Divisionismi dopo il Divisionismo: la pittura divisa da Segantini a Bonazza

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dopo il Divisionismo


Accanto agli spazi dedicati a Giovanni Segantini, e a partire da lui, una contenuta selezione di opere ad olio e su carta, provenienti dalle collezioni del Mart, così come da raccolte pubbliche e private, indaga i nuovi rapporti compositivi e stilistici introdotti a suo tempo dalla rivoluzione divisionista. La rassegna che si chiuderà in ottobre, consolida il progetto di collaborazione fra MAG Museo Alto Garda e Mart relativamente allo studio e alla ricerca su Giovanni Segantini. Segantini, maestro del Divisionismo italiano, ci introduce in un percorso ricco di variazioni sia nei temi che nelle modalità espressive nell’ambito del Divisionismo storico, che a sua volta affida alla luce un valore nuovo e assolutamente attualizzante, che venne posto al centro dell’indagine artistica di molti altri artisti. Questo aspetto viene indagato con attenzione attraverso i capolavori divisionisti e futuristi esposti al Mart dal 25 giugno 2016, nella mostra I pittori della luce. Dal Divisionimo al Futurismo, curata da Beatrice Avanzi, Musée d’Orsay; Daniela Ferrari, Mart; e Fernando Mazzocca, Università degli Studi di Milano, a cui la rassegna di Arco intende collegarsi con una selezione di opere che verifica l’estensione della poetica divisionista nel Novecento italiano.


dopo il Divisionismo



dopo il Divisionismo La pittura divisa da Segantini a Bonazza

A cura di Alessandra Tiddia



Divisionismi 8

Alessandra Tiddia

Il Divisionismo nelle parole di Grubicy e Segantini 30 Ilaria Cimonetti

Non può sussistere Futurismo senza Divisionismo 40 Daniela Ferrari

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Opere in mostra


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Divisionismi Alessandra Tiddia

Noi siamo l’ultima luce di un tramonto, e saremo, dopo una lunga notte, l’aurora dell’avvenire G. Segantini

Giovanni Segantini Autoritratto, 1895 carboncino con polvere d’oro e tracce di gesso su tela, 59 × 50 cm Museo Segantini, St. Moritz © Foto Flury, Pontresina

L’odierna rassegna, ospitata nelle sale rinnovate di Palazzo dei Panni a Arco, intende proporre all’attenzione del pubblico alcuni esempi di pittura divisa, opere di artisti legati all’area trentina in primis, ma non solo, eseguite in un arco temporale molto ampio che da Segantini arriva a Bonazza, a dipinti degli anni Quaranta del Novecento, molto lontano cronologicamente quindi dal Divisionismo storico. La mostra presenta opere realizzate dai maestri dell’arte italiana del ’900 come Felice Casorati e quelle di figure ancora poco note nel panorama italiano, ad esempio il triestino Vito Timmel o il goriziano Antonio Camaur, difficilmente collocabili in un movimento o in una stagione artistica definita, ma anch’essi estensioni di una pennellata divisa. Il progetto espositivo si è avvalso della collaborazione di alcune prestigiose istituzioni museali italiane come il Museo Revoltella di Trieste e i Musei Civici di Udine, e di prestiti provenienti da collezioni private, fra cui quella generosissima della famiglia Casorati1, oltre che di opere normalmente conservate presso il Mart di Rovereto, che condivide con il MAG questo progetto all’interno di un protocollo di collaborazione, già avviato da qualche anno nella valorizzazione di Arco come luogo segantiniano (Segantini e Arco). La finalità della mostra Divisionismi dopo il Divisionismo è quella di tentare di selezionare una sorta di campionatura di opere accomunate dall’uso del colore diviso, anche in anni in cui il Divisioni9


smo era stato dimenticato e superato da altre esperienze. Per capire meglio la natura di questo fenomeno occorrerà ricordare alcuni aspetti già ampiamente indagati dalla letteratura precedente e dalla mostra ospitata nello stesso periodo nelle sale del Mart a Rovereto, intitolata I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo, curata da Beatrice Avanzi, Daniela Ferrari e Fernando Mazzocca, a cui la presente rassegna si ricollega nel tentativo di accennare a uno dei possibili esiti del Divisionismo in Italia. Infatti se la mostra di Rovereto indaga gli sviluppi del processo scompositivo del colore, avviato dal Divisionismo e divenuto elemento fondante dell’estetica futurista, proprio nel suo valore di successiva scomposizione delle forme, la piccola rassegna di Arco intende indicare un’altra possibilità evolutiva, quella più prossima alle rarefatte atmosfere delle opere del Novecento Italiano, dove la pittura divisa rende silenti i ritratti e solidifica plasticamente la forma, anziché dinamizzarla e scomporla. La ragione di questa diversità negli esiti formali della stagione divisionista va ricercata, a mio avviso, principalmente in due fattori: l’eterogeneità costitutiva del Divisionismo che non assunse mai la compattezza teorica di movimento programmatico - non fu un’estetica ma un modo di dipingere - e i diversi momenti di diffusione e ricezione dello stesso, prima e dopo il primo conflitto mondiale, o forse meglio dire prima o dopo l’avvento delle avanguardie artistiche. Per capire meglio queste dinamiche sono stati inseriti nel presente volume due importanti contributi: il primo, per il quale ringrazio la precisione e il rigore di Ilaria Cimonetti, ricorda la rilevanza delle parole di Vittore Grubicy nell’azione di diffusione del Divisionismo, in considerazione dei documenti conservati presso l’Archivio Grubicy-Benvenuti presso il Mart. L’altro contributo, a firma di Daniela Ferrari, evidenzia attraverso la lettura dei manifesti futuristi le prossimità fra pittura divisionista e Futurismo, che considerava l’esperienza del Divisionismo “un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale”. Il Divisionismo fu un insieme sincronico di esperienze diverse accomunate dalle ricerca di una maggiore luminosità, che si estese in Francia, in Belgio e in Italia, assumendo di volta in volta differenti declinazioni. In Italia la ricerca della luce nel colore in termini idealizzanti e simbolisti, fu associata al nome di Divisionismo; in Francia e in Belgio Pointillisme e/o Neo-Impressionismo furono accomunati da un maggiore rigore nell’applicazione dei principi scientifici e delle leggi fisiche legate alla percezione del colore. Il Neo-Impressionismo pur partendo da quella immediatezza visiva che nell’Impressionismo catturava il dato reale, la dilata alla sua massima potenza, così come la ricerca del massimo grado di luminosità portato al suo limite estremo cancella qualsiasi dimensione temporale, del qui e ora, e alimenta la valenza astratta della raffigurazione, pur mantenendo saldo il confronto mimetico con la realtà. L’opzione neo-impressionista che nel Pointillisme trovava la sua riposta tecnica ebbe scarsa diffusione fra i pittori italiani, che pure ne conoscevano i presupposti teorici, mentre la libera applicazione degli stessi produsse il Divisionismo italiano. 10


«L’affare dei puntini è per me un esercizio pratico, come le scale del pianoforte» dirà Morbelli2 e Pellizza sosterrà che «la fattura dell’opera non dovrebbe essere né tutta a puntini, né tutta a lineette, né tutta a impasto e nemmeno tutta liscia; o tutta scabrosa; ma varia come sono varie le apparenze degli oggetti in natura»3. Nel 1880 l’unico testo in italiano di una certa rilevanza riguardo alle esperienze impressioniste continuava a essere quello relativo alla conferenza di Diego Martelli, pubblicato in quell’anno; iniziano invece a essere pubblicati i trattati scientifici sul colore e la sua percezione, come Luce e colori di Giuseppe Bellotti (1881) e La scienza dei colori di Luigi Guaita (1888), divenuti testi basilari nelle biblioteche dei pittori, in quanto contribuivano a diffondere nel contesto italiano gli esiti delle ricerche di Nicholas Ogden Rood (Modern Chromatics, 1879) e di Michel-Eugène Chevreul (De la loi du contraste simultané des couleurs et de l’assortiment des objects colorés, 1839). Questi testi sopperirono alle scarse o quasi nulle possibilità di avvicinare direttamente e comprendere de visu la pittura puntinista fino all’inizio del ’900, e alle ancora più scarse possibilità di un reale confronto fra gli artisti divisionisti e puntinisti.

Luigi Bonazza Studio per ritratto di Italia Bertotti, (1923) olio su cartone, 43,5 x 34 cm Ubicazione ignota

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Théo van Rysselberghe Ritratto di Alice Sèthe, 1888 olio su tela, 194 x 96,5 cm Saint Germain-En-Laye, Musée Départemetale Maurice Denis le Prieuré

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A questo aspetto va aggiunto il clima di diffidenza nei confronti di Seurat e del Neo-Impressionismo, lo scetticismo della critica italiana4, primo fra tutti quello di Vittorio Pica espresso sulle pagine de “Il Marzocco” nel 1895, e ribadito anche molti anni dopo nel volume del 1908 sugli Impressionisti francesi5. Con tutt’altra consapevolezza, l’anno dopo, Grubicy pubblicherà, sulle pagine de “La Triennale”, un articolo fondamentale nella divulgazione del Divisionismo: Tecnica ed estetica divisionista6. Il critico napoletano, che negli anni contribuirà a internazionalizzare in maniera determinante il panorama espositivo lagunare, soprattutto quello riferito al contesto simbolista di fine secolo, ma anche a quello impressionista, si rivela cauto nei suoi giudizi. Fin dal 1897 la Biennale ospita opere di Renoir (1897) e quindi Monet, Pissarro, Renoir e Sisley (1903 e 1905), ma bisognerà aspettare la XII Biennale (1920) per un’esposizione più organica di opere post-impressioniste e neo-impressioniste con Seurat e Signac. Nei primi anni della Biennale vengono esposte solo le opere neoimpressioniste dei simbolisti Henri Martin, Henri Le Sidaner e Théo van Rysselberghe (1901, 1907, 1912, 1914). Le ragioni sono già tutte nell’articolo del 1895 dove Pica riassume la vicenda del Neo-impressionismo, a partire da Seurat, e distingue tre aree geografiche in cui il Divisionismo ebbe fortuna, la Francia, il Belgio e l’Italia. Il suo giudizio non è lusinghiero: egli considera la tecnica “artificiosa, tentennante, incompleta” poiché presenta un “grossolano aspetto di tappezzeria e di ricamo a perline di vetro” e salva da una valutazione così negativa solo Segantini e coloro che hanno applicato il puntinismo senza troppo rigore scientifico7. Così scrive: «Iniziatore ne fu, nella primavera del 1886, un giovane di singolare ingegno, Georges Seurat, morto di lì a cinque anni, poco più che trentenne, in mezzo al compianto generale. Le sue innovazioni tecniche nella ricerca dell’intensità luminosa vennero subito accolte ed applicate da Albert Dubois Pillet, che anche lui doveva immaturamente spegnersi nel 1891, Paul Signac, Maximilien Luce, Charles Angrand, Edmond Cros e Lucien Pissarro, figlio di Camille Pissarro, che come ho già riferito innanzi non disdegnò di adottare anche lui questa nuovissima tecnica per parecchie delle sue tele. Il tentativo dei divisionisti ebbe ben presto una ripercussione in Belgio mercè Henry Van der Velde ed A. W. Finch, che dovevano in seguito dedicarsi, con successo vivissimo, alle arti applicate, e mercè Théo van Rysselberghe, che, pittore di squisita delicatezza e d’insita eleganza, ha ottenuto risultati oltremodo interessanti, attraenti e persuasivi sia nel paesaggio sia nella figura, ed in Italia, mercè Segantini, Morbelli, Pellizza, Previati, Grubicy, Lionne, Balla, Nomellini, Longone [sic] e qualche altro. L’innovazione fondata sull’applicazione più o meno rigorosa, della teoria della miscela ottica e della divisione dei toni, che il Seurat scoprì in un libro dell’americano N.O. Rood, professore di fisica a New York, teoria scientifica dei colori e sue applicazioni alle arti ed alle industrie, consisteva principalmente nel posare i colori affatto divisi sulla tela, in modo che la miscela di essi, piuttosto che sulla tavolozza, si effettuasse sulla retina di chi guardava. 13


