Vita nascente

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DA GIOVANNI SEGANTINI A VANESSA BEECROFT


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DA GIOVANNI SEGANTINI A VANESSA BEECROFT

Immagini della maternitĂ nelle collezioni del Mart

A cura di Daniela Ferrari e Alessandra Tiddia


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Maternità: un’idea di natura nella pittura di Giovanni Segantini 9

Alessandra Tiddia

Alma mater e Souvenir d’enfance 39 Daniela Ferrari


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Maternità: un’idea di natura nella pittura di Giovanni Segantini Alessandra Tiddia

“L’arte è amore vestito di bellezza” (G. Segantini)

La scelta del tema della mostra oggi ospitata presso la Galleria Civica G. Segantini di Arco trae spunto dal grande interesse che Giovanni Segantini riserva a questa tematica, a cui si legano molti altri elementi determinanti per la sua ricerca, come la terra, la natura, gli animali, il lavoro, la fatica, la fertilità e la donna. Nella sua pittura, il mistero della maternità, che per l’artista riveste un valore sacrale, si colora di molteplici declinazioni, più o meno gioiose, da Ave Maria a trasbordo alle Due madri, dall’Angelo della vita fino al Castigo delle lussuriose o a Le cattive madri, dipinti destinati a diventare dei topoi iconografici, la cui persistenza figurativa si riverbererà anche nella pittura del ’900. Partendo da una tematica così determinate nell’opera segantiniana la mostra, che si inserisce nell’ambito delle collaborazioni Mart/MAG avviate fra le due istituzioni fin dal 2013, intende suggerire alcune letture dell’idea di maternità: lungo un arco cronologico che parte dalla metà Ottocento per arrivare alla prima metà del XX secolo, l’esposizione vuole indagare i temi della natività e della cura materna, e quindi dell’infanzia, in alcuni degli artisti presenti nelle collezioni del Mart e del MAG.

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L’immagine più classica e al contempo più diffusa della maternità è da sempre quella legata all’immagine religiosa della maternità senza peccato, ovvero alla raffigurazione dell’amore materno per eccellenza, quello della Madonna verso il Bambin Gesù, quasi sempre raffigurato nell’arte occidentale con il modello della Maestà. La posa della Madonna con in braccio il Bambinello anticipa peraltro una declinazione diversa dello stesso tema, quello della Pietà, soprattutto da Michelangelo in poi. Questo modello figurativo annovera esempi illustri, specie nel Rinascimento italiano e riprese ottocentesche come quelle di Natale Schiavoni, che attraverso questo genere creò la sua fama e la sua ricchezza. Apre dunque idealmente e cronologicamente la mostra un suo dipinto raffigurante una dolcissima Madonna, dichiaratamente ripresa dal modello raffaellesco, che osserva con amore il piccolo posto sul suo grembo. La rappresentazione si svolge in un paesaggio altrettanto dolce e sereno, come era nelle corde di questo artista definito non a caso “pittore delle grazie”. Nato a Chioggia nel 1777 1, dopo aver frequentato l’Accademia di Venezia, allievo, assieme a Odorico Politi, di Domenico Fedeli detto Il Maggiotto, fu mandato a Firenze per perfezionarsi nel disegno sotto la guida di Raffaello Morghen. Sviluppò una particolare propensione per i ritratti e, su invito di un amico, si trasferì a Trieste, dove si fece notare per le proprie capacità tra i “commercianti e i ricchi forestieri che gli chiedevano sempre più spesso ritratti in miniatura”. Successivamente si trasferì a Milano fino al 1815, quando venne chiamato a Vienna da Francesco I che lo volle ritrattista di corte. L’incarico si rivelò proficuo: infatti ebbe numerose committenze dall’aristocrazia viennese ed ungherese, che gli richiedevano ritratti in miniatura ma anche dipinti con soggetti femminili raffiguranti Bagnanti e Odalische. Nel 1840 ottenne la cattedra all’Accademia di Venezia e si stabilì a Palazzo Giustiniani, sostenendo una vita da autentico pittore-principe. Morì a Venezia nel 1858. La sua fama e il suo successo a metà dell’Ottocento erano pari se non superiori a quelli di Francesco Hayez, tanto che le sue opere figuravano nelle principali collezioni del Lombardo Veneto e di Vienna. Fra queste anche quella della famiglia Pedrotti Rosmini a Trento, dove il dipinto di Natale Schiavoni raffigurante una Madonna con bambino (1842) si trovava alla fine dell’800. Esso era stato offerto da Antonietta Giacomelli, nipote di Sante Giacomelli, proprietario di Villa Barbaro a Maser, amico dello Schiavoni e gran collezionista di opere d’arte, come dono di nozze, a Clotilde Rosmini che nel 1895 andava in sposa a Giovanni Pedrotti. 1 L. Jevolella, La collezione dei dipinti antichi del pittore veneziano Natale Schiavoni, in “Venezia Arti”, n. 15/16, Venezia 2001/2002

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Natale Schiavoni Madonna con bambino, 1842 Olio su tela, 68 x 84 cm Mart, Deposito Pedrotti - Regazzola

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Come mi ha gentilmente scritto uno dei discendenti, Thomas Regazzola, “da quel momento, la Maternità di Schiavoni ha troneggiato nella camera nuziale di Palazzo Saracini (già Trautmannsdorf-Cresseri) a Trento, fino alla vendita del palazzo, dopo la morte di Clotilde Pedrotti, avvenuta nel 1947”. La tela uscì dal palazzo solo in un’occasione, nel 1905 per poter essere esposta alla mostra di Arte Sacra tenuta a Trento in occasione del XV centenario della morte di S. Vigilio e fu quindi segnalata da Simone Weber nel suo preziosissimo repertorio dedicato alle collezioni e agli artisti operanti in Trentino 3. Una recente pulitura ha rivelato come l’effigie della Madonna sia stata dipinta su una tela già utilizzata precedentemente per una figura barbuta, forse un Cristo. In ogni caso il dipinto di Schiavoni può essere considerato l’emblema di tutta una tradizione iconografica che ha segnato la cultura figurativa occidentale nella rappresentazione dell’amore materno nella sua massima declinazione, quella relativa al Sacro. Sul versante della rappresentazione “profana” della maternità troviamo, invece Primo bagno o Cure materne, il marmo realizzato nel 1878 da Andrea Malfatti4, scultore nativo di Mori, vicino a Trento, di formazione braidense, ma soprattutto interprete plastico di quella stagione dedicata al Verismo. Nel 1872 Malfatti aveva esordito come scultore all’Esposizione di Belle Arti di Milano dove presentava due marmi di soggetto patriottico, Roma liberata e l’Emancipazione, i cui bozzetti in gesso sono oggi conservati al Mart, nel nucleo con più di 200 opere di varie dimensioni, in gesso e terracotta ricevuti dal Comune di Trento nel 1912, in cambio del vitalizio concesso allo scultore fino alla sua morte avvenuta nel 1917. Malfatti fu autore di molti gruppi funebri per i principali cimiteri monumentali, da Milano a Parigi, a Trieste. Nel 1878 aveva partecipato all’Esposizione Internazionale di Parigi, anticipando, con Lacci d’amore, una sinuosità poi propria del Liberty. Egli rappresentò, insieme a Segantini e Prati, il Trentino all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Roma, nel 1883 5, dove espose Schiava ribelle, simbolo del Trentino assoggettato all’Austria e Cure materne, il marmo oggi qui esposto, a testimonianza del suo doppio registro, dedito sia ai temi dell’impegno civile, che a quelli più intimisti e lievi. Con questa raffigurazione Malfatti elabora una scena di genere che aveva avuto una larga diffusione nell’ambito delle rappresentazioni veriste, soprattutto quelle che descrivevano affollati interni popolari con bambini e nutrici, e la isola plasticamente nella figura femminile, nell’atto di bagnare un 2 Catalogo illustrato degli oggetti ammessi alla mostra di Arte Sacra tenuta a Trento in occasione del XV centenario della morte di S. Vigilio, catalogo della mostra, a cura di V. Casagrande, Trento 1905, p. 19 n. 91 (sotto Andrea Schiavone): a p. 19, cat. n. 91. 3 S. Weber, Artisti Trentini e artisti che operarono nel Trentino, Artigianelli, Trento 1933 (seconda edizione accresciuta, 1977, a cura di Nicolò Rasmo), p. 327: “Ha un quadro rappresentante una pregevole Madonna col Bambino, posseduto dalla signora Clotilde Pedrotti in Trento”. 4 Scatti di pietra. Sculture di Andrea Malfatti tra Otto e Novecento, catalogo della mostra a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Tiddia, Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i beni storico-artistici, Trento 2011. 5 Gli artisti trentini all’Esposizione di Belle Arti, Roma i giugno 1883: Andrea Malfatti, Giovanni Segantini, Eugenio Prati, in “Il Raccoglitore”, 5 giugno 1883.

