Laboratorio di Urbanistica 2, Prof. Maurizio Carta, a.a. 2020/21 - Unipa

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Vision

Mission

Action

Progettare città policentriche e con densità differenziate, porose alla natura, fondate su un più adeguato metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, con una maggiore prossimità delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi.

Nell’era della metamorfosi in cui ci troviamo, servono nuove visioni, diversi paradigmi e rinnovati protocolli dello sviluppo, un nuovo modo di affrontare e guidare i sistemi ecologici, culturali, politici, economici e sociali prodotti dalla condivisione globale dei problemi.

I Laboratori Coordinati affronteranno il tema/progetto della Augmented City come sfida per re-immaginare la città, gli spazi pubblici, le comunità, le relazioni, le infrastrutture, i servizi e i paesaggi per i tempi che cambiano. Le aree di sperimentazione progettuale riguarderanno Palermo e Gibellina.

PROGRAMMA


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Augmented City Lab Laboratori Coordinati di Urbanistica 2 2020 - 2021 Docenti Prof. Maurizio Carta Prof. Alessandra Badami Prof. Daniele Ronsivalle Mentors Barbara Lino Annalisa Contato Tutors Carmelo Galati Tardanico Cosimo Camarda Marina Mazzamuto Dalila Sicomo

Maurizio Carta Professore Ordinario di Urbanistica

Alessandra Badami Professore Associato di Urbanistica

Daniele Ronsivalle Professore Associato di Urbanistica

Barbara Lino Ricercatrice in Urbanistica

Annalisa Contato Ricercatrice in Urbanistica

Carmelo Galati Tardanico Ph.D in Pianificazione Urbana e Territoriale

Cosimo Camarda Ph.D Student

Marina Mazzamuto Ph.D Student

Dalila Sicomo Ph.D Student

In copertina: "Augmented Palermo" elaborazione grafica del policentrismo di Palermo attraverso un collage delle copertine dei volumi prodotti dagli Advanced Students della mostra Manifesta 12 Research Studios, Palermo Hyper-City Studio, Prof. Maurizio Carta, 2018.


Palermo Cosmopoli Policentrica

Sommario #Vision La vita della città al tempo del Covid-19 Lo spirito cosmopolita e i nuovi paradigmi per la città del futuro Come si abita la città reticolare dei 15 minuti?

#Mission #Action: Palermo e Gibellina #Lezioni e seminari #Workshop DAAD #Attività didattiche #Metodologia didattica e di valutazione #Aree di studio Palermo Gibellina

#Approfondimenti scientifici Palermo, Aziz. La città arcipelago di diversità e creatività Maurizio Carta Progettare città aumentate antifragili Maurizio Carta Il terremoto come frattura nella continuità storica Alessandra Badami

#Bibliografia di riferimento

Libri di testo generali Libri di testo di approfondimento Letture integrative

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Palermo Cosmopoli Policentrica Palermo +20. Strategie e progetti per la città aumentata #Vision

La vita della città al tempo del Covid-19 Quando nel gennaio 2020 il nuovo Coronavirus è arrivato in Europa dall’estremo Oriente, i media hanno scritto che si trattava dell’atteso “cigno nero” del Millennio. Ma il Covid-19 non è un cigno nero, non è un evento inaspettato causato da un destino malevolo, ma è l’effetto prevedibile della fase apicale della “policrisi” pandemica in cui viviamo1. In realtà, questa fase si è diffusa dagli anni Sessanta quando le contraddizioni del capitalismo predatorio – iniziato ai tempi della rivoluzione industriale – sono esplose e la consapevolezza ha cominciato a essere confermata dai ricercatori2. L’applicazione di un modello di sviluppo econometrico diffuso a livello mondiale ha prodotto disuguaglianze sociali e consumo di risorse fisiche, sociali e culturali oltre i limiti del pianeta. La recente crisi sanitaria mondiale – indizio della più ampia crisi ecologica (…) – richiede una revisione radicale del modello di sviluppo. Per fare questo il mondo Occidentale deve iniziare a cambiare il suo atteggiamento di sviluppo, ma necessariamente l’intero Pianeta deve attuare nuove politiche per un futuro più sostenibile indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella dichiarazione di Helsinki nel 2014, a partire dalle azioni che possiamo mettere in campo immediatamente prima che sia troppo tardi, ovvero a partire da un diverso presente3 e da un cambio di modello di sviluppo. Questo cambiamento sarà economicamente ri-orientato, politicamente re-guidato, basato su un cambio di politica sociale e, nel

complesso, basato su un cambio della cultura della città. Dobbiamo uscire dall’Antropocene erosivo e predatorio: l’Antropocene, infatti, non ha prodotto solo una massiccia impronta ecologica sugli ecosistemi naturali4, ma ha anche distrutto le fragili strutture identitarie dei paesaggi e dei tessuti culturali delle città, consumando e sfruttando eccessivamente le risorse urbane, indebolendo il rapporto tra città e comunità. Le città, impoverite dall’approccio distruttivo dell’Antropocene, si sono quindi trovate a fronteggiare una realtà in cui i processi relazionali dello spazio e delle comunità si sono sfrangiati fino ad essere quasi annullati dal “distanziamento sociale”, elemento che impone un ripensamento dello spazio pubblico e degli spazi relazionali in senso più ampio. Lo spirito cosmopolita e i nuovi paradigmi per la città del futuro Questo stato di cose, al livello globale, non è riuscito a scardinare lo scenario mondiale tendenziale in cui all’intensificazione dei flussi di beni immateriali e di interazioni si contrappone la materializzazione di frontiere e barriere5. Una situazione dovuta alla presenza, alla scala sia locale sia globale, di società multietniche e multiculturali che hanno una influenza sulle tradizioni e sulle identità locali. A questo va aggiunto che il proliferare di disuguaglianze, conflitti sociali e situazioni di disagio personale rende ancora attuale il tema dell’inclusione sociale tramite la richiesta di una dimensione spaziale accessibile delle politiche di welfare urbano6. In seguito

