LUXURY PRÊT À PORTER - winter edition 2020

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L’ITALIA in jeans

MILANO IN LOCKDOWN racconto di una città immortale

Euro 7 | N.03 | A.2020 | ISSN 2704-7695

OMAR HASSAN fare a pugni con l'arte

IL NUOVO LUSSO unicità ed esperienzialità

WINTER 2020-2021


HYPOTHERMIA ISN’T A GOOD LOOK.


EDITORIAL

N

on nego di aver avuto qualche riserva nello scrivere queste righe. Sofferta è stata anche la decisione di far uscire questo numero di Luxury prêt-à-porter Magazine, in un momento in cui le cose che “si toccano” (come le riviste) creano quasi un po' di imbarazzo, per non dire paura. E così, da nativi digitali poi sbarcati sulla carta, facciamo non pochi equilibrismi per vivere questo dualismo carta-web, oggi più impegnativo che mai. È un inverno strano, questo, un inverno che somiglia parecchio alla primavera 2020. Viviamo sospesi, forse più consapevoli e meno spaventati; ma anche più segnati da uno stile di vita imposto da una pandemia e dalle conseguenti normative che hanno fortemente orientato le nostre giornate. Tutto all'insegna della coscienziosa tutela di noi stessi e degli altri e dello scrupoloso contenimento sociale. Va detto che mai prima avevamo provato il concetto di coercizione, di imposizione e di libertà non piena come è accaduto in questi mesi. Salvo chi è stato condannato al carcere o agli arresti domiciliari, immagino. Per quanto tempo questo stato di cose accompagnerà le nostre vite non è dato saperlo. Forse a livello sanitario ci salverà un vaccino (o più di uno), ma quanto profondamente queste vicende segneranno le Nazioni e le loro economie? Le profezie più negative ipotizzano un pericoloso effetto domino che potrebbe generare una recessione economica a livello mondiale molto severa, ma anche una grande opportunità di sviluppo economico e finanziario delle criminalità organizzate, che dispongono di fondi importanti e notevole capacità e flessibilità organizzativa. Non sono sicuramente prospettive incoraggianti. Andiamo incontro al 2021 con una popolazione psicologicamente ed economicamente indebolita, chiusa da mesi in smartworking. Questo, prima applaudito come “il nuovo che avanza” ora viene da molti consapevolmente inteso

come un sistema che allontana la gente dai rapporti interpersonali, che annebbia la creatività e lo scambio di idee; ruba una fetta consistente di vita, quella vera, che non è fatta solo di schermi e sedie di casa; isola le persone che diventano in sostanza appendici dei loro stessi device tecnologici. Questa pandemia ha mostrato in modo molto evidente le pecche di una classe politica mediocre, insufficiente e caotica, poco lungimirante e sensibile; inadatta spesso a gestire l'ordinario, tremendamente pericolosa e goffa quando deve affrontare lo straordinario. Questo numero di Luxury prêt-à-porter Magazine è stato prodotto orgogliosamente non in smartworking, in mascherina sì (per quanto possibile) e con il gel disinfettante sulla scrivania, ma alla vecchia maniera. Guardandosi negli occhi, sebbene a distanza. A volte anche sorseggiando un po' di gin in redazione. Abbiamo sognato ammirando le foto di opere di artisti innovativi e coraggiosi che abbiamo potuto incontrare di persona; la nostra mente è stata rapita dai panorami dell'Australia, battuta chilometro dopo chilometro da chi ce l'ha raccontata. E ci siamo sentiti orgogliosi di raccontare, dopo aver fatto visita a stabilimenti attivi e operosi, come imprenditori italiani si facciano ancora coraggiosamente bandiera di produzioni di altissimo livello valorizzando le risorse del territorio e le filiere di qualità, con la competenza che si tramanda di padre in figlio e con il giusto rispetto per l'ambiente. Cosa ci rimane per l'immediato futuro? Il sogno o la sostanza? Noi speriamo davvero che prevalga quest'ultima. Bello sognare davanti allo schermo, ma vogliamo fare, dare sfogo all'italica creatività, andare avanti, garantire un futuro al nostro Paese, ai nostri figli, alle aziende e alle persone che si danno da fare. Partendo, viaggiando, incontrando e indossando un paio di jeans, non il pigiama davanti allo schermo del PC in cucina.

Filippo Piervittori Publisher


CONTENTS 06 12 18 24 30 34 40 46

La sostenibile leggerezza del Denim Milano in Lockdown Racconto di una città immortale Biondi Santi Il valore del Tempo dei suoi vini Matteo Fieno Donne senza veli

Il Proibizionismo Cento anni dopo

Omar Hassan Fare a pugni con l'arte

Australia Il racconto del mio viaggio wild

Il nuovo lusso Il Real Estate visto da Milano Contract District

50 54 58 62 68 74 78 82

Eroine del quotidiano L'evoluzione femminile sul piccolo schermo Strada della Romagna Profumi, sapori, emozioni Ford Explorer Imponente e potente L'aura perduta L'artigianato di Flair ridona unicità al lusso

Moda circolare La seconda vita degli scarti

Charles Baudelaire L'inventore dei viaggi artificiali

Less is more Bellezza su misura

Latte tricolore Fra tradizione e nuove sfide

Masthead Publisher & Editor-in-chief

Editorial Team

Printed by

Filippo Piervittori

Andrea Lehotska Franca D. Scotti Francesco Ippolito Gabriele Gambini Ildebrando Bonacini Manlio Giustiniani Marianna Stefani Priscilla Lucifora Sara Emily Myers Sara Radegonda

Press Up S.r.l. Roma (RM)

Design & Art Direction Luca Lemma

Managing Direction Beatrice Anfossi Ruggero Biamonti

PR Manager Cristina Occhinegro

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Supplemento trimestrale alla testata Rumors.it


Bevi BOMBAY SAPPHIRE® Responsabilmente BOMBAY SAPPHIRE E I SUOI SEGNI DISTINTIVI SONO MARCHI REGISTRATI


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di Gabriele Gambini

L A S O ST E N I B I L E LEGGEREZZA DEL DENIM 6


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ollocata nel cuore del Parco del Ticino come una cattedrale che al gusto del sacro calato dal cielo preferisce le suggestioni dell'ingegno nato dal territorio, la Candiani Denim è un labirinto articolato di pop art e classicismo industraile. Da 80 anni è il punto di riferimento tessile dell'area, un lasso di tempo investito per diventare un colosso nella produzione del tessuto denim. Quando si parla di Made in Italy, qui si fa sul serio. Significa nessuna delocalizzazione, creatività tutta italiana, prospettiva internazionale: l'azienda è leader nella fornitura del denim ai più importanti marchi mondiali, e sta investendo nella creazione di un proprio brand su misura, una vetrina per l'inclinazione innovativa del suo global manager e titolare, Alberto Candiani: «La parola d'ordine del nostro futuro è sostenibilità», dice. Togliere le zavorre alle metafore è l'unico modo per saggiare la consistenza veritativa delle proprie esperienze.

Un tratto distintivo del nome Candiani sta nel suo passaggio di testimone da generazioni. Nel 1938, il mio bisnonno Luigi fondò la Tessitura Robecchetto Candiani: una piccola fabbrica che tesseva abiti da lavoro. Mio nonno ne ampliò gli orizzonti progettuali in un'ottica industriale. Significava non solo mandare avanti una tessitura, ma produrre filati, tingerli, finirli. Una storia che negli anni '70 ha incontrato la rivoluzione estetica rappresentata dal denim. Mio padre ha internazionalizzato l'azienda, concentrandosi sul jeans: esportava tessuto di alta gamma, con caratteristiche performanti superiori rispetto alla media di mercato.

Credit: Giorgio Figini #giorgiofigini | @giorgio_figini www.giorgiofigini.com

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Poi è arrivato il periodo sensualizzazione del denim.

della

cosiddetta

La considerazione del denim presso i consumatori ha vissuto vicende alterne.

Negli anni '90, sempre mio padre ha introdotto dapprima il concetto di stretch, il tessuto denim elasticizzato. Poi è avvenuta la sensualizzazione: significava aprire il mercato alla moda femminile, anelata soprattutto negli Stati Uniti d'America, in California, dove proliferavano marchi interessati a elevare il jeans a prodotto di tendenza.

Negli ultimi vent'anni, la massificazione eccessiva ha annacquato il significato innovativo del denim. Oggi però sta tornando a essere un bene prezioso, non solo popolare. Per questo abbiamo iniziato un'operazione retail, aprendo il primo negozio Candiani in piazza Mentana, nel cuore di Milano. Lì facciamo ricerca, sviluppo, innovazione sostenibile attraverso un processo di laboratorio visibile al cliente. Nel negozio è possibile comprare un capo su misura, con livelli di personalizzazione elevati. Al cliente mostriamo l'intera tracciabilità del percorso produttivo: dall'ingegnerizzazione del seme di cotone, alla lavorazione attraverso tecnologie apposite.

Jeans e USA sono un legame indissolubile nell'immaginario collettivo. Il concetto di denim come tessuto pop è esploso negli USA perché rappresentativo di una rivoluzione culturale che andava a braccetto con l'idea di libertà. Non a caso, l'America è uno dei nostri principali mercati di riferimento. Ma non scordiamo che il jeans nasce in Italia cinquecento anni fa dalla tela di Genova. Dunque il Made in Italy - in questo caso come forma di inevitabile destino - diventa ingrediente caratterizzante. Abbiamo costruito il prestigio di Candiani diventando, in un certo qual modo, la Goretex del denim, investendo sull'innovazione. Poi è arrivato lei a prendere il timone dell'azienda e del marchio. Il mio contributo è votato alla sostenibilità e all'efficienza, che non sono parole vuote. Se sei un'azienda efficiente, produci materiale con meno scarti possibili, innescando un circolo virtuoso che, in un'epoca dove il green e l'ambiente sono sotto i riflettori del dibattito sociale, alla lunga pagherà. La fabbrica è a Robecchetto con Induno, nel cuore del Parco del Ticino, un'oasi ambientale tutelata da norme precise. Lo vedo come un vantaggio, ci obbliga a pensare in un'ottica di sostenibilità e risparmio energetico, incrementando la qualità del prodotto.

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si

Che cosa significa comunicare il Made in Italy sostenibile?

Il cosiddetto made to measure non è in conflitto con il nostro apparato tessile. Intendiamo allestire una vetrina per il nostro marchio, valorizzando l'ingrediente Candiani come esempio di Made in Italy qualitativo, geolocalizzando il nostro lavoro e nobilitandolo attraverso il racconto. Non scordando di puntare anche sull'e-commerce.

Vuol dire spiegare come nasce qualcosa che gode giĂ di notevole credibilitĂ all'estero. Spirito artigianale e manifatturiero, abbinato a sperimentazione creativa. Inoltre significa ridurre fino al 90% il consumo di acqua nella produzione, usare il 50% in meno di prodotti chimici e fibre, riducendo l'energia attraverso tecnologie ad hoc. Legare l'apparato industriale a quello agricolo in modo rigenerativo, innescando un racconto circolare che parta dalla natura e ritorni alla natura. Sotto questo aspetto, forse solo il Giappone propone qualcosa di analogo per attenzione al dettaglio.

Diventerete concorrenti approvigionano da voi?

dei

marchi

che

Il vostro nome si contraddistingue anche per il legame col territorio. Contiamo 580 dipendenti in azienda, l'80% dei quali abita sul territorio e tante famiglie lavorano con noi da generazioni. Non abbiamo mai delocalizzato. 10


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Produrre in questo modo è più costoso rispetto al passato? L'investimento in ingredienti e tecnologia è più elevato. Fino a dieci anni fa, sarebbe stato un progetto senza orizzonti. Oggi inizia a essere assimilato e associato all'idea di alta qualità italiana. Per un produttore, con 10 euro di tessuto, 15 di confezione e trattamento, può essere realizzato il prototipo di un jeans sostenibile ad alta qualità. La vita da leader di Candiani come è scandita? Trascorro poco più della metà del mio tempo in Italia, il resto lo passo nella nostra filiale di Los Angeles o in giro per il mondo: il mercato globale è un'opportunità da cogliere, al netto della congiuntura attuale, per comunicare al meglio il nostro progetto.