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Andrea Malfatti Primo bagno, (1880) Marmo, 112 x 43 x 36 cm Mart



neonato un poco renitente che le si aggrappa alle vesti, strillante. Il suo virtuosismo narrativo o meglio descrittivo si concentra sui dettagli, sui pizzi, sulle pieghe del vestito, o sul particolare della saponetta e del bacile, rendendoci la verosimiglianza di un brano di vita ma soprattutto la leggiadria della cura materna. Il bagno del bambino è anche il titolo di un bozzetto per un dipinto non terminato di Segantini 6, di cui il disegno di Arco è una valida testimonianza. Quest’opera, appartenente alla prima produzione verista del pittore nato ad Arco nel 1858, si inserisce nell’alveo di quella pittura di genere con scene materne legate ad una realtà quotidiana, che veniva praticata nell’ambiente braidense e in particolare da Gaetano Chierici, al cui Primo bagno 7 esposto a Milano e nell’Esposizione Universale di Vienna nel 1873, sembrano riferirsi sia Malfatti che il giovane Segantini, iscritto ai corsi di Brera, fra il 1875 e il 1877. Fra le prime prove di Segantini dedicate al tema della maternità, raffigurazioni semplici che commossero il pubblico e la critica e che possono essere considerate i precedenti figurativi della Maternità in senso assoluto, quella de L’angelo della vita, spicca un certo numero di tele e disegni realizzati all’inizio degli anni Ottanta, come Babbo è morto (1882) e La culla vuota (1882), in cui il tema della morte infantile assume un particolare rilievo, non solo per le note vicende biografiche (Segantini aveva rischiato di morire da piccolo e aveva perso la madre a sette anni) ma anche perché l’alta mortalità infantile di quegli anni rendeva attuale e vera questa tematica. È con dipinti come Ave Maria a trasbordo (1882), e quindi Il Frutto dell’amore (1889), che l’artista innalza il soggetto verso una religiosità profondamente umana che troverà la sua massima espressione ne L’angelo della vita, dipinto nel 1894, e realizzato in seguito all’elaborazione degli spunti derivanti dalla visione della Maternità di Previati, esposta accanto al suo grande dipinto, Le due madri, alla prima Triennale di Brera nel 1891 8, un’opera “dove il parallelismo fra l’amore materno umano e quello animale aveva assunto il senso di glorificazione della maternità universale” 9. Nel suo quadro Previati aveva annullato qualsiasi riferimento reale per concentrare l’attenzione esclusivamente sul sentimento di amore materno rappresentato dalla figura centrale della Madonna circondata da angeli. Sebbene ispirata allo stesso tema la tela segantiana con Le due madri identificava invece Segantini come il pittore legato ad un verismo pastorale. E mentre l’opera di Previati faceva discutere animatamente, il grande dipinto di Segantini passò senza polemiche, tanto che anche l’uso della tecnica divisionista 6 Oggi il bozzetto si trova al Museo Segantini a Saint Moritz. Cfr. A.P. Quinsac, Segantini, Catalogo generale, 2v., Electa, Milano 1982, n. 552, p. 452. 7 Primo bagno, riprodotto in “L’Esposizione Universale di Vienna”, n. 80, I vol. Sonzogno, Milano 1873 e da me riprodotto in A.Tiddia, Scatti da un’esposizione, in Scatti di pietra 2011, pp.1831, qui p. 20. Su Chierici si veda Gaetano Chierici, 1838-1920, catalogo della mostra a cura di E. Monducci, Tipolitografia Emiliana, Reggio Emilia 1986. 8 Si veda a questo proposito il recente contributo di A.P. Quinsac, La maternità, in Segantini. Ritorno a Milano, catalogo della mostra a cura di A.P.Quinsac, D. Segantini, Mazzotta - Skira, Milano 2014, pp. 234-235. 9 Quinsac 1982, p.456.

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Giovanni Segantini Madre che lava il bambino, (1886-1887) Disegno a matita su carta, 195 x 150 mm Arco, Comune di Arco

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rimase pressochè inosservato, mentre prevaleva nel pubblico invece la percezione del sentimentalismo di un’immagine percepita ancora come verista. Previati aveva spiegato in un articolo apparso sulla “Cronaca di Brera”10che il suo dipinto raffigurava “la prima Madre seduta nel giardino dell’Eden davanti all’albero della vita, adorata da angeli, mentre allatta il suo primo figlio.” Sono parole che evidentemente colpiscono Segantini, che riprenderà letteralmente questo soggetto ne L’angelo della vita, e porrà la prima Madre con il figlioletto sull’albero della vita, ambientando la raffigurazione sullo sfondo di un paesaggio reale, quello delle sue montagne. L’uso di forme reali e vere per rappresentazioni simboliche ma ambientate in scenari assolutamente naturali gli consentono di ottenere una raffigurazione caratterizzata da un “simbolismo fantastico” 11, e di ribadire l’importanza dello studio del vero per l’arte simbolista. Due in particolare sono le opere in cui l’artista ambienterà contenuti ideisti in contesti pittoricamente veristi: Il castigo delle lussuriose, dipinto nel 1891 e L’angelo della vita, realizzato nel 1894, entrambe legate al concetto universale di maternità, riproposto tuttavia in visioni antitetiche. I due dipinti verranno replicati in più versioni su carta dallo stesso Segantini e riprodotti tramite acquaforte in cartolina, o in stampe foto meccaniche (eliogravure) in versioni fac-similari, sia dei dipinti che delle versioni su carta, alcune delle quali sono oggi qui esposte. Fra tutte vale la pena di citare l’incisione acquarellata a china realizzata nel 1900 per la Gesellschaft für vervielfatige Kunst di Vienna da Wilhelm Wörnle12, un incisore di traduzione, che ha restituito opere di Tiepolo, Rembrandt, Bruegel e dunque Segantini, a testimonianza dell’enorme rilevanza che L’angelo della vita ebbe nel corso del primo ’900, in Italia e all’estero. Nirvana: il castigo delle lussuriose Nella primavera del 1891 Il castigo delle lussuriose fu presentato alla grande esposizione internazionale di Berlino 13, con il titolo Nirvana. Il quadro affrontava la raffigurazione delle madri che avevano negato la loro maternità e pertanto erano confinate in una sorta di Purgatorio, che Segantini chiama Nirvana. Nel dipinto sono raffigurate due donne i cui corpi ricoperti solo da un velo leggero che scopre il seno fluttuano senza peso in una landa innevata, al tramonto. Abbandonate al richiamo della natura, pare non avvertano freddo anche se destinate per sempre a quel limbo 10 Quinsac 1982, p. 466. 11 come lui stesso preciserà a Neera in una lettera del 1896. 12 Wilhelm Wörnle (Stoccarda, 1849 – Vienna, 1916). Ringrazio Francesco Parisi per la segnalazione delle vicende biografiche di questo incisore. 13 Internationale Kunst-Ausstellung, Katalog 1891, Verlag des Vereins der Berliner Künstler, Berlino 1891, p. 173.

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Giovanni Segantini All’arcolaio (1891-1893) Matita su carta, 160 x 249 mm Mart

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Riproduzione fotomeccanica di G. Segantini Il castigo delle lussuriose, (1896-1897) Stampa, 27,9 x 38 cm Mart

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Riproduzione fotografica di G. Segantini Le cattive madri, 1894 Stampa fotografica, 35 x 49 cm Mart Riproduzione a stampa di G. Segantini Le cattive madri (sgraffito), (1896-1897) Stampa, 35 x 49 cm Mart

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di ghiaccio. A Berlino il dipinto non ebbe l’atteso successo. Fu premiato con una menzione onorevole, ma questo riconoscimento di second’ordine offese Segantini, il quale cercò, senza successo, di farsi ritirare dalla lista dei premiati 14. Il dipinto fu esposto due anni dopo a Londra (1893) e quindi a Liverpool dove fu acquistato dalla Walker Art Gallery. L’anno successivo, il 1894 (lo stesso de L’Angelo della vita) Segantini dipinse Le cattive madri, in cui sviluppò e concluse il tema del Nirvana riprendendo la stessa ambientazione, lo stesso scenario ghiacciato con una catena montuosa sullo sfondo. Francesca Benini15ha descritto efficacemente il contenuto del dipinto nella sua tesi: “Segantini pone le scena dominante nella parte destra, dove dalla neve si sviluppa una grande betulla, con tanti rami che richiamano quelli a cui si impigliavano i cappelli delle Lussuriose. A sinistra della pianta c’è la figura protagonista, la “mala madre”, una giovane donna coperta fino sotto al seno da un drappo semitrasparente nero, ricco di pieghe e riflessi dorati che lo rendono un elemento fortemente decorativo, poi ripreso nella chioma rosso-bruna, con la quale in parte addirittura si congiunge. La figura appare inarcata e parte integrante dell’albero. Nella parte sinistra del quadro, in secondo piano, ricordando l’organizzazione degli spazi nel primo quadro del Nirvana, si riconoscono delle figure dagli stessi colori di quella appena descritta; la più vicina è anch’essa legata ad un albero, dal quale si allontana una sorta di radice che si conclude con una testa di neonato. Accanto a questo gruppo si distinguono, ancora piuttosto chiaramente, due figure fluttuanti in posizione eretta, anch’esse con una veste nera e con gonfi capelli rossi, che tengono in braccio un bambino ciascuna. Più lontano, dietro le figure che reggono i neonati e verso le montagne, si intravede una sorta di sciame dal quale si scorgono a fatica altre madri, le quali sembrano unirsi alle zone d’ombra delle montagne da cui avanzano.” Il termine “mala madre” era già stato spiegato da Luigi Chirtani nel 1896 con accenti di memoria dantesca: “Le madri che abbandonano i figli, devono soffrire angosce in una valle livida, tra catene di orride montagne, ove regna il silenzio della natura. Portate in aria, come foglie morte e sospinte dalla tormenta, vagolano, affannose e gelide larve con negli occhi lagrime fatte di ghiaccio. Quando la punizione delle male madri è compita, da fuor della valle livida vengono chiamate con dolci gridi, esse accorrono e trovano alberi che germogliano dalla neve. In quelli aspettavano l’anime dei figli loro; il silenzio è vinto, e da ogni ramo chiama forte una voce che pena ed ama” 16. 14 Segantini voleva proporre all’organizzazione berlinese una nuova esposizione internazionale con un regolamento ripensato, con la quale avrebbe voluto dimostrare quanto poco appropriato fosse stato il loro giudizio. 15 F.Benini Riflessioni sul simbolismo in Segantini, Tesi di laurea, rel prof M.Patti, Università degli Studi di Pisa, a.a. 2012. 16 L. Chirtani [Archinti], Giovanni Segantini II, in “Natura ed Arte”, n. 6, Milano, 1896-1897, p. 444.