1. Morin, E. (2020) Sur la crise: Pour une crisologie suivi de Où va le monde ? Paris: Flammarion. 2. cfr. Meadows D.H., Meadows, D.L., Randers J., Behrens III W.W., I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972. 3. Carta M., Augmented City. A Paradigm Shift, Trento, ListLab, 2017. 4. Crutzen P.J., Stoermer E.F., Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Milano, Mondadori, 2005. 5. Guarrasi V. (a cura di, 2011), La città cosmopolita. Geografie dell’ascolto, Palumbo, Palermo. 6. Bellaviti P. (2011), “Disagio e benessere nella città contemporanea, agio e benessere nella città contemporanea”, in Atti della XIV Conferenza SIU, Abitare l’Italia. Territori, Economie, diseguaglianze, 24-26 marzo.


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alla crisi economica che ha caratterizzato gli ultimi decenni, si sono diffuse pratiche collaborative che hanno permesso di ripensare le relazioni tra cittadini, enti pubblici e soggetti privati. I processi di auto-collaborazione comportano un cambio di paradigma per quanto riguarda sia l’organizzazione sociale che l’economia collaborativa, in quanto bisogna intercettare nuovi bisogni diffusi. In questa prospettiva va considerata anche la sharing economy7. I più recenti paradigmi urbani8 affermano che la città non è un meccanismo puramente artificiale, ma vive delle relazioni tra naturale e antropico, artificio e natura, con le stesse caratteristiche tipiche degli habitat. Si pensi ad esempio ai concetti di ecological urbanism9 e urban metabolism10 e all’approccio all’economia circolare11. L’habitat cosmopolita è vivo – di una vitalità “biologica” – e si anima di elementi che contribuiscono dall’esterno a determinare la sua natura di città aperta al mondo e dall’interno ad offrire esperienze urbane di tipo cosmopolita. Abitare una città cosmopolita significa, quindi, vivere una identità in divenire, in cui l’obiettivo è perseguire la felicità dei suoi abitanti. Una città cosmopolita è una città complessa e differenziata che rifiuta l’omologazione degli spazi di vita e che favorisce la diversità culturale, sociale, produttiva e abitativa delle sue parti. Una città compenetrata da una complessa relazione di flussi globali e locali che creano nuove visioni (e divisioni), gerarchie e opportunità, tensioni e conflitti. Palermo +20 Cosmopoli Policentrica ci sfida a ripensare radicalmente il modello di sviluppo assecondandone la sua transizione verso una resilienza strutturale12 in cui vengono

«Abitare una città cosmopolita significa vivere una identità in divenire»

messe in atto le azioni necessarie per non farci sorprendere dalle drammatiche epifanie – come l’apparizione improvvisa (ma annunciata) del coronavirus – adottando invece un atteggiamento proattivo che ci consenta di agire oggi, cambiando molte distorsioni della nostra relazione con la natura, progettando un futuro che non sia distopico, ma seducentemente “protopico”: fondato sul progetto ecologico di una rinnovata alleanza tra specie viventi e tra città e territorio. Significa progettare un modo diverso di abitare il pianeta, realizzando città che non ci facciano ricadere nella trappola di una distopia, ma che alimentino l’audacia della fiducia nel futuro. Città ecologiche a prova di crisi in equilibrio con le altre specie viventi, ma soprattutto luoghi privilegiati della salute pubblica, come era stato alla nascita dell’urbanistica moderna alimentata proprio dalla matrice igienista: si pensi ai piani innovativi di Barcelona (1859) e Londra (1944). Significa tornare – come abbiamo fatto storicamente in Italia – a progettare città policentriche e con densità differenziate, porose alla natura, fondate su un più adeguato metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, con una maggiore prossimità delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi. Sono quelle che chiamiamo “città aumentate”13 perché capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove all’abitare e alle forme e funzioni dello spazio pubblico, più intelligenti per gestire le informazioni e ridurre i costi di intervento, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti e agli shock entro una rin-


