevo appresi da Nando Chiesa, quando lavoravo nello staff di Gianpaolo Barbieri. Poi sbagliando si impara; ho fatto diversi viaggi camuffandomi da truccatore e, alla fine, sono diventato un truccatoreparrucchiere. Questo mi ha permesso di continuare a viaggiare per il mondo, ho lavorato per dieci anni su editoriali e pubblicità, collaborando anche con Oliviero Toscani per Benetton.

Alla fotografia, invece, come sei arrivato?

Un giorno eravamo ai Caraibi con Gianmarco Chieregato, che io considero il mio maestro. Ho lavorato con lui per 12 anni, ero io a cambiargli i rullini, a scegliere le location e le luci. Al punto che il suo assistente mi disse: “Ma perché non le fai direttamente tu le foto? Prendi in mano una macchina fotografica”. E così ho fatto. In quegli anni ero fidanzato con uno degli stilisti di Krizia, mi portava a casa gli abiti e io li fotografavo su un fondale; poi ho iniziato a fare test e composit per le agenzie e ho sentito che potevo raccontare qualcosa anche in quel campo. Anche perché io prima ancora di essere un parrucchiere ero stato un deejay.

Un deejay?

Sì e speaker di Radio Bari. Io non credo che un essere umano nasca per fare il dottore per tutta la vita. Io credo che l'essere umano, se è creativo, si evolve, cambia.

Quindi che cos’è accaduto a quel punto?

Seguivo la lingerie di Lise Charmel a Parigi, mi occupavo del trucco. Poi Anna Del Pino mi propose di scattare il catalogo della seconda linea, provai e andò bene. In quell’occasione conobbi Madalina Ghenea e ci innamorammo, al punto che lei venne chiamata dalla 3 (la linea di telefonia ndr) come testimonial e disse che voleva essere fotografata solo da me. Quindi lavorai con loro come fotografo per tre anni. Successe un po’ come era accaduto quando Piergiuseppe Moroni mi aveva mandato per la prima volta al Superstudio per fare capelli e trucco, andò così bene che continuarono a chiamarmi. Ad un certo punto però decisi di dedicarmi solo alla mia macchina fotografica.

Com’è nata secondo te questa passione per la fotografia?

Il make-up mi ha insegnato che si impara dai propri errori: una bocca se la sbagli una volta, quella dopo non la puoi più sbagliare. E poi mi ha fatto conoscere il mondo della fotografia di moda, l’importanza di una copertina, di un editoriale.

Se dovessi scegliere i tuoi grandi maestri, chi sarebbero?

Giovanni Gastel, Gianpaolo Barbieri, Bert Stern. Ho lavorato con tanti grandi fotografi, fino a quando non c’è stato il cambio generazionale.

Cioè?

Ad esempio, ho lavorato per tanto tempo con André Carrara, poi quando lui è diventato anziano hanno iniziato a chiamare il suo assistente, che però aveva addirittura paura di farmi vedere le Polaroid. Lì ho capito che stava avvenendo un cambio di generazione. E infatti poi c’è stato il crollo del Superstudio, tante cose non sono andate bene… Era un mondo meraviglioso che oggi non esiste più, che è riuscito a trasmettermi una grande lezione professionale e di vita. All’inizio non fu facile, perché io venivo dalla Puglia e negli anni Ottanta c’era ancora questa demonizzazione del “terrone”.

Infatti, dalla Puglia come sei arrivato a Milano?

Con un treno (ride) e centomila lire in tasca. Quando finii il militare dissi a mia madre: “Vado a Milano a trovare degli amici”, e non sono più tornato. Avevo trovato un lavoro in un negozio di Via Torino e riuscivo a pagarmi una pensioncina. Ricordo di un mese in cui ho patito la fame, cenavo con cappuccino e brioche. Però ce l’ho fatta. Oggi che ho 61 anni penso a tutto quello che ho fatto e dico “dovrei scrivere un libro”.

Hai vissuto anche negli Stati Uniti.

Sì, a Miami e New York. In Florida rimanevo intere settimane per lavorare alle campagne di Postal Market e Vestro, ero sempre in spiaggia circondato da donne bellissime. Poi però mi è venuta la crisi dello spaghetto: perché a New York ci devi nascere, altrimenti sarai sempre e soltanto un immigrato italiano.

Passando alla fotografia, tu hai scattato moltissimi ritratti. Che cosa significa realizzarne uno?

Cercare di catturare l’anima di una persona.

E quanto è importante l’empatia con il soggetto?

È una specie di energia. Io le amo le donne quando le fotografo, quando mi piacciono do il massimo di me stesso. Nel resto dei casi sono semplicemente professionale, diventa quasi una sfida.

Nella buona riuscita di una fotografia, quanto è merito di chi fotografa e quanto di chi è fotografato?

Io credo che sia un lavoro ancora più corale, non è solo la mia foto. Il merito di una fotografia ben riuscita è diviso tra tutti coloro che partecipano al processo: chi si occupa degli abiti, del trucco, dei fiori e così via. È un lavoro di squadra.

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