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Esposto con il titolo Per le cattive madri (prima del Nirvana), a Milano alle Esposizioni Riunite di Milano del 189417, e poi a Monaco nel 1895, il quadro ottenne timidi consensi. Le ragioni della freddezza con cui il dipinto venne accolto possono essere ricondotte più che all’astrusità del soggetto, alla scarsa comprensione da parte del pubblico e della critica della concezione globale dell’arte segantiniana che a questa data sempre più non distingue rappresentazioni reali e entità fantastiche. L’incapacità di cogliere e comprendere questo aspetto fa sì che la sua pittura venga apprezzata più nella sua declinazione naturalista, dai suoi contemporanei ma anche successivamente, come rivelano ancora le parole di Carlo Carrà, datate 1935: “C’è, infatti, nella sua pittura [simbolista] qualcosa che disturba e impaluda l’ispirazione. Ma non sempre [Segantini] antepone agli aspetti umili e tranquilli della vita dei pretesti cosiddetti letterarı. Il più delle volte, anzi, fu ben bene ispirato. Specialmente nei dipinti di animali – vacche e pecore – ritroviamo la migliore caratteristica della sua arte. [. . . ] I quadri inspirati all’idealismo letterario dovevano forse apparire a lui stesso inconsistenti, onde, negli ultimi tempi, si riprende e torna alle forme della vita naturale” 18. Se in Italia e a Monaco Le cattive madri riscuotevano tiepidi interessi, in Austria il quadro attirò l’attenzione di Francesco Giuseppe che si mostrò interessato a comprendere meglio il dipinto che, acquistato dalla Secessione nel 1899, avrebbe fatto parte della nascente galleria d’arte moderna del Belvedere19. Non casualmente la prima monografia illustrata dell’opera di Segantini verrà edita a Vienna, nel 1902, sotto l’egida delle Wiener Werkstätte e della Stamperia imperiale, e affidata a Franz Servaes. Ma già nel 1896 Segantini aveva chiesto ad Alberto Grubicy di far pervenire all’Imperatore il testo letterario intitolato Nirvana scritto da Luigi Illica con un’immagine del dipinto. Servaes, nella prima monografia di Segantini, illustrerà a fondo quest’opera che conosceva bene e che poteva vedere a Vienna. Egli, oltre a sostenere l’importanza di questo dipinto in quanto “ultima e indubitabilmente la più impressionante e profonda creazione del cosiddetto ciclo del Nirvana”, colse un aspetto determinante, ovvero quello per cui l’abilità pittorica trasfigura la rappresentazione e diventa un tutt’uno con i contenuti trasformando così “questo quadro in uno dei prodotti più belli e più suggestivi del pittore dell’aria di montagna. La meravigliosa limpidezza di quell’atmosfera serotina è indescrivibile. La fredda nebbia sottile che sale dalle montagne, nell’oro pallido del sole che 17 il comitato esecutivo permise a Segantini di allestire una sua sala personale al primo piano del Castello Sforzesco. 18 C. Carra`, Revisioni critiche: Giovanni Segantini, in “L’Ambrosiano”, Milano, 12 agosto 1935. Pubblicato interamente in Archivi del divisionismo, a cura di Teresa Fiori, 2v., Ocina edizioni, Roma 1969, pp. 70-74, citato da Benini (2012). 19 “L’Imperatore d’Austria desiderava avere dei schiarimenti sul soggetto del quadro Le cattive madri se tu per tuo conto voi mandarci Quella d’Illica, stampata sintende su altra carta, e in due fogli unendovi nel secondo la fotografia del quadro.” Lettera di Segantini ad Alberto Grubicy dell’aprile 1896 (Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati, a cura di A.P. Quinsac, Cattaneo ed., Oggiono-Lecco 1985, n. 496, pp. 394). Vedi anche Quinsac 1982, p. 394 e H. Adamek, La messa in scena della vita di Giovanni Segantini, in Segantini, catalogo della mostra, a cura di G.Belli, Electa, Milano 1987, p. 34.

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Cartolina riproducente G. Segantini Il frutto dell’amore, (1889) Stampa, 14,1 x 9 cm Mart Gottardo Segantini Il frutto dell’amore da Giovanni Segantini 1889, (1910) Acquaforte, 14 x 9 cm Mart

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Riproduzione fotomeccanica di G. Segantini Il frutto dell’amore, (1889) Stampa 24,2 x 14,8 cm Mart


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Riproduzione fotografica di G. Segantini L’angelo della vita (Dea Cristiana), 1894 Stampa fotografica, 48 x 34 cm Mart

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Riproduzione fotomeccanica di G. Segantini L’angelo della vita (Dea Cristiana), 1894 Stampa, 48 x 34 cm Mart

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tramonta, commuove ogni cuore. (…) La maestria della resa tecnica è già diventata qui qualcosa di ovvio. Non la si vede nemmeno più, poiché si è trasfigurata in espressione atmosferica, vibrazione nervosa, sentimento poetico” 20. Questa notazione è determinante per comprendere come per Segantini il sentimento della natura coincida con il sentimento materno, tanto da “considerare il ruolo di madre come sacro, un’istituzione voluta dalla natura: la sua violazione andava punita non come infrazione di una qualche legge morale, quanto piuttosto come oltraggio alla natura stessa e ai suoi statuti innati.” (Servaes) La donna viene elevata da Segantini a divinità da amare, rispettare, e venerare “imperocché essa ci dà la vita e ci concede l’amore. […] La donna è la nostra Dea, l’arte il nostro Dio” 21. Segantini aveva rivelato a Neera di apprezzare quella donna che riesce a essere “compagna fedele e spirituale dell’uomo, in certa misura la sua seconda anima, capace di curare e promuovere il suo ideale e di incoraggiarlo all’onestà e al dovere. È solo tramite le sue virtù domestiche e la sua fedeltà che la donna si assicura quella posizione elevata che le porta in dote venerazione e profondo rispetto. Ma la vita moderna della società borghese purtroppo produce per lo più l’esatto contrario, e cioè donne nervose che, al posto di essere buone madri e buone compagne, preferiscono diventare buone civette, recidendo così il loro legame con il senso e l’essenza della natura”22. Le sue parole non lasciano alcun dubbio sul fatto che la maternità sia il tramite privilegiato del legame della donna con la Natura. Più incerta è invece la posizione dell’artista riguardo all’elemento del femminile inteso nel suo aspetto sensuale, che come aveva già scritto Hans Adamek nel 1987 sembra essere escluso dalle raffigurazioni segantiniane mentre un repertorio infinito di femmes fatales, da Salomè a Giuditta, a Lulù dominava la scena della musica, del teatro e delle arti figurative nell’Europa di fine secolo. Scrive Adamek: “Al contrario dei grandi artisti del suo tempo Segantini non ammette nelle sue opere neppure un soffio di erotismo anche se la tematica di Nirvana lo trasporta in prossimità di un’intima inquietudine fatta di attrazione e repulsione ambivalente che minacciano di confondere i suoi sentimenti” 23. Anche Segantini soffre dunque la contrapposizione fra la funzione seduttrice e quella generatrice, fra femmina e madre, di weiningeriana memoria, passaggio obbligato nella rappresentazione della femminilità a cavallo fra Ottocento e Novecento. A guardare bene infatti, l’espressione della figura seminuda fluttuante ne Le cattive madri più che sofferente pare estatica se non 20 F. Servaes, Giovanni Segantini. Sein Leben und sein Werk, Gerlach, Wien 1902, p. 134. 21 Da “Pensieri” in Scritti e lettere di G. Segantini, a cura di B.Segantini, Fratelli Bocca ed., Milano 1910, p. 54. 22 Si veda la lettera a Neera scritta da Savognino il 7 febbraio 1893; in Scritti e lettere 1910, p. 74. 23 Adamek 1987, p. 37.