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SOCIETY

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iamo stati colti da uno stupore misto a inquietudine, quando, nel primo periodo di lockdown, ci capitava di passeggiare, opportunamente autorizzati, in una Milano deserta. Quelle stesse strade fino a poco prima brulicanti di persone intente a condurre i loro affari, o a trascorrere dei momenti di convivialità, erano ora completamente spoglie. Una solitudine ben lungi da quella che si può assaporare nelle giornate agostane e che per certi versi può considerarsi anche ristoratrice, dato che smorza un po’ il ritmo frenetico che questa città mantiene nel resto dell’anno. E fa specie vedere vuoti anche quei luoghi, come Piazza Duomo o i Navigli che non conoscono sosta, neanche nel pieno della canicola estiva o durante le feste comandate; tanto più che dopo l’Expo 2015, il capoluogo meneghino, già capitale economica e luogo prediletto di moda e design, si è imposto anche come centro turistico di rilievo internazionale fino a competere con le mete classiche del Belpaese come Firenze, Venezia e Roma. È Mauro Parmesani con l’occhio attento del professionista, allenato a scrutare e dare significato a ogni minimo particolare dell’immagine, a considerare la variazione dei colori e le sfumature delle luci e delle ombre, che ci regala questo suo libro fotografico intenso, suggestivo e a tratti inquietante, dove ha immortalato quel momento che costituisce un unicum nella Storia.

di Ruggero Biamonti

M I L A N O I N LO C KD OW N Racconto di una città immortale 12


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In “Milano in Lockdown” (Edizioni Italiastraordinaria) possiamo quindi ammirare la Cattedrale Metropolitana che troneggia davanti a una piazza inusitatamente silenziosa e i nuovi luoghi iconici della Milano moderna come CityLife o il Bosco Verticale che resistono e combattono contro un nemico invisibile, perché ha le dimensioni di un virus e subdolo, perché ancora poco, troppo poco si conosce di lui. Un viaggio destinato ad ascoltare il cuore di questa città che nel momento della quarantena ha rallentato, ma mai cessato

il suo battito, un frangente in cui per le vie di Milano spiccavano le saracinesche abbassate (alcune delle quali non sono state ancora rialzate) e portoni sbarrati. Ma senza farsi prendere dallo scoramento è emersa invece la sensibilità profonda che solo gli artisti genuini come Mauro hanno: “Ho guardato con occhi diversi le strade, le piazze, i monumenti e i simboli che l’hanno resa unica. L’ho guardata senza interferenze, senza veli, senza timori, spogliata dai rumori dei meneghini e pendolari che ogni giorno si nutrono della sua positività.

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Ho scoperto una Milano monumentale, affascinante, splendente anche in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo. La paura si è trasformata in bellezza estetica, mi sono sentito privilegiato nel vedere Milano con occhi diversi, ascoltandola nei rumori che in un giorno “normale” non si percepiscono nemmeno". “Il cinguettare degli uccellini al tramonto - continua Parmesani - il fruscio della brezza tra le fronde degli alberi, le foglie che intonano una sinfonia, lo scorrere dell’acqua nelle fontane, la musica che inonda le case, l’abbaiare di un cane lontano, i passi felpati di qualche solitario. Mi sono ritrovato estasiato in un’aurea di magia e di forza evocativa dinnanzi alla maestosa silenziosità del suo Castello con le note immortali del Và, pensiero, dal Nabucco di Giuseppe Verdi. Frammenti di vita irripetibili che dedico ai milanesi che da questa tragedia ne usciranno più forti perché Milano non muore mai". Milano è immortale.

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Credit: Mauro Parmesani #mauroparmesani | @parmesani www.parmesani.com

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WINE&SPIRITS

B I O N D I SA N T I

Il valore del tempo nei suoi vini

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di Manlio Giustiniani

accontare Biondi Santi significa narrare la storia centenaria e affascinante di un’autentica eccellenza toscana: il Brunello di Montalcino, nato al Greppo di Biondi-Santi. Il concetto del trascorrere del tempo è il fil rouge della narrazione che avviene attraverso cinque grandi emozioni, in un percorso ideale di quattro decadi di storia dell’azienda: Rosso di Montalcino 2015, Riserva 2010, Riserva 1995, Riserva 1985 e Riserva 1975. Tutto iniziò con Clemente Biondi, nipote di Giorgio Santi, laureato in farmacia, possedeva appezzamenti a Montalcino, provenienti dai possedimenti del ramo materno dei Canali, tra cui la Fattoria del Greppo, su una collina lungo la strada che da Montalcino porta a sant’Antimo. Clemente ottenne dei vini rossi adatti all’invecchiamento lasciandoli fermentare a lungo in botte, e mettendo a punto personali tecniche di vinificazione, più avanzate rispetto ai suoi contemporanei, vincendo vari premi con un vino rosso (brunello) del 1865, è la prima apparizione su un’etichetta del termine “brunello’ con la ‘b” minuscola ad indicare che si trattava di una varietà di uva. La figlia Caterina Santi sposò un medico fiorentino di famiglia nobile, Jacopo Biondi e dalla loro unione nacque Ferruccio, che ereditò dai genitori e dal nonno materno la passione per il vino, e grato al nonno ne unì il cognome a quello paterno. Ferruccio selezionò a fine ‘800 un clone

particolare di sangiovese grosso, coltivandolo nella Tenuta il Greppo e decise di vinificarlo in purezza ottenendone il vino rosso che sarebbe diventato uno dei prodotti più rappresentativi dell’enologia Italiana nel mondo, il Brunello di Montalcino. Con quasi un secolo d’anticipo lanciò la tendenza a produrre vini rossi di corpo pieno, riducendo le rese per ottenere uve più ricche di corpo, di estratti e di acidità, selezionando solo i grappoli migliori per i vini da imbottigliare, e mentre in tutte la Toscana si procedeva al “governo” per ottenere un prodotto pronto. Il Brunello ricco di tannini e con un elevato grado di acidità totale veniva invecchiato per circa 4 anni in grandi botti, prima di Castagno poi, in botti di rovere. La prima grande annata del Brunello, con la B maiuscola, fu la 1888 poi la 1891 e la 1893 fu importante poiché nacque il figlio Tancredi, che alla morte del padre assunse le redini dell’azienda, il quale conservò le bottiglie della collezione storica del padre e le murò nel gennaio del 1944 per non farle rubare. Ebbe il merito di porre le fondamenta di quello che diventò il disciplinare di produzione del Brunello, scrivendolo insieme ad Arrigo Musiani nel 1966. Dopo la morte di Tancredi nel 1970, le redini passarono al figlio Franco, agronomo ed enologo che imparò le tecniche della vinificazione dal padre, rimase fedele alla tradizione ma allo stesso cercò di migliorare la qualità, completando l’opera di rinnovamento dei vigneti, e in collaborazione con

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l’Università di Firenze proseguì l’opera di selezione massale per selezionare i migliori cloni di Sangiovese presenti nella tenuta, che portò a isolarne alcuni tra cui il BBS/11, che attualmente rappresenta circa la metà della superficie vitata del Greppo. Unica famiglia al mondo ad aver dato il proprio nome ad una particolare clone di sangiovese il BBS11! Da inizio 2017 la proprietà è passata alla EPI, holding francese di lusso che possiede anche le Maison di Champagne Charles Heidsieck e Piper-Heidsieck, che non ha effettuato nessuna rivoluzione, comprendono che nel vino i tempi sono lunghi e hanno il massimo rispetto del passato guardando al futuro.

La nuova proprietà ha investito sia nelle vigne sia in cantina per un miglioramento qualitativo produzione, in nuovi contenitori di legno, e nel progetto di parcellizzazione. il Brunello Biondi Santi nasce dalle migliori vigne di età superiore ai 25 anni, solo in annate eccezionali. Dal 1888 è accaduto 38 volte, da una superficie vitata di 25 ettari. I Cru che danno origine a questi vini sono quattro: Il Greppo, posto intorno alla Villa; Pieri sulla Collina di fronte con esposizione Ovest; Scarna cuoia a 400 mt slm, nella zona sottostante il paese all’inizio della strada che porta a Grosseto; Pievecchia nel versante Nord verso Buonconvento. I terreni sono piuttosto variegati, marnosicalcarei mescolati a sabbia e strati scistoargillosi, ma la pietra madre che predomina ovunque è il galestro, con inserti rilevanti di albarese nella zona del greppo e in quella dei Pieri, con esposizione a Sud. ®Alex Brookshaw

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I vigneti sono allevati a cordone speronato, palificazione in Castagno e non vengono usati erbicidi, seguendo i dettami della lotta ragionata, secondo i principi dell’agricoltura compatibile. Le rese per ettaro variano a seconda dell’annata tra I 26 e I 30 hl, malgrado il limite stabilito dal disciplinare sia di 52 ettolitri. La vendemmia viene effettuata manualmente e anche in cantina la tecnologia è limitata al minimo, dove si fa un uso molto limitato di anidride solforosa e non sono mai stati utilizzati lieviti selezionati. Dopo la fermentazione alcolica, il vino trascorre una lunga maturazione da 2 ½ a 3 anni per il Brunello e 4 anni e ½ per la riserva in botti di rovere di Slavonia di età e capacità variabili. Verso il mese di giugno del 4 anno il vino viene imbottigliato e sosta circa 6 mesi in bottiglia prima della vendita. Il Brunello Biondi-Santi è un vino che non ha fretta, mantiene intatte nel tempo le

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sue caratteristiche e nel trascorrere del tempo raggiunge quell’eccellenza che lo contraddistingue per eleganza e longevità. È un vino in continua evoluzione, nonostante sia cambiato ben poco nella sua produzione. Il lungo invecchiamento in grandi botti di rovere di Slavonia e l’affinamento in bottiglia, sono i passi che segnano la strada di ogni bottiglia. La comprensione intima del valore del tempo è al centro dell’esperienza di degustazione di un vino Biondi-Santi, qualunque sia la sua età. È un vino che non ha mai seguito le tendenze del momento, e per questo, mai ‘fuori moda’. Un vero classico. ROSSO DI MONTALCINO 2015 Vino molto interessante, delicato, fine, elegante, speziato, verticale e intrigante. Color rosso rubino, all’olfatto fruttato di ciliegia, ribes, fragola, bouquet floreale di rosa e fiori rossi, sentori di liquirizia, tabacco e vaniglia. Al palato manifesta la giovinezza con un tannino ancora leggermente aggressivo, una buona freschezza e sapidità, gradevole la chiusura di bocca fruttata. Voto 91/100

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®Alex Brookshaw

BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 2010 Color rubino con unghia granata, intenso e brillante. Al naso fine e profondo, con bouquet floreale di viola, profumi intensi di mammolo e giaggiolo, frutti di bosco e amarena, ciliegia sottospirito, note speziate, sentori balsamici di macchia mediterranea, e tabacco dolce. In bocca bella la nota pseudocalorica, acidità presente ma ben equilibrato con un tannino setoso e una bella sapidità. Vino pulito di grandissima eleganza, e lunga persistenza. Voto 97/100

BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 1995 Color rosso rubino, splendido nel calice, con all’olfatto note fruttate di fragoline di bosco, frutta sottospirito, ciliegia, prugna, cipria, bouquet floreale di petali di rosa, note terrose di humus, sentori scure, tabacco, note tostate di caffè, cioccolato, cacao, intensità e finezza olfattiva, ampio nei riconoscimenti speziati di noce moscata, chiodi di garofano e pepe. Al palato, equilibrato tra una bella freschezza e la morbidezza, complesso, con tannini vellutati, una lunga persistenza e una ricchezza sapida Voto 98/100

BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 1985 Color granato intenso e brillante, profumi fruttati di confettura di prugne, agrumato scuro di bergamotto, bouquet ampio e gradevole, floreale di rosa e sambuco, incenso, sentori speziati di chiodi di garofano, liquirizia e pepe rosa, note di caffé e cera d’api, e nuance di legni orientali, sandalo e cedro. Al palato di grande struttura, tannini setosi, la freschezza agrumata ancora presente, sfumature minerali nel finale lungo armonico e di grande persistenza. Voto 97/100

BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 1975 Colore tra il granato e l’aranciato. Al naso leggera nota ossidativa, aromi fruttati di prugna matura, ciliegia e confettura di agrumi, uva passa e profumi di mimosa. Sentori di sottobosco, humus, note di caffé tostato, tabacco biondo, odore di foglia di menta, note terziarie, foxi, selvatiche, goudron, sensazioni minerali e fiori macerati. Sensuale al palato, ancora fresco, con un tannino ancora presente, minerale, in equilibrio tra morbidezze e durezze e una dolcezza sul finale di lunga persistenza. Voto 95/100

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HERITAGE

M AT T E O F I E N O Donne senza veli

di Luca Lemma

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Matteo Fieno viene definito

acconta le donne nel loro aspetto più sensibile, senza farle mai apparire vulnerabili. Forse proprio per questo Matteo Fieno viene definito “l’artista delle donne”, senza alcuna retorica. Il suo è un racconto onesto e senza fronzoli, lontano dall’illusoria rappresentazione della figura femminile caratteristica dell’immaginario patinato imposto negli ultimi anni. Con questo suo modo di mostrare il corpo femminile, con le sue bellissime imperfezioni, ha dato forza a tutte quelle donne vittime dei preconcetti e delle loro insicurezze.

“l’artista delle donne”, senza alcuna retorica Guardando le tue opere si nota che utilizzi molto la tecnica mista. Come mai una scelta di questo tipo? Per l’esigenza di essere contemporaneo. Quindi il guardarmi intorno, vedere la pittura contemporanea oggi che cos’è, dover affrontare tutti i giorni la sfida di rendere attuale l’arte moderna. Se io non facessi degli sforzi per essere un po’ attuale, correrei il rischio di essere un po’ démodé, piuttosto che moderno per definizione.