( … ) Orbene io, per mio conto, stimo oltre modo interessante il tentativo di Seurat e dei suoi seguaci e riconosco che eglino sono molte volte riusciti ad attribuire ai loro quadri un eccezionale fulgore luminoso, ma debbo pure confessare che la loro tecnica presenta sovente gravi deficienze, non raggiunge che in parte lo scopo prefissosi, appare quasi sempre monotona e mostra un certo grossolano aspetto di tappezzeria e di ricamo a perline di vetro non molto gradevole all’occhio. ( … ) Il torto dei divisionisti a mio credere, consiste tanto nel fondersi con esagerata fiducia su teorie scientifiche tuttora abbastanza problematiche e nel trarne conseguenze eccessivamente rigorose, quanto nel voler troppo semplificare il problema della luce e della visione ottica, che è dei più complessi, dei più complicati e possiede elementi o male studiati o da essi del tutto trascurati. I divisionisti muovono da un presupposto scientifico, in cui c’è molta parte di vero e la meta che agognano di raggiungere è delle più interessanti nel campo dell’arte, ma la tecnica da loro prescelta è ancora artificiosa, tentennante, incompleta. ( … ) Altra e convincente prova è che i risultati migliori li hanno ottenuti proprio quelli che hanno applicata la tecnica divisionista senza troppa rigidità scientifica, modificandola secondo quanto consigliava l’indole propria o l’esperienza, così come ha fatto il nostro Giovanni Segantini ed Henri Martin che l’ha applicata, alcuni anni fa, con esito molto brillante, nel dipingere un largo fregio decorativo con figure allegoriche, nell’alto di una vasta sala dell’Hotel de ville di Parigi». La fortuna del Puntinismo in Italia muterà completamente nel ’900, quando i viaggi di Balla e Severini a Parigi, le presenze degli artisti alle grandi mostre internazionali di Venezia, Roma, Vienna consentiranno una visione diretta e una maggiore consapevolezza del portato puntinista, come vedremo più avanti. La natura stessa del Pointillisme imponeva un contatto diretto con le opere, piuttosto che la mediazione delle immagini e/o delle recensioni pubblicate sulle riviste. Fu questo uno dei grandi limiti alla sua comprensione in Italia. Un dimanche aprés midi à l’Île de la Grande Jatte, manifesto delle teorie seuratiane, era stato esposto per la prima volta nel 1886 alla mostra degli Impressionisti a Parigi e l’anno dopo a Bruxelles, dove Seurat era stato invitato ad esporre dal Groupe des Vingts, di cui facevano parte Henry van de Velde, Fernand Khnopff, George Minne, James Ensor, Théo van Rysselberghe, Jan Toorop e Félicien Rops. “L’Art moderne” era l’organo di stampa del gruppo e accoglieva gli scritti di Felix Fénéon che nel 1886 riferisce ne L’Impressionisme aux Tuilieries8 della differenza fra la tecnica della Grande Jatte di Seurat e l’Impressionismo, mentre l’anno dopo pubblica un estratto del suo saggio Les Impressionistes, nel quale spiega la scomposizione del colore9, tema che riprenderà diffusamente negli articoli successivi, apparsi su “L’Art moderne” nello stesso anno. Nella sua disamina il critico francese introduce un passaggio importante, la necessità insita nel Neo-Impressionismo di “un 14


assetto definitivo che perpetui le sensazioni”, che è il principale elemento che distanzia questa esperienza dall’Impressionismo e che diverrà una caratteristica fondamentale di tutto il Pointillisme, anche quello più tardo. Egli scrive: «Il fine comune dell’Impressionismo e del NeoImpressionismo è la riproduzione dei veri colori e della vera luce naturale. In cosa consiste, allora, la differenza tra impressionisti e neoimpressionisti? I primi fermano sulla tela l’immagine di un paesaggio in un istante dato, perché le condizioni di luce cambiano rapidamente ed essendo la sensazione irripetibile, essa deve essere fissata immediatamente da un pittore che lavori en plein air. I neoimpressionisti, invece, sintetizzano il paesaggio «in un assetto definitivo che perpetui le sensazioni», e per questo motivo essi, dopo aver raccolto sul luogo le sensazioni di luce e di colore, possono elaborarle nel loro studio.» Fra i lettori della rivista Vittore Grubicy10, artista e critico sensibile in quegli anni al tema del “cromoluminarismo” e vicino agli ambienti del Groupe des Vingts, grazie ai suo amici pittori e agli anni trascorsi ad Anversa (1882-1885).

Théo van Rysselberghe Ritratto di Madame Charles Maus, 1890 olio su tela, 56 x 47 cm Bruxelles, Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique

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Nell’agosto del 1887 sulle pagine de “La Riforma”, nell’articolo intitolato I colori nell’arte, Grubicy utilizza per la prima volta il termine ’Neo-Impressionismo’, anche se l’unico artista neoimpressionista da lui citato è Ernest-Joseph Laurent, che nel 1891 aveva esposto a Villa Medici a Roma Il giovane poeta osserva il suo giovane passo, dipinto con la tecnica del colore diviso, ma molto simile per tecnica alle opere di simbolisti come Henri Martin, Alexandre Séon, Le Sidaner11. Ma l’anno prima durante il soggiorno di Grubicy a Savognino, Segantini aveva ridipinto Ave Maria a trasbordo con la tecnica divisionista. Il ruolo di Vittore Grubicy, e della galleria aperta con il fratello Alberto, fu essenziale nella diffusione del Divisionismo: non solo perché lui stesso lo applicò nella sua pittura, ma soprattutto perché cercò di estenderlo agli artisti della sua scuderia, e fra i primi, a Segantini. La consacrazione delle prime opere divisioniste italiane è nel 1891 alla Prima Triennale di Brera, dove sono esposte accostate Le due madri di Segantini e Maternità di Previati, insieme ad altre opere “divise” come Piazza Caricamento a Genova di Plinio Nomellini, Alba di Morbelli, L’oratore dello sciopero di Emilio Longoni. Se l’esposizione del 1891 sancisce l’avvio della stagione divisionista italiana, la mostra dei Divisionistes italiens organizzata da Alberto Grubicy a Parigi nel 1907, può essere considerata il suo termine ultimo, anche perché nel frattempo molti dei suoi protagonisti erano scomparsi. L’estensione della tecnica divisionista in questi primi anni interessa soprattutto quegli artisti operanti nel Nord Italia, a Milano. Nei primi anni del ’900 la pittura divisionista si diffonde fra i pittori attivi a Roma12. Segantini e Previati rappresentano le due principali direzioni intraprese dal Divisionismo italiano, sempre più autonomo rispetto agli esempi francesi, anche nella scelta dei temi e dei soggetti, legati al sociale e tesi a traghettare la pittura “dal vero all’idea”, a concetti universali come la maternità, tradotti nel simbolo. Previati e Pellizza appaiono più interessati di Segantini a emancipare sempre più la loro pittura dalla riproduzione del dato reale verso la smaterializzazione delle forme e delle figure, persino del paesaggio. Il Divisionismo si rivela il mezzo ideale per rendere le moderne idealità, in quanto la metodologia scientifica, le regole della scienza, come già era avvenuto con la fotografia, liberano la pittura dal vincolo della riproduzione13, consentono una nuova concezione dell’arte molto più idealizzante, introducono il concetto di smaterializzazione del visibile, poi ripreso dai futuristi come punto di partenza per le loro ricerche14. A ciò concorse anche la pubblicazione degli studi di Charles Henry sulle qualità espressive di linea e colore, già conosciute da Seurat, ma che all’inizio del ’900 influenzano soprattutto Pellizza, che nei suoi dipinti stabilisce precise leggi che determinano le relazioni fra forme e colori nella ricerca di precisi effetti emozionali. Il processo compositivo innestato dall’applicazione del colore divi16


so alimenta la consapevolezza di una grammatica visiva che inizia a scomporre e a distinguere forme, linee, colore, attribuendo a questa operazione precisi significati espressivi. Fra le prime opere divisioniste apparse al giudizio del pubblico quindi il grande olio di Segantini provocatoriamente intitolato Le due madri, ambientato altrettanto provocatoriamente in un interno scuro, illuminato solo dalla fioca luce artificiale di una lanterna: esso rivela un’attenzione caravaggesca ai contrasti di luce intercettati nel tratteggio del colore, che in questo caso dava corpo alle cose, non le smaterializzava15. La sue prime prove pittoriche sono opere nelle quali l’artista indaga a fondo il rapporto fra luce e spazio, come esemplifica anche Il campanaro, opera dei primi anni Ottanta, oggi esposta a Arco nello Spazio Segantini e facente parte delle collezioni ottocentesche del Mart. Ne Il campanaro, magistrale esempio del talento di un giovane artista quasi autodidatta ma che conosceva i grandi maestri del passato, il nostro occhio riconosce a fatica i particolari dell’interno di una chiesa, guidato da una tenue luce sul fondo, così come ne L’arcolaio (1891-1893), soggetto replicato nell’olio oggi conservato a Adelaide (Australia) e nel disegno a matita qui esposto, facente parte delle collezioni Mart, dove la natura umana è nuovamente accostata a quella animale in un’universalità di sentimento. Il disegno rivela un tratteggio già divisionista come divisionista è anche la pennellata de L’ora mesta, il dipinto del 1892, qui esposto e in deposito a lungo termine presso la sede MAG di Arco. Quest’opera, che Segantini replica in due versioni dal grande olio oggi a Berlino, ha un valore storico in quanto fu donata dallo stesso artista a Vittorio Zippel, allora sindaco di Trento, che si era adoperato per un possibile rientro di Segantini a Arco, per rivedere le sue montagne. Le due opere, il disegno de L’arcolaio e il dipinto L’ora mesta, sono accostate in mostra in quanto condividono un’impostazione spaziale molto simile, anche se una è ambientata in un interno e l’altra all’aperto, così come entrambe le figure si rivelano al nostro occhio in un contesto appena rischiarato da una debole luce artificiale. Soprattutto esse sono rivelatrici di quella modalità divisionista, applicata dal maestro del Divisionismo sia in pittura sia nella grafica. Lo sviluppo di questa tecnica porterà Segantini ai vertici della pittura divisionista, alla massima declinazione della luce in opere come Mezzogiorno sulle Alpi, emblema di una luminosità d’alta quota, di una luce assoluta e accecante. Nel corso degli anni Novanta l’interesse di Segantini è sempre più orientato, come lui stesso ribadisce nel 1896, in una lettera all’amico Carlo Orsi16, verso “una colorazione più vicina alla verità che mi è possibile: il medium per avvicinarsi alla realtà è quella di accostare fra loro colori puri”. Prosegue infatti scrivendo che “mescolare i colori sulla tavolozza è una strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità.” 17