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orgiastica come è stata definita dalla nota storica dell’arte Daniela Hammer Tugendhart, che ha suggerito degli interessanti confronti con la coeva Madonna di Munch (1895)24. E qualche anno dopo, nel 1897, Segantini si rivelerà nuovamente indulgente nei confronti dell’erotismo, seppur mantenendo un atteggiamento profondamente moralistico, dipingendo uno dei suoi più che rari nudi al centro di La Vanità, dipinto noto anche con il titolo di Fonte del male in contrapposizione evidentemente negativa al dipinto L’amore alla fonte della vita. In questa raffigurazione che Segantini considerava forse la sua opera più importante, ritroviamo la fluente chioma rossa, uno dei tanti topoi seduttivi di fine secolo, indicatore di un potenziale erotico attivo e insidioso, tanto da rendere necessaria la presenza di un piccolo drago “dall’occhio di Bragia” come lo definì lo stesso Segantini nella lettera che accompagnava la spedizione del dipinto all’esposizione del Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1897: “Il quadro speditovi rappresenta la Vanità e l’Insidia che studiai in una figura femminile verginalmente pudica, che si specchia tutta nuda in una Fonte; il Fonte è nella roccia, e la roccia si riflette nera, e il cielo azzurro nell’acqua profonda: il giorno e la notte nel tempo, la gioia e il dolore nella vita. Nell’azzurro vi si specchia la bellezza, nell’ombra nera l’insidia Vi appiattai, raffigurata in un mostro viscido dall’occhio di Bragia. Tutto questo è nell’ombra al di là il sole rischiara luminosi e verdeggianti pascoli; più in su` la scena si chiude con lontani boschi d’abeti. Vi feci dominare il silenzio incantato della primavere nelle alpi”25. Sia Il castigo delle lussuriose che Le cattive madri, insieme a Dea Pagana (o Dea dell’Amore), sollevano dunque un interrogativo sulla concezione della sensualità e dell’eros nella pittura segantiniana, che il pittore sembra rimuovere in nome di un Amore più grande, quello materno. È in questo tipo di amore che egli rinsalda la sua concezione esistenziale, anche quella di padre, che affida a L’angelo della vita un’idealità non più religiosa ma panteista. Con questo dipinto Segantini si distanzia definitivamente dal naturalismo pittorico che pur aveva connotato un’opera precedente, tematicamente simile, ovvero Il frutto dell’amore. Se il dipinto del 1889 restituiva la sensazione di “una montanara che posa poco convincentemente per una Maestà religiosa” 26, ne L’Angelo della vita, sia il paesaggio che la figura della donna con il bimbo in braccio collocano questa raffigurazione oltre il naturalismo in una dimensione fortemente simbolica. Qui, come già nel dipinto di Previati, non è raffigurata una madre, ma la Madre, in quanto essenza della vita, come del 24 D.Hammer Tugendhat, Zur Ambivalenz von Thematik und Darstellungsweise am Beispiel von Segantinis “Die Bösen Mütter”, in “Kritische Berichte”, Marburg/Lahn 1985/3, pp. 16-28, qui p. 20. 25 Segantini. Trent’anni ... 1985, n. 914, p. 765. 26 Quinsac 1982, p. 462.

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Riproduzione fotomeccanica e cartolina G. Segantini L’angelo della vita (Dea Cristiana), 1894 Stampa, 48 x 34 cm; 14,1 x 9 cm Mart

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Riproduzione fotomeccanica e cartolina G. Segantini Dea Cristiana (L’angelo della vita), (1894-1896) Stampa, 48 x 34 cm; 14,1 x 9 cm Mart

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resto lo stesso Segantini aveva dichiarato a Vittore Grubicy, mentre si accingeva ad iniziare il grande quadro, oggi alla Galleria d’arte moderna di Milano, nella primavera del 1891: “In lavorazione tengo anch’io una maternità, che intitolerò: Dea madre”27. Il titolo indicato dall’artista rivela quale fosse il soggetto del dipinto che Segantini aveva in mente: la raffigurazione della maternità come entità sacra, divina, in un’accezione che coniugasse cristianesimo28e panteismo, superandoli entrambi. L’artista prende le distanze da una raffigurazione esclusivamente religiosa (che avrebbe potuto intitolarsi La Vergine e il bambino) e adotta un ossimoro come titolo (Dea Madre, Dea cristiana) che coniuga cristianesimo e paganesimo in una sua personale concezione del sacro. La sua religione è quella della Natura, che svincolata dal dogmatismo, attinge ad un profondo realismo nella rappresentazione per figurare un concetto simbolico, quello della fede nella donna come elemento che congiunge divino e terreno allo stesso modo dell’albero che è tramite fra la terra (con le radici infisse nel terreno) e il cielo ( che lambisce con le fronde). Il dipinto difatti avrà due titoli: L’Angelo della vita e Dea cristiana e due versioni su carta (Quinsac 568 presso la Otto Fischbacher Stiftung; e Quinsac 569 al Museo Segantini a Saint Moritz). Alla Dea cristiana, Segantini fece seguire una Dea pagana (o Dea dell’Amore), raffigurante una fluttuante figura femminile, inizialmente nuda e poi coperta da un velo rosso, ispirata da un dipinto antico della sua collezione, una “Venere nei modi di Giorgione”29. A differenza della Dea Cristiana ella ci appare lieve e galleggiante ma “dis-giunta” da un qualsiasi legame con il paesaggio e quindi con la Madreterra. Al di là delle letture interpretative dei suoi capolavori il contributo più determinante della pittura segantiniana fu la sua costante ricerca di intensità luminosa, perseguita attraverso la sperimentazione divisionista, per restituire la percezione di un paesaggio caratterizzato da atmosfere rarefatte, scenario privilegiato per ospitare figure simboliche e sacre come quelle della maternità. Egli stabilì una nuova forma interpretativa che non contrappone naturalismo a simbolismo, ma li integra in un’unica poetica, personalissima che si riverbera anche nelle generazioni seguenti. È il suo insegnamento più profondo, che un’intera generazione di artisti farà proprio, al di là dei debiti formali o delle citazioni puntuali relative alle scelta del soggetto e che ritroviamo ancora nel primo decennio del Novecento, ad esempio nelle opere dei trentini Umberto Moggioli e Tullio Garbari. Nel 1914 Umberto Moggioli, in 27 Lettera a Vittore Grubicy, 21 maggio 1891, Segantini. Trent’anni di vita. ... 1985, n. 94, p. 140. 28 Scrive Francesca Benini nella sua tesi: “Anche alla base di alcuni elementi de L’angelo della vita si riconosce chiaramente l’iconografia cristiana, più precisamente quella mariana. Ad esempio, nella costruzione scenica; il gruppo materno sta appoggiato sull’albero come se fosse un trono e, grazie all’unione dei rami nella parte alta del quadro, sembra essere incorniciato da una mandorla. La veste drappeggiante della madre rimanda alla corposità tipica delle Madonne in trono, che contribuisce a rafforzare il basamento monumentale su cui è posato il gruppo sacro, i cui contorni, come per l’Ave Maria a trasbordo, tracciano un triangolo. Il seno scoperto, sul quale il bambino appoggia delicatamente la sua mano, relaziona l’immagine all’iconografia della Maria Lactans, mentre i lunghi capelli sciolti contornano il volto della donna come un velo mariano. (…) A rafforzare la connotazione religiosa `e anche la forma del dipinto e la scelta della cornice trilobata, dal gusto decorativo delle pale d’altare.” Cfr. Benini 2012. 29 Da cui Segantini trae ispirazione per la sua Dea dell’amore. Cfr. Adamek 1987, p. 31.

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Wilhelm Wörnle Der Engel des Lebens (Dea cristiana) da Giovanni Segantini, 1900 Acquaforte, 56,4 x 45,3 cm Mart



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Sera a Primavera, interpreta la solitudine delle isole lagunari come spazio contemplativo, ribadendone così il valore simbolico, a cui contribuiscono, sul piano formale, la ritmica sequenza di piani prospettici che diradano verso l’infinito, l’orizzonte dilatato e l’assenza di elementi narrativi e temporali. Moggioli rafforza la valenza simbolista delle sue raffigurazioni anche grazie al ricorso a modelli segantiniani, ad esempio quello della maternità che trasfigura nella quiete della laguna veneziana, come nel dipinto del 1913, Sera a Mazzorbo, di proprietà del Mart. Così come Segantini aveva scelto i pascoli d’alta quota, Moggioli individua nel paesaggio lagunare i luoghi della sua libertà emotiva e pittorica: i luoghi fisici diventano luoghi dell’anima, la veduta trasmuta in visione. Una visione che Moggioli arricchisce di nuovi accenti cromatici, di un uso quasi antinaturalistico del colore appreso, anche grazie alla frequentazione degli amici lagunari, dal “bretone” Gino Rossi e da Tullio Garbari. Negli stessi anni Tullio Garbari sperimenta nei suoi paesaggi una pittura che si esprime attraverso piatte campiture cromatiche che si sovrappongono nello spazio della tela e dove affida al colore una funzione altamente espressiva. A Venezia, negli anni 1910 e 1913, partecipa alle esposizioni dell’Opera Bevilacqua- La Masa. In questi anni sperimenta un linguaggio figurativo molto vicino alle ricerche di Gino Rossi, di cui ammira la sensibilità cromatica e di Teodoro Wolf Ferrari, dal quale apprende il gusto per la linea di contorno a delimitare le campiture di colore. Al suo rientro definitivo in Trentino, dopo la fine della Guerra dirada la sua partecipazione alle esposizioni sino al 1924: in questo periodo si dedica allo studio, partecipa al dibattito postunitario sulle origini della popolazione trentina, studia la storia locale, la chimica, le lingue classiche e soprattutto la filosofia, appassionandosi alle idee di Maritain e Rosmini, e sviluppando un pensiero mistico e religioso nella ricerca del “primigenio”, dell’origine, del puro e del primitivo, che si concretizza in un linguaggio pittorico estremamente semplificato ed essenziale, costituito prevalentemente da solidi volumi dai profili netti. La Madonna della pace, realizzata nel 1927, qui esposta nella versione grafica (il dipinto si trova al Museo Diocesano di Trento) si situa proprio all’interno di questa sua ricerca della purezza e del sentimento sacro attraverso un linguaggio semplice ma universale, proprio come era stato quello di Segantini.