La sua arte guarda agli artisti francesi e al contemporaneo, traducendo suggestioni che vengono dalla quotidianità. Anche Vittorio Sgarbi ha avuto parole di apprezzamento per i suoi lavori cosa che, ovviamente, ha dato a Matteo piacere e onore. Lo abbiamo incontrato nelle Langhe - o nella Langa, lui sostiene si possa dire in entrambi i modi - in occasione della presentazione della sua ultima mostra privata “Quel pazzo 2020 declinato al femminile”.

Qual è stata la tua più grande ispirazione? E quale è stato il percorso che ti ha portato ad essere l'artista che sei oggi? La mia più grande ispirazione forse è stata mia figlia, perché ho visto in lei un piccolo me stesso senza barriere, senza difese e con quella voglia di essere quello che sono, di difendere un po’ la mia personalità, senza compromessi. Questa fiamma me l’ha accesa lei quando è nata e quando l’ho vista giocare con la sua fantasia, con la sua spontaneità, con la sua creatività. Forse il vero grande stimolo è stata lei, insieme a tante altre cose ovviamente.

Credit: Matteo Fieno #matteofieno | @female_art_design www.matteofieno.it

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I soggetti delle tue opere sono, prevalentemente, nudi artistici e ballerine di danza classica. Come mai questa scelta? Cerchi di rappresentare l’essenzialità della donna nel quadro...

Prediligi l’utilizzo della carta. Ti piace disegnare sulla carta, però ovviamente proponi le tue opere su tela. Come riesci a trovare il punto d’incontro tra i due supporti?

In realtà all'inizio è stato un gioco: mia moglie aveva il desiderio di appendere in casa un nudo femminile e mi ha chiesto di realizzarlo. Ho pensato: “perché no?” Poi mi ci sono affezionato, mi sono appassionato, ho fatto tanti tentativi, ho visto che c’era una caratteristica in particolare che sempre veniva fuori: una grande sensualità. Del mio tratto e del mio modo di disegnare e di dipingere. Avevo creato un nudo che piaceva soprattutto alle donne; ho capito che era una cosa bella, che mi dovevo tenere stretto. Io alla mia pittura, al mio stile e a tutto ciò che riguarda l’esecuzione manuale affianco una ricerca intellettuale, nella quale cerco di proporre la donna come metafora di modernità e di progresso. Nella mia ricerca non ci sono soltanto le donne, c’è anche un invito agli uomini ad immedesimarsi nel loro modo di essere.

A me piacciono le difficoltà. Adattarsi alle diverse esigenze è una cosa che mi viene naturale, è anche un po’ una sfida. L’utilizzo della carta - io uso in particolare quella da illustrazione - mi è venuto naturale perché io vengo da lì, avendo iniziato con un percorso da illustratore. Anche mischiare le tecniche non è stato difficile per me, è stata un’evoluzione breve e non ha richiesto un particolare sforzo mentale. Con le tele invece è stato più complicato: ho cercato un metodo che mi facesse sentire a mio agio tanto quanto lo ero con la carta. Ho iniziato a lavorare con il gesso, dando una base, per rendere la permeabilità simile a quella della carta. A quel punto mi sono sentito più libero di esprimermi e mettermi in gioco con le mie caratteristiche più distintive. Quello sulla tela è stato un percorso, un processo più laborioso che sulla carta; anche solo per i tempi più lunghi di realizzazione che richiede. Però sono contento di esserci riuscito e sento che sia quella cosa che mi ha reso un pittore e un artista completo.

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Guardando le tue opere si capisce l’ispirazione francese, tra tutti Lautrec. ...

Ci puoi parlare un po’ della mostra, dell’esposizione che vedremo oggi?

Confermo, assolutamente sì. La mia ispirazione è l’origine dell’arte moderna, quindi l’Impressionismo, il Post-impressionismo, le Avanguardie. Lautrec è uno di quei maestri a cui mi sono sempre riferito, ma ce ne sono tanti altri. È una cosa tipica dei pittori piemontesi, come Casorati, come i Sei pittori di Torino, De Pisis, quindi non è una grossa novità. Semplicemente è un modo di essere: questi istrioni pazzeschi che lottavano contro i loro tempi in modo radicale per me sono sempre stati degli esempi, anche prima di intraprendere la carriera artistica. Erano dei riferimenti per il loro stile di vita e quindi va da sé che la mia arte sia ispirata alle loro opere, al loro modo di vivere e di pensare.

Questi quadri sono stati realizzati durante il periodo del lockdown, una situazione surreale in cui ho sentito la necessità di aggrapparmi a qualcosa per andare avanti, superando le difficoltà del momento. L’ho fatto dipingendo, non poteva essere altrimenti. Le opere di questa esposizione rappresentano un’evoluzione di quello che già stavo facendo prima: ho continuato a fare questo percorso puntando tanto sulla sensibilità femminile, sull’essere donne sensibili, ma allo stesso tempo anche molto affascinanti e sensuali. Sono stato anche ispirato da persone che mi hanno scritto, che mi hanno detto che si sono immedesimate nelle mie donne; quindi ho cercato di coltivare questo aspetto, di battere il ferro caldo e di reagire soprattutto a quel momento di sconforto.

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Adesso Matteo Fieno utilizza tecniche miste, ma in un futuro ci sarà un “cambio periodo”? Su tela ci vogliono diverse ore, secondo me almeno una decina. Bisogna tenere conto dei vari processi e anche degli intervalli per far asciugare i materiali e pulire le imperfezioni. La parte preliminare è quella meno divertente: bisogna applicare la base di gesso e lasciare che asciughi per iniziare poi a realizzare il quadro con prima la base, il bozzetto, i colori. Per ottenere la magia bisogna essere molto meticolosi, c’è bisogno di tempo.

Adesso Matteo Fieno utilizza tecniche miste, ma in un futuro ci sarà un “cambio periodo”? Perché no, devo dire che ci sto lavorando. Il vantaggio della tecnica mista è che ti dà un margine infinito, è possibile inventarsi qualsiasi cosa per stupire. Una cosa è certa: non posso trascorrere troppo tempo facendo la stessa cosa. Sto già lavorando su un altro progetto, anzi su più progetti. Vorrei fare una serie di quadri dipinti su lino, magari dipingere delle ballerine. Mi piacerebbe anche sperimentare uno stile un po’ più metropolitano e meno bucolico, vorrei dipingere le mie donne su uno sfondo in cemento o un muro scrostato, come la parete di una rimessa. C’è in ballo poi un progetto legato alle donne incinta - la donna come origine di tutto - e anche un sogno nel cassetto: unire le ballerine di Degas alle ninfee di Monet, rappresentandole sui tutù. Mischiare le due cose e farne una soltanto. Ci sono tante idee ma bisogna avere il tempo per realizzarle; cambierò sicuramente, ci sono molte strade legate al mio stile e al mondo femminile e sono deciso a percorrerle tutte.

Quanta distanza c’è tra le due personalità: il Matteo artista e il Matteo padre di famiglia? Trovare un equilibrio tra le due cose è importante ma anche molto complicato. Da un lato c’è l’esigenza di promuovere un personaggio - un istrione che non smette mai di creare e dipingere - dall’altro però c’è una persona che ha bisogno di essere concreta, per potersi prendere cura dei propri cari in maniera opportuna. Sicuramente non posso gestire questa mia attività da artista come se fossi uno yuppie di venticinque anni, perché probabilmente farei collassare tutto quanto il progetto in una settimana.

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IL PROIBIZIONISMO Cento anni dopo

di Priscilla Lucifora

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el Proibizionismo americano, in Europa, sono arrivati quasi esclusivamente gli aspetti più glamour. Sono passati cento anni dall’inizio del movimento che ebbe ripercussioni importanti su tantissimi aspetti della vita degli uomini e delle donne del Novecento. Nella memoria collettiva contemporanea le prime cose che vengono in superficie quando si parla di quel periodo sono la moda, e la criminalità italo americana.

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LA MODA Non è un segreto che negli anni Venti del Novecento la moda femminile stesse attraversando una fase di importante svolta. Dopo la prima guerra mondiale le donne avevano acquistato, più per stretta necessità che per benevolenza della società, un ruolo più incisivo. Nel 1920 erano sempre di più le donne che guidavano, lavoravano, giocavano a tennis, andavano in bici e, nei casi più estremi, facevano festa. Le gonne si accorciavano, mentre il guardaroba si semplificava. Via lunghe chiome intrecciate, benvenute frange. Era nata la famigerata flapper. LA CRIMINALITÀ ITALO AMERICANA Ma gli anni Venti furono anche quelli del fenomeno chiamato Gangsterismo. Grazie al traffico illegale di alcol – che non poteva

essere acquistato e venduto alla luce del sole – molti criminali divennero ricchi e popolari, delle figure di spicco conosciute in tutti gli Stati Uniti. Le loro vicende, romanzate, sfumano tra la realtà e la leggenda. Questi gangster creavano vere e proprie cosche, organizzavano colpi e furti ai bastimenti di alcol medicinale, si scontravano tra di loro in pieno giorno, gestivano contrabbando e gioco d’azzardo. Oggi, la pericolosità di figure come Al Capone, Dion O’Banion, Lucky Luciano, Benjamin “Bugsy” Siegel e molti altri è talmente sconosciuta ai giovani statunitensi o peggio mitizzata ai loro occhi che la mafia non è altro che un genere di Tik Tok. Spopolano sul social dei giovanissimi migliaia di video in cui i bellocci diciassettenni fingono di essere mafiosi e criminali innamorati della ragazza che sta guardando il video (questo tipo di filmati viene chiamato POV, punto di vista, e indica a chi sta guardando come fruirlo e qual è il suo “ruolo” nella narrazione).

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In quegli anni l’habitat naturale di flapper e criminali erano i locali in cui l’alcol si vendeva comunque, illegalmente o tramite cavilli. Tra jazz club e speakeasy, i venditori di alcol trovarono mille e un modo per continuare a lavorare. Fiorirono le prescrizioni di whiskey e cognac a uso medicinale, le vigne di Napa Valley iniziarono a vendere succhi di uva concentrati che riportavano sulle confezioni tutte le indicazioni per non trasformali in vino. Nuovi tipi di bevande, distillate illegalmente in luoghi assolutamente non adatti al processo, entrarono sul mercato. È il caso della potentissima Moonshine, così chiamata perché preparata al chiaro di luna, a notte fonda. Spesso, parlando del Proibizionismo, si corre il rischio di limitarsi all’estetica, ai miti personali controversi e all'idea di criminalità. Ciò che si tralascia è l’aspetto più strettamente sociale del fenomeno, che mescolò le carte in tavola dando vita - probabilmente inavvertitamente – a movimenti enormi per importanza e portata. Effetti collaterali, potremmo chiamarli, che cambiarono per sempre la società statunitense prima e mondiale poi. Alla fine dell'Ottocento le donne erano entrate definitivamente nel dibattito pubblico, dimostrando tutta la loro influenza. Molti potrebbero dire che lo fecero schierandosi dal lato sbagliato della storia quello del proibizionismo, che demonizzava il consumo di bevande alcoliche ma che provocò nell’immediato l’insorgere di problemi molto più gravi e per di più un grande dispendio di denaro pubblico - ma questa visione si rivela in realtà superficiale.

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In primo luogo, le modalità di protesta di questi movimenti di donne cristiane antialcol erano assolutamente non violente, e portavano con sé una profonda critica alla società statunitense industrializzata nella sua interezza. L’alcol era visto come il capro espiatorio, la sua eliminazione avrebbe portato, agli occhi di queste donne, all’eliminazione dell’ubriachezza, a dei padri di famiglia più morigerati e meno spendaccioni, al risparmio e, addirittura, all’abolizione della schiavitù, considerata moralmente sbagliata tanto quanto l’abuso di alcol. Un modo ingenuo e intriso di religiosità di arginare i problemi di uno stile di vita nuovo, capitalistico, sempre più sregolato e giudicato un pericolo per le fondamenta della famiglia. In secondo luogo, questo movimento e questo tentativo segnano indelebilmente un precedente. Le donne per la prima volta avevano conquistato una propria voce, un

modo di esprimere la propria opinione. Si mobilitarono di conseguenza, esprimendosi in merito alla cosa pubblica. Le donne erano diventate entità politiche. Come è facile immaginare, non tutte erano a favore del Proibizionismo. Ma quello che si può dire con certezza è che mai prima di allora il parere delle donne era stato così cruciale e centrale. Se guardiamo al di sopra delle fazioni, vedremo che grazie alla relativamente breve esperienza del Proibizionismo (che si concluse definitivamente nel 1933) si registrò una quasi totale normalizzazione della presenza delle donne in locali pubblici e in posizioni manageriali, oltre a una tolleranza maggiore della commistione tra neri e bianchi. I primi suonavano la musica del momento, il jazz, i secondi la ascoltavano. Inoltre, nei locali in cui l’alcol veniva smerciato illegalmente regnava la promiscuità, e a partecipare a queste feste sfrenate erano anche le donne. Un ulteriore tassello che va inserito nella storia dei grandi movimenti femminili, consapevoli o inconsapevoli, che ha portato le donne occidentali dove sono oggi, ma con ancora tantissima strada davanti da affrontare. Insomma, a cento anni dall'inizio del Proibizionismo, tra superficialità e crepe, possiamo tirarne le fila in maniera razionale, riconoscendo i meriti parziali e le cause profonde di un tentativo tutto femminile di imporre la moralità su una nazione il cui movimento in avanti non poteva più essere arginato.