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novata dimensione ecologica, più fluide per accogliere le diversità, più produttive per tornare a generare lavoro e benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e, infine, più circolari per ridurre il consumo di suolo ed eliminare gli scarti. Come detto all’inizio, tuttavia, è importante interpretare questo spirito cosmopolita della città di Palermo – che si è rigenerato e alimentato negli ultimi venti anni – per potere aspirare a una visione di futuro in cui il germe del cosmopolitismo fecondi una città policentrica, in cui le sue comunità (in alcuni casi pienamente cosmopolite) trovano nella misura della “città dei 15 minuti” la disponibilità di spazi urbani, luoghi del vivere sociale e servizi socio-sanitari per far fronte alla necessità di riduzione degli spostamenti intra-urbani, alla riduzione del flusso di persone in ogni direzione in tempo di tracciamento sanitario, ma soprattutto alla costruzione di un nodo di vicinato già immaginato dai grandi regional plan americani di inizio Novecento (Chicago e New York in particolare), ma mai realizzato a causa del prevalente impegno delle risorse finanziarie alla realizzazione delle infrastrutture stradali che consentono, in fin dei conti, la mobilità personale omnidirezionale. Questo potrebbe sembrare un ragionamento contrario al principio del cosmopolitismo, della libera circolazione delle merci e delle persone, all’idea di mescolanza urbana. La ghettizzazione della città, frutto di una visione miope della città dei 15 minuti, si combatte con la costruzione di trame funzionali basate sulla localizzazione di centralità urbane connesse in una rete di livello metropolitano. In altre parole, considerando i modelli

reticolari più tradizionali (ad es. Christaller e le sue Località Centrali), la “Città dei 15 minuti” da una parte deve garantire la prossimità dei servizi di base, dall’altra deve distribuire funzioni di livello metropolitano che inducano spostamenti e interdipendenze tra le parti di città. La “città dei 15 minuti” può ancora essere città cosmopolita alimentando il tema della mescolanza, introducendo negli aspetti del governo del territorio le questioni che variano dall’integrazione multietnica e multirazziale alla gestione dei fenomeni di enclave, dalla mediazione dei conflitti alla ricerca di nuove possibili sinergie, dalla necessità di dotare l’armatura urbana di funzioni e servizi diversificati all’introduzione di nuove forme di uso dello spazio pubblico, dalla pratica di nuove forme di partecipazione e di sussidiarietà fino ad affrontare anche gli aspetti delle integrazioni impossibili. I centri di prossimità (già previsti nel Piano Strategico della Città di Palermo), ad esempio, possono essere luoghi di riferimento per integrare i servizi di vicinato e i servizi di livello metropolitano. Come si abita la città reticolare dei 15 minuti? Il documento Milano 2020 propone alcune soluzioni di policy per la città dei quindici minuti: • rafforzare i servizi pubblici in un’ottica di prossimità, garantendone l’accesso nel raggio di 15 minuti a piedi, equilibrando le differenze tra quartieri, valorizzando le specificità e cercando di ridurre gli spostamenti inter-quartiere; • ampliare l’offerta temporale e la dislocazione fisica dei luoghi di erogazione di servizi pubblici e privati, favorendo la fruizione attraverso i servizi digitali;

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7. Rifkin J. (2014), The zero marginal cost society: The internet of things, the collaborative commons, and the eclipse of capitalism, St. Martin’s Press, New York. 8. tra gli altri: Ricci M. (2012), Nuovi paradigmi, Trento, LIStLab; Fabian S., Munarin L. (a cura di, 2017), RE-CYCLE ITALY Atlante, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa; Carta M., Augmented City. A Paradigm Shift, Trento, ListLab, 2017. 9. Mostafavi M., Doherty G. (2016), Ecological Urbanism, Lars Muller, Zurich. 10. cfr. Wolman, A. (1965). The metabolism of cities. Sci. Am. 213, 178–190 e Odum, H. T. (1996) Environmental Accounting: Energy and Environmental Decision Making, New York, NY: WileyIndersciene. 11. MacArthur Foundation, Towards the Circular Economy: Economic and business rationale for an accelerated transition, 2013. 12. Carta M. (2019), Futuro. Politiche per un diverso presente, Rubbettino, Soveria Mannelli. 13. Carta M., Augmented City. A Paradigm Shift, Trento, ListLab, 2017.


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cooperare con la Regione per creare servizi di medicina di territorio, a partire dai quartieri popolari, ad alta densità abitativa e caratterizzati da popolazione più anziana; favorire la consegna degli acquisti a domicilio, con priorità agli anziani, valorizzando le reti commerciali di prossimità e di vicinato, sostenendo il commercio locale; adottare un piano della sicurezza per gli uffici comunali, dotare le strutture di erogazione dei servizi di appositi DPI, consentire l’accesso ai locali dell’amministrazione previo appuntamento tramite l’uso di app tagliacode come “UFirst”; avviare di un percorso di riprogettazione dei servizi basato anche su esperienze di mondi diversi (tecnologie, organizzazione, esperienze internazionali).

© Maurizio Carta, 2020

Queste policy, tuttavia, non sono sufficienti ma chiedono interventi di ristrutturazione dello spazio fisico, in modo da abitare questa natura policentrica. Una città siffatta è abitata da una comunità multiculturale aperta alla possibilità di incontro dell’altro e disponibile ad affrontare la socialità dello spazio pubblico e dei nuovi luoghi deputati all’incontro. La città cosmopolita si abita in tutti quei luoghi che sono frutto di questa nuova socialità. Alcuni di essi sono quelli della città contemporanea, ma spesso animati da nuovi significati: la piazza, i luoghi generatori di flussi e le porte della città (stazioni, porti, aeroporti), i luoghi della cultura sempre più integrati nel tessuto urbano anche attraverso attività “itineranti” che alla fine rafforzano il ruolo della “casa nobile” della cultura riconducendo in essa i cittadini, e inoltre i luoghi per lo svago, i centri direzionali, i centri di ricerca.