Nella pagina precedente Umberto Moggioli Sera a Mazzorbo, 1913 Olio su tela, 119,2 x 184,4 cm Mart

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Tullio Garbari Madonna della pace, 1927 Matita su carta, 64 x 47,5 cm Mart

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Luigi Bonazza L’Immacolata, 1925 Olio su tela, 233 x 123 cm Mart

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Vanessa Beecroft Pregnant Madonna, 2006 Fotografia digitale a colori su alluminio, 231 x 178 cm Mart

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Alma mater e Souvenir d’enfance Daniela Ferrari

Il percorso della mostra si svolge attraverso due concetti fondamentali nella vita di ogni essere umano: l’idea di madre come di colei che nutre il nostro corpo e la nostra anima – Alma mater ovvero madre nutrice 1 – e che nei primi anni di vita costituisce la figura di riferimento per la formazione di un individuo (anche nel caso di una sua assenza); e il mondo dell’infanzia con i suoi ricordi, quei souvenirs d’enfance che talvolta emergono prepotentemente nella nostra età adulta e che scopriamo essere l’origine di gesti o attitudini di uomini maturi. A quest’idea di amore materno dal valore universale si lega, nella tradizione cristiana, la figura della Vergine Maria. Il repertorio iconografico dedicato al tema liturgico della Natività è incommensurabile: troviamo le prime rappresentazioni di questo legame materno, sia sacro che profano, già nelle catacombe. Il mistero e la dolcezza racchiusi in quell’abbraccio divino, ma anche le implicazioni teologiche che in quei gesti apparentemente semplici vengono racchiuse – e veicolate a chi le sappia interpretare – non hanno perso il loro fascino nella contemporaneità: molti artisti hanno dato prova di come questo soggetto continui ad offrire opportunità di ricerca non soltanto per il suo portato religioso, ma anche per il rapporto complesso che esso ha stretto con la storia della rappresentazione. Esemplare, in questo senso, è la serie fotografica dedicata alla figura della Madonna e al tema della maternità di Vanessa Beecroft della quale è esposta l’opera Pregnant Madonna (2006) 2 . 1 In antichità, la locuzione latina Alma mater identificava la dea madre, Cerere e Cibele, mentre nel Cristianesimo medioevale indicava la Beata Vergine Maria. 2 Di pari intensità è la sua White Madonna With Twins (2006), un autoritratto in cui l’artista posa come una “Madonna del latte” tenendo in braccio due piccoli gemelli neri.

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Nell’arte del XX secolo e in quella contemporanea la raffigurazione del rapporto tra madre e figlio è particolarmente sentita e viene sviluppata in un contesto di quotidianità che attinge inevitabilmente alla tradizione iconografica dell’arte cristiana, come se questi due soggetti subissero la legge dei vasi comunicanti. Del resto, è l’arte cristiana che ab origine ha attinto alla quotidianità. Fra le icone dell’arte italiana del Novecento che segnano la nascita di un nuovo capitolo nella storia dell’arte, quello connotato da un ritorno alla classicità dopo la breve stagione delle avanguardie, c’è il ritratto di una madre che regge tra le braccia il suo bambino, un quadro anticipatore di quel rappel à l’ordre che si afferma negli anni venti in Europa. Si tratta della Maternità di Gino Severini (1916), che raffigura la moglie Jeanne mentre allatta la piccola Gina neonata3. Se questo dipinto fosse allestito come pala d’altare in una chiesa, il visitatore percepirebbe una Madonna contemporanea e coglierebbe la doppia natura del quadro: quella sacra e quella profana. La Maternità di Severini è stata dipinta in un momento storico cruciale, ricco di eventi e di congiunture determinanti per il corso dell’arte in Italia. In quello stesso anno muore Umberto Boccioni, a soli trentatre anni, lasciandoci per sempre sospeso il quesito su come sarebbe evoluta la sua pittura dopo gli anni febbrili e fecondi della sperimentazione futurista. Boccioni avrebbe dedicato al tema della madre una numerosa serie di opere, molte delle quali sembrano costituire il preludio del suo capolavoro Materia (1912)4, nel quale la monumentale icona materna è elevata a simbolo di energia vitale dal valore assoluto. Sua modella prediletta, Cecilia Forlani, posa in numerosi dipinti come in Nudo di spalle (Controluce), del 1909, per il quale la donna asseconda la scelta del pittore di ritrarla con la schiena scoperta e di cimentarsi in un genere, quello del nudo femminile, da lui poco frequentato. Secondo Maurizio Calvesi nel dipinto si attua la “fusione tra i linguaggi di Balla, Segantini e Previati, al calore incandescente dell’urgenza e del furore boccioniano” 5. Tutto il dipinto è un’esplosione di luce di cui si possono cogliere i singoli bagliori: raggi luminosi e zone d’ombra resi attraverso filamenti di colore accostati e incrociati, con una tecnica che molto deve in primis alla maestria nel modellare i volumi, assecondando l’andamento delle forme, con un segno grafico e una rapidità di gesto di matrice segantiniana. Il mondo degli affetti materni e dell’infanzia è fra i soggetti che ricorrono con più frequenza e costanza anche nella produzione di un altro maestro della pittura italiana del Novecento: Felice Casorati. 3 Cfr. G. Belli, La vocazione classica, in G. Belli, D. Fonti (a cura di), Gino Severini 1883-1966, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 17 novembre 2011 - 8 gennaio 2012), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2011, pp. 176-178. 4 L. Mattioli Rossi, M. Di Carlo (a cura di), Boccioni 1912 Materia, catalogo della mostra, (Milano, Fondazione Antonio Mazzotta, 2 aprile - 28 maggio 1995), Mazzotta, Milano 1995. Cfr. in particolare la scheda di S. Marinelli della Pala Dal Bovo di Francesco Bonsignori (1484) per la lettura dei legami di Umberto Bocchioni con la pittura antica e con la cultura tradizionale, pp. 142-144. 5 Cit. in Ibidem, p. 162.

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Umberto Boccioni Nudo di spalle (Controluce), 1909 Olio su tela, 60 x 55,2 cm Mart, Collezione L.F.

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Umberto Moggioli MaternitĂ (Studio per Primavera nel Veronese), (1916-1917) Olio su cartone, 97,5 x 67 cm Mart

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Pompeo Borra All’aperto (Composizione), 1924 Olio su tela, 80 x 95 cm Mart, Collezione Volker W. Feierabend

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Umberto Boccioni La moglie di Balla con la figlia, (1906) Pastello su carta, 96,5 x 71 cm Mart

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Massimo Campigli Madre e figlia, 1949 Olio su tela, 70 x 55,5 cm Mart, Collezione L.F.

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A partire dagli anni venti, quando dipinge la Madonna con Bambino (1923)6, un raro soggetto sacro nella sua produzione, e la Maternità oggi conservata alla Nationalgalerie di Berlino (1923-1924)7, Casorati declina il tema della nascita in numerose composizioni, alcune delle quali diventano il pretesto per dipingere gruppi di figure femminili, come nelle Sorelle Pontorno (1937)8, un gineceo che gli consente di sondare il mistero di quel sentimento antico, materno ma anche sororale, e di provare a restituire sulla tela un’intensità espressiva e una serena consapevolezza dell’essere come solo si percepisce nell’incrocio di sguardi fra madri e figli o negli stretti legami familiari: una mescolanza di amore e sintonia con la propria natura. Si dedica a dipingere figure femminili nell’atto di cullare fra le braccia il loro bambino lungo l’intero arco della sua ricerca artistica. Le sue madri assumono una dimensione quasi sacra, pur nella loro compostezza e semplicità mondana: nella Maternità con le uova del 1958 la donna, al centro della costruzione, posa su uno sfondo neutro, privato di precise connotazioni spaziali, come è tipico delle scelte ambientali casoratiane. Altrettanto tipica nella sua poetica è la presenza di una natura morta con le uova: forme perfette e chiuse. La linea curva che torna nel dipinto alla stregua di una variazione sul tema di natura musicale, è enfatizzata da contorni scuri che, alla maniera della tecnica del cloisonnisme, sottolineano la sintesi formale raggiunta in questi anni dal pittore. Il rapporto madre-figli in scene di vita domestica è rappresentato dal pastello La moglie di Balla con la figlia (1906) di Boccioni. Il quadro è esemplare del suo stile nei primi anni del Novecento, quando la sua carriera è ancora agli esordi e, in compagnia di Gino Severini, è a Roma, allievo presso lo studio di Giacomo Balla che impartisce loro fondamentali lezioni sull’uso di rapidi tocchi di colore diviso, dato per tratti filamentosi9. Nello stile di Umberto Moggioli sono invece chiare le suggestioni pittoriche apprese durante gli anni di studio a Venezia. Nel 1909 si trasferisce a Burano, ed entra in contatto con il gruppo di Ca’ Pesaro e gli artisti gravitanti attorno al giovane critico ferrarese Nino Barbantini, tra cui Gino Rossi, Arturo Martini, Tullio Garbari, Benvenuto Disertori e Felice Casorati. Noto principalmente per la sua pittura di paesaggio, Moggioli dà prova di grande maturità compositiva anche nel genere del ritratto e in particolare nel tema della maternità come nello Studio per Primavera nel veronese dipinto sul finire del 1916, quando Moggioli si trasferisce a Roma, in uno degli ateliers di Villa Strohlfern. A contatto con il dibattito artistico della capitale, la sua attività si intensifica. Mutano i soggetti 6 Cfr. G. Bertolino, F. Poli (a cura di), Catalogo generale delle opere di Felice Casorati. I dipinti (1904-1963), Allemandi, Torino 1995, n. 217, pp. 260-261. 7 Cfr. Ibidem, n. 224, pp. 262-263; G. Bertolino (a cura di), Felice Casorati. Collezioni e mostre tra Europa e Americhe, catalogo della mostra (Alba, Fondazione Ferrero, 25 ottobre 2014 - 1 febbraio 2015), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2014, pp. 114-115. 8 Cfr. G. Bertolino (a cura di), Felice Casorati. Collezioni e mostre tra Europa e Americhe, cit., pp. 198-199. 9 Questa stesura conferisce una nuova dinamicità alla composizione e diviene un mirabile esercizio sullo studio della luce, trasformando così un ritratto apparentemente tradizionale, come questo esposto, in un primo saggio di ciò che il pittore cercherà di trasmettere con la rivoluzione futurista che, come è noto, deriva i suoi strumenti tecnici proprio dalla pittura francese di fine Ottocento, dall’impressionismo al pointillisme, unita all’influenza del divisionismo di Giovanni Segantini, di Gaetano Previati e di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