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O M A R H A S SA N Fare a pugni con l'arte

di Andrea Lehotska

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Lui è Omar Hassan, classe

fruttando una potente quanto discutibile arma messaci a disposizione dall'era in cui viviamo – Internet - cerco di placare la mia sete di conoscenza, della novità, dell'inaspettato. Una news, una scoperta o un racconto che mi arricchiscano in un momento di spostamenti fisici limitati, in attesa di un'altra avventura nelle terre asiatiche incontaminate. Il dito scorre così annoiato sullo schermo, per poi fermarsi di scatto su un'immagine, che con il suo impatto visivo cattura la mia attenzione: un uomo incappucciato, con dei guantoni da boxe da cui cola vernice gialla e blu, in piedi davanti a un'esplosione di colori sul muro. Bastano pochi click per scoprire che lui è Omar Hassan, classe 1987, ex pugile professionista e attuale artista, noto per il suo particolare e originale modo di dipingere le tele prendendole letteralmente a pugni con guantoni da boxe immersi nei colori. La curiosità inizia a quel punto a scatenare decine domande nella mia testa: come avviene una così inconsueta unione tra la disciplina - rappresentata da uno sport fatto di precisione, forza e controllo - e la sensibilità creativa rappresentata dall'arte? È raro vedere tali caratteristiche accostate ed è ancora più raro che riesca ad accostarle una persona sola.

1987, ex pugile professionista e attuale artista.

Su cosa si concentra la sua mente quando tira un jab sinistro blu, seguito da un cross destro verde chiaro della sua toccante raccolta di opere Breaking Trough? In base a cosa calibra la forza di ogni singolo splash di colore, come fa a capire che il suo quadro non necessita di un ulteriore pugno ma è già una Tempesta amazzonica finita? Quale ispirazione lo ha portato a dipingere a mano 14.280 tappi delle bombolette spray, le stesse che gli regalano il primo respiro colorato nella sua serie Injections?

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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Settantadue ore più tardi sto aprendo la porta della Prometeo Gallery a Milano, dove tra le curiose opere e sculture della mostra Sottosopra trovo anche Omar, reduce da un'altra esibizione a Napoli. A prima vista un ragazzo che ricorda più un rapper o un giocatore di basket piuttosto che il 'padre' di quelle originali creature. Bastano poche parole per trasmettermi tutta la devozione per ciò che realizza: frizzante, accogliente e innovativo come i suoi quadri, che racconta con passione. Omar entra in palestra a 15 anni, quando già dipinge e disegna, dopo essersi avvicinato molto presto alla scena underground milanese. Le sue attuali tecniche di street art derivano proprio dalla sperimentazione adolescenziale con la vernice spray nei tunnel di Milano e sono tuttora una parte fondamentale della sua pratica. Oggi rimangono un tributo al genere della street art, anche se – afferma lui – non si tratta di un movimento che lo definisce. "Non mi veniva difficile unire la boxe alla mia passione già esistente, anzi: a 14 anni ho provato a dipingere con i guantoni per la prima volta, usando la vernice per i muri da esterno. All'epoca non avevo ancora l'esperienza e lo studio necessari per poter portare la mia arte nel mondo artistico, ma l'evento era così forte che ho capito subito che andava sviluppato. Anche se poi ho impiegato un mese per togliermi quella pittura dalla faccia". Dotato di un significativo talento per la boxe, Omar riesce a praticare una fenomenale osmosi tra i suoi sette colpi al secondo e la vena artistica con lo stesso strumento che nello sport distrugge e nell'arte crea: i guantoni. Quando la sua carriera da pugile si interrompe per motivi di salute, da vero sportivo Omar si reinventa senza esitazioni e torna alle origini artistiche, portando la boxe nella sua ricerca creativa, tramite l'action painting. Il suo interesse iniziale per la street art si trasforma rapidamente in una passione per una più vasta gamma di arte.

"La mia ricerca è una scansione del tempo attraverso la pittura. Le serie possono sembrare molto diverse tra loro, ma in realtà sono unite dallo stesso pensiero: utilizzo scultura, pittura, video e istallazioni per sottolineare la costante “Tempo” - invisibile ma percettibile”. Prima ancora di finire gli studi all'Accademia di Belle Arti di Brera, Omar Hassan inizia la gavetta nelle gallerie, esordendo molto presto con la sua prima mostra personale in Giappone, a cui seguono altre esibizioni tra Italia, Inghilterra, Singapore e America. Nelle sue opere racchiude concetti di sintesi importanti come sottrazione, razionalità e irrazionalità. Figlio di due culture diverse, padre egiziano e madre italiana, la sua inclinazione verso il nuovo e il diverso lo porta alla perenne ricerca di una creazione inedita, satura di emozioni, con un significato profondo che si cela dietro a ogni colore, mossa e forma. "La forza di ogni pugno è legata all'emotività del momento per ottenere determinati risultati" sorride paziente Omar mentre lo sommergo di domande. “Dietro a ogni opera c'è naturalmente uno schema cromatico ben studiato; ogni quadro ha al massimo 6/8 colori, che sono quindi 3/4 round di pugni con guanti di colori diversi che vanno a colpire la tela", racconta. Questa tecnica estremamente fisica crea un'opera che dimostra forza, perseveranza e determinazione, mantenendo vitalità e positività. Fermandomi davanti al Quartiere!, la mappa dei quartieri napoletani creata con 14.280 tappi delle bombolette spray, mi rendo conto che il processo creativo di Omar, desideroso di innovare nel suo approccio, è tanto parte del lavoro artistico quanto lo è il risultato finale. Sono molto attratta poi dalla serie Injections: un insieme di puntini dai colori vibranti uniti in una fusione perfetta che trascende sia le belle arti che la street art.

Credit: Andrea Lehotska #andrealehotska | @andrealehotska www.andrealehotska.com

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Una perfetta rappresentazione della vita di questo artista, che ha saputo utilizzare le proprie esperienze personali per plasmare il suo metodo artistico. Nell'attesa del ritorno a una vita sociale che comprenda ulteriori esibizioni artistiche di Omar, l'artista non si è mai fermato, così come il tempo espresso nelle sue opere: dopo il grande successo di Napoli, con una riproduzione alternativa dei suoi unici quartieri, sono in arrivo altre mappe di città che a breve ospiteranno l'artista. Ma non solo, Omar spazia artisticamente

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e tra i suoi ultimi progetti abbiamo visto anche una video performance insieme al celebre trapper Sfera Ebbasta. Esco da questo impero dei sensi ed esplosioni colorate, impregnate di carica vitale e sensazioni, tra sculture mastodontiche e testimonianze del tempo che ci avvolge, salutando Omar e sentendomi più ricca di prima. Mi sorprende una volta di più offrendo un controfinale alla mia esperienza: mi omaggia con la sua arte nell'adiacente parco interamente decorato da lui stesso con lo stile Injections, in memoria di un carissimo amico. Contemplo i numerosi muri abbelliti dai coloratissimi puntini che si abbinano alla perfezione alle scarpe e vestiti di Omar, addobbati con schizzi di vernice, al punto da al punto da camuffarlo e farlo diventare tutto uno con ciò che lo circonda - l'arte. Perché...non è perché non è esposta in un museo che non è arte. camuffarlo e farlo diventare un tutt'uno con ciò che lo circonda - l'arte



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AU ST R A L I A Il racconto del mio viaggio wild di Marianna Stefani

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i parte. Una Daewoo Lanos del 2001 che non ha neanche l’aria condizionata. Ma così come per ogni viaggio che io abbia mai fatto, non mi aspetto che tutto vada come pianificato, perché so bene che la maggior parte delle volte ci sono inconvenienti che possono mandare tutto all’aria. Ma non per me. Se si mantiene la mente aperta, si hanno più possibilità di trovare una soluzione per ogni brutta situazione.

Emozionatissima ho iniziato il mio viaggio cercando di evitare qualsiasi contatto possibile con altri esseri umani. A poco a poco ho iniziato a capire che stavo andando in mezzo al nulla. Vedo una bellissima terra rossa lungo l'autostrada, come quella che si vede nelle foto. E non c’è anima viva, eccetto qualche serpente. Tutto quello che vedo in questi 585 chilometri è un panorama surreale.

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MINIERA DI OPALE Sono passata davanti ad un paio di città fantasma e dopo un giorno intero sono finalmente arrivata alla mia prima tappa: Coober Pedy. Questo piccolo posto è la capitale mondiale dell’opale ed è molto famosa per la sua vita sotterranea. Il clima qui è talmente rigido che le persone hanno iniziato a costruire abitazioni sottoterra. Tutto è incominciato con la scoperta delle miniere di opale nel 1915. Da allora, alcune persone si sono insediate nel posto e hanno costruito una cittadina unica nel suo genere.

ULURU Seconda tappa: Uluru, imponente massiccio roccioso visibile da decine di chilometri di distanza. Nessuno sa come questo monolite sia finito lì, proprio nel bel mezzo del deserto. In realtà è come la punta di un iceberg, perché al di sotto di ciò che noi vediamo si trova una grande formazione rocciosa lunga centinaia di km. 42


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12 APOSTOLI Dopo migliaia di chilometri in macchina e una sosta nella città di Adelaide ho raggiunto la mia terza tappa: i 12 Apostoli, un gruppo di faraglioni di pietra calcarea situati nel sud dello stato di Victoria. Nonostante il cielo grigio e nuvoloso, la vista era comunque spettacolare: 9 giganti litorei, dopo che la restante formazione rocciosa è crollata nel 2005. Ho continuato a guidare lungo la Great Ocean Road senza fermarmi. Volevo solo godermi il viaggio. Dopo un'intera giornata, sono arrivata a Canberra. Dopo una buona tazza di tè caldo, ero di nuovo pronta per mettermi in viaggio. Quest'ultima parte dell’avventura è stata assolutamente incredibile: ho guidato lungo la strada panoramica 15 che tocca luoghi stupendi come Fitzroy Falls e Kangaroo Valley. Ho deciso di aggiungere questi luoghi alla mia lista di viaggi assolutamente da fare.

Credit: Marianna Stefani #mariannastefani | @mariannastefani www.mariannastefani.com

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JARVIS BAY E finalmente eccomi qui, in paradiso, dove la sabbia è così bianca da accecare: Jarvis Bay. Questa baia, famosa in tutto il mondo, ospita quella che è la spiaggia più bianca del mondo: Hyams Beach. L’acqua è così limpida e la sabbia è così morbida che sembra di stare in un altro mondo. La terra rossa e centinaia di km senza vedere un'anima sembrano appartenere a un altro pianeta. È difficile credere di poter trovare tutto questo nello stesso paese. L’Australia è un luogo dannatamente vasto e straordinario. Passeggiare per i parchi nazionali di Boderee ti lascia senza fiato, ogni angolo è saturo di piante colorate, affascinanti formazioni rocciose e l'acqua più blu di quanto si possa immaginare.

Credit: Marianna Stefani #mariannastefani | @mariannastefani www.mariannastefani.com

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I L N U OVO LU S S O

Il Real Estate visto da Milano Contract District

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di Beatrice Anfossi

l lusso non è frutto certamente di un’idea moderna. Il termine stesso nasce nella lingua latina, madre della maggior parte delle nostre parole, con una sfumatura in realtà piuttosto negativa. È ostentazione, sovrabbondanza nel modo di vivere; uno sfoggio di ricchezza e sfarzo che i Romani in particolare mal tolleravano, nella loro continua ricerca dell’aurea mediocritas. Con il tempo il concetto di lusso si è evoluto e ha attraversato da protagonista gli sfavillanti anni Ottanta, compagno fedele del successo e della giovinezza a tutti i costi. Poi è arrivato il minimalismo degli anni Novanta: la ribellione dei no brand e il declino del logo. Di una cosa si può essere certi: il mercato del lusso non ha mai cessato di esistere né ha mai dato particolari segni di crisi. Le cose belle piacciono, fanno sognare e appagano chi se le può permettere. Ciò che con il tempo è andato modificandosi è la percezione che si ha, di queste cose. Oggi che cosa significa comprare un bene di lusso? Acquistare uno yacht da 30 metri o una villa sulla Hollywood Hill? Anche, ma non solo. I gusti dei consumatori si sono con il tempo affinati e perfezionati, spingendo alla ricerca di qualcosa che non si limiti a regalarti un nuovo oggetto: sostituibile, fragile, destinato a perdere in fretta il suo potere di soddisfacimento. Ma tolto il prodotto, che cosa rimane? Resta l’acquisto: il tempo speso per entrare in possesso della cosa stessa, che non fa che aumentarne il valore emotivo. Lo hanno intuito i grandi marchi

del lusso, che hanno lavorato per rendere sempre più denso e coinvolgente questo processo: negozi in cui sentirsi a casa, assistenza del cliente puntuale, racconto dettagliato del prodotto. Tutto ruota intorno all’esperienza: non solo possedere, ma vivere, sperimentare, conoscere. Lo ha capito bene anche Lorenzo Pascucci, che con il progetto di Milano Contract District ha cambiato, tra le altre cose, le regole del mercato immobiliare milanese. MCD è uno spazio fisico nel cuore di Milano ma anche una piattaforma che integra servizi a supporto del costruttore/investitore e del cliente finale, che viene affiancato in tutte le tappe del percorso d'acquisto di una nuova casa. Un ponte tra il mondo più strettamente commerciale del Real Estate e quello del cliente, che si trova a dover prendere decisioni importanti e degne di essere ben ponderate. Perché, come ha sottolineato Pascucci “il lusso ormai non è altro che un viaggio esperienziale in cui si viene accompagnati da un interlocutore competente”. Un percorso che inizia dalle fondamenta e si conclude chiavi in mano, attraversando tutte le fasi di progettazione. Milano Contract District integra infatti sotto un’unica regia di gestione e coordinamento il processo di home fit out e quello edile-costruttivo. La sua promessa nei confronti degli sviluppatori è di accelerare il processo di scelta dei clienti tra le varianti a disposizione; sul fronte degli acquirenti invece, consente di vivere un’esperienza di personalizzazione e consulenza