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#Mission Nell’era della metamorfosi in cui ci troviamo, servono nuove visioni, diversi paradigmi e rinnovati protocolli dello sviluppo, un nuovo modo di affrontare e guidare i sistemi ecologici, culturali, politici, economici e sociali prodotti dalla condivisione globale dei problemi. La sfida che abbiamo di fronte è quella di re-immaginare il “capitalismo ibrido”14, più responsabile e reticolare, del Mediterraneo: epicentro europeo, africano e medio-orientale come grande progetto politico, economico, culturale e sociale. Un Mediterraneo produttore di cosmopolitismo, radice positiva e feconda della globalizzazione, in cui le differenze non sono solo valori da difendere, ma risorse da mettere in gioco, nuovi apporti per fortificare il patrimonio genetico e politico delle comunità. In questo scenario le città europee devono ritrovare la loro radice cosmopolita per rispondere alla metamorfosi del mondo che ci richiama ad essere sia cittadini del cosmos – un mondo sempre più transnazionale – sia cittadini della polis, abitanti fluttuanti di città-mondo. Soprattutto le città mediterranee dovranno rinnovare la loro identità cosmopolita che le ha forgiate. Non vi è luogo che non sia palinsesto di identità, ipertesto narrativo di vite, grembo materno di storie. Si tratta di una sfida urbanistica, che impone di ripensare e rimodellare lo spazio dell’abitare e del produrre, i luoghi dei servizi e delle relazioni e soprattutto le loro interfacce perché siano porose e capaci di una costante traduzione tra i segni e i linguaggi che vi si incontrano. Con l’obiettivo di re-immaginare la città di Palermo in un’ottica policentrica e cosmopolita, i Laboratori Coordinati sperimenteranno analisi e soluzioni progettuali applicando i paradigmi dell'Augmented City. I Laboratori focalizzeranno all’inizio la loro attenzione su porzioni di città attraverso dei filtri tematici che serviranno a redigere un’analisi tematica della città di Palermo che non guarda solo alla staticità delle sue componenti, ma alla dinamicità e all’interazione, e alla potenzialità dei flussi, interni ed esterni. L’Analisi dei “tematismi” avrà, pertanto, l’obiettivo di individuare quelle componenti che presentano già caratteristiche cosmopolite e quelle pro-

blematicità che devono essere risolte nell’ottica dell’inclusione e dell’integrazione. Questa analisi condurrà alla sperimentazione progettuale, ibridando punti di vista diversi, metodologie e soluzioni progettuali, politiche urbane, processi partecipativi, progetti architettonici e urbanistici e azioni concrete sullo spazio urbano, facendo riferimento ai valori condivisi del milieu creativo, dell’energia, dell’innovazione, del valore della resilienza e del diritto alla partecipazione, che si configurano come risorse locali e potenti forze per progettare e restituire città fondate sulla cultura, sulle tradizioni, sulle multietnie, sulla coesione, sulla comunicazione, sulla cooperazione, sulla nuova manifattura e sulla mobilità sostenibile, capaci di produrre immagini innovative del progetto di rigenerazione, sostenibilità, sviluppo e attrattività. Palermo sarà analizzata come città di città, come palinsesto di spazi e comunità multiple e plurali che richiedono un approccio transcalare alle sue risorse.

14. Castronovo V. (2011), Il capitalismo ibrido. Saggio sul mondo multipolare, Laterza, Roma-Bari.


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#Action: Palermo e Gibellina

I Laboratori Coordinati affronteranno il tema/ progetto della Augmented City come sfida per re-immaginare la città, gli spazi pubblici, le comunità, le relazioni, le infrastrutture, i servizi e i paesaggi per i tempi che cambiano. La sperimentazione progettuale si svolgerà a Palermo (Laboratori Prof. Maurizio Carta e Prof. Daniele Ronsivalle) e Gibellina (Prof. Alessandra Badami) su aree di studio predefinite e produrrà soluzioni innovative per la città, creando un nuovo equilibrio tra urbano e urbanizzabile, riattivando luoghi e spazi dismessi, in disuso o in declino, e ri-ciclando infrastrutture, paesaggi ed edifici che possano accogliere nuovi cicli di vita urbana. Con l’obiettivo specifico di trasformare gli spazi della città in luoghi “cosmopoliti”, i Laboratori applicheranno specifiche metodologie di analisi e un approccio processuale, incrementale e adattivo per la fase di progettazione della rigenerazione urbana. I talenti e la creatività urbana, l’innovazione tecnologica e la cittadinanza attiva fungeranno da straordinari strumenti per la riconfigurazione dei cicli urbani, come attivatori di reti, catalizzatori dei flussi e come risposta collaborativa alle necessità della città. La definizione degli obiettivi strategici necessari per mettere a punto i processi di rigenerazione urbana sarà guidata dai paradigmi della Augmented City, attraverso l’applicazione del Cityforming© Protocol per la simulazione di un progetto complesso e incrementale di nuovi metabolismi urbani. Le sinergie tra pianificazione strategica, progettazione urbanistica e politiche urbane stimolate dall’uso del Cityforming© Protocol contribuiranno a rigenerare la città. Il Cityforming© Protocol è un metodo incrementale di tattiche colonizzatrici, di conseguenti radicamenti consolidativi e di scenari di sviluppo che predilige un approccio da masterprogram strategico, animato dall’adozione di un programma di interventi mirato alla nascita di un ecosistema urbano complesso e instabile proprio come un sistema vivente, piuttosto che immutabile nelle regole come un masterplan, sostanzialmente morto.