Dove verità non risponde al concetto di verosomiglianza, non riguarda più il grado di mimetismo raggiunto dalla pittura rispetto alla realtà, ma rimanda a un concetto universalmente condiviso, a un’idea di natura e di umanità comprensibile a tutti senza distinzione di ceto o cultura. Questo passaggio, determinante nella concezione artistica di un pittore autodidatta che faticava a leggere, diviene esplicito nelle parole di Grubicy che nel suo intervento su “La Triennale” del 189617 spiega la portata sociale della tecnica divisionista (della tecnica, non della pittura!) che «per merito della strabiliante evidenza “suggestionale” conseguita dal Segantini colla tecnica divisionista riuscì a trasportare nell’ammirazione, ad una forma attenuata di estasi momentanea, al godimento estetico», i montanari di Savognino invitati a osservare con attenzione i suoi dipinti e a isolare la visione sui particolari pittorici (mediante un cannocchiale improvvisato con dei fogli di carta). Egli specifica nel suo scritto che «l’intensità con cui – mediante l’avvicinamento, anziché il miscuglio dei colori – il cielo, la neve, gli esseri animati ed inerti sono avvolti dalla luce che funziona in quel momento preciso su tutta la scena, ne rende talmente evidenti le singole proprietà caratteristiche che basta uno sforzo minimo d’attenzione intellettiva perché la superficie piana della tela abbia a convertirsi all’occhio del riguardante il più analfabeta dell’arte, nella visione prospettica approfondita ed ingrandita della realtà18.» Con la morte di Segantini nel 1899 il Divisionismo subì una battuta d’arresto; Previati divenne un punto di riferimento e principale teorico per la ricerca del colore diviso, pubblicando vari trattati e traducendo La Science de la peinture (1891) di Georges Vibert. Nel 1905 uscì per le edizioni Bocca La tecnica della pittura, che fu un testo determinante insieme a I principi scientifici del divisionismo

Théo van Rysselberghe Té in giardino, (1904) olio su tela, 97,5 x 129,5 cm Bruxelles, Collection du Musée d’Ixelles

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Paul Signac Il castello di Comblat, 1887 olio su tela, 60 x 92 cm Liegi, Musée d’art moderne et d’art contemporain

(1906) per fondare l’uso di tratteggi di linee, colore filamentoso, o l’unione di queste tecniche allo scopo di smaterializzare forme e figure. Questi testi furono fondamentali per la generazione successiva, specie quella futurista, che dinamizzerà la visionarietà di Previati e accentuerà la tavolozza, caricandola di tasselli colorati e bagliori improvvisi. Fra i futuristi che applicano la tecnica divisionista va ricordato Leonardo Dudreville (1885-1976)19, che nel 1908 si lega alla Galleria Grubicy per staccarsene più tardi, quando nel 1913 fonderà con Antonio Sant’Elia e Achille Funi il Gruppo di Nuove Tendenze. Ai suoi esordi divisionisti appartiene anche l’olio esposto nella mostra di Arco, Meriggio a Borgotaro, dipinto nel 1908 (oggi nelle collezioni del Mart attraverso il deposito della VAF Stiftung) che mostra una diretta discendenza dai temi segantiniani. Come ha scritto Elena Pontiggia “l’amore per Segantini è l’amore per le campagne luminose e la quiete agreste, per i pascoli e per le montagne, per la vita in simbiosi con la natura”, seppure qui declinato attraverso una pennellata ricca di pigmento, filamentoso e saturo, predittivo dei successivi sviluppi futuristi e astratti. Il colore filamentoso è utilizzato da Tullio Garbari (1892-1931), altro attento estimatore di Segantini, nel paesaggio qui esposto, intitolato Preludio di gioia (1910), eseguito negli anni del suo apprendistato veneziano quando sperimenta una pittura che si dispone sulla tela prima per filamenti di colori poi per campiture più sinteticamente definite, fino all’opzione di una pittura quasi primitiva sia nella scelta dei temi che della pratica esecutiva. Molti degli artisti che studiano a Venezia nel primo decennio del 1900 sperimentano nel loro percorso giovanile una fase transitoria in cui ricorrono alla tecnica del colore diviso, molto spesso orientato, come in Garbari, in direzione del sintetismo, conosciuto attraverso le presenze internazionali della Biennale. Così Teodoro Wolf Ferrari (1878-1945), fondatore del gruppo L’Aratro, di cui viene presentato un paesaggio lacustre, Salici sul 19


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lago (1915) e Benvenuto Disertori (1887-1969) che nelle due chine colorate esposte (Ponte a Burano (La maison de la boiteuse) e La chiesa di San Domenico, Perugia), replica all’infinito un reticolo scomposto di segni colorati che costituiscono la texture dei due scorci veneziani e al contempo valgono come passaggio definitivo propedeutico alla pratica incisoria, di cui fu un indiscusso maestro. Su un altro fronte, non troppo distante, tra Verona e Venezia, anche Felice Casorati (1883-1963) sperimenta attraverso la produzione grafica, e quella incisoria in particolare, la riduzione degli elementi analitici e descrittivi della sua pittura precedente, per raggiungere una nuova sintesi linguistica21. Fra il 1912 e il 1914 si situano le litografie con i Notturni a San Floriano, La casa di San Floriano, la Vecchietta di San Floriano dove sperimenta nella pratica incisoria una tecnica puntinista, che si rivela attraverso piccoli tocchi di colore anche in opere pittoriche come il paesaggio qui esposto, Il lago di Garda (1912-1913), realizzato negli stessi anni. Sono gli anni in cui Casorati elabora capolavori come Il sogno del melograno (1912) o La preghiera (1914), fortemente caratterizzati da un colore che riempie ossessivamente lo spazio compositivo attraverso picchiettature che riproducono il ritmo mosso di un prato fiorito o di un cielo stellato, e sottraggono alla raffigurazione qualsiasi velleità vedutistica per introdurre piuttosto lo sguardo dello spettatore nella magia del colore. Il formato quadrato e la ritmica ossessiva dei punti di colore non lasciano dubbi sulla familiarità con le opere del veneziano Vittorio Zecchin, e prima ancora con i paesaggi di boschi e prati di formato quadrato di Gustav Klimt, esposti in Biennale nel 1910. In questi anni la pittura di paesaggio subisce una trasformazione importante, sollecitata soprattutto dalle esperienze secessioniste, a Vienna come a Monaco22. Sempre in Biennale, qualche anno prima, e precisamente nell’edizione del 1906, ampio spazio era stato dedicato al gruppo tedesco della Scholle/La zolla, un’associazione di pittori operanti nelle campagne di Dachau vicino a Monaco di Baviera, che attraverso la pennellata divisa, i tocchi di colore accostati sulla tela come le zolle nei campi, cercava di restituire un senso di primigenio ritorno alla terra (suggerito dalla scelta del nome, la zolla appunto, come riferimento a un elemento primario e costitutivo della natura)23. La Scholle abbinava all’esigenza di dipingere all’aperto, lontano dai condizionamenti accademici, alla ricerca di un contatto originario con la natura, la necessità di una semplificazione formale vicina allo Jugendstil, attenta ai valori di superficie. Nei dipinti la profondità spaziale della composizione non era più costruita prospetticamente, ma raggiunta attraverso il ritmo e la giustapposizione delle superfici; luci e ombre venivano risolti attraverso l’accostamento di colori caldi e freddi, mentre una pennellata piatta e allungata sostituiva il colore al volume. Fuori Monaco la Scholle partecipò alle mostre della secessione di Vienna nel 1902 e nel 1903, 1904, 1905 alle mostre della Secessione di Berlino; nel 1906 la sua produzione fu presentata a Venezia, in Biennale; nello stesso anno a Vienna vennero esposte ben undici 20


opere eseguite fra il 1895 e il 1905, a conferma dell’interesse che la Secessione viennese dimostrava verso i processi di semplificazione formale, soprattutto di quelli legati ad un’azione di svecchiamento del linguaggio figurativo tradizionale. Si trattava anche in questo caso di una declinazione particolare, discendente dall’Impressionismo per la sua tendenza all’en plein air, per la preferenza accordata alla raffigurazione di scene ambientate in giardini e parchi, di pic nic all’aria aperta. L’esperienza di pittura divisa della colonia di Dachau non era l’unica a rimeditare i precetti divisionisti in una sintesi moderna. La pittura del neo-impressionista belga Théo van Rysselberghe, appartenente al Groupe des Vingts, ottiene un grande successo sia a Venezia sia a Vienna in quanto rappresentante di un Pointillisme che, quasi vent’anni dopo la Grande Jatte di Seurat (1883-1885), viene riscoperto soprattutto dalla Secessione di Vienna e dalla Galleria Miethke che nel 1907 dedica una grande mostra alla pittura impressionista e neo-impressionista, allestita in contemporanea con la monografica di Gauguin24. Il critico della Secessione, l’ungherese Ludwig Hewesi si entusiasma della sua pittura e nel 1899, nel recensire le opere dell’artista belga esposte alla III Secessione, scrive che “un nuovo uomo e una nuova arte” si affacciano all’attenzione dei viennesi. La “décomposition pigmentaire du ton” utilizzata nelle sue opere viene individuata positivamente da Hewesi per il suo aspetto innovativo, tanto da dedicare, nello stesso anno, un intero capitolo a 25 Rysselberghe nella sua cronaca della Secessione viennese . Anche Hermann Bahr, l’altro celebre commentatore della Vienna di fine secolo, ha parole d’encomio per lui, tanto da iniziare la recensione alla mostra secessionista del 1899 così: «Entrati nella sala verde della Secessione dove sono appesi i quadri di Theo van Rysselberghe, si pensa di entrare nel sole»26. Prosegue la sua disamina con l’individuazione degli obiettivi della pittura dei neoimpressionisti, ovvero l’amplificazione dei valori di luce, colore e armonia, che Bahr trova particolarmente indicati non tanto per i quadri da cavalletto ma per un’arte decorativa che sia estesa alla dimensione del quotidiano, anche attraverso la tecnica del mosaico, che la pittura puntinista suggerisce. L’ambiente viennese si dimostra particolarmente ricettivo nell’accogliere la pittura neo-impressionista e la tecnica puntinista, come dimostrano certi paesaggi di Klimt. Luigi Bonazza (1877-1965) che a Vienna risiede per molti anni (1901-1912) sembra ricordare le suggestioni dei paesaggi klimtiani molti anni dopo il suo rientro a Trento (1912), come mostra il Bosco in autunno, qui esposto, un’opera datata 1940, costruita da una pennellata divisa che si dà per piccoli tocchi di colore, avvicinati fra loro, stretti nel formato del dipinto, sia che ricostruiscano l’immagine di una valletta boschiva o le atmosfere azzurre del lago di Garda nei pressi di Torbole dove l’artista risiedette per alcuni anni. Anche nei fiori posti al centro della composizione Giardino fiorito (1923-1925), caratterizzata dal formato quadrato, rintracciamo l’eco delle composizioni klimtiane, che non ha mai smesso 21


Luigi Bonazza La leggenda di Orfeo, 1905 olio su tela, 173 x 375 cm Rovereto, Mart deposito Sosat Trento

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di risuonare nell’artista trentino, tanto che, ritornato in patria, costruirà tutta la sua villa in quello stile decorativo che aveva appreso a Vienna, lavorando con i fratelli Klimt e Franz von Matsch. Fulcro della villa, che può essere considerata una coerente opera d’arte totale27, un trittico di ispirazione klingeriana raffigurante La leggenda di Orfeo, eseguito a Vienna nel 1905, riproponeva spunti e derivazioni tratte da un ampio repertorio di modelli secessionisti e del simbolismo internazionale, ma risolto dal punto di vista pittorico con il ricorso al colore diviso. Bonazza a Vienna attinge al mito nell’elaborazione di quest’opera tripartita nel racconto della punizione e della morte di Orfeo, ma lo dipinge accostando virtuosamente punti di colore uno accanto all’altro, che costruiscono figure costrette entro uno spazio fortemente bidimensionale. Questa tecnica non viene abbandonata negli anni: con una coerenza linguistica che ignora i decenni, egli la ripropone nei paesaggi e nei ritratti. Così un puntinismo seuratiano costruisce Il ritratto di Italia Bertotti (1923) negli anni Venti: il trattamento cromatico che oppone fra di loro punti fittamente colorati, così come era avvenuto nel Pointillisme storico, congela l’espressione e l’atmosfera del quadro, rafforza quella ieraticità, sottolineata dall’assoluta frontalità, che affonda la sua memoria nell’Autoritratto segantiniano, come mostra anche lo studio di testa per questo ritratto, oggi in collezione privata, che mantiene lo stesso taglio. La tecnica del colore diviso, conosciuto e studiato, come rivela anche un ritaglio trovato fra le sue carte con la riproduzione de La Grande Jatte di Seurat, conferma a Bonazza quell’“assetto definitivo che perpetua le sensazioni”, già individuato da Fénéon come uno degli esiti del Pointillisme. Anche per il Ritratto di Gigina (1930) Bonazza ricorre al puntinismo, che in questo caso sostiene una plasticità nuova, che solidifica le forme e le congela in una staticità sospesa, quasi magica, che trasforma il ritratto della nipote in un’effigie novecentesca, con collana e vaso, come nella migliore tradizione sarfattiana.