“Il lusso ormai non è altro che un viaggio

esperienziale in cui si viene accompagnati da un interlocutore competente”

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senza precedenti, grazie ai servizi offerti dal team di architetti della design platform e al coordinamento diretto con l’impresa, che consente di tradurre in concreto le scelte operate su carta. Il segreto del successo? Sicuramente un lavoro serio e costante, fatto anche di continui investimenti volti a migliorare i propri servizi. Un impegno che ha portato al progetto diversi riconoscimenti, tra cui una Menzione d’onore del Compasso D’Oro come più innovativo modello di business legato al Design. È l’esperienzialità la chiave dell’idea e il valore caratterizzante di Milano Contract District. Il know how acquisito ha infatti permesso di rendere l’esperienza di acquisto e progettazione il più possibile piacevole e non stressante. Vivere una casa ancora prima di possederla, sapere di affidarsi alla qualità del Made in Italy con prodotti certificati e - nei limiti di una produzione che rimane industriale - personalizzabili. È così che il lusso ha smesso di essere ostentazione

Credit: Milano Contract District #contractdistrict | @milanocontractdistrict www.contract-district.com

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urlata per diventare attenzione al dettaglio, ricerca dei materiali, studio e sfruttamento al massimo delle potenzialità. Lo dimostra il progetto collaterale di MCD, More+Space: un approccio innovativo che considera la casa come un insieme di funzioni e non di stanze, che cambiano nel corso della giornata per soddisfare le esigenze degli abitanti. Da stanza per l’home-working a stanza per l’home fitness, fino a spazio per l’home cinema che, con un semplice gesto, muta scenario per accogliere le ore del sonno. Una realtà al passo con i tempi, soprattutto oggi che la vita domestica è diventata una componente fondamentale della quotidianità.

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di Priscilla Lucifora

EROINE DEL QUOTIDIANO L'evoluzione femminile sul piccolo schermo 50


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l mondo dell’intrattenimento occidentale - non è un segreto - ha un problema di rappresentazione. Se ne discute ormai da tempo; il campo di battaglia prediletto sembrano essere i social network, dove utenti singoli sollevano problematiche che si trasformano in veri e propri movimenti di protesta. Virtuali, ma non per questo incapaci di fare pressioni, soprattutto quando vengono ripresi da magazine e pubblicazioni diventando di fatto dibattito pubblico. Autenticità e rappresentazione vanno di pari passo. Come si può raccontare il mondo se non si considerano tutti i suoi aspetti? Senza tenere in gran conto l’estrema multietnicità e preziosa diversità del mondo che ci circonda? Come si fa a scrivere personaggi sempre dallo stesso punto di vista (che nella maggior parte dei casi è quello maschile) senza renderli in qualche misura piatti e improbabili, uno specchio di quello che chi scrive vorrebbe che fossero, senza considerare la loro realtà o filtrandola attraverso occhi inevitabilmente troppo estranei? Come può lo spettatore immedesimarsi in quello che vede sullo schermo se lo schermo rimanda un’immagine assolutamente lontana da lui, per genere, origine o colore della pelle? Parliamo un po’ di dati, e osserviamo come il problema della rappresentazione nei prodotti dell’intrattenimento coinvolga più di una categoria, anche sovrapponendole. Secondo un report rilasciato dal Centro Ralph J. Bunche per gli Studi Afro Americani dell’Università della California nel 2018, nel biennio 2015-2016 solo il 13.8% tra gli sceneggiatori sono stati donne, solo il 6.9% tra i registi, e, nel passare dal cinema alla televisione, le percentuali per le diverse tipologie di programma rimangono in media sotto il 30%. Dati pienamente confermati dal Centro per lo Studio delle Donne in Film e Televisione, che periodicamente si occupa di raccogliere statistiche sulla figura femminile davanti e dietro la telecamera. Secondo questo centro una crescita esiste, ma è ancora molto lenta. Nel 2018-2019 le donne registe

erano solo il 15%, le direttrici della fotografia il 3%, i personaggi neri femminili il 17%, quelli asiatici il 7% e quelli latino-americani il 6%. Le donne, nell’industria dell’intrattenimento, vengono tenute all’ingresso, limitate a ruoli di minore responsabilità. Questo, oltre a penalizzare le lavoratrici, impedisce attivamente alle spettatrici il piacere di vedersi sullo schermo, legittimate nel loro essere imperfette ma reali, liberandole dall’aspirazionismo e dal sottobosco misogino da cui modelli irraggiungibili e insuperabili e scritture superficiali provengono. Qualcosa però sta impercettibilmente cambiando. Faticosamente e lentamente sempre più personaggi donna scritti da donne si impongono nel mondo della televisione, rompendo un tabù alla volta e offrendo non modelli ideali ma verosimiglianza. La donna televisiva del presente è sempre di più caotica, pasticciona, non-tradizionalmente-attraente ma sessualmente libera, resiliente e consapevole del suo ruolo, senza vergogna nel senso migliore dell’espressione. Ha un lavoro, delle

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amiche che la sostengono, hobby, interessi, e le storyline sue e di coloro che la circondano spesso diventano occasione di riflessione su temi importanti anche per il resto della popolazione, come la salute mentale, quella riproduttiva, il fine-gravidanza e i rapporti tra i generi e i sessi. Un esempio brillante di questo nuovo tipo di personaggio femminile è Rebecca Nora Bunch, protagonista assoluta della commedia musical Crazy Ex Girlfriend, ideata da Aline Brosh McKenna e Rachel Bloom, che ne interpreta anche la protagonista, e prodotta da Sarah Caplan, Rachel Specter, Audrey Wauchope, Rene Gube. In questa serie tv, ai temi di cui abbiamo già accennato si affiancano quelli della genitorialità, della religione, del rapporto madre figlia, di quello con il proprio status e con il mezzo televisivo. Una commedia nella commedia che cresce insieme alla sua protagonista e ci offre uno sguardo fresco, divertente ma anche serio su cosa vuol dire essere donne nel presente. Ma Crazy Ex Girlfriend non è il solo esempio luminoso. Degna di nomina e di nota anche la dramedy Fleabag, tratta da un testo teatrale di Phoebe Waller-Bridge, che ne ha curato l’adattamento per la televisione e ne interpreta la protagonista. Fleabag è uno

sguardo amaro, grottesco e reale nella vita di una giovane donna disfunzionale che cerca di navigare la modernità. Un percorso simile è quello di Insecure, prodotto statunitense basato sulla web series ideata da Issa Rae, che originariamente si intitolava Awkward Black Girl. Come è facile immaginare, alle problematiche legate all’essere donna si intrecciano in Insecure anche quelle legate al colore della pelle, in una comedy che ha incontrato il consenso della critica per la sua scrittura reale e contemporanea. A tal proposito Rae ha dichiarato: "Stiamo solo cercando di comunicare che con le persone di colore ci si può facilmente immedesimare. Non è una storia finta. Si tratta di persone normali che vivono la loro vita”. E ancora Gretchen Cutler, protagonista femminile di You’re the worst, Nadia di Russian Doll, trentaseienne intrappolata nel tempo ideata e prodotta da Natasha Lyonne, Amy Poehler, Leslye Headland, Tracey Gordon di Chewing Gum (scritta e interpretata da Michaela Coel). Claire, Auntie Peg, Hannah, Rose e Ella, controparti femminili di un telefilm australiano con protagonisti maschili che nonostante tutto, e grazie alla scrittura dolce e acuta di Josh Thomas, Thomas Ward e Hannah Gadsby, hanno una dimensione tangibile e delle sfaccettature importanti, e non sono mai solo i mezzi per far proseguire la storia degli uomini a loro vicini. Tutte queste grandi e piccole donne televisive, queste entità che insieme esistono e non esistono, e che si trovano in momenti diversi della loro vita ad affrontare cose diverse (relazioni, sesso, crescita e incontro -

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scontro con il mondo, loop temporali che sembrano infrangibili, ricoveri, famiglie difficili, passati ingombranti), hanno una cosa in comune, al di sopra di tutte le altre: la loro importanza in un percorso di rappresentazione che è solo all’inizio. Un percorso grazie al quale qualsiasi donna potrà dire di esserci, di esistere nella dimensione in cui le serie tv, che sono uno specchio del mondo, delle persone, dei loro più rosei desideri e dei loro incubi peggiori, di quello che ci diverte e ci spaventa, esistono. E magari a tutte queste protagoniste sarà anche regalato un lieto fine.

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ST R A D A D E L L A R O M A G N A Profumi, sapori, emozioni

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di Franca D. Scotti

ra le colline faentine e il litorale di Cervia si snoda un suggestivo itinerario che tocca borghi pittoreschi, un famoso giardino di erbe officinali, laboratori artigianali ed eccellenze enogastronomiche. Basta seguire “Strada di Romagna”, un consorzio che raccoglie strutture, parchi, località e aziende in provincia di Ravenna. Ed è sufficiente un weekend per immergersi nella splendida atmosfera di questa regione. Nella stagione autunnale il paesaggio si mostra rosso e aranciato, gli alberi profumano di resina e si sentono nell’aria tutti gli aromi della cucina del periodo. È anche la stagione dei vini, che qui contano vitigni eccellenti, soprattutto Sangiovese e Albana. Scopriamo quindi insieme qualche tappa in questo itinerario.

Tra colori caldi, gialli e aranciati, si apre quella che nel Quattrocento era la cinta muraria della città. Nei secoli vi sono state costruite abitazioni, magazzini per la merce, stalle per gli asini. Sono proprio i famosi asinelli a dare il nome alla strada, coperta da archi, dal pavimento in cotto appoggiato sopra le volte a botte sottostanti; resa suggestiva dai tagli di luce e ombra, dalle porticine di legno e dalle grate di ferro. La Via degli asini ricorda il tempo in cui Brisighella era un borgo ricco per il commercio del gesso trasportato dai birocciai. Siamo infatti nelle vicinanze del Parco Regionale della Vena del Gesso, un filone che affiora per 20 km lungo l’Appennino, tra la vallata del fiume Lamone e quella del torrente Sillaro, un complesso carsico unico in Europa per conformazione geologica, paesaggi, flora e fauna. Caratteristica la colorazione differente dei due versanti, verde e ombroso a nord e biancheggiante a sud, proprio come una “pietra di luna”. Nel centro storico di Brisighella tante botteghe artigianali invitano alla sosta: da Arte del Mattarello in cui Beatrice produce la famosa “sfoglia lorda”, alla Bottega delle stampe romagnole e alla Bottega degli asini, che propone asinelli in tutte le possibili varianti. Senza dimenticare Terre di Brisighella, un punto vendita e degustazione che valorizza l’eccellenza dell’olio extravergine di oliva, come il pluripremiato Brisighello D.O.P. e l’esclusivo Nobildrupa.

BRISIGHELLA Si parte da Brisighella, insediamento di origine medievale, classificato come uno dei Borghi più belli d’Italia. Una città slow, davvero incantevole. A fare da sfondo, in alto, tre monumenti scenografici: la Rocca militare dei Manfredi, la Torre dell’orologio e il Santuario mariano della Madonna di Monticino. Una lunga passeggiata panoramica li lega, affacciata sul paesaggio della Vena del Gesso. Il pittoresco centro storico si sviluppa con strade strette, tra botteghe e case antiche, fino allo slargo da cui parte la famosa Via degli asini.