(nella pagina a fianco e nelle pagine precedenti) foto di Francesca Marchese, estratte dal volume #MetaPalermo, mostra Manifesta 12 Research Studios, 2018.


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#Lezioni e seminari La didattica dei Laboratori Coordinati prevede lezioni frontali che forniranno conoscenze teoriche, metodologiche ed esempi di buone pratiche nazionali ed internazionali utili a fornire le competenze necessarie per affrontare i temi proposti sia nella fase analitica che per la sperimentazione progettuale. Agli approcci teorici e metodologici proposti sarà associata una lettura delle trasformazioni attuate nell’ambito di processi di rigenerazione urbana di alcune città internazionali. Seminari integrativi amplieranno l’apparato teorico dei Laboratori Coordinati e forniranno ulteriori spunti di riflessione grazie alla molteplicità dei temi che verranno trattati e alle letture di alcune città internazionali che verranno proposte. Attraverso diversi punti di vista con cui è possibile leggere, interpretare e ripensare il futuro di un territorio, saranno forniti indirizzi metodologici e progettuali per affrontare sia la fase diagnostica che progettuale. Le pratiche presentate saranno selezionate tra quelle che stanno realizzando sperimentazioni progettuali innovative che possono essere ricondotte alle componenti/sfide del paradigma della Augmented City. Le lezioni dei Laboratori integrati riguarderanno: • Reimmaginare l’urbanistica: progettare città ecologiche del Neoantropocene; • Re-cycling Urbanism: metodi, azioni e tattiche per la città circolare; • Il nuovo paradigma della città aumentata; • Il lato oscuro dell’utopia: può l’urbanistica da sola progettare la città? • Metodi e strumenti per la pianificazione urbana strategica e la progettazione urbanistica; • Cityforming© Protocol per la rigenerazione urbana; • Buone pratiche: processi e progetti di successo di rigenerazione urbana e umana ; • Le domande di trasformazione e l’agenda urbana per il futuro di Palermo. Per il calendario didattico dei singoli Laboratori si rimanda al materiale condiviso dal docente di riferimento.

#Workshop DAAD Nell'ambito delle attività sperimentali dei Laboratori del Prof. Carta e del Prof. Ronsivalle, si svolgerà dal 5 al 7 novembre un workshop sulle aree di studio del centro storico di Palermo realizzato con l'Urban Design Studio (Prog. Jörg Schroeder) della Leibiniz University of Hannover (LUH) nell'ambito del Programma di collaborazione Italia-Germania DAAD. Il Workshop consentirà agli allievi di entrambe le Unversità di lavorare, a distanza, in collaborazione condividendo metodologie didattiche e progettuali e arricchendo vicendevolmente la formazione. Il programma delle specifiche attività del Workshop DAAD verrà fornito in seguito.


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#Attività didattiche La didattica dei Laboratori Coordinati prevede quattro blocchi didattici, uno per ciascun mese del semestre in modalità full immersion dal giovedì al sabato. Le attività di didattica frontale, di didattica sperimentale ed i contributi esterni di ospiti nazionali e internazionali saranno distribuite in ciascun blocco didattico, in modo da garantire che le lezioni frontali (che forniranno conoscenze teoriche, metodologiche ed esempi di buone pratiche nazionali ed internazionali utili a fornire le competenze necessarie per affrontare i temi proposti sia nella fase analitica che per la sperimentazione progettuale) saranno subito utilizzate per le attività di didattica sperimentale. A fianco a queste lezioni, i seminari integrativi saranno condotti da giovani ricercatori che amplieranno l’apparato teorico dei Laboratori Coordinati e forniranno ulteriori spunti di riflessione grazie alla molteplicità dei temi che verranno trattati e alle letture di alcune città internazionali che verranno proposte.

#Metodologia didattica e di valutazione Le attività dei Laboratori Coordinati, compatibilmente con le norme di prevenzione anti Covid-19, si svolgeranno principalmente in aula attraverso lezioni frontali e attività laboratoriali, che saranno oggetto di continue discussioni e confronti seminariali e che permetteranno la costante integrazione delle intuizioni, delle interpretazioni e delle scelte progettuali. Tutti gli elaborati del workshop, alla fine del percorso, saranno oggetto di una mostra finale. La valutazione del lavoro di ogni singolo studente avverrà attraverso: • valutazione durante le discussioni seminariali del prodotto dell’esercitazione, che sarà articolata in step sulla base della metodologia applicata; • esame finale, che consisterà nella discussione del prodotto dell’esercitazione progettuale, con riferimento agli argomenti teorici che sono stati affrontati durante l’intero Corso, e nella quale sarà previsto un contributo progettuale complessivo e un contributo progettuale di approfondimento. La valutazione sarà, comunque, continua durante tutto l’anno, attraverso la progressiva elaborazione/correzione del progetto in aula, la frequenza al Corso e la partecipazione alle varie attività proposte durante l’anno.