Luigi Ratini La Dea Roma, (1925-1930) tempera su pergamena, 325 x 320 mm Collezione privata

Ritroviamo questo modello anche nel Ritratto della Signora Rostirolla (1931/1940), eseguito dal triestino Vito Timmel (18861949)28, anche lui ex cittadino dell’impero asburgico, che pone fra le mani dell’effigiata il suo testamento spirituale, Il Magico Taccuino, dove il linguaggio onirico e visionario dell’artista commenta molte delle sue opere in quello che Claudio Magris ha definito un «balbettio incoerente (…), un singulto verbale che pare cerchi di retrocedere all’afasia e al totale oblio, a quell’amnesia completa che il Viandante chiama “nostalgia”, desiderio di annullare tutti i segni»29. Il libro è un diario-romanzo, scritto a più riprese tra il 1926 e il 1938, quasi una sorta di autobiografia dove Timmel veste i panni di un viandante che ripercorre la sua vita. Formatosi nella Vienna secessionista, egli non si rivolge da subito al puntinismo, come invece il conterraneo Antonio Camaur (1875-1919)30, che nei suoi paesaggi dei primi anni del ’900, come quello qui esposto proveniente dal Museo Revoltella di Trieste, richiama i formati klimtiani e un puntinismo che rarefà le atmosfere e bidimensiona le forme. Camaur esordì come scultore alla Biennale del 1905 dove presentò Sogni e l’anno dopo venne chiamato come docente presso la Scuola per Capi d’arte a Trieste, succedendo a Giovanni Depaul. Il suo esordio come pittore fu qualche anno più tardi, alla Biennale del 1914 dove presentò All’aperto (La signora Olga Camavitto), oggi 23


Vito Timmel Gli Infelici (Gli Eroi), (1920) olio su tela, 202 x 186 cm Collezione privata

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esposto a Arco. Qui la tecnica puntinista assolve al compito di rischiarare la tavolozza, fino a creare quasi un effetto di sovraesposizione fotografica, e assegna al paesaggio il ruolo di vero protagonista del dipinto, che del resto lo stesso titolo indica come il tema principale (All’aperto). In quegli anni (1913-1916) Timmel andava elaborando le figure per la decorazione del Teatro-Cine-Ideal di Trieste, una grande commissione decorativa, che mantenne vivo in lui, fino allo scoppio della guerra, il grande sogno di un’arte totalizzante appreso a Vienna. Negli anni Venti la cadenza sinuosa e un po’ Liberty delle sue danzatrici si irrigidisce nei ritmi sincopati del Decò prima e dei volumi novecenteschi poi, mai dimenticando quella vivacità cromatica, quasi espressionista, che è sigla costante delle sue raffigurazioni. Oltre ai ritratti della borghesia triestina Timmel concepì alcune opere fortemente simboliste a partire da Gli Infelici (1920), una composizione che rimedita negli anni Venti il tema segantiniano delle cattive madri, unito a quello dell’albero della vita, anch’esso reminiscenza segantiniana, come ricordava l’amico pittore Cesare Sofianopulo, sulle pagine di “Orizzonte Italico”31. Timmel continuerà ad esprimersi attraverso il simbolo anche in molte altre opere fra cui L’Albero della vita (Eternità) (1941), qui esposto. Vero epilogo del “Viandante”, la surreale raffigurazione timmeliana pone al centro della composizione un libro aperto, con i principali temi affrontati dal Magico Taccuino: Iddio, Soste, Uomo, Donna, Infinito. Al Magico Taccuino fanno da cornice due tronchi, uno secco, l’altro fiorito a significare la dialettica fra vita e morte, come ne Le tre carrozze (1940), dove il riferimento ai temi della vita, della morte, del trapasso, diventa ancora più palese, e anche la citazione segantiniana diventa evidente nella distinzione fra i due rami che inquadravano la figura seduta sull’albero di Dea Cristiana o L’Angelo della Vita, a sinistra vivo con delle foglie in germoglio, mentre a destra il ramo dello stesso tronco è spoglio, morto. Qui come ne Lo studio del pittore (1940), caratterizzato da un ordine quasi metafisico nella disposizione dei singoli oggetti, e dei vari piani sovrapposti e ingannevoli, la tecnica puntinista e a minuscoli tratti, accresce l’atmosfera rarefatta e fantastica; al carattere onirico e surreale della sua pittura corrisponde anche lo stile delle sue parole, che nel Magico Taccuino commentano molti quadri, come ad esempio, Le tre carrozze: «Le tre carrozze Un androneggiar di rocce estive Da un lato pinte dal sol Dall’altro tetre umide in oscura ombra. Uno solo, il più vicino di quei cigli arcati che son mille e mille, s’accentua e sembra che discosti quelle cime terror invade quel corteo a scorrere sempre da scheletri trainato L’andar tre volte si tramuta di carrozza. 25


Nell’altro tetro, silente, umido varco/null’altro s’ode fuor di uno scricchiolar di disnodate ossa. Si spegne la vista a quell’istante punteggiando negli inesistenti spazi delle macchie infide. Commento La vita è trimetrata: si muta con l’esistenza; da culla diviene carrozza e diventa bara. Questi passaggi stanno tra rocce cui da un lato il sol pinge l’annunziale ingresso e tronca il centro con l’ombra per portar nella tenebra definitiva, dove l’affanno e il giubilo vengono per sempre dimenticati. Questi cigli dividono i due limiti forati, chi li percorre è duro; coloro che si avventurano si acciuffano come se tutto fosse eterno e appartenesse a loro. No! Appartiene a quel ciglio. Tutti lasciano di là del foro ombroso il loro fardello sostanziale. Le soste sono tre Atomo. Vivendo nell’intimo Uomo. Vivendo sulla Terra. 32 Stella. Vivendo al cospetto dell’inconcepibile» .

Vito Timmel mentre dipinge Le tre carrozze

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1 Un sentito grazie da parte mia va a Paola Casorati per la sua fiducia e l’affetto dimostrati nei miei confronti. 2 Archivi del Divisionismo, a cura di M. T. Fiori, Officina, Roma 1969, I, p. 124. 3 Archivi del Divisionismo, cit., I, p. 211. 4 A questo proposito si veda l’attenta analisi di C. Madrignani, Il divisionismo tra “eccezionale fulgore luminoso” e “tappezzeria o ricamo di perline di vetro”, in L’età del Divisionismo, a cura di G. Belli, F. Rella, Electa, Milano 1990, pp. 112-136. 5 V. Pica, Impressionisti, Divisionisti e Sintetisti, in “Il Marzocco”, a. II, n. 2, 14 settembre 1895, pp. 130-131, poi ripubblicato in Gli impressionisti francesi, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1908, pp. 202-204. 6 V. Grubicy, Tecnica ed estetica divisionista, in “La Triennale”, nn. 14-15, 1896, pp. 110-112. 7 V. Pica, Impressionisti, Divisionisti e Sintetisti, cit., pp. 202-204 e M.M. Lamberti, Vittorio Pica e l’Impressionismo in Italia, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 5, No. 3 (1975), pp. 1149-1201; C. Madrignani, Il divisionismo tra “eccezionale fulgore luminoso” e “tappezzeria o ricamo di perline di vetro”, cit., pp.112-136. 8 F. Fénéon, Correspondence particuliére de l’Art moderne. L’Impressionisme aux Tulieres, in “L’Art moderne”, 19 settembre 1886, pp. 300-303. 9 F. Fénéon, La Grande Jatte, in “L’Art moderne”, 6 febbraio 1887, pp. 43-44; F. Fénéon, Le Neo-Impressionisme, in “L’Art moderne”, 1 maggio 1887, pp. 138140, citati da A.-P. Quinsac, Segantini, il divisionismo italiano, le avanguardie francesi e la cultura visiva europea, in Quaderni grigionitaliani, n. 4, a. 68, 1999, pp. 367-379. 10 Su Grubicy si rimanda a Vittore Grubicy e l’Europa. Alle radici del divisionismo, a cura di A.-P. Quinsac, catalogo della mostra (Torino, GAM, 22 luglio - 9 ottobre 2005; Trento, Mart, Palazzo delle Albere, 28 ottobre 2005 -15 gennaio 2006; Milano, Museo dell’Ottocento, 22 luglio - 15 gennaio 2006), Skira, Milano 2005. 11 Quinsac riporta un riferimento indicato da Sandra Beresford, in Post Impressionism. Cross Currents in European Painting, a cura di J. House, M.A. Stevens, catalogo della mostra, (Londra, Royal Academy of Arts), Royal Academy of arts, Weidenfeld and Nicolson, London 1979, p. 222: “The only Neo-Impressionist work specifically named by Grubicy is E.J. Laurent’s The Young poet watches his youth pass by”. Cfr. A.-P. Quinsac, Segantini, il divisionismo italiano, le avanguardie francesi e la cultura visiva europea, cit., p. 376. 12 Cfr. Divisionismo romano, a cura di L. Stefanelli Torossi, catalogo della mostra (Roma, Galleria Arco Farnese, 20 gennaio - 31 marzo 1989), De Luca ed., Roma 1989. 13 Si vedano a questo proposito i recenti contributi in La coscienza del vero. Capolavori dell’Ottocento da Courbet a Segantini, a cura di A. Tiddia, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 5 dicembre 2015 - 3 aprile 2016), Electa, Milano 2015. 14 Su questo punto si veda il recente contributo di Nicoletta Colombo: N. Colombo, Divisionismo lombardo piemontese. Dall’epoca storica alle soglie del Futurismo, in Divisionismo tra Torino e Milano. Da Segantini a Balla, a cura di N. Colombo, G. Godio, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi Ometto, 16 settembre 2015 - 16 gennaio 2016), Silvana ed., Cinisello Balsamo 2015, pp. 10-27. 15 N. Colombo, Divisionismo lombardo piemontese. Dall’epoca storica alle soglie del Futurismo, cit., p.17. 16 Rovereto, Mart, Archivio del ’900, Fondo Grubicy-Benvenuti, Ben.V.6.1. 17 V. Grubicy, G. Segantini e la portata sociale della tecnica divisionista, in “La Triennale”, n. 13, 1896, p. 103.