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IL GIARDINO DELLE ERBE Sulla Vena del Gesso si affaccia anche un’altra bellissima realtà: il Giardino delle Erbe di Casola Valsenio. Con uno sguardo davvero lungimirante, Augusto Rinaldi Ceroni nel 1975 ebbe l’idea di creare un giardino per studiare le varietà e le proprietà delle erbe officinali. Anticipò così tutte le tendenze successive, della cucina e della medicina con le erbe, della cosmesi naturale, dell’erboristeria. Di grande attualità, dunque, questo giardino, dove si passeggia liberamente, scoprendo centinaia di varietà di erbe, lavorate fin dal Basso Medioevo nelle officine dei conventi. FAENZA Un’altra tappa fondamentale del percorso sarà il Museo della Ceramica di Faenza (MIC), un museo unico al mondo con importanti collezioni che attraversano diverse culture: dall’Estremo Oriente - con Cina, Giappone e sud-est asiatico - alle Ceramiche classiche delle più importanti produzioni del bacino Mediterraneo, alle eccezionali Ceramiche Precolombiane, fino alle famose Ceramiche Faentine, che vantano una tradizione plurisecolare. La città romagnola, infatti, seppe costituirsi come centro ceramico di primaria importanza sin dal Medioevo. Sia per la natura del terreno ricco di argille adatte alla lavorazione, sia per la posizione geografica che la rendeva un punto di incontro tra la cultura padana e quella toscana. GUIDA ENOGASTRONOMICA Infine, uno degli aspetti imperdibili del viaggio in Romagna è sicuramente l’enogastronomia. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta tra visite a cantine, degustazioni, soste in ristoranti e trattorie con cucina tipica.

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NE SCEGLIAMO ALCUNI: Agriturismo cantina Gallegati, vicino a Faenza, sulle splendide colline attorno al Monte Coralli, che ha ottenuto la certificazione biologica per grandi vini Sangiovese e Albana.

Randi a Fusignano, che produce vini di grande corpo e spessore, anche dei vitigni autoctoni Centesimino e Famoso, esportati in tutto il mondo.

Osteria ristorante La Baita nel centro di Faenza con la cucina tipica e atmosfera d’antan.

Locanda La Cavallina, una bella struttura che propone camere e appartamenti con piscina, in quella che era un’antica posta di cavalli sulla Via del sale della Romagna. Qui si cena su prenotazione con menù ricercati e una ricca carta di vini.

Tenuta Nasano a Riolo, che serve in tavola vini e prodotti propri, formaggi, sottoli, paste all’uovo.

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F O R D EXP LO R E R Imponente e potente

di Francesco Ippolito

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brido Plug-In è la parola d’ordine di Ford. Dopo Kuga, al progetto di elettrificazione della gamma si aggiunge il grande Suv Explorer Plug-In Hybrid. La guida in modalità elettrica si unisce a un comfort di bordo esclusivo, anche sui percorsi off-road. Explorer è equipaggiato con il potente motore a benzina EcoBoost V6 3.0, abbinato a un motore elettrico (457 Cv totali), un generatore e una batteria agli ioni di litio da

13,6 kWh, che può essere ricaricata tramite una fonte di alimentazione esterna e anche mentre il SUV è in movimento, attraverso la frenata rigenerativa. ELEGANTE E VERSATILE Ford Explorer nella sua imponenza afferma uno stile elegante e ricercato, abbinato a un ineguagliabile comfort di bordo. Lo spazio non manca così come una serie di dotazioni per tutti gli occupanti: cinque

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MASSIMA COMODITÀ E AUDIO PREMIUM Fra le novità introdotte per accrescere il comfort di bordo, sono presenti sedili anteriori climatizzati e riscaldati con regolazione a 10 vie e funzione massaggiante, sedili della seconda fila riscaldati, pad di ricarica wireless, volante riscaldato, vetri oscurati sia per la seconda che per la terza fila e, infine, un sistema audio premium B&O da 980 watt, dotato di quattordici diffusori. UN MOTORE POTENTE Il propulsore Plug-In Hybrid di Explorer offre le prestazioni di un moderno e sofisticato motore a benzina, abbinate all’efficienza di un veicolo elettrico. Ciò gli consente di sprigionare ben 457CV con una straordinaria coppia di 825Nm. Explorer conquista così il trofeo di veicolo ibrido più potente della gamma Ford. Il motore elettrico consente all’Explorer di muoversi “a emissioni zero” fino a 48 Km, mentre il conducente può scegliere come sfruttare al meglio l’autonomia delle batterie, scegliendo tra le modalità EV Auto, EV Now, EV Later e EV Charge. Quando le batterie scendono al livello minimo di carica, l’Explorer si pone automaticamente in modalità EV Auto, combinando la potenza

punti di alimentazione da 12 volt, due porte USB per la prima e seconda fila, 12 portabicchieri e il climatizzatore automatico Tri-Zona. Explorer è anche un campione di versatilità e propone il sistema Easy Fold Seats con Power Raise per l’abbattimento dei sedili della terza fila e il nuovo sistema Easy Fold Seats per quelli della seconda, consentendo di ricavare una superficie di carico perfettamente piana di 2.274 litri. Gli interni offrono 123 litri di spazio di carico all’interno della cabina, dove gli occupanti di tutte e tre le file possono agevolmente riporre oggetti personali.

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del motore a benzina con quella del motore elettrico, usando l’energia recuperata e ottimizzando così i consumi con valori da 2,9 a 3,1 litri per 100 Km ed emissioni di Co2 comprese tra 66 e 71 grammi di Co2 al Km. Per caricare completamente la batteria da una fonte di alimentazione esterna a 230 volt occorrono meno di 5 ore e 50 minuti, mentre, tramite il Ford Connected Wallbox o presso una stazione di ricarica pubblica, sono necessarie meno di 4 ore e 20 minuti.

ruote e lo stato del rimorchio, per determinare se sia necessaria una trazione addizionale. Come la trasmissione automatica a 10 rapporti, che ottimizza ulteriormente l’efficienza del carburante, così l’Intelligent All-Wheel Drive utilizza algoritmi di apprendimento adattivi per modulare continuamente le reazioni del SUV garantendo prestazioni entusiasmanti e raffinate. La tecnologia Terrain Management System dell’Explorer Plug-In Hybrid consente di adattare la loro esperienza di guida ai vari tipi di strada e alle condizioni atmosferiche, attraverso le modalità di guida selezionabili (Normal, Sport, Trail, Slippery, Tow/Haul, Eco e Deep Snow and Sand). Ognuna di esse ha una rappresentazione grafica dedicata sul display da 12.3’’ situato sul cruscotto. L’Hill Descent Control, il sistema di ausilio alla discesa, supporta la guida in condizioni di off-road.

INARRESTABILE La doppia motorizzazione dell’Explorer PlugIn Hybrid consente di combinare tra loro la potenza e la coppia di entrambi i motori, sia on che off-road; riuscendo, inoltre, a trainare agevolmente box per cavalli, barche o rimorchi di grandi dimensioni fino a 2.500 kg. L’evoluzione della tecnologia Intelligent All-Wheel Drive analizza ogni 10 millisecondi gli input provenienti da molteplici sensori, inclusi la velocità del veicolo, la temperatura dell’aria circostante, lo slittamento delle

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isale alla seconda metà del Settecento circa il momento in cui la mano dell’uomo è stata affiancata, e poi in parte sostituita, dalla macchina. Ad un certo punto, l’essere umano ha creduto che l’industria – e tutte le conseguenti innovazioni – costituisse la risposta perfetta a un’esigenza di progresso che neanche sapeva di avere. E così a fine Ottocento le Esposizioni Universali sono diventate il luogo in cui esporre con orgoglio quelle piccole rivoluzioni di cui l’uomo andava tanto fiero. Era iniziata l’era del prodotto seriale, figlio di quel sistema produttivo che Ford inaugurò nei primi del ‘900 e che dall’automobile si sarebbe poi esteso a qualsiasi oggetto riproducibile. Massima resa – almeno in termini numerici – ottenuta con il minimo sforzo del singolo, grazie a un’efficiente catena di montaggio. È in questo momento, forse, che la quantità ha iniziato piano piano a prendere il sopravvento sulla qualità. Questo non significa che i prodotti industriali fossero necessariamente scadenti. Ciò che innegabilmente si perse però – in quella che non a caso Walter Benjamin ha definito era della riproducibilità tecnica – è quella forma di magia che caratterizza ogni oggetto unico, proprio perché irripetibile. In questo scenario di massificazione, guidato dall’affermarsi della società dei consumi, non ha comunque smesso di esistere un mondo a sé stante, in cui l’artigianato e il lavoro manuale continuavano ad evolvere e a

di Beatrice Anfossi

L 'AU R A P E R D U TA

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tramandarsi, portando con sé una tradizione preziosissima. Ed ecco che questa tradizione si rivela inestimabile, proprio oggi che il mondo sta cercando di rallentare e trovare un nuovo ritmo, valorizzando nuovamente ciò che per un momento aveva trascurato. I prodotti industriali continuano e continueranno a svolgere un ruolo centrale nelle nostre vite. Ma sempre più di frequente si assiste alla riscoperta di tutta una serie di mestieri e arti tradizionali, di prodotti dimenticati e ritrovati – come i famosi grani antichi – e

di approcci che non vedano nell’oggetto un semplice bene da consumare ma un qualcosa da vivere, preservare, riciclare o reinventare. In questo senso il lusso è andato nella direzione dell’unicità: è il possedere qualcosa che non tutti possono avere, non per forza perché troppo costoso, ma perché unico nel suo essere creato da un essere non perfetto e mai uguale a sé stesso, non replicabile. L’artigianato conferma di possedere ancora un valore inestimabile. Lo dimostrano le scelte compiute ultimamente da alcuni

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dei più grandi brand del lusso, da Kering (Balenciaga e Furla) a LVMH (Fendi): i gruppi francesi hanno deciso di investire in Italia, aprendo stabilimenti nel distretto toscano della pelletteria di lusso, da sempre grande vanto della filiera italiana degli accessori e dell’abbigliamento. Una delle peculiarità del lavoro artigianale, però, risiede proprio nel fatto che non necessita per forza di grandi infrastrutture per esprimersi. Se da un lato può costituire un valore aggiunto per l’industria, dall’altro rivela la sua essenza nelle realtà piccole e a misura d’uomo. Qui in particolare si ritrovano cura del dettaglio, attenzione al processo di creazione, rifinitura e personalizzazione, tutti elementi in grado di rendere ogni oggetto unico. A questo si aggiungerà poi il lusso dato dalla scelta di materiali pregiati e da procedimenti e lavorazioni altamente raffinate.

La sensazione sarà quella di entrare in contatto con qualcosa di irripetibile e per questo da avere assolutamente. Sposando questa filosofia è nato Flair, approdato a Milano con una replica fedele del negozio fondato a Firenze nel 1998 dall’estro di Alessandra Tabacchi e Franco Marinotti, che accoglie pezzi unici per l’interior frutto di una costante ricerca condotta in giro per il mondo. Il principio di base prevede di accostare manufatti, tessuti, dettagli di varie epoche per dar loro una nuova vita. Gli oggetti del passato in questo modo rinascono, unici e irripetibili: carichi di un insieme di significati che niente di ciò che è del tutto nuovo potrà mai trasmetterti.

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E se l’idea di lusso si incarna perfettamente in questi oggetti abbandonati e poi rinati, non si discostano troppo neanche le creazioni originali e moderne firmate da Michele Bonan, che con Flair ha realizzato una capsule collection curata nei minimi dettagli. L’artigianato toscano ha potuto così dare sfoggio di tutte le proprie capacità, nella lavorazione di un legno pregiatissimo come il noce europeo, oppure nelle rifiniture perfettamente eseguite e nella cura con cui viene trattata la pelle. In questo caso, il valore viene attribuito dall’altissima specializzazione di chi li ha realizzati, una prerogativa rimasta ormai a poche mani artigiane nel mondo. Un lusso che diventa prêt-à-porter, proprio perché riprodotto e riproducibile, ma che riesce a conservare quell’aura che Walter Benjiamin credeva irrimediabilmente perduta. Ed è proprio questo lo scopo che noi ci siamo ripromessi con questa rivista, cercare quella magia anche laddove sembrerebbe più inaspettata.