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#Aree di studio Palermo

L’esercizio progettuale dei Laboratori Coordinati avrà l’obiettivo principale di affrontare le sfide a cui rimanda una città aumentata, policentrica e cosmopolita. L’attenzione sarà rivolta soprattutto alla generazione di “luoghi mondo”, ovvero luoghi che fungano da nodi locali di reti globali a supporto di una città policentrica e della cultura cosmopolita, in cui le politiche e le tattiche di progettazione urbana permettano il riconoscimento dell’identità e i servizi offerti, anche di rango internazionale, contribuiscano ad accrescere e moltiplicare tensioni positive. Al fine, pertanto, di immaginare lo sviluppo della città di Palermo in un’ottica policentrica e di indagare l’habitat cosmopolita, i Laboratori focalizzeranno l’attenzione sulle Aree di Trasformazione Integrata (ATI), che saranno oggetto di sperimentazioni progettuali da parte dei singoli gruppi.


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ATI 1. Waterfront centrale – Sampolo – Arenella ATI 2. Lolli – Notarbartolo – Lennon ATI 3. Maredolce - Brancaccio ATI 4. Centro storico ATI 5. Guadagna – Falsomiele - Bonagia ATI 6. Costa Sud ATI 7. Città centrale ATI 8. Cliniche – città universitaria ATI 9. Zisa – Danisinni ATI 11. Viale Strasburgo – via Ugo La Malfa

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#Aree di studio Gibellina

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L’esercizio progettuale dei Laboratori Coordinati avrà l’obiettivo principale di affrontare le sfide a cui rimanda una città aumentata, policentrica e cosmopolita. L’attenzione sarà rivolta soprattutto alla generazione di “luoghi mondo”, ovvero luoghi che fungano da nodi locali di reti globali a supporto di una città policentrica e della cultura cosmopolita, in cui le politiche e le tattiche di progettazione urbana permettano il riconoscimento dell’identità e i servizi offerti, anche di rango internazionale, contribuiscano ad accrescere e moltiplicare tensioni positive. La sperimentazione applicata al centro urbano di Gibellina Nuova prenderà in considerazione le otto aree nelle quali si concentrano i servizi e gli spazi pubblici della città (evidenziati in planimetria con retino a righe orizzontali) come centralità polifunzionali da riattivare attraverso progetti di rifunzionalizzazione che sappiano agire sia a scala urbana che in una prospettiva sovralocale.


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1. Campi sportivi 2. Scuola San Francesco 3. Scuola Papa Giovanni XXIII - Museo Civico 4. Lago 5. Centro servizi 6. Orto Botanico 7. Sistema delle piazze 8. Scuola settore sud - ASL

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#Approfondimenti scientifici

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Palermo, Aziz

La città arcipelago di diversità e creatività estratto da: Carta M., Futuro. Politiche per un diverso presente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.

Maurizio Carta Conosco bene Palermo, la amo per quanto è bella e la odio quando spreca le sue risorse. L’ho studiata a lungo, progettata molte volte – spesso con i miei studenti – e persino amministrata (come vi racconterò più avanti). Ne conosco la storia e le aspettative, gli spazi monumentali e gli anfratti carnali, le comunità e le tribù. Per questo in un libro sul futuro ho deciso di usarla come sineddoche delle argomentazioni, come parte per il tutto. Una pratica emergente, se non forse già un laboratorio, della direzione che possono prendere le città del Sud globale per cambiare la traiettoria del presente ed ambire ad un diverso futuro basato sul valore generativo della diversità e della creatività. Ho già ricordato che Platone nella Repubblica (Politéia) descriveva la città come “pascolo e nutrice della società”, sottolineando che essa debba essere buona, nutriente, salubre e protesa alla cura del bene comune. E molti secoli dopo Lewis Mumford, nel suo violento – e lungimirante – attacco alle città americane vittime dell’automobile e del sacrificio dello spazio offerto alle autostrade scriveva che «la prima lezione che dobbiamo imparare è che una città esiste non per il costante passaggio delle auto ma per la cura e la cultura degli uomini»1. L’urbanistica, l'ho già detto, è per me anche neurourbanistica, una psicologia dello spazio che concorre a modellare i nostri comportamenti attraverso una relazione emotiva oltre che razionale, psicocognitiva oltre che normativa, narrativa oltre che tecnica. La città, quindi, concretizza il patto tra lo spazio e la società, e quando il patto si infrange non c’è più la città, ma si genera l’anti-città con le sue metastasi, come la città composta di un assem-

blaggio di oggetti di scarto, un prolasso di forme, rappresentata da Thomas Hirschhorn nella sua installazione Plan B. La cura è una: lo spazio urbano deve tornare bene comune, e la città stessa deve essere un macro bene comune. Nelle città che vogliano tornare a nutrire chi le abita, l’organizzazione dello spazio fisico si riconnette neurologicamente alla organizzazione dello spazio sociale e ambientale. E questo avviene quando la città torna a dare risposte alle esigenze dei cittadini nello spazio pubblico, nelle strade e nei giardini, nelle piazze e nei cortili, e soprattutto alle domande di assistenza e di sicurezza, di bellezza e di qualità, di felicità e di innovazione, di partecipazione e di democrazia. «Le strade sono le abitazioni del collettivo», scriveva Walter Benjamin commentando la poetica di Baudelaire. E aggiungeva: «il collettivo è un essere sempre inquieto, sempre in movimento, che tra i muri dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa tanto quanto gli individui al riparo delle quattro mura di casa loro. Per tale collettivo le scintillanti insegne smaltate delle ditte sono un ornamento pari e anche superiore al dipinto a olio in un salotto borghese e i muri con défense d’afficher sono il suo scrittoio, le edicole la biblioteca, le cassette delle lettere i bronzi, le panchine i mobili della camera da letto e le terrazze dei caffè il bow-window, da cui osserva la propria casa. Il passage è il loro salotto. In esso più che altrove, la strada si dà a conoscere come l’intérieur ammobiliato e vissuto dalle masse»2. L’urbanistica è oggi sottoposta ad una profonda metamorfosi per rispondere alle istanze della società aperta e cosmopolita e alla azione proattiva dei numerosi changemakers. Sono sempre più numerose le pratiche urbane spontanee e

1. Cfr. L. Mumford, The Highway and the City, New York, Harcourt, Brace & World, 1963.


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2. Cfr. W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Vicenza, Neri Pozza, 2012. 3. Al valore evolutivo delle migrazioni umane è dedicato il prezioso libro di Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così (Torino, Einaudi, 2016), in cui viene spiegato con chiarezza e grande argomentazione deduttiva perché e come gli esseri umani si siano evoluti anche grazie alle migrazioni dell’Homo Sapiens, il cui cervello è cresciuto e con esso la flessibilità di pari passo con la capacità migratoria. 4. La Carta di Palermo, promossa nel 2015 dal Comune insieme alla Consulta delle Culture, è una dichiarazione di intenti molto dirompente riguardo ai temi dell’integrazione e della cittadinanza. Il suo concetto principale è quello del diritto alla mobilità internazionale, fornendo indicazioni per affrontare in modo completamente nuovo la regolazione del flusso migratorio, proponendo l’abolizione dei permessi di soggiorno in favore di una radicale adozione della cittadinanza come strumento di inclusione e di partecipazione alla vita pubblica.

autonome e le tattiche urbanistiche che trasformano la città in un luogo composto non soltanto da cittadini che domandano, ma da cittadini che rispondono. Nelle città contemporanee che stanno rinascendo, i cittadini tornano ad essere produttori di nuovi stili di vita comunitaria, sperimentano nuove forme di integrazione tra etnie, generano e alimentano mobilità sostenibile ridisegnando lo spazio urbano per il nuovo protagonismo civico dei ciclisti, riscoprono spazi per la mobilità lenta e creano nuove connessioni tra i quartieri, diventano lavoratori della conoscenza attraverso gli atélier e gli incubatori creativi, sono nuovi artigiani della rivoluzione digitale, oppure auto-producono eventi culturali attraverso il crowdfunding. I cittadini diventano gli amplificatori delle nuove sensibilità nei confronti della qualità del paesaggio e dell’ambiente, di una mobilità non inquinante e del risparmio energetico, rinnovando il ruolo tradizionale dell’associazionismo, non limitandosi più a indicare il problema ma diventando parte della soluzione, e facendosene carico in maniera attiva e responsabile. Palermo, cosmopolis di contrappunti Le migrazioni di massa che stanno riattraversando il Mediterraneo – epicentro migratorio fin dal Neolitico – vivificando e rinnovando comunità e culture, oltre al carico di tragedie umane e all’angoscia davanti alla morte di innocenti martoriati prima dalle guerre, dalle miserie e dalle desertificazioni da cui scappano, poi dai trafficanti di uomini che li sequestrano – quando non li sequestra il nostro governo – e poi dai razzismi che li circondano nei falsi Eden in cui spesso sbarcano, ci pongono davanti ad un nuovo modo di pensare le nostre città. Perché le città europee – presidi di cultura – devono ritrovare la loro radice cosmopolita per rispondere alla metamorfosi del mondo che ci richiama ad essere sia cittadini del cosmos – un mondo sempre più transnazionale – sia cittadini della polis, abitanti fluttuanti di città-mondo. Soprattutto quelle meridionali dovranno rinnovare la loro identità cosmopolita che le ha forgiate e rese medine, kalse, riad, vuccirie. Migriamo da almeno due milioni di anni, e ogni fuga, ondata e convivenza ci ha fatto evolvere rendendoci più intelligenti ed adattabili3. A partire dal Neolitico le transizioni umane hanno forgiato il nostro corpo e il nostro intelletto, tanto che nella filosofia greca, madre fertile del nostro pensiero mediterraneo, tutti gli esseri umani