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Felice Casorati Maternità con le uova, 1958 Olio su tela, 90,5 x 55,5 cm Mart, Deposito Collezione privata



e lo stile: la tavolozza si fa più chiara e l’artista predilige scene d’interno o paesaggi più ravvicinati, mentre le figure, in primo piano, sono costruite con solida volumetria. Questa svolta è evidente in Primavera 10 – realizzato nel 1918, un anno prima di morire prematuramente di spagnola – dove la figura della madre, il cui profilo contiene e incorpora la bionda figurina infantile che si aggrappa alle sue vesti, si erge come una colonna, occupando quasi tutta la metà sinistra del quadro dalla forte impostazione verticale. In pieno stile novecentista, di recupero della grande tradizione classica, è il dipinto di Pompeo Borra All’aperto (Composizione), del 1924, esposto in quello stesso anno alla XIV Biennale di Venezia. L’artista vi ritrae la moglie con la secondogenita. Il quadro restituisce un’immagine di “dignitosa povertà, confortata dagli affetti”, scrive Elena Pontiggia, che individua nell’opera “reminescenze dell’antico: gli echi di Carpaccio nel gusto della narrazione attenta ai particolari; quelli di Giotto, filtrati attraverso le semplificazioni formali di Carrà, nel paesaggio sullo sfondo” 11 . È sempre una forma di rapporto con la tradizione quella sottesa al lavoro di Andrea Facco e Hubert Kostner. Nel suo dittico Wall 59 (2012-2014), Andrea Facco riproduce la Madonna dell’umiltà con San Domenico, conservata nel museo napoletano di Capodimonte, un tavola del Maestro delle tempere francescane, di formazione giottesca, attivo a fine XIV secolo. Trasformandola in un affresco antico danneggiato dal tempo la incastona nello spessore di un muro dall’intonaco magistralmente scrostato: oltre il muro s’intravede un ritaglio di cielo azzurro e un albero il cui fogliame, in controluce, sembra quasi mosso da un vento leggero. L’arte dell’inganno di Facco sta tutta nella sua capacità di giocare con la citazione e gli consente di copiare i maestri del passato creando dei cortocircuiti di natura concettuale, pur dipingendo con un realismo spaesante, quasi fotografico. L’artista ha scelto di rappresentare nel muro proprio quel capolavoro antico seguendo un criterio apparentemente casuale: confessa di essersi immedesimato in un pittore di provincia che, grazie alla sua fama di virtuoso, riceve l’incarico di dipingere un’edicola. Ed ecco che il “pittore di borgata” accontenta i suoi committenti copiando una famosa Madonna antica. “Un pittore copia sempre – afferma Facco – copia i grandi pittori che lo hanno preceduto e talvolta copia se stesso” 12. Nonostante la loro diversa natura – da una parte un autentico dipinto deliberatamente “falso” dall’altra una scultura trasformata secondo la pratica dadaista del objet trouvé, o meglio del ready made 10 Cfr. E. Casotto, Scheda dell’opera, in G. Belli, A. Tiddia (a cura di), Nuovi ospiti a Palazzo delle Albere. Donazioni e depositi del XIX secolo: 2004-2008, catalogo della mostra (Trento, Mart, Palazzo delle Albere, 4 ottobre 2008 - 11 gennaio 2009), Stella, Rovereto 2008, pp. 26-28. 11 E. Pontiggia (a cura di), Pompeo Borra. Un realismo magico, catalogo della mostra (Milano, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, 28 gennaio - 22 febbraio 2009), Cairo Giorgio Mondadori, Milano 2009, p. 48. 12 Le parole virgolettate sono dell’artista, riferite a chi scrive nel corso di una conversazione.

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Andrea Facco Wall#59 (dittico), 2012-14 Tecnica mista su tela 170 x 170 cm Courtesy Galleria Goethe, Bolzano

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modificato – tra l’opera di Facco e quella di Kostner vi sono delle curiose tangenze. Hubert Kostner recupera una Madonna con Bambino in legno di tiglio, tipica della tradizione scultorea dell’arte della Val Gardena e crea al suo interno una cavità, dipingendola di un colore arancio acceso, quasi fluorescente. La scelta del colore dipende dalla volontà di adottare un colore visibilmente artificiale e privo di implicazioni religiose che neutralizzi ogni possibile riferimento simbolico e crei invece un netto contrasto. Un colore della contemporaneità versus le cromie che connotano l’icona mariana. Il titolo dell’opera, Bildstöckl (2014), esplicita il riferimento alle casette, o edicole, poste agli incroci delle vie o sui muri, contenenti immagini di santi e spesso di Madonne. In questo caso la figura della Vergine Maria diventa a sua volta casetta, nicchia scavata per evidenziare un vuoto, e sottolinea un’idea di accoglienza e di predisposizione a divenire contenitore di senso, non solo religioso. Un’ulteriore chiave di lettura sta nel palese riferimento dell’artista al suo originario mestiere di intagliatore del legno. Forte del suo sapere di maestro artigiano, della più pura tradizione lignea gardenese, Kostner confessa di aver provato un certo timore e rispetto al momento di compiere il primo taglio nella scultura della Maternità la quale, nonostante sia stata scolpita negli anni settanta secondo canoni riferibili a una produzione quasi industriale, deriva la sua immagine da un originale tardo gotico. L’atto di distruggere si è poi trasformato in liberazione dalle rigide e precise regole di un mestiere antico e artigianale di cui si sta perdendo il valore dell’originalità nella corsa al souvenir globalizzato13. Accanto al tema della maternità corre parallelo quello dell’infanzia. E così, in questo gioco di specchi tra antico, moderno e contemporaneo, se la Madonna con bambino di Natale Schiavoni (1982) è messa in relazione con la Maternità di Casorati (1958) e quella di Umberto Moggioli (1916-1917) con la Madonna del latte dipinta in trompe l’oeil nel dittico di Andrea Facco, a fare da controcanto al Piccolo cantiniere (1902) 14 di Eugenio Prati abbiamo scelto il Versatore (2005) di Davide La Rocca. Prati narra la piccola tragedia di un bimbo accucciato in punizione, che guarda sconsolato i cocci di una brocca rotta. La formazione di Prati, originario di Caldonazzo, si svolge prima in ambito veneziano, dove entra in contatto con la pittura di genere legata alle tematiche del realismo e con il paesaggio dipinto en plein air, e successivamente a Firenze, dove conosce la pittura di macchia. Tornato in Trentino nel 1879, si trasferisce ad Agnedo, il villaggio 13 Un ringraziamento all’artista e ad Alessandro Casciaro per il nostro scambio di idee sulla natura di quest’opera. 14 Cfr. A. Pattini, Scheda dell’opera, in G. Belli, A. Tiddia, A. Pattini (a cura di), Eugenio Prati (1842-1907). Tra Scapigliatura e Simbolismo, catalogo della mostra (Trento, Mart, Palazzo delle Albere, 5 dicembre 2009 - 25 aprile 2010), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009, pp. 154, 184.

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Hubert Kostner Bildstรถckl, 2014 Legno verniciato, colore spray, 60 x 50 x 35 cm Mart, Collezione Volker W. Feierabend

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Eugenio Prati Piccolo cantiniere, (1902) Olio su tela, cm 38 x 30 Mart

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Davide La Rocca Versatore, 2005 Olio su tela, 300 x 260 cm Mart, Collezione Volker W. Feierabend