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Spazi, idee, business in un contesto esclusivo

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MODA CIRCOLARE La seconda vita degli scarti

di Sara Radegonda

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rmai è chiaro, non si può sfuggire all’imperativo della sostenibilità. All’inizio degli anni Novanta le tematiche ambientali hanno iniziato ad interessare anche settori fino a quel momento considerati marginali alla questione. Dal 1992, anno del Summit della Terra, nelle pubblicazioni di moda si è dato sempre più spazio ai temi green, portandoli all’attenzione di un pubblico sempre più ampio. Un processo di sensibilizzazione lento e tortuoso che, soprattutto negli ultimi mesi, complice anche la crisi causata dalla pandemia in corso, ha portato la moda a ripensare la lista delle priorità, provando a convertirsi alla nuova etica. Nonostante possa sembrare un trend strettamente legato alla contemporaneità, il concetto di "sostenibilità” trova origine nella necessità istintuale dell’essere umano di considerare ogni risorsa accanto a sé come preziosa e unica. Di conseguenza quindi già predisposta in natura al suo stesso riuso e, eventualmente, al suo riciclo. La necessità di ripensare questo settore così sviluppato, soprattutto nei paesi industrializzati, deriva dalla consapevole quantità di inquinamento prodotto dalle industrie stesse. L’urgenza di cambiamento si manifesta proprio nel momento in cui si apprendono dettagli specifici in merito ai processi di produzione

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del settore. Ad esempio, per coltivare 1 kg di cotone sono necessari 11.000 litri di acqua, a cui si somma lo spreco di materiali, la difficoltà nel garantire il riciclo di una massa così grande di potenziali rifiuti e l’impiego intensivo di risorse naturali. Senza tralasciare le politiche di sfruttamento del personale, dettate dai folli ritmi delle tendenze stagionali e dal sistema conosciuto come fast fashion. Tutti questi elementi compositivi fanno della moda, responsabile del 10% dell’inquinamento globale, uno dei settori più insostenibili al mondo,

secondo solo a quello del trasporto aereo. Oltre a parlare di sostenibilità e di energie rinnovabili, l’attenzione è rivolta anche all'economia circolare. Si passa, quindi, da un processo economico lineare con un ciclo materiale-prodotto-rifiuto ad un ciclo chiuso. Un’economia che riduce al minimo le risorse impiegate per la produzione e massimizza l’utilizzo del prodotto e il recupero dei materiali. A essere cambiata è anche la figura del consumatore, sempre più sensibile e consapevole rispetto alle tematiche di interesse ambientale e sociale. Un profilo

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nuovo di green consumer più esigente, attento al rapporto qualità-prezzo e alla ricerca di maggiori garanzie nella qualità intrinseca del prodotto e tracciabilità della filiera. L’attributo di sostenibilità viene, quindi, utilizzato dalle agenzie di comunicazione per creare un rapporto di fiducia con il cliente. Il desiderio del compratore si rafforza nel momento in cui il potenziale acquisto si combina con un progetto di sostenibilità delle sue componenti. Pertanto è evidente che se un brand rende manifesta la sua anima eco-friendly, sarà maggiormente capace di intercettare la sensibilità del pubblico che ne sposa gli ideali. In molti casi, però, il rischio è che si tratti solo di greenwashing, ovvero la pratica ingannevole di dichiarare totalmente sostenibile un capo - o un prodotto - che in fondo non lo è, per almeno una o più parti della catena di produzione che l’ha portato in negozio (dal materiale di base, alla persona che l’ha realizzato, fino alla campagna di comunicazione). In antitesi esistono brand che sono, invece, riusciti nell’intento di essere realmente sostenibili, nella totalità di ogni aspetto compositivo, portando avanti la battaglia dell’autenticità. Uno degli aspetti

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forse più interessanti del tema sostenibilità è quello dello scarto, che diventa il punto di partenza più che il risultato finale. È proprio intorno attorno a questo concept, ovvero dare nuova vita all’avanzo di produzione, che si sono, recentemente, sviluppati alcuni progetti innovativi da parte di brand che hanno voluto intraprendere una delle tante possibili vie sostenibili. Orange Fiber, Progetto Quid e Freitag hanno donato nuova vita agli scarti, restituendo al pubblico prodotti di alta qualità, che costituiscono una perfetta combinazione tra rispetto per l’ambiente, versatilità e ricercatezza estetica. Orange Fiber nasce dalla profonda conoscenza e creatività delle sue fondatrici, Adriana Santanocito e Enrica Arena, in quanto a materiali naturali. Le radici del progetto sono riconducibili, come suggerisce il nome, alle arance. Consapevoli delle consistenti quantità di sottoprodotto che l’industria di trasformazione agrumicola produce annualmente in Italia, le menti del progetto Orange hanno brevettato un processo innovativo. Dare una nuova vita agli scarti agrumicoli creando, come per magia, un elegante tessuto di tendenza.


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Il progetto ha iniziato a farsi conoscere al grande pubblico soprattutto grazie a due collaborazioni importanti firmate da Orange Fiber con Salvatore Ferragamo e con il brand di fast fashion svedese H&M. In una direzione analoga si è sviluppato il Progetto Quid, lanciato dall’omonima azienda che, oltre al lato sostenibile, punta anche sull’aspetto sociale. I capi di abbigliamento e gli accessori sono creati in edizione limitata, in quanto le collezioni prendono vita da eccedenze di tessuti di qualità, altrimenti inutilizzati, messe a disposizione dalle più prestigiose aziende di moda e del settore tessile, grazie a una rete di brand partner locali rigorosamente selezionati. Il progetto prevede un “Quid”

in più, infatti nasce dalla volontà di sperimentare il reinserimento lavorativo di donne con trascorsi di fragilità, che trovano attraverso questo impiego, creativamente stimolante, un’occasione di riscatto. Dalla ricerca di una borsa funzionale, impermeabile e robusta per contenere i loro progetti è nato invece il brand Freitag. Due fratelli svizzeri, Markus e Daniel, Ispirati dal traffico dei coloratissimi mezzi pesanti che tutti i giorni rombavano sulla tangenziale di Zurigo davanti alla loro casa, hanno creato una Messenger Bag utilizzando vecchi teloni di camion, camere d’aria usate e cinture di sicurezza. Con F-ABRIC, nel 2014 Freitag ha potuto scommettere su una nuova materia prima: un tessuto sviluppato interamente da loro, ottenuto a partire da fibre vegetali e prodotto nel raggio di 2500 chilometri da Zurigo. Senza rinunciare alla resistenza

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e alla sostenibilità, la borsa richiede un impiego minimo di risorse, risultando completamente biodegradabile. “Pensiamo e agiamo in cicli”, questa è la filosofia alla base di Freitag. Se fin dalla sua nascita l’azienda si è votata all’economia circolare, dal 2016, anche la sua struttura lo è: è stata infatti abolita la classica struttura gerarchica, per introdurre un modello organizzativo di stampo “olarchico”, rendendo Freitag un brand sostenibile sia in termini ambientali che di umanità. Si conferma, quindi, la teoria per cui nei momenti di necessità, la creatività produce soluzioni spesso impensabili. Dalle arance nascono i tessuti e dai camion le borse… per abiti e accessori che profumano di eterno ritorno.

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CHARLES BAUDELAIRE L'inventore dei viaggi artificiali

di Sarah Emily Myers

Docente presso Columbia University

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l senso del viaggio in questo 2020 è profondamente cambiato. Terminata la quarantena abbiamo ripreso a viaggiare, anche se con maggiore cautela e a distanze mediamente più brevi, ma durante il picco pandemico, questa primavera, quando eravamo tutti chiusi in casa, molti di noi hanno trovato conforto viaggiando con la mente, con l'immaginazione, attraverso i ricordi, oppure con un iPhone. Ci troviamo immersi nell'ambiente virtuale: gli abbonamenti a Netflix, Amazon Prime, DisneyPlus ed altri servizi di streaming sono di molto aumentati. Più che mai, il viaggio attuale è virtuale. Questa tendenza tipicamente moderna a ricorrere alla realtà virtuale dei computer per sfuggire alla realtà, si trova in un luogo inconsueto: la poesia francese ottocentesca di Charles Baudelaire. Grazie soprattutto alla sua famosa poesia L’Invitation au voyage (Invito al Viaggio), Baudelaire è conosciuto come un poeta del viaggio, della fuga e del luogo esotico e lontano. Questi sono alcuni dei grandi temi della raccolta Les Fleurs du mal (I Fiori di Male), il suo capolavoro. Eppure questo parigino non lasciò quasi mai la sua città natale, e prima della pubblicazione della raccolta, lo fece una volta sola: nel 1841, all’età di 20 anni, su un nave partendo verso l’India.

A causa di un naufragio, Baudelaire non arrivò mai a destinazione e, dopo quattro mesi di viaggio, passò solo un mese sull’isola della Riunione prima di ripartire per Parigi. Questo suo breve soggiorno sull’isola è rimasto sempre con lui. La sua opera è piena di immagini esotiche raccolte nei tropici.

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Parfum exotique Quand les deux yeux fermés, en un soir chaud d'automne, Je respire l'odeur de ton sein chaleureux, Je vois se dérouler des rivages heureux Qu'éblouissent les feux d'un soleil monotone;

Quando, ad occhi chiusi, in una calda sera d'autunno, Respiro l'odore del tuo seno ardente, Vedo svolgersi spiagge felici Nei fuochi abbaglianti d'un sole monotono; È un'isola indolente dove la natura mostra Alberi strani e frutti saporiti, Uomini dal corpo snello e vigoroso, Donne dallo sguardo schietto ch'è un incanto.

Une île paresseuse où la nature donne Des arbes singuliers et des fruits savoureux; Des hommes dont le corps est mince et vigoureux Et des femmes dont l'oeil par sa franchise étonne.

Sulla scia del tuo odore vado verso climi affascinanti, Verso un porto stipato d'alberature e di vele Ancora affaticate dai flutti del mare,

Guidé par ton odeur vers de charmants climats, Je vois un port rempli de voiles et de mâts Encor tout fatigués par la vague marine,

Mentre il profumo di verdi tamarindi, Che circola nell'aria gonfia le mie narici E si fonde nella mia anima col canto dei marinai.

Pendant que le parfum des verts tamariniers, Qui circule dans l'air et m'enfle la narine, Se mêle dans mon âme au chant des mariniers.

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Come si nota in questi versi, il passaggio verso il porto lontano non è reale - il poeta va ‘sulla scia del tuo odore,’ cioè attraverso il profumo femminile. In realtà, non esce mai dal suo appartamento, e la sua partenza è una fantasia. Questa situazione è indicativa di tutto l’immaginario baudelairiano: il lontano esotico è onnipresente sebbene sempre virtuale, composto di ricordi e sogni, stimolato da un’esperienza sensuale in quella che chiama altrove “l’immonde cité” (la città infame). Quindi vediamo in Baudelaire un appassionato come noi del viaggio immaginato, forse anche un’ispirazione

per questa stagione, che ha visto una seconda ondata del coronavirus con una recrudescenza della pandemia. Ci rivolgiamo quindi alla sua poesia per viaggiare con lui ai tropici sognati e quindi per alleviare la nostra solitudine o la nostra noia, se ancora una volta non siamo in grado di lasciare le nostre case? In alcune poesie come Profumo esotico sì, però nel complesso il ritratto del poeta di questa tendenza (di partire virtualmente) si rivela come più complessa. I Fiori del Male si concludono con la poesia Le Voyage (Il Viaggio), che presenta una visione pessimistica di questo gusto infinito per lo svago e la fuga mentale.

Le Voyage Notre âme est un trois-mâts cherchant son Icarie ; Une voix retentit sur le pont : "Ouvre l'oeil !" Une voix de la hune, ardente et folle, crie : "Amour... gloire... bonheur !" Enfer ! c'est un écueil !

L'anima è un veliero che cerca la sua Icaria; Una voce sul ponte: «Occhio! Fa' attenzione!» Dalla coffa un'altra voce, ardente e visionaria: «Amore... gioia... gloria!» È uno scoglio, maledizione!

Chaque îlot signalé par l'homme de vigie Est un Eldorado promis par le Destin ; L'Imagination qui dresse son orgie Ne trouve qu'un récif aux clartés du matin.

Ogni isolotto avvistato dall'uomo di vedetta È un Eldorado promesso dal Destino; Ma la Fantasia, che un'orgia subito s'aspetta, Non trova che un frangente alla luce del mattino.

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Qui il desiderio di ‘partire,’ o mentale o reale, si rappresenta in ultima analisi come fallace e persino maledetto: “Amer savoir, celui qu’on tire du voyage !” (“Dai viaggi che amara conoscenza si ricava!”). Una conclusione assai sorprendente da questo consumato amante dell’esotico e dell’immaginario! l Covid-19 ha sicuramente accelerato la virtualizzazione delle nostre vite. Eppure in Baudelaire troviamo un poeta che già all’alba della nostra modernità industrializzata esaminò questo strano debole per la fuga mentale con occhio moderato e critico. Questa poesie ci invita ad esaminare più seriamente la natura sempre più virtuale della nostra vita e delle nostre bellezze. Qualcosa da fare durante la prossima quarantena, oltre allo streaming di Netflix…

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di Sara Radegonda

LESS IS MORE Bellezza su misura 78


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entirsi belli non è mai stato importante e insieme complesso come oggi. La bellezza è un ideale dalle mille sfumature e interpretazioni, difficilmente incasellabile all’interno di regole precise. Se da un lato si sottrae allo scorrere del tempo, per diventare a suo modo eterna, dall’altro si sviluppa in divenire, sulla scia dell’alternarsi degli eventi. Resta indubbio che i canoni estetici esistono, determinando i parametri fisici della bellezza propria di una determinata epoca, ma è altrettanto vero che questi perdono totalmente il loro potenziale nel momento in cui a mancare è il carattere. La bellezza non è, per forza, sinonimo di giovinezza; non ha tempo, proprio perché è a suo modo diretta conseguenza della personalità. Il fascino è in realtà più legato alla profondità individuale che alla superficie. Il significato di bellezza espande all’estremo i propri confini per essere riassunto, in modo paradossale, in tre parole: Less is more, che diventa lo slogan del progetto Beauty Call Plus, un’idea nata da una profonda indagine sulla bellezza e sulle sue infinite sfaccettature. Quel meno che diventa più non vuole attribuire un senso di sottrazione bensì ricercare, attraverso la singola personalità, il miglior modo di esprimere il proprio senso di bellezza. “La bellezza nasce da un fattore intimo e diventa strumento vincente se prima si raggiunge la consapevolezza con sé stessi e con il proprio modo di essere” spiega Matteo Perin, fondatore

del progetto insieme a Annelie Strater. Lei pragmatica, lui romantico. Sensibili all’arte, comunicano in modo diverso, ma hanno trovato una loro unicità. Ad accomunarli è un ampio bagaglio di esperienza nel mondo della bellezza, con riconoscimenti a livello mondiale. Annelie, svedese di nascita, ha vissuto alcuni anni in Giappone, dove ha collaborato con l’azienda leader del settore Shiseido, sviluppando la sua passione per il make up. Un giro intorno al mondo l’ha poi condotta in Italia, un mercato florido in cui lei per prima ha portato la pratica del lash extension (estensione ciglia), collaborando con note influencer. Poi l’incontro con Matteo, make up artist di grande fama che ha ricevuto la sua prima e importante consacrazione da Giorgio Armani: è stato scelto infatti come uno dei professionisti per il lancio della sua linea di cosmetici. Beauty Call Plus è un’idea che Matteo definisce come un’incontro di “due anime rivolte all’arte, che se hanno la fortuna di incontrarsi riescono a comunicare qualcosa di speciale”. La riflessione è stata il punto di partenza per un progetto che non vuole offrire semplici servizi, ma “consulenze sartoriali”, pensate e modellate su misura per ogni cliente. Tutte le differenti declinazioni del mondo beauty vengono offerte dal team di professionisti accompagnate da un percorso educativo, in cui il cliente avrà la possibilità di ricercare se stesso e i propri punti di forza, per poi proseguire con l’esaltazione e la valorizzazione di questi.