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18 V. Grubicy, G. Segantini e la portata sociale della tecnica divisionista, cit., p. 103. 19 E. Pontiggia, La luce e l’ombra della realtà. Leonardo Dudreville dal mondo divisionista al mondo fiammingo, in Leonardo Dudreville 1885-1975. Dal Divisionismo al Novecento, a cura di E. Pontiggia, catalogo della mostra (Monza, Villa Reale, 19 settembre- 19 dicembre 2004), Silvana ed., Cinisello Balsamo 2004, p. 12. 20 Benvenuto Disertori (1887-1969). Un segno Liberty, a cura di A. Tiddia, catalogo della mostra (Trento, Torre Vanga, 15 giugno - 2 settembre 2012), TEMI, Trento 2012. 21 Cfr. A. Tiddia, “Come una goccia d’acqua su una lastra di diamante”. Note sulle incisioni di Felice Casorati, artista siderale, in Il giovane Casorati. Padova, Napoli e Verona, a cura di V. Baradel, D. Banzato, catalogo della mostra (Padova, Musei Civici agli Eremitani, 26 settembre 2015 - 10 gennaio 2016), Skira, Milano 2015, pp. 84-95. 22 A questo proposito si veda il recente studio Formalisierung der Landschaft. Hölzel, Mediz, Moll u.a., a cura di A. Klee, catalogo della mostra (Vienna, Belvedere, 28 maggio- 8 settembre 2013), Hirmer Verlag, Wien 2013. 23 La finalità del gruppo venne dichiarata esplicitamente nelle pagine della rivista monacense “Jugend” (n. 42, a.8, 1903, p. 754) : «Die Scholle hat kein anderes gemeinsames Ziel, keine andere Marschroute, als dass jeder seine eigene ’Scholle’ bebaue, die freilich auf keiner Landkarte zu finden ist.» Si veda: Die Künstlergemeinschaft Scholle im Kreis der Jugend und Secession, a cura di B. Dörr, catalogo della mostra, Galerie B. Dörr, München 1992 (con relativa bibliografia); Die Scholle. Eine Künstlergruppe zwischen Sezession und Blauer Reiter, a cura di S. Unterberger, F. Billeter, U. Strimmer, catalogo della mostra (Schweinfurt, Museum Georg Schäfer, 25 novembre 2007 - 1 giugno 2008), Prestel, München 2007. 24 Französische Postimpressionisten, Vienna, Galerie Miethke, marzo-aprile 1907. Cfr. Die Galerie Miethke. Eine Kunsthandlung im Zentrum der Moderne, a cura di T. Natter, catalogo della mostra (Vienna, Jüdischen Museum der Stadt Wien, 19 novembre 2003 - 8 febbraio 2004) Judische Museum, Wien 2003, pp. 205-206. 25 L. Hewesi, Acht Jahre Secession. Kritik. Polemik. Chronik, C. Konegen ed., Wien 1906, pp. 101-102, 102-107, 166, 188, 242, 358, 406, 464. 26 H. Bahr. Secession. Dritte Ausstellung. Rysselberghe, in Hermann Bahr. Studien zur Kritik der Moderne. Kritische Schriften in Einzelausgaben IV, a cura di C. Pias, VDG, Weimar 2007, pp. 77-82. 27 Cfr. A. Tiddia, 1913-2013. Due centenari secessionisti in Trentino: Klimt e Bonazza, in “Studi Trentini di Scienze Storiche. Arte”, a. 92, n. 1, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche 2013, pp. 135-151. 28 Cfr. A. Tiddia, Un pittore della Mitteleuropa: Vito Timmel (Vienna 1886-Trieste 1949), in “Il Cristallo”, Centro di Cultura dell’Alto Adige, a. XXII, n. 3, 1990, pp. 87-91; A. Tiddia, Timmel e il Caffè San Marco, in S. Vinci, Al Caffè San Marco. Storia, arte e lettere di un caffè triestino, Lint ed., Trieste 1995, pp. 131-139 e F. Marri, Vito Timmel, Fondazione CRTrieste, Trieste 2005. 29 C. Magris, Introduzione, in V. Timmel, Il Magico Taccuino, a cura di A. Pittoni, Ed. Lo Zibaldone, Trieste 1978, p. XXVII. 30 M. Masau Dan, Antonio Camaur e Alfonso Canciani. Due artisti friulani nella Vienna di Klimt, Associazione Goriziana Amici dei Musei, Gorizia 2002. 31 C. Sofianopulo, Gli Infelici, in “Orizzonte Italico”, n 2, febbraio 1923, pp. 6-8. 32 V. Timmel, Il Magico Taccuino, cit., pp. 13-15.

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Il Divisionismo nelle parole di Grubicy e Segantini Ilaria Cimonetti

Lettera di Giovanni Segantini a Vittore Grubicy (particolare) 23 aprile 1888 Rovereto, Mart Archivio del ’900 Fondo Grubicy-Benvenuti

Giovanni Segantini, assieme a Gaetano Previati, Angelo Morbelli, Emilio Longoni e, più tardi, Giovanni Pellizza da Volpedo, fu uno dei primi artisti italiani a intraprendere la strada della pittura divisa, ottenendo, già nell’ultimo decennio dell’Ottocento, un notevole successo. Il Divisionismo si affermò in Italia con la forza di una vera rivoluzione estetica che trovava, come si intuisce dallo stesso nome, una ragione d’essere profonda nell’innovativa tecnica pittorica utilizzata. Se è vero che la tecnica divisionista – basata sugli studi di ottica portati avanti durate il XIX secolo da scienziati quali Michel-Eugène Chevreul, Ogden Rood e Hermann von Helmholtz e sui principi della teoria della percezione – non fu mai per gli artisti italiani il fine ultimo della rappresentazione, ma soltanto un mezzo1, è altrettanto certo che la pennellata divisa, intesa come medium ideale per la resa della luce, assunse un significato insostituibile e connaturato alla costruzione e alla trasmissione stesse del messaggio dell’opera. Non è quindi un caso che gli artisti divisionisti abbiano speso molte parole per dar conto dell’importanza di questa innovazione tecnica e, se Previati arrivò a pubblicare veri e propri trattati di pittura2, la maggior parte degli artisti, da Morbelli a Pellizza, fino a Segantini, affidarono le loro riflessioni soprattutto alle lettere, spesso indirizzate al loro più convinto mecenate, Vittore Grubicy3. Nel Fondo Grubicy-Benvenuti conservato nell’Archivio del ’900 del Mart di Rovereto4, che si rivela in questo senso una preziosa fonte di informazioni, è custodita una trascrizione, di mano di Benvenuto Benvenuti, della nota lettera che Giovanni Segantini scrisse a Carlo Orsi, in occasione della mostra fiorentina del 1896, dove espose Il dolore confortato dalla fede, L’amore alla fonte della vita e 31


Il frutto dell’amore. Oltre a fornire indicazioni circa l’allestimento dei suoi quadri, Segantini si soffermò su alcune fondamentali considerazioni che ci permettono di entrare nel merito della tecnica pittorica segantiniana, dalla scelta dei colori alla preparazione della tela e, soprattutto, al suo modo di stendere e di costruire le pennellate: «Io dipingo semplicemente e naturalmente; più naturale e più semplice di come io faccio, non credo possibile. Pei colori e la tela mi servo dalla Ditta Lefranc e C. di Parigi; la mia tavolozza è la più semplice che imaginarsi possa»5. Dopo aver elencato con precisione quindici dei colori che adoperava nei suoi dipinti, Segantini parlò della preparazione a gesso e olio della tela, mai lasciata bianca ma ricoperta da una tinta di terra rossa, e in seguito dell’esecuzione del disegno preparatorio direttamente sulla tela6. Ma il momento culminante del processo artistico era naturalmente quello della stesura del colore, descritto con tale sintesi e precisione che leggendo queste parole oggi, sembra quasi di poter vedere il pittore al lavoro davanti ai suoi grandi cavalletti: «Stabilite sulla tela le linee esprimenti la mia volontà ideale, procedo alla colorazione, dirò così, sommaria, come preparazione però, più vicina alla verità che m’è possibile; e ciò faccio con sottili pennelli piuttosto lunghi, e incomincio a tempestare la mia tela di pennellate sottili, secche e grasse, lasciandovi sempre fra una pennellata e l’altra uno spazio, interstizio, che riempisco coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciocché il dipinto resti più fuso. Il mescolare i colori sulla tavolozza, è una strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità. Questo fatto è ora ammesso da tutti i pittori intelligenti, ma ben pochi di essi (quasi nessuno) sanno rendersi conto di tutta l’estensione di diversità che esiste fra il mescolare i colori sulla tavolozza ed il metterli puri sulla tela»7.

Giovanni Segantini Il dolore confortato dalla fede, 1896 riprodotto in “La Triennale” n. 14, 1896

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Il Divisionismo aveva fatto il suo esordio ufficiale sulla scena espositiva italiana solo cinque anni prima, quando alla I Triennale di Brera del 1891 furono esposti, tra gli altri quadri, Le due madri di Segantini, Maternità di Previati, L’oratore dello sciopero di Longoni, Alba e Parlatorio del luogo Pio Trivulzio di Morbelli. Come dimostrano le numerose recensioni negative apparse anche su importanti giornali come “Il Corriere della Sera” e “L’Illustrazione Italiana”, la maggior parte della critica guardò a questa innovazione tecnica con diffidenza, se non addirittura con aperto disprezzo, ma il Divisionismo e gli artisti che fin da quel momento lo accolsero, trovarono un acuto e battagliero sostenitore in Vittore Grubicy de Dragon, poliedrica figura di critico, mecenate, mercante d’arte e artista lui stesso, a cui si deve la teorizzazione più convincente del Divisionismo e la diffusione in Italia delle nuove teorie estetiche8. È noto che tra Grubicy e Segantini esistesse un legame, personale e lavorativo, profondo, che, nonostante la grave rottura dei loro rapporti in seguito all’estromissione di Vittore dalla gestione della galleria che possedeva con il fratello Alberto – motivata quindi in pri-



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mis da dissensi di natura economica – , proseguì fino agli ultimi giorni di vita del pittore trentino, testimoniato da una ricca corrispondenza che rivela come Segantini considerasse Vittore uno dei pochi interlocutori a cui poter confidare i pensieri più profondi sulla sua arte10. Gli esiti pittorici della seconda metà degli anni Novanta, così ben illustrati nelle loro implicazioni tecniche nella lettera a Orsi, ebbero come premessa gli studi condotti, a partire dal 1886, a Savognino. La genesi di quella che oggi viene indicata come la prima opera divisionista in Italia, ossia la seconda versione di Ave Maria a trasbordo, e il particolare coinvolgimento di Vittore ci vengono raccontati da Primo Levi in un lungo articolo dedicato all’attività artistica di Segantini, apparso sulla “Rivista d’Italia” all’indomani della morte del pittore: «Nell’estate del 1886 Segantini aveva piantato le tende con la sua famigliola a Savognino innamorandosene (…). Vittore, recatosi in novembre a visitarlo, e fermatosi colà cinque mesi, trovava la tela [della prima versione dell’Ave Maria a trasbordo] in pessime condizioni, per l’uso della vernice nel dipingere, annerita e screpolata. Vittore indusse allora Segantini a far si che non andasse interamente perduta un’opera tanto geniale. Segantini la ricominciò infatti sopra una tela alquanto più vasta della prima, vi lavorò sempre presente Vittore, il quale la portò poi seco a Venezia; e fu questo il primo esperimento di applicazione del divisionismo. (…) Né mai il divisionismo, applicato prima e dopo di lui in altri ambienti, ebbe ragione e giustificazione più appropriata, poiché in questo caso più e meglio che in qualunque altro, risultò necessaria, inevitabile e conseguente la relazione fra il modo di essere della luce nell’ambiente, ed il modo della sua riproduzione pittorica»11. Vittore Grubicy, durante il suo tour europeo che, tra gli anni ’70 e ’80, lo condusse dall’Inghilterra alla Francia, dal Belgio all’Olanda, era entrato in contatto con il Groupe des XX, che, nato a Bruxelles nel 1884 per iniziativa di Octave Maus, nei primi anni di attività si fece promotore di tendenze di stampo neoimpressionista, esponendo già nel 1887 La Grande Jatte di Georges Seurat. Su “L’Art moderne”, organo ufficiale del gruppo, trovavano spazio numerosi articoli, spesso a firma di Felix Fénéon, dedicati alle nuove teorie scientifiche sul colore, sulla luce e sulla percezione ottica. Grubicy, che continuò a seguire la rivista anche una volta rientrato in Italia, concentrò il suo interesse su queste ricerche; la speciale ammirazione per gli esiti degli studi dell’americano Ogden Rood è testimoniata da una cartolina datata 18 agosto 1887, in cui Hubert van Dijk, amministratore de “L’Art moderne”, forniva a Vittore l’indirizzo della casa editrice che aveva pubblicato Théorie scientifique des couleurs, la traduzione francese del libro di Rood, e gli assicurava che avrebbe potuto trovarlo in tutte le librerie meglio fornite12. Meno di dieci giorni più tardi Grubicy pubblicò su “La Riforma” un articolo intitolato I colori dell’arte, in cui il debito verso le teorie formulate da Rood, mediate dalla lettura proposta da “L’Art moderne”, è evidente13. L’intensificarsi dell’interesse di Grubicy per le questioni del colore 34