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della moglie, e si dedica a soggetti di vita familiare e di costume inseriti nel contesto del paesaggio naturale, realizzati, come in questo caso, con una pennellata morbida e una tavolozza chiara. Il fanciullo di Davide La Rocca ha ben altra espressione, assorta e persa nel proprio mondo di balocchi: sembra giocare serenamente con il piccolo annaffiatoio rosa versando un liquido rosso sulle sponde di uno specchio d’acqua altrettanto rossa. Il simbolismo cromatico è molto importante per l’artista: i “rossi di cadmio e carminio del fondale e del liquido in cui il bimbo si specchia”, il “grigio-blu elettrico della teca metallica” il “fucsia artificiale dell’annaffiatoio in plastica”15. L’ambientazione del dipinto è quasi astratto-geometrica: vi domina al centro un quadrato-scatola-cornice da cui si sporge, affacciandosi, il bambino, ricalcando il celeberrimo olio su tela di Pere Borrel del Caso, Escapando de la critica (1874) 16. Come dichiara egli stesso, nel ciclo dei Versatori, La Rocca fa esplicito riferimento all’iconografia dei dipinti seicenteschi di ambito italiano17 . Il suo Narciso contemporaneo, immerso in una temperatura cromatica che richiama come riferimento inconscio il colore del sangue e i suoi significati simbolico-religiosi, è un bambino, secondo quanto dice l’artista “che non ha nulla da nascondere o da temere, se non i suoi pensieri. L’esposizione della nudità come verità, la sovraesposizione della luce pubblicitaria, il fuori scala da manifesto del mio Narciso mantengono sì una dimensione eroica del corpo umano ma colta nell’atto puerile del gioco”. Si apre quindi, con il confronto fra Prati e La Rocca, la serie di opere dedicate squisitamente al mondo dell’infanzia, e ai suoi ricordi. Sono numerose le sculture con cui Medardo Rosso ha cercato di modellare e trasmettere nella materia la tenerezza dell’affetto materno – Amor materno (1883), Aetas aurea (1886) – o l’espressione fugace delle figure infantili: Bambino malato (1889-1893), Bambina che ride (1889), Bambino al sole (1892), Bambino alle cucine economiche (1892-1893), e infine Bambino ebreo (1892) di cui il Mart possiede una versione in cera la cui fusione è riferibile agli anni dieci del Novecento. Medardo è stata una figura cruciale nel panorama artistico europeo e ha contribuito a mutamenti fondamentali nella storia della scultura a cavallo tra Otto e Novecento, influenzando le scelte di artisti che divennero protagonisti delle avanguardi storiche, come Umberto Boccioni che in lui intravvide subito la modernità e la volontà di esprimere nella plastica “le influenze di un ambiente e i legami atmosferici chelo avvincono al soggetto” 18. 15 Le parole virgolettate sono dell’artista che si coglie l’occasione di ringraziare per avermi messo a disposizione i suoi scritti. 16 E. Hollmann, J. Tesch (a cura di), Die Kunst der Augentäuschung, Presel, München-BerlinLondon-New York 2010. 17 Si coglie questa occasione per ringraziare l’artista di avermi messo a disposizione i suoi scritti. 18 U. Boccioni, Manifesto tecnico della scultura futurista, 11 aprile 1912, cit. in Z. Birolli (a cura di), Umberto Boccioni. Gli scritti editi e inediti, Feltrinelli, Milano 1971, p. 25. Umberto Moggioli Primavera, 1918 Olio su tela, 176 x 106 cm Mart, Donazione Mario Del Grosso - Elsa Savini

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L’attenzione che Rosso riserva ai valori di luce e atmosfera, complici di una percezione della forma più dinamica, anticipa soluzioni e ricerche proprie della scultura d’avanguardia, e colloca lo scultore su un crinale che, pur mantenendolo nel contesto ottocentesco – con intuizioni geniali come quella rilevata da Boccioni di riuscire a cogliere nella scultura la rivoluzione impressionista – lo proietta nel fervore sperimentale della modernità novecentesca: “Ciò che importa per me, nell’arte, è fare dimenticare la materia”19, dichiarava l’artista. Il mondo dell’infanzia è fra i soggetti prediletti anche da grandi protagonisti della pittura del Novecento, come Umberto Boccioni, Felice Casorati, Achille Funi, Cagnaccio di San Pietro. La decisione di rappresentare dei bambini ha imposto ai pittori l’indagine attenta della complessa espressività dello sguardo infantile sul mondo, in un momento delicato e vulnerabile della crescita dell’uomo. Il genere del ritratto infantile, che non riporta un’identità precisa del soggetto rappresentato, evolve parallelamente a quello del ritratto su commissione, di tradizione tipicamente borghese, dove invece i piccoli protagonisti hanno nome e cognome. Autentici capolavori, si posizionano come pietre miliari dell’arte del XX secolo, così come era stato per i bambini della famiglia Medici ritratti dal Bronzino o per la tenera Bambina di casa Redetti di Moroni, nel Cinquecento o per i piccoli reali spagnoli di Velazquez nel Seicento. A questo proposito, fra i molti esempi, si citano di Boccioni il Ritratto di Fiammetta (1911) 20, figlia di Margherita Sarfatti; di Casorati il Ritratto di Renato Gualino (1923-1924) 21, secondogenito di Cesarina Gurgo Salice e del collezionista Cesare Gualino, nonché lo straordinario studio per il dipinto stesso; di Achille Funi, Valeria (1926), nipote di Giuseppe Gussoni, proprietario della Galleria Milano22; e di Cagnaccio di San Pietro, Lilli con la bambola (1928)23. Questi ritratti di bambini e bambine divengono protagonisti con i loro sguardi innocenti e incantati e talvolta già adulti: si pensi a Le due bambine, noto anche come Le due sorelle (1912) di Casorati, oggi conservato ai Musei Civici di Padova, che ipnotizza quasi con quegli occhi cerulei puntati verso di noi, oppure al suo Beethoven (1928), uno dei tableaux drapeaux delle collezioni del Mart. Beethoven, deriva il suo titolo dallo spartito posto su uno sgabello su cui poggia la mano una bimba vestita di bianco. Nonostante lo sguardo vuoto e poco definito nei particolari, si intuisce un’espressione riflessiva, 19 L’impressionismo nella scultura. Auguste Rodin e Medardo Rosso. Cit. in L. Caramel (a cura di), Medardo Rosso: le origini della scultura moderna, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 28 maggio - 22 agosto 2004), Skira, Milano 2004, p. 233. 20 E. Pontiggia (a cura di), Da Boccioni a Sironi. Il mondo di Margherita Sarfatti, catalogo della mostra (Brescia, Palazzo Martinengo, 13 luglio – 12 ottobre 1997), Skira, Milano 1997, pp. 110-111. 21 Cfr. G. Bertolino, Scheda dell’opera, in G. Bertolino (a cura di), Felice Casorati. Collezioni e mostre tra Europa e Americhe, cit., pp. 112-113. 22 Cfr. N. Colombo, Scheda dell’opera, in E. Pontiggia, N. Colombo (a cura di), Funi 1980-1972. L’artista e Milano, catalogo della mostra (Milano, Spazio Oberdan, 15 dicembre 2001 - 24 febbraio 2002), Mazzotta, Milano 2001, pp. 102-103. 23 C. Gian Ferrari (a cura di), Cagnaccio di San Pietro. La magia dello sguardo, catalogo della mostra (Milano, Galleria Gian Ferrari, 24 maggio - 22 luglio 1989), Electa, Milano 1989, p. 30.

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Medardo Rosso Bambino ebreo, 1892 Cera, 23 x 19 x 16 cm Mart


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un misto di serietà e malinconia, forse anche noia, acuita dall’atmosfera sospesa, resa ancora più enigmatica dalla duplicazione dell’immagine nello specchio e dalla presenza di oggetti dal significato misterioso: la chitarra, ad esempio, o il cagnetto che sappiamo essere di ceramica. Si avverte una sorta di magia nell’opera che attrae il riguardante, incuriosito dalla storia che gli oggetti scelti dall’artista recano alla narrazione pittorica, forse scelti perché carichi di ricordi, forse solamente espedienti compositivi 24. Altrettanto magnetica, benché triste, è l’espressione del Randagio (1932) di Cagnaccio di San Pietro, al secolo Natalino Bentivoglio Scarpa, autentico pittore della realtà e probabilmente uno fra i pochi artisti italiani del Novecento la cui poetica ed esecuzione si avvicina alla Nuova oggettività tedesca e al Realismo magico. Il suo dipingere diligente e minuzioso, che mai scivola in un iperrealismo sterile, mette in luce nel dipinto particolari che altrimenti sfuggirebbero nella visione fugace e, nel contempo, opera una selezione delle forme, creando una sorta di distillato della realtà. Complice una vita difficile, di grande povertà, tra i suoi temi d’indagine vi è il mondo dei diseredati che Cagnaccio riesce a descrivere anche attraverso questo ritratto di bambino: Il randagio (1932). Negli occhi del giovane vagabondo si coglie un’espressione di tristezza esasperata e rassegnata allo status quo. Il quadro è protagonista di una storia singolare: Il randagio fu ammirato alla Biennale di Venezia dal Führer che lo volle acquistare e, venuto a conoscenza che tutte le opere di Cagnaccio erano pignorate a causa dei suoi numerosi debiti, diede ordine che essi venissero rilevati per togliere l’ipoteca dai dipinti. Dopo aver acquistato il quadro lo riconsegnò all’artista25. In pieno spirito di ritorno alla grande pittura italiana, con evidenti riferimenti alla ritrattistica rinascimentale, come la finestra che si apre sull’esterno e la natura morta in primo piano, è il Fanciullo con le mele (1921) 26 di Achille Funi, carico di quella “classicità moderna” che prelude alla stagione novecentista del pittore. Arturo Martini ritrae la figlia Maria, nata nel 1921 e chiamata affettuosamente Nena, modellando un busto in terracotta di cui il poeta ligure Camillo Sbarbaro ci ha lasciato un suggestivo ricordo descrivendo il momento in cui lo scultore dà gli ultimi tocchi all’opera: “Trovai Martini in uno stambugio ad Albisola che stava, per così dire, dando alla luce una sua terracotta: il busto di una ragazzina con le trecce accercinate, il berrettuccio e una trasognata timidezza nel viso già serio” 27. 24 Cfr. D. Ferrari, Scheda dell’opera, in G. Bertolino (a cura di), Felice Casorati. Collezioni e mostre tra Europa e Americhe, cit., pp. 152-155. 25 Del quadro sono note almeno due versioni, presenti entrambe alla XIX Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, nel 1934, come si evince dalle etichette sul retro. La seconda versione, che Cagnaccio dovette dipingere per sostituire quella acquistata dal Führer, si differenzia dalla prima per la presenza dell’indirizzo dell’artista alle Zattere, dove aveva traslocato in quel 1934. Cfr. Lettera dattiloscritta di Claudia Gian Ferrari indirizzata a Evelyn Weiss, presso il Ludwig Museum di Colonia. Archivio VAF-Stiftung. 26 Cfr. N. Colombo, Scheda dell’opera, in E. Pontiggia, N. Colombo (a cura di), Funi 1980-1972. L’artista e Milano, cit, pp. 90-91. 27 Cit. in N. Stringa, Scheda dell’opera, in G. Belli (a cura di), Maestri del ’900: da Boccioni a Fontana. La collezione di un raffinato cultore dell’arte moderna, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 13 ottobre 2007 - 20 gennaio 2008), Skira, Milano 2007, p. 70.