“La bellezza nasce da un fattore intimo e diventa strumento vincente”

Credit: Beauty Call + #beautycallplus | @beautycallplus www.beautycallplus.com

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"Siamo educatori. A differenza degli abituali professionisti che trovi sul mercato, cerchiamo di guidare il pacchetto clienti, attuale e futuro, in un percorso divertente, coinvolgente, attraverso servizi, nati dal know how, in modo da stimolare il pubblico a sviluppare, in modo autonomo, il proprio percorso di crescita nell’ambito della bellezza” spiegano le due menti creative all’origine del progetto. L’unicità di Beauty Call Plus risiede nell’opportunità di intraprendere questa esperienza sia negli spazi dedicati (a Milano in Via Montenapoleone 14 o a Monza nel Beauty Concept Club) sia a domicilio. Il servizio “a casa tua” diventa prerogativa delle metropoli, la cui frenesia e i tempi ristretti spingono alla ricerca della comodità. Oltre al vantaggio in termini di comfort, prenotare una consulenza a casa propria contribuisce a creare una situazione in cui si è maggiormente a proprio agio. Il cliente sarà così più disposto al dialogo,

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permettendo di creare una consulenza con un risvolto concreto e insieme psicologico ed educativo, che focalizza l’attenzione non tanto sul quanto, ma sul come. La sinergia che lega i due maestri beauty permette di entrare in contatto positivamente con i clienti e creare con loro un’esperienza che diventerà non solo un bel ricordo, ma un rituale a cui non si potrà più rinunciare. “Vogliamo creare un’esperienza che diventi un percorso, quasi come scrivere un libro. Da qui è nata l’idea della collaborazione con la rivista Luxury Prêtà-porter”. Il giornale diventerà la voce narrante del progetto, per creare un viaggio attraverso la bellezza, descrivendo la sensazione artistica di piacevole benessere scaturita dall’incontro con i clienti. Beauty Call Plus è un qualcosa di estremamente diverso ed esclusivo, nato da due spiriti che hanno lo stesso professionale artistico e che amano la bellezza, in tutte le sue forme. E sono pronti ad entrare nelle vostre case per insegnarvi tutti i segreti per valorizzare al meglio le vostre unicità.

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L AT T E T R I C O LO R E Fra tradizione e nuove sfide

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di Ildebrando Bonacini

l latte italiano ha fatto molta strada. Una strada che si snoda attraverso scene e paesaggi che raccontano la filiera lattiero-casearia nazionale e i luoghi dove vengono prodotti e consumati i più pregiati derivati del latte italiano e invita tutti a continuare il viaggio che rappresenta un percorso ricco di contenuti, di profumi e di sapori alla scoperta delle varietà gastronomiche italiane che nascono da una materia che è prima per eccellenza.

UN IMPORTANTE SETTORE ECONOMICO Ma il latte da cui prende il via una complessa filiera lattiero casearia ha anche un importante significato economico per il nostro paese: dall’allevamento alla trasformazione, fino alla commercializzazione e poi all’export. La filiera lattiero casearia italiana vale circa 16 miliardi di euro l’anno per il sistema paese (di cui 3,5 di esportazioni). Rappresenta, perciò, il primo comparto agroalimentare nazionale per valore. La produzione complessiva di latte è di 12 milioni di tonnellate, di cui il 50% circa destinato alla produzione di formaggi DOP e l’11% al consumo come latte fresco. Nelle principali DOP casearie la leadership va alle cooperative: 70% nel Parmigiano Reggiano e 63% nel Grana Padano; altissima anche la presenza di cooperative tra i produttori di Asiago DOP (65%) e del Pecorino Romano DOP (60%). Sostenere il sistema lattiero caseario, in un momento non facile anche per la situazione dettata dall’emergenza Covid-19, significa tutelare un settore strategico dell’economia nazionale. Un settore che può avere un forte impatto positivo sulla ripresa una volta

OGNI REGIONE HA LE SUE SPECIALITÀ Cosa sarebbe l’Italia senza Parmigiano Reggiano e il Grana Padano? Senza la mozzarella o il Provolone? Il Gorgonzola, il Taleggio, il Caciocavallo, l’Asiago, il Pecorino, solo per citare alcuni tra i nostri formaggi più famosi e conosciuti. Cosa sarebbero le nostre campagne senza le stalle e le nostre montagne senza le malghe? Il mondo lattiero caseario italiano rappresenta una parte essenziale della nostra identità. L’esperienza del casaro e la sapienza degli allevatori sono una parte importante della nostra cultura. Mestieri millenari custodi di tradizioni. Ma sempre in evoluzione anche in ragione dei cambiamenti della società. Oggi impegnati su temi quali la sostenibilità, il benessere animale, la sicurezza alimentare e la tracciabilità.

Credit: Verde latte Rosso #verdelatterosse | @verdelatterosse www.verdelatterosso.it

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attraversata la crisi. Ciascuno di noi, in quanto consumatore, può contribuire a questo risultato attraverso piccoli gesti quotidiani. UN SISTEMA VIRTUOSO CHE CREA BENESSERE DIFFUSO Non tutti sanno che ogni dieci litri di latte, sette in media sono prodotti da una cooperativa. Le realtà sociali nella filiera lattiero-casearia italiana sono infatti una componente maggioritaria sia per la produzione che per la trasformazione in formaggi DOP. Circa seicento imprese, cui aderiscono più di 20 mila stalle. Il sistema cooperativo rappresenta un modello economico virtuoso, che promuove una più equa distribuzione del valore alla base sociale e quindi agli stessi agricoltori. Non a caso le regioni dove il sistema cooperativo è più sviluppato sono anche quelle in cui il benessere è maggiormente diffuso. Un altro aspetto positivo del modello cooperativo, in particolare nel settore agroalimentare, è che le decisioni vengono prese democraticamente dagli allevatori associati. Quindi da realtà agricole profondamente radicate nel proprio territorio, del quale conoscono le esigenze e le prospettive future. Anche in questo caso scegliendo il latte fresco e i formaggi italiani si può aiutare a creare benessere diffuso in un momento non facile per il mondo agricolo e per la società intera. FAKE NEWS E ITALIAN SOUNDING Sono due i fenomeni relativamente nuovi, ma ormai ben noti, che danneggiano in modo grave tutto quanto di buono è contenuto nella nostra tradizione e nel nostro “saper fare” all’interno del settore lattiero-caseario, ma non solo. Il primo è trasversale a pressoché tutte le attività. Per ideologia, convinzione o più prosaicamente per mero interesse – e grazie alla grande facilità di comunicazione, oggi alla portata di tutti attraverso i social

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vengono spesso attaccati per presunti danni alla salute, in realtà puntualmente smentiti dalla maggior parte degli esperti medici e nutrizionisti. Esiste poi un secondo fenomeno, smaccatamente commerciale, definito Italian Sounding, per cui i prodotti principali dell’agroalimentare italiano vengono “copiati” e riprodotti in altri paesi e poi etichettati con nomi di fantasia che richiamano i nomi originali. È stato stimato che questo fenomeno vale tra i 60 ed i 100 miliardi di euro. Denaro che viene sottratto ai prodotti originali e a chi li produce, quindi anche al nostro Paese. Da qui dunque la volontà di una campagna in grado di tutelare e valorizzare questo patrimonio unico al mondo, mettendolo al centro proprio di uno dei simboli nazionali più importanti e carichi di valore: il Tricolore. Il latte prodotto in Italia da circa un anno infatti, non è più solo bianco: è verde, latte e rosso. Si tratta di una bella iniziativa dell’Alleanza delle Cooperative Agroalimentari volta a sottolineare l’eccellenza del latte italiano, che dà vita a oltre 400 tipologie di formaggi, di cui 53 DOP, che fanno del nostro paese il leader mondiale della produzione casearia di qualità. Tutta una serie di eccellenze che non sarebbero tali senza una materia prima di qualità: il latte prodotto nel nostro Paese, per un Made in Italy garantito lungo tutta la filiera.

Il Presidente di Alleanza Cooperative Agroalimentari Giorgio Mercuri sottolinea “il ruolo di primo piano svolto dalla cooperazione che si rende ancora una volta protagonista di un’importante azione a difesa del Made in Italy, facendosi promotrice di un progetto finalizzato a valorizzare un’intera filiera produttiva. Il settore lattiero caseario cooperativo rappresenta – ha ricordato Mercuri - circa 700 imprese a cui aderiscono circa 27.500 stalle che producono circa il 70% della materia prima nazionale, ovvero circa 7 milioni di tonnellate di latte e quindi contribuisce al sistema lattiero caseario nazionale con un valore economico di circa 7 miliardi di euro che corrisponde al 50% del fatturato complessivo e un valore dell’export che ammonta a circa 560 milioni pari al 45% del valore totale dell’export dei formaggi”.

media – è possibile inondare la rete di informazioni vere o presunte tali con la certezza di trovare sempre qualcuno che dia loro adito. Un fenomeno, questo, che da anni ormai è oggetto di ampi approfondimenti anche da parte di psicologi ed esperti della comunicazione. Il fatto è che latte e derivati

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G I N LUXU RY S E L E C T I O N La riscoperta delle botaniche

di Cristina Occhinegro

Engine è il gin 100% biologico. Nasce nelle Langhe, in Piemonte, terra di antiche tradizioni, dove un virtuoso rimedio naturale a base di salvia e limone veniva usato come “elisir di felicità”. Ha un carattere deciso dove i profumi balsamici del ginepro sono completati dalle fresche note delle scorze di limone e dall’intenso profumo di salvia su un elegante sottofondo floreale.

Ginarte è il premium gin italiano dedicato al mondo dell'arte, un dry gin versatile e raffinato, perfetto per la miscelazione con i suoi aromi e il gusto equilibrato, fra i botanicals utilizzati sono state selezionate alcune piante che con l’arte hanno un legame particolare. Elementi come la nepitella, il cartamo, la reseda odorata, il guado di Montefeltro e la robbia, erano infatti usati per la creazione di pigmenti colorati dai più importanti pittori del Rinascimento. Quest’anno Ginarte ha dedicato la sua etichetta alla famosa artista ed icona Frida Kahlo.


WINE&SPIRITS

L’inconfondibile DNA del Gin Mediterraneo è rafforzato nella nuova edizione dai due nuovi ingredienti, limoni di Capri e bergamotto della Penisola Sorrentina, che si aggiungono in distillazione alle botaniche proprie di Gin Mare - oliva Arbequina, basilico dell’Italia, rosmarino della Grecia, timo della Turchia, agrumi della Spagna, ginepro, coriandolo e cardamomo - creando un distillato dal sentore agrumato, fresco e suggestivo che interpreta perfettamente l’essenza del Mediterraneo.

Unico al mondo nella sua specie, il dry gin delle distillerie Roner utilizza solo mele Kiku dell’Alto Adige. Tra le botaniche utilizzate c’è un mix di erbe mediterranee ed alpine che vanno dal ginepro appena colto, alla lavanda, alla cannella. Tutte queste sono in grado di esaltare la mela ed il risultato è sorprendente: il suo gusto esotico, accompagnato dalla dolcezza, suscita infatti emozioni mai provate prima.

Gin Giusto è un london dry gin realizzato in Toscana utilizzando esclusivamente bacche di ginepro del Chianti. Quello che colpisce subito è il profumo di ginepro toscano, che si sposa con la piccantezza del coriandolo e del pepe nero. Tra le note degustative, inoltre, si possono apprezzare l’aromaticità antiossidante dell’angelica, il gusto dolce e amaro della liquirizia e quello degli agrumi, che dona freschezza al gin.


DA NORD A SUD

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