e della sua scomposizione lo portò quindi a suggerire all’amico Segantini, già alla ricerca di mezzi più efficaci per rendere la luce tersa delle montagne grigionesi, di tentare la via della pennellata divisa. Lo sfondo di Ave Maria a trasbordo, pur dipinta nella seconda versione a Savognino, è ancora quello del lago di Pusiano, nella brumosa Brianza, e infatti Segantini, nella celebre lettera-catalogo inviata a Domenico Tumiati il 29 maggio 1898, non ritenne necessario includerla tra le opere più significative di quel “secondo periodo” iniziato nelle Alpi dei Grigioni a Savognino, dove “la mia arte prese quel carattere che ancora conserva. Quel misterioso divisionismo dei colori che voi vedete nell’opera mia, non è che naturale ricerca della luce”14. Pur ricordata dalla critica come la prima opera divisionista, la scomposizione del colore in Ave Maria a trasbordo appare appena abbozzata, e di questo doveva essere consapevole lo stesso Segantini, tanto che nel corso degli anni successivi sentì il bisogno, forse incalzato da Vittore, di apportarvi ritocchi e modifiche. Alcune lettere, che testimoniano questa necessità di intervenire nuovamente sulla tela, ci permettono di comprendere l’importanza dello studio dal vero degli effetti luminosi, traducibili sulla tela grazie alla divisione del colore. Nei primi giorni di marzo del 1888 Segantini scrisse infatti ad Alberto «se Vittore vol spedirmi lave Maria la gustero [aggiusterò]»15; Vittore dovette provvedere immediatamente alla spedizione della tela, visto che l’11 marzo Segantini gli comunicò che «Ho ricevuto il quadro Ave Maria mi fece buona impressione ma ce molto lavoro da farci e lo farò»16. In un’altra lettera senza data, ma collocabile certamente in questo torno di tempo, Segantini insistette sulla necessità di intervenire nuovamente sul dipinto che aveva “bisognio d’una vibrazione sentita del vero”17. Che le modifiche e i ritocchi riguardassero interamente la resa luministica della scena fu chiarito dall’artista stesso in un’ulteriore lettera a Vittore, datata 23 aprile: «Mi duole che tu attendi lave Maria, ho tentato ma fu tempo sprecato, ci vuole l’estate, una di quelle sere in cui il sole nella pienezza della sua luce, si corica tranquillo e dolce, che bagnia della sua luce la terra e le piante gli animali e li oggetti tutti, che da quella pace infinita della tranquillità solenne, quel senso di Amore, e di dolcezza che fa buoni. In mezzo a questo bianco, che da 6 mesi dura non mi posso raccapezzare. Vedi se io l’avessi studiato una qualche volta questo effetto potrei domandare alla mia memoria se va bene cosi se quel tono è giusto el’altro ma essa non sa. Io ho ben fatto qualche volta il senso o sentimento della sera ma mai la sera nella realtà, il quadro come mi trovava possedevo il senso o sentimento della sera ma non era la sera naturale e viva»18. I Grubicy volevano la tela per la mostra londinese organizzata in occasione della Italian Exhibition, ma Segantini non riusciva ad apportarvi le modifiche che sentiva necessarie, non trovando a Savognino le condizioni di luce adatte. La traversata del lago, sog35


getto del dipinto, avviene nell’ora dell’Ave Maria, al tramonto, momento della giornata che il pittore conosceva solo nel “senso o sentimento”, ma non negli effetti reali, naturali e vivi della luce, i quali potevano essere catturati solo a diretto contatto con la natura, durante quelle lunghe sedute all’aperto che divennero una prassi abituale per Segantini e che in quel momento gli erano impedite dal lungo inverno delle Alpi Grigionesi19. Come si è detto, nonostante l’estromissione dalla galleria, Grubicy non smise di dedicare la sua attenzione alla parabola artistica di Segantini. Nel 1891, in occasione della Triennale, prese le difese dei pittori divisionisti e a proposito de Le due madri di Segantini, un interno di stalla rischiarato dalla luce artificiale di una lanterna, scrisse che la difficoltà della resa di questa luce fioca e diffusa fu una sfida vinta solo grazie «all’applicazione dei colori divisi invece che al solito impasto della tavolozza. L’intuito naturale, che ha portato questo artista, sino dalle primissime sue opere, alla ricerca della luminosità nella trascrizione pittorica, l’ha già da vari anni ingolfato nello studio praticato della divisione di colori»20. Nel 1896 pubblicò, su “La Triennale” torinese, l’articolo G. Segantini e la portata sociale della tecnica divisionista, interamente incentrato sull’analisi della tecnica segantiniana e, più in particolare, del suo significato sociale21. Abbandonando la tecnica a impasto, più rapida e di più certo successo, con la quale aveva creato capolavori come Alla stanga, Segantini aveva intrapreso una strada impervia, ma che corrispondeva all’intima necessità di ricercare le “purezze luminose della colorazione”. Il linguaggio tradizionale fatto di convenzioni fu sostituito dalla “visualizzazione pressoché reale dell’oggettività”: la pennellata divisa “rende talmente evidenti le singole proprietà caratteristiche (…) che basta uno sforzo minimo d’attenzione intellettiva perché la superficie piana della tela abbia a convertirsi all’occhio del riguardante il più analfabeta dell’arte, nella visione prospettica approfondita e ingrandita della realtà”. A questo proposito Grubicy si dilungò nel racconto di un esperimento condotto con un gruppo di montanari messi di fronte ad alcune opere di Segantini raccolte in un salone, tolte dalla cornice e messe a terra, appoggiate alle pareti, spogliate in sostanza di tutte le convenzioni che caratterizzano abitualmente la fruizione di un’opera. Grubicy fornì alla gente del paese, che in fatto d’arte mostrava una “virginea ignoranza”, dei fogli arrotolati a formare un semplice tubo, attraverso cui potevano osservare i particolari dei dipinti escludendo dal campo visivo ogni elemento di distrazione: tutti, senza distinzione, “leggevano correttamente il contenuto complessivo ed aneddotico della tela” e ogni più piccolo dettaglio, dall’albergo della Posta di Savognino ritratto da Segantini alla “contrazione d’un muscolo della membrana che cade flaccida sotto al giugulare” di una mucca bianca, appariva a loro giusto, preciso e definito. 36


La “strabiliante evidenza suggestionale” della tecnica divisionista – di cui Grubicy indicò come esempio magistrale Il dolore confortato dalla fede –, rivolgendosi più all’occhio che all’immaginazione, permetteva a chiunque, anche a chi non aveva familiarità con le convenzioni artistiche, un’immediata leggibilità sia del contenuto oggettivo che di quello spirituale delle opere di Segantini, garantendo a tutti il raggiungimento del vero “godimento estetico” e restituendo così all’arte la sua necessaria utilità sociale. Questi aspetti vennero approfonditi in un articolo apparso sul numero successivo de “La Triennale” e intitolato Tecnica e estetica divisionista22, che, pur nella prossimità cronologica, si configura come una sorta di analisi retrospettiva del movimento. Grubicy individuò nella Scapigliatura, e in particolare nell’applicazione intuitiva della divisione del colore di Daniele Ranzoni e Tranquillo Cremona, un precedente diretto del Divisionismo; quest’intuizione “ebbe la sua sanzione scientifica” quando divenne disponibile in francese il testo del fisico americano Rood, che dimostrava come “dati due colori mescolati sulla tavolozza per ottenere una data tinta; e dati i due stessi colori, nelle stesse proporzioni, non mescolati, ma avvicinati l’uno all’altro sì da ottenere la tinta colla fusione ottica che ne risulta a distanza; la seconda tinta, ottenuta in questo modo, è di tanto più pura e luminosa della prima, che, per eguagliarla ad essa, bisognerebbe sporcarla con 52 parti (sopra 100) di nero eppoi ancora snervarla con altre 9 parti di bianco. Il che equivalse all’aver dimostrato che i colori, adoperati divisi, anziché in miscuglio, aumentano del 61 per cento le risorse di luminosità e di brillantezza della tavolozza”. Se presi puri, i colori immobili sulla tela “si succedono sulla retina, si fondono, si urtano, oscillanti dai toni freddi ai caldi, o scossi dalle rapide vibrazioni dei contrapposti complementari”. La consacrazione definitiva di questa tecnica avvenne però nella terza fase, di cui Segantini era il più alto e il più completo rappresentante: una volta compresa e interiorizzata la legge scientifica, la sua concreta applicazione poteva e doveva tornare a essere più libera e sciolta, in nome di quella suggestione che era carattere essenziale di questo nuovo “linguaggio di maggiore espansività sociale”. «Quando si è detto divisionismo si è detto tutto. Ottenere la luminosità è lo scopo a cui mira il procedimento divisionista e quanto ai puntini, striature, ecc., ecc., non soni che i mezzi meccanici, accidentali, variabili che si adoperano per ottenere lo scopo».

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1 È questa una delle principali differenze che affermano il Divisionismo italiano come un movimento autonomo, seppur connotato da numerose affinità, rispetto al Pointillisme francese. Si veda A.-P. Quinsac, Il Divisionismo italiano. Trent’anni di vita culturale tra radici nazionali e fermenti europei, in Divisionismo Italiano, a cura di G. Belli (Trento, Palazzo delle Albere, 21 aprile - 15 luglio 1990), Electa, Milano 1990, pp. 18-26 e G. Belli, Néo-impressionnisme français et divisionnisme italien. Brève histoire d’une convergence culturelle, in “4814. La Revue du Musée d’Orsay”, n. 12, printemps 2001, pp. 90-95. 2 Cfr. G. Previati, La tecnica della pittura, Fratelli Bocca, Torino 1905; Principi scientifici del Divisionismo, Fratelli Bocca, Torino 1906; Della Pittura: tecnica e arte, Fratelli Bocca, Torino 1913. 3 Anche Giovanni Segantini scrisse alcuni testi teorici, tra cui ricordiamo Così penso e sento la pittura, in “Cronaca d’arte”, 1 febbraio 1891. Oltre alle lettere indirizzate a Grubicy da Morbelli, Pellizza, Previati e Segantini (di cui molti esemplari sono conservati nell’Archivio del ’900 del Mart), grande rilievo ha anche l’epistolario tra Previati e il fratello Giuseppe (G. Previati, Lettere al fratello, a cura di S. Asciamprener, Hoepli, Milano 1946). 4 Cfr. Fondo Vittore Grubicy. Inventario, a cura di F. Velardita, Nicolodi editore, Rovereto 2005. 5 Lettera di Segantini a Carlo Orsi, novembre 1896, trascrizione di Benvenuto Benvenuti, (Ben.V.6.1). La lettera fu pubblicata già da Bianca Segantini in Scritti e lettere di G. Segantini, a cura di B. Segantini, Fratelli Bocca, Torino 1910, pp. 152154. Carlo Orsi, pittore toscano e amico di Segantini, ne rappresentò gli interessi in occasione della mostra organizzata per la Festa dell’Arte e dei Fiori di Firenze. 6 In una celebre lettera a Vittore (che ne pubblicò uno stralcio nel suo articolo La parola dell’artista su “La Riforma” del 5 gennaio 1888) specificò così il suo modo di procedere: “Come tu sai io non faccio mai bozzetti, perché se facessi il bozzetto non farei più il quadro. (…) io voglio che il pensiero vergine si conserva nel cervello”, cfr. lettera di Segantini a Vittore Grubicy, 28 dicembre 1887, in Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati, a cura di A.-P. Quinsac, Cattaneo Editore, Oggiono (Lecco) 1985, n. 78, pp. 125126. 7 Lettera di Segantini a Carlo Orsi, novembre 1896, cit. 8 Le critiche più pesanti furono in realtà riservate a Gaetano Previati e alla sua Maternità. Cfr. V. Greene, Morbillo pittorico: contagio del Divisionismo in Italia, in I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo, a cura di B. Avanzi, D. Ferrari, F. Mazzocca, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 25 giugno - 9 ottobre 2016), Electa, Milano 2016, pp. 58-73. 9 Nonostante i successi, dovuti in gran parte ai consensi che l’opera di Segantini stava raccogliendo in tutta Europa, la galleria Grubicy arrancava e Alberto incolpò delle sempre più stringenti difficoltà economiche il fratello e la sua decisione di continuare a sostenere giovani artisti emergenti. Le tensioni tra i due non poterono che avere serie ripercussioni anche su Segantini, che, al momento della resa dei conti, verso il 1890, scelse di schierarsi dalla parte di Alberto, più abile amministratore delle finanze della galleria rispetto all’idealista Vittore. Sulla scorta di ciò che scrisse Primo Levi ancora nel 1900 (cfr. P. Levi, Il fenomeno Grubicy, in “Politica letteraria”, 1900), la critica aveva individuato la motivazione del conflitto tra Vittore e Segantini nelle tendenze sempre più rivolte verso il Simbolismo di quest’ultimo; tale interpretazione tuttavia, basata soprattutto su alcune lettere in cui i due dibattono sul dipinto Petalo di Rosa, è stata ridimensionata, se non interamente confutata, da Annie-Paule Quinsac (cfr. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati, cit., nota 2 alla lettera n. 90, pp. 136-137), in una riflessione poi ripresa e ampliata da Giorgio Mascherpa (G. Mascherpa, Vittore, Segantini e il superuomo, in Segantini, a cura di G. Belli, catalogo della mostra (Trento, Palazzo delle Albere, 9 maggio - 30 giugno 1987), Electa, Milano 1987, pp. 45-51) che si sofferma sull’importanza del rapporto intellettuale tra i due anche dopo la rottura del 1890.