sono cittadini del mondo e cittadini della polis. Le nostre città nascono cosmopolite, si evolvono e crescono come fulcro di relazioni, di flussi territoriali che attraversano un mondo che oggi è ancora più aperto e collegato. Ed è Diogene che ci ricorda che il cosmopolitismo è diritto ad una mobilità che travalica e mescola i confini, che rivoluziona la logica della distinzione ed annulla il terrore dell’alterità navigando verso l’orizzonte dell’uguaglianza, della diversità come appartenenza plurima che estende le radici e dispiega le ali. Affrontare le migrazioni che hanno ripreso la rotta mediterranea, accogliere migranti e profughi non è solo una questione di accoglienza e di compassione, è anche una questione etica e politica, ma, vorrei aggiungere, è anche una questione urbana. Ci riguarda come abitanti e progettisti di città fertilmente cosmopolite, in cui lo spazio pubblico torni ad essere luogo di integrazione, in cui le strade pedonali siamo suture di culture e non più fratture di spazi, in cui i mercati tornino multicolori scambi di merci dai sapori variegati, e gli stessi edifici siano palinsesti di linguaggi e usi. Palermo è sempre stata cosmopolita, fenicia e romana nelle forme primigenie e nel linguaggio, araba e normanna nelle strade e nelle architetture, aragonese e angioina nei fasti, liberty nei sogni, ibridando culture, accogliendo stili, arricchendo tradizioni. Nulla di quello che dal mondo è transitato per Palermo è rimasto immutato nel suo incontro con la città: le culture, le tradizioni, le architetture, le piante, la cucina, le parole e le arti si sono fatte cosmopolite esse stesse, aprendo la città ad un turbine di segni che esalta la sua pluridentità. Non vi è luogo che non sia palinsesto di identità, ipertesto narrativo di vite, grembo materno di storie. Palermo «che tutti accoglie e tutti assiste; la mamma che tiene aperte le porte anche nella notte, perché non si sa mai se qualcuno arriva; che tiene il fuoco acceso e una pentola a bollire, perché non si sa mai se qualcuno ha fame; che ha sempre lenzuola pulite, perché non si sa mai se qualcuno ha sonno; la mamma che capi la casa quantu voli u patruni. Palermo: la grande madre», come la descrive Giuseppina Torregrossa nel suo recente Cortile Nostalgia. E questo essere contemporaneamente mondo e luogo, Palermo lo ha elevato a visione di futuro. Non solo scolpendolo nella Carta di Palermo sulla mobilità umana internazionale4, grande battaglia di civiltà promossa dal Sindaco Leoluca Orlando che rinnova il patto tra culture già inciso sulla lapide


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quadrilingue (ebraico, latino, greco bizantino e arabo) conservata al Castello della Zisa, ma facendolo quotidianità attraverso i percorsi multiculturali delle Vie dei Tesori, sempre più interfaccia tra luoghi e culture, o attraverso le parole e i suoni del Festival delle Letterature Migranti. Lo stesso Festino di Santa Rosalia è da sempre sincretismo di linguaggi e di persone, così come Santa Rosalia è patrona duale con Vishnu della numerosa comunità Tamil. A Palermo il cosmopolitismo si fa spazio vissuto nel centro storico. A Ballarò, l’antico mercato del centro storico che oggi è diventato sineddoche della rinascita del quartiere dell’Alberghiera, si fronteggiano da giganteschi murales dipinti da Igor Scalisi Palminteri le immagini di Santa Rosalia e Benedetto il Moro, patroni multietnici di una città da sempre porto aperto. Il primo seme della rinascita di Ballarò è stato Moltivolti, un’impresa sociale no profit che, dal 2014, trova il suo equilibrio economico nell’offrire spazi condivisi di lavoro e nell’annesso ristorante siculo-etnico, dove la cucina diventa metafora della convivenza e dello sviluppo sostenibile. E poi è arrivato Arci Porco Rosso, uno spazio conviviale ma anche un laboratorio aperto di analisi sulle condizioni della città. Da quei semi e da altri germoglia SOS Ballarò (Storia Orgoglio Sostenibilità), un network informale di associazioni, residenti e commercianti che attraverso iniziative di rigenerazione urbana e organizzazione di eventi, sta portando avanti il cammino della rinascita del quartiere. E lo spazio vissuto di Ballarò ha generato altri spazi concepiti sottraendoli al degrado, ed oggi Piazzetta Mediterraneo, grazie al volontariato di artisti e residenti, è l’epicentro della nuova città plurale, esempio di una metamorfosi possibile, di un processo incrementale che nasce dalla capacità delle persone di riconoscersi come l’anima del quartiere. Ed esperienze analoghe stanno sorgendo alla Vucciria grazie ad un comitato di imprenditori, attivisti, professionisti, commercianti e residenti, e al Cassaro Alto, allo Zen e all’Uditore, a Sant’Erasmo e a Borgo Vecchio, testimonianze di un diverso presente capace di reindirizzare la traiettoria del futuro. Anche Manifesta 12, biennale migrante fertilizzatrice di contesti, ha colto il valore di “giardino planetario” della città – ancora una volta luogo e mondo – luogo di feconde contaminazioni umane, vegetali, culturali e artistiche: paradigma del mondo in metamorfosi e piattaforma di mutamento per proporre nuove letture plurali della

città, delle comunità e dei flussi e per coltivare il cosmopolitismo con i semi creativi delle arti contemporanee5. E nel 2018 Palermo è stata la Capitale Italiana della Cultura mostrando proprio la sua pluralità, in un palinsesto umano prima che di eventi, capitale del cosmopolitismo che rinnova il patto di migrazione che ha sempre caratterizzato il nostro pianeta. Palermo è sublime contrappunto, città polifonica che sovrappone nota contro nota (punctum contra punctum) in una idea di città poliglotta e poliforme generata dall’abile uso di contrappunti spaziali e culturali, sociali ed economici, tangibili e intangibili, estetici ed etici (non senza contrappunti fatti di criminalità e sfruttamento, ormai anch’essi cosmopoliti6). E gli anni bui della città, quando il rapace saccheggio delle sue qualità e identità ha prevalso, quando lo spazio è stato solo nutrimento di una vorace alleanza tra mafia e cittadinanza, sono stati proprio quelli in cui la città aveva perso il