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Felice Casorati Beethoven, (1928) Olio su tavola, 139 x 120 cm Mart, Collezione VAF-Stiftung

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Achille Funi Ragazzo con le mele (Il fanciullo con le mele), 1921 Olio su tela, 60 x 50 cm Mart, Collezione Volker W. Feierabend

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Cagnaccio di San Pietro Il randagio, 1932 Olio su tavola, 56,5 x 42 cm Mart, Collezione VAF-Stiftung

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L’intensità espressiva della fanciulla è spiegata nel 1934 dallo stesso Martini che – ricorda Nico Stringa – aveva descritto la Nena come una “fanciulla in viaggio”: lo struggimento nello sguardo della figlia è un misto di malinconia e nostalgia; il sentimento provato mentre osserva fuori dal finestrino del treno, appoggiata sui gomiti, le braccia intrecciate e una mano a sorreggere il volto, nel corso del viaggio verso il collegio che la allontana da casa. Ancora sguardi fanciulleschi nel monumentale dipinto del pittore trentino Gino Pancheri del 1935, nel quale ritrae una madre che reca in braccio l’ultimo nato, ed ha seduta al suo fianco la figlia maggiore. Tutta la composizione, costruita secondo uno schema piramidale, è giocata su una serie di sottili contrappunti; nelle posture dei protagonisti, nei loro atteggiamenti e nella scelta della tavolozza, basata su colori chiari, verdi, azzurri, bianchi e ocra, imbigiti fino a raggiungere i toni dell’affresco, pur trattandosi di una tempera su tavola. I colori sono disposti in modo molto equilibrato, nello spazio del dipinto, trasmettendo un senso di pacatezza e serenità, ma anche di fermezza. Gli occhi della madre non incrociano quelli dei figli: lei guarda, come assorta, alla sua sinistra, con un’espressione seriosa, con le labbra serrate, che si ritrovano nella fanciulla, la quale osserva, composta, in un punto situato fuori dal quadro sulla sua destra, nella stessa direzione verso cui guarda il bimbo, con occhi più vividi e un timido sorriso appena accennato. Le sue lunghe trecce richiamano quelle della giovane Luisa (1943), ritratta in un busto in gesso dallo scultore trentino Eraldo Fozzer che ha dedicato un piccolo bassorilievo anche al tema dei Bimbi che giocano (1955 ca.) e che proprio in una Maternità (1960) ha realizzato una delle sue opere più compiute ed espressive. Motivo iconografico e simbolico ricorrente nella produzione di Massimo Campigli è la figura femminile, spesso declinato nel tema della maternità e dell’infanzia, come in Madre e figlia del 1949 28. Le due figure siedono affiancate sulla stessa sedia con lo sguardo sereno rivolto verso lo spettatore. La posa è elegante e le braccia della madre si allacciano a quelle della figlia tracciando un ipotetico cerchio. Nella composizione emerge la linea curva: nella morbidezza dei corpi, dello schienale della sedia e delle braccia ad arco, acuita dalla circolarità dei volti. Si intuisce una sorta di complicità tra le due, che dimostra come Campigli sappia entrare nella complessità dell’universo femminile e ne sappia rappresentare il sentimento, permeato, in questo caso, di serenità materna e filiale. 28 Il tema era già stato affrontato da Campigli nel 1940 con un’opera dal medesimo titolo Madre e figlia, presentata al II Premio Bergamo, e poi acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte di Roma (inv. 3476).

Arturo Martini Nena, 1930 Terracotta refrattaria, 44 x 30 x 29 cm Mart, Collezione L.F.

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Eraldo Fozzer Testa di fanciulla (Luisa), (1943) Gesso tradotto, 35,5 x 34,5 x 21 cm Mart, Donazione della figlia, Elena Fia Fozzer

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Gino Pancheri MaternitĂ , 1935 Tempera su tavola, 148 x 117 cm Mart, Deposito temporaneo

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Eraldo Fozzer Bimbi che giocano, (1955) Gesso, 27,7 x 36,5 cm Mart

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Eraldo Fozzer MaternitĂ , (1960) Gesso patinato, 57 x 28 cm Mart, Donazione della figlia Elena Fia Fozzer


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L’artista si dedica anche al tema del gioco, in opere come Le educande (1929-1930) e Bambini (1932), accomunate dalla comparsa del cerchio e dalla disposizione serrata delle fanciulle con le educatrici, in uno spazio astratto e quasi bidimensionale. Solo in una palla gialla, posta in basso a destra nel dipinto del 1932, Campigli cede a un accenno di volumetria, che invece è perfettamente resa nella palla rossa dipinta da Mario Tozzi nel quadro del 1929, tanto da apparire più come un solido geometrico che come un giocattolo. Tozzi crea un’atmosfera onirica e incantata: ritrae la figura materna con solennità e ieraticità statuaria e quella del bambino come se fosse un bambolotto fluttuante nello spazio della rappresentazione; il tutto è reso ancora più straniante dalla retorica del quadro nel quadro messa in gioco dall’inserimento di un cartiglio dipinto a incorniciare le figure. Intitola il dipinto Souvenir d’enfance, quei ricordi d’infanzia così pregnanti e intensi che proprio da essi Marcel Proust scelse di iniziare il racconto dell’io narrante nel suo capolavoro, quella Recherche du temps perdu di cui citiamo alcune righe per chiudere il nostro breve excursus nel mondo degli affetti materni e delle memorie infantili attraverso la pittura italiana del Novecento. “La mia unica consolazione, quando salivo per coricarmi, era che la mamma venisse a darmi un bacio non appena fossi stato a letto” 29, confessa il Narratore ricordando la sua infanzia a Combray. E l’attesa di quel contatto diviene un esercizio di immaginazione quando Marcel si deve accontentare di un solo rapido bacio, alla presenza degli ospiti a cena. “Perciò mi ripromettevo, in sala da pranzo, quando avessero cominciato a mangiare ed io sentissi l’ora approssimarsi, di fare, prima di quel bacio, che sarebbe stato così breve e furtivo, tutto quello che ne potevo fare da solo: scegliere con lo sguardo il punto della gota che avrei baciato, preparare il mio pensiero per avere la possibilità, grazie a quell’inizio di bacio mentale, di consacrare intero il minuto che la mamma m’avrebbe accordato a sentire la sua gota contro le mie labbra, come un pittore che, non potendo ottenere se non brevi pose, prepara la tavolozza, e ha fatto già prima a memoria, servendosi dei propri appunti, tutto quello per cui può anche rinunziare alla presenza del modello” 30.

29 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann, trad. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1963, pp. 15-16. 30 Ibidem, p. 31.

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Massimo Campigli Le educande (Passeggiata delle educande), (1929-1930) Olio su tela, 88 x 110 cm Mart, Collezione VAF-Stiftung

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Mario Tozzi Souvenir d’enfance (Madre e figlio), 1929 Olio su tela, 116 x 81 cm Mart, Collezione L.F.

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Massimo Campigli Bambini, 1932 Olio su tela, 75 x 53,5 cm Mart, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi

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VITA NASCENTE DA GIOVANNI SEGANTINI A VANESSA BEECROFT

MAG Museo Alto Garda Arco | Galleria Civica G. Segantini 15.11.2014 – 11.01.2015 A cura di Daniela Ferrari e Alessandra Tiddia Mart

Segreteria Marta Sansoni Gustavo Perrone Allestimento Massimo Zanoni Comunicazione e promozione Michele Comper Claudia Gelmi in collaborazione con Ufficio comunicazione del Mart Registrar Clarenza Catullo, Mart Trasporti Tomasi Group s.r.l., Trento Foto Archivio fotografico Mart Archivio fotografico MAG Immagine coordinata della mostra e progetto grafico del catalogo Headline, Rovereto

In collaborazione con

Arco | Galleria Civica G. Segantini Via G. Segantini, 9 38062 Arco (TN) © 2014 by MAG Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie ISBN 978-88-6686-045-7



Comune di Riva del Garda Comune di Arco Provincia autonoma di Trento Riva del Garda | Museo Arco | Galleria Civica G. Segantini Comune di Riva del Garda Adalberto Mosaner Sindaco Maria Flavia Brunelli Assessore alla Cultura Anna Cattoi Dirigente Area Servizi alla persona Comune di Arco Alessandro Betta Sindaco Stefano Miori Assessore alla Cultura Cristina Bronzini Dirigente Area Servizi alla persona

Giovanni Pellegrini Responsabile MAG Museo Alto Garda

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Stampato su GardaPat 13 BIANKA 135 g/m²


Finito di stampare nel mese di novembre 2014 da StampaLith, Trento



ISBN 978-88-6686-045-7

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