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10 Si veda la lettera di Segantini a Grubicy del 17 aprile 1898 (ora in Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati cit., n. 108, pp. 153-154). 11 P. Levi, Il primo e il secondo Segantini, in “Rivista d’Italia”, III, Roma, novembre 1899. Lo stesso episodio viene raccontato anche dallo stesso Grubicy in una lettera del 24 maggio 1910 all’allievo Benvenuto Benvenuti (ora in T. Fiori, F. Bellonzi, Archivi del Divisionismo, 2 voll., Officina Edizioni, Roma 1968, vol. I, p. 109). 12 Cartolina postale di Hubert Van Dijk a Vittore Grubicy, 18 agosto 1887, Gru.I.1.1.338. Il 5 agosto Grubicy aveva indirizzato la sua richiesta di informazioni a proposito del testo di Rood direttamente a Maus. Il testo di Rood Modern Chromatics, with Applications to Art and Industry (1879) fu tradotto in francese nel 1881 con il titolo Théorie scientifique des couleurs et leurs applications aux arts et à l’industrie. 13 V. Grubicy, I colori nell’arte, in “La Riforma”, 26 agosto 1887. È stato sottolineato come questo intervento sia in realtà una fedele traduzione dell’articolo De l’emploi des couleurs pour la peinture et la décoration, apparso su “L’Art moderne” il 7 agosto 1887; la citazione di Rood riguarda inoltre i passaggi più tradizionalmente estetici e meno scientifici. Cfr. Vittore Grubicy de Dragon. Scritti d’arte, a cura di I. Schiaffini, Documenti del Mart. 11, Egon, Rovereto 2009, p. 198. Una più specifica attenzione alle questioni ottiche dell’irradiazione luminosa dei colori si troverà in scritti successivi, come Prima Esposizione triennale di Brera 1891. Tendenze evolutive delle arti plastiche, estratto dal fascicolo IX del “Pensiero Italiano”, tip. Coop Insubria, Milano 1891 e in Tecnica e estetica divisionista, in “La Triennale”, n. 14, Torino, 1896, pp. 110-112. 14 Lettera di Segantini a Domenico Tumiati, 29 maggio 1898, in Scritti e lettere di G. Segantini, cit., pp. 101-106. 15 Lettera di Segantini a Alberto Grubicy, (inizio marzo 1888), Ben.V.8.11, pubblicata in C. Dal Cin, Lettere inedite di Giovanni Segantini a Vittore Grubicy e altri importanti scritti, in Segantini: la vita, la natura, la morte. Disegni e dipinti, a cura di G. Belli, A.-P. Quinsac, catalogo della mostra (Trento, Palazzo delle Albere, 3 dicembre 1999 - 19 marzo 2000), Skira, Milano 1999, n. 19, p. 175 (si veda anche la nota 50 a p. 189). 16 Lettera di Segantini a Vittore, 11 marzo 1888, in Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati, cit., n. 79, p. 126. 17 Lettera di Segantini a Vittore, (1888), Ben.V.8.20, in C. Dal Cin, Lettere inedite di Giovanni Segantini a Vittore Grubicy e altri importanti scritti, cit., n. 29, pp. 176177. 18 Lettera di Segantini a Vittore, 23 aprile 1888, Ben.V.8.12 in C. Dal Cin, Lettere inedite di Giovanni Segantini a Vittore Grubicy e altri importanti scritti, cit., n. 21, p. 175. 19 Probabilmente su insistenza dei fratelli Grubicy, Segantini mise da parte le sue perplessità e spedì comunque la tela a Londra per la mostra che si inaugurò nel maggio del 1888. In una lettera del 25 aprile ad Alberto (ora in Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti di Giovanni Segantini e dei suoi mecenati, cit., n. 186, pp. 199-200), Segantini lo informa che “domani o doppo spedirò l’ave Maria”. 20 V. Grubicy, Prima Esposizione triennale di Brera 1891, cit. 21 V. Grubicy, G. Segantini e la portata sociale della tecnica divisionista, in “La Triennale”, n. 13, Torino, 1896, pp. 102-104. Da questo testo sono tratte tutte le citazioni che seguono. L’articolo è riportato in Vittore Grubicy de Dragon. Scritti d’arte, cit., pp. 168-174; si segnala inoltre la relativa scheda critica a p. 219. Nel Fondo Grubicy è conservata la minuta manoscritta (Gru.II.1.298). 22 V. Grubicy, Tecnica e estetica divisionista, cit. (anche per le citazioni che seguono). Anche questo articolo è pubblicato in Vittore Grubicy de Dragon. Scritti d’arte, cit., pp. 174-178 (scheda critica, pp. 219-220).

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Non può sussistere Futurismo senza Divisionismo Daniela Ferrari

Quando Umberto Boccioni, Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, 1 Giacomo Balla, Gino Severini lanciarono il loro grido di ribellione rivolto agli artisti giovani d’Italia, con il Manifesto dei Pittori Futuristi (11 febbraio 1910), avevano già ben chiaro quale fosse il punto di riferimento tecnico e teorico da cui poter partire per esprimere il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Come è noto, il primo manifesto futurista si caratterizza per affermazioni certamente rivoluzionarie ma piuttosto generali, espresse da un gruppo di pittori fiduciosi e galvanizzati da una visione teleologica della realtà, ancora in cerca di una propria identità, di un modo per combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta 2 dei musei . Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro.

Umberto Boccioni Nudo di spalle (Controluce), 1909 (dettaglio) olio su tela, 61 x 55,5 cm Rovereto, Mart Collezione L.F.

Che la ricerca scientifica dovesse essere un elemento essenziale nella poetica futurista era quindi un concetto basilare, e altrettanto dichiarati sono i pittori di riferimento per combattere il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo e il formalismo accademico, posizioni retrograde attaccate con feroce ironia e sarcastico acume. Domandate a questi sacerdoti del vero culto, a questi depositari delle leggi estetiche, dove siano oggi le opere di Giovanni Segantini; domandate loro perché le Commissioni ufficiali non si 41


accorgano dell’esistenza di Gaetano Previati; domandate loro dove sia apprezzata la scultura di Medardo Rosso!... E chi si cura di pensare agli artisti che non hanno vent’anni di lotte e di sofferenze, ma che pur vanno preparando opere destinate ad onorare la patria? Ma il legame diretto tra questi due movimenti rivoluzionari per il corso dell’arte italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento, non risiede soltanto nella dichiarazione di continuità e nell’assunzione di ereditarietà come risulta dai manifesti. Vi sono di fatto numerosi altri punti di contatto tra gli intenti dei pittori divisionisti e quelli dei pittori futuristi, come appare evidente dalla corrispondenza delle tematiche di carattere sociale pur riferite a momenti storici susseguenti, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, un secolo che inizia nel fervore positivo della Belle Époque e subisce prestissimo la drastica battuta d’arresto con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Il paesaggio dipinto, nella pittura ad esempio di Previati, Segantini, Pellizza, Morbelli e Longoni è teatro di suggestioni simboliste ma può trasformarsi anche da luogo di sogno a contesto essenziale per rappresentare il tema del lavoro e della dura vita nei campi o nelle risaie. Rappresentative in questo senso sono le mondine di Morbelli, dipinte in scene così luminose di iridescenze e riflessi tra acqua e cielo. Ma anche il paesaggio urbano è un tema che entra fortemente nei dipinti di carattere sociale e non sarà difficile trovare una logica consequenziale tra L’oratore dello sciopero, (1890-1891) di Emilio Longoni e La giornata dell’operaio (1904) di Giacomo Balla o La città che sale di Umberto Boccioni (1910-1911) o ancora I funerali dell’anarchico Galli (1910-1911) di Carlo Carrà. Al di là di questi legami parentali di carattere tematico, compositivo e formale, è innegabile che il primo tratto di somiglianza si identifichi nella teoria del colore diviso e nell’accostamento dei colori complementari, esaltati dai futuristi con entusiastico vigore nel Manifesto tecnico: Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli!

Luigi Russolo Profumo, 1910 (dettaglio) olio su tela 64,5 x 65,5 cm Rovereto, Mart Collezione VAF-Stiftung

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I pittori divisionisti piegano il rigore scientifico, sulla cui esattezza si fonda la tecnica del Pointillisme, a favore di una maggior espressività sia luministica che cromatica. Si potrebbe azzardare l’affermazione che nel divisionismo vi sia più “calore” di quanto si possa percepire nel puntinismo. È questa potenza del colore diviso e della luce, una luce che pare emanare dal quadro stesso, ad attrarre i pittori futuristi, Giacomo Balla in primis, il quale sarà maestro a Roma dei più giovani Gino Severini e Umberto Boccioni nei primi anni del ’900. C’è però anche una sinuosità del segno, che sembra suggerire il movimento delle forme e il vorticare dell’aria intorno ai corpi, a influenzare i pittori della generazione successiva a quella di Gaetano Previati,



Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Emilio Longoni. Su questi presupposti si basa il progetto espo3 sitivo « I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo» , ideato con l’intento di rendere evidente quella continuità espressiva, stilistica e tematica tra i due rivoluzionari movimenti artistici e culturali italiani, mostrando come il linguaggio divisionista abbia gettato le basi per il clamore futurista, in un passaggio compiutamente 4 analizzato nel saggio di Beatrice Avanzi . Ciò avviene gradualmente, dal punto di vista tecnico, per piccoli ma inesorabili passi come ben si coglie dal percorso poetico e pittorico di Umberto Boccioni, con particolare riferimento alla serie di 5 ritratti e composizioni dedicati al tema della madre . Il dipinto Nudo di spalle (Controluce) del 1910, vero e proprio manifesto visivo della mostra allestita prima alla Fondazione MAPFRE di Madrid (17 febbraio - 5 giugno 2016) e successivamente al Mart di Rovereto (25 giugno - 9 ottobre 2016), può essere letto come una pietra miliare, lo spartiacque tra un “prima” in cui il pittore ha ancora negli occhi la koiné divisionista, nonché un comporre che segue modalità e temi ancora tradizionali, e un “dopo” dichiaratamente innovativo, come solo quei primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata – come si definiscono i firmatari del Manifesto tecnico della pittura futurista – potevano ideare. Nel secondo manifesto, datato 11 aprile 1910, i cinque pittori insistono meno su ciò che vogliono distruggere per divenire più propositivi, per assurgere alle più alte espressioni dell’assoluto pittorico. Passano cioè dalla pars destruens alla pars costruens. La nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tra le figure simboliche che colpiscono per potere comunicativo nelle dichiarazioni futuriste spicca l’immagine del sole. Fuori dall’atmosfera in cui viviamo noi, non sono che tenebre. Noi futuristi ascendiamo verso le vette più eccelse e più radiose, e ci proclamiamo Signori della Luce, poiché già beviamo alle vive fonti del Sole. Sciabolate di luce, rese sia con il segno deciso del pastello sia a pennellate materiche o magre, date a filamenti o a taches riescono a trasmettere l’idea dello scorrere rapido delle cose e del tempo, della dinamicità, della percezione che muta costantemente in relazione a molteplici fattori. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. […] Affermiamo ancora una volta che il ritratto, per essere un’opera d’arte, non può né deve assomigliare al suo modello, e che il pit44


tore ha in sé i paesaggi che vuol produrre. Per dipingere una figura non bisogna farla: bisogna farne l’atmosfera. Lo spazio non esiste più: una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata dal disco solare? Tra le possibili strade evolutive del linguaggio divisionista due sono gli itinerari percorsi. Da un lato, come ricorda nel suo saggio Fernando Mazzocca, il Divisionismo ha rappresentato una koiné che ha saputo unificare l’arte pittorica italiana, divenendo «il primo movimento che sia veramente riuscito a dare risposta e realizzare le istanze, che si erano fatte sempre più sentire a partire dall’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861»6. E la forza del linguaggio divisionista declinato variamente e tenuto vivo ben oltre la stagione delle avanguardie è evidente in questa mostra ordinata da Alessandra Tiddia. Dall’altro lato si percorre la via dell’evoluzione e poi trasformazione dei pittori futuristi che desiderosi di aprire i nostri occhi alle più radiose visioni di luce affermano che non può sussistere pittura senza divisionismo. Il divisionismo, tuttavia, non è nel nostro concetto un mezzo tecnico che si possa metodicamente imparare ed applicare. Il divisionismo, nel pittore moderno, deve essere un complementarismo congenito, da noi giudicato essenziale e fatale.

1 Questa parte di testo in corsivo e quelle successive corrispondono a citazioni tratte dai manifesti futuristi ai quali si fa riferimento nel contesto della frase. Cfr. U. Boccioni, C.D. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, Manifesto dei pittori futuristi, 11 febbraio 1910; U. Boccioni, C.D. Carrà, L. Russolo, G. Balla, G. Severini, La pittura futurista. Manifesto tecnico, 11 aprile 1910. 2 Stampato in forma di volantino a cura delle edizioni di “Poesia”, il Manifesto dei pittori futuristi fu declamato l’8 marzo 1910 nel corso di una serata al Teatro Politeama Chiarella di Torino. I primi firmatari furono Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Romolo Romani e Aroldo Bonzagni. Questi ultimi due presero subito le distanze dal movimento e nell’edizione definitiva (datata 11 febbraio 1910) e curata dalla Direzione del Movimento Futurista, furono sostituiti dalle firme di Giacomo Balla e Gino Severini. 3 Cfr. I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo, a cura di B. Avanzi, D. Ferrari, F. Mazzocca, catalogo della mostra (Rovereto, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 25 giugno - 9 ottobre 2016), Electa, Milano 2016. 4 Cfr. B. Avanzi, Una rivoluzione nella luce, in I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo, cit., pp. 16-27. 5 Cfr. Boccioni 1912 Materia, a cura di L. Mattioli Rossi, M. Di Carlo, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Antonio Mazzotta, 2 aprile - 28 maggio 1995), Mazzotta, Milano 1995. 6 Cfr. F. Mazzocca, Da Previati a Boccioni. La controversa affermazione del Divisionismo in Italia attraverso le testimonianze dei suoi protagonisti, in I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo, cit., pp. 28-43.

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Opere in mostra


Giovanni Segantini All’arcolaio, (1892) matita su carta, 160 x 249 mm Rovereto, Mart

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Leonardo Dudreville Meriggio a Borgotaro, 1908 olio su cartone riportato su tela, 40 x 54,5 cm Rovereto, Mart Collezione VAF-Stiftung Pagine precedenti Giovanni Segantini L’ora mesta, (1892) olio su tela, 45,5 x 83 cm Collezione privata

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Benvenuto Disertori Chiesa di S. Domenico - Perugia, (1907) china su carta, 273 x 415 mm Rovereto, Mart

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Benvenuto Disertori Ponte a Burano (La maison de la boiteuse, Burano), (1907) china su carta, 307 x 240 mm Rovereto, Mart

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Teodoro Wolf Ferrari Salici sul lago, 1915 olio su tela, 85 x 100 cm Padova Galleria Nuova Arcadia

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Tullio Garbari Preludio di gioia, (1910) olio su tela, 40 x 50 cm Collezione privata Courtesy by Art Multiservizi

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Felice Casorati Lago di Garda o Il Garda, (1912-1913) olio su tela, 42 x 35 cm Torino, collezione privata

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Luigi Bonazza Lago di Garda dalla Val di Sogno, 1926 olio su tavola, 34,2 x 40,5 cm Riva del Garda, MAG

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Luigi Bonazza Giardino fiorito, (1923-1925) olio su tela, 83 x 77 cm Collezione privata Courtesy by Art Multiservizi Pagine precedenti Luigi Bonazza Bosco in autunno, 1940 olio su tavola, 56,5 x 75 cm Rovereto, Mart

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Antonio Camaur Paesaggio, (1920) olio su tela, 83 x 83 cm Trieste, Civico Museo Revoltella Galleria d’arte moderna

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Antonio Camaur All’aperto (Ritratto della signora Camavitto), (1914) olio su tela, 161 x 140 cm Udine, Casa Cavazzini Museo d’Arte Moderna e Contemporanea

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Luigi Bonazza Ritratto di Italia Bertotti, 1923 olio su tela, 125,5 x 76,5 cm Rovereto, Mart Deposito collezione privata

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Luigi Bonazza Ritratto di Gigina, (1930) olio su tela, 95 x 95 cm Collezione privata

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Vito Timmel Ritratto della signora Rostirolla, 1931/1940 olio su tela, 84 x 77 cm Trieste, collezione privata

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Vito Timmel Studio di pittore, 1940 olio su tela, 48 x 48 cm Trieste, collezione privata

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Vito Timmel Le tre carrozze, 1940 olio su tela, 100 x 100 cm Collezione privata

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Vito Timmel Incendio del Balkan, 1941 olio su tela, 48,5 x 48,5 cm Trieste, Civico Museo Revoltella Galleria d’arte moderna Pagine successive Vito Timmel L’albero della vita (Eternità), 1942 tecnica mista su cartone, 65 x 95 cm Collezione privata

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Comune di Riva del Garda Comune di Arco Provincia autonoma di Trento

Provincia autonoma di Trento Comune di Trento Comune di Rovereto

Riva del Garda | Museo Arco | Galleria Civica G. Segantini

Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

— Comune di Riva del Garda Adalberto Mosaner Sindaco Renza Bollettin Assessore alla Cultura Anna Cattoi Dirigente Area servizi alla persona e alla comunità — Comune di Arco Alessandro Betta Sindaco Stefano Miori Assessore alla Cultura Alessandro Demartin Responsabile Attività culturali — Giovanni Pellegrini Responsabile MAG Museo Alto Garda

Gianfranco Maraniello Direttore Consiglio di Amministrazione Ilaria Vescovi Presidente Stefano Andreis Matteo Bruno Lunelli Maria Concetta Mattei Comitato Scientifico Francesco Casetti Bice Curiger João Fernandes Severino Salvemini Carlo Sisi Collegio dei revisori dei conti Flavia Bezzi Carlo Delladio Claudia Piccino


DIVISIONISMI DOPO IL DIVISIONISMO La pittura divisa da Segantini a Bonazza

MAG Museo Alto Garda Arco | Galleria Civica G. Segantini 26 giugno - 16 ottobre 2016

Ideazione e coordinamento scientifico Alessandra Tiddia Realizzazione della mostra Coordinamento, MAG Giovanni Pellegrini Annalisa Bonetti Claudia Gelmi Segreteria, MAG Gustavo Perrone Marta Sansoni Registrar, Mart Clarenza Catullo Ilaria Calgaro Ilaria Cimonetti Francesca Velardita Gabriele Salvaterra Assicurazione Assicurazioni Gestione Enti srl, Bologna Trasporti Apice Venezia srl, Mestre Realizzazione allestimento, MAG Nicola Brunelli Daniele Fioriolli

Catalogo Autori dei testi Ilaria Cimonetti Daniela Ferrari Alessandra Tiddia Archivio fotografico e mediateca, Mart Attilio Begher Serena Aldi Maurizio Baldo Immagine coordinata Headline Comunicazione, MAG Claudia Gelmi in collaborazione con Ufficio comunicazione e marketing, Mart Vanessa Vacchini Denise Bernabè Carla De Luca Carlotta Fanti Silvia Ferrari Carlotta Gaspari Susanna Sara Mandice Valentina Raineri Lodovico Schiera

Ringraziamenti Casa Cavazzini, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Udine Civico Museo Revoltella, Galleria d’arte moderna, Trieste Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia Sovrintendenza per i Beni Storico Artistici della Provincia autonoma di Trento Art Multiservizi, Rovereto Galleria Nuova Arcadia, Padova Rigatteria Di Pinto, Trieste Famiglia Casorati Alex Di Poggiardo Warin Dusatti Alessandra Gariazzo Vania Gransinigh Giorgio Pauluzzi Serena Pignataro Alessandro Rosada Paolo Santangelo Rossella Scopas Fabiana Vio e tutti i collezionisti che hanno preferito mantenere l’anonimato Crediti fotografici © Art Multiservizi, Rovereto © Paolo Bonassi, Trieste © Casa Cavazzini, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Udine. Luca Laureati © Civico Museo Revoltella Galleria d'arte moderna, Trieste © Foto Pino Dell'Aquila © Foto Flury, Pontresina © Galleria Nuova Arcadia, Padova © MAG Museo Alto Garda Gardaphoto srl, Salò © Mart - Archivio fotografico e Mediateca © Carlo Sclauzero, Gorizia


Arco | Galleria Civica G. Segantini Via G. Segantini, 9 38062 Arco (TN) www.museoaltogarda.it © 2016 by MAG È vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie. Tutti i diritti riservati. L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. © Felice Casorati, by SIAE 2016 ISBN 978-88-6686-060-0

Finito di stampare nel mese di giugno 2016 da Stampalith, Trento


Collana diretta da Alessandra Tiddia Vita nascente. Da Giovanni Segantini a Vanessa Beecroft. Immagini della maternitĂ nelle collezioni del Mart, 2014 Segantini e Arco, 2015 Franz Servaes. Giovanni Segantini. La sua vita e le sue opere Trad. in italiano del testo originale, 2015 Segantiniana, 2015/1 Studi e ricerche

In copertina: Luigi Bonazza Ritratto di Italia Bertotti, 1923 (dettaglio) Mart, deposito collezione privata In IV di copertina: Giovanni Segantini Autoritratto, 1895 Museo Segantini, St. Moritz Š Foto Flury, Pontresina

www.museoaltogarda.it


ISBN 978-88-6686-060-0

Euro 10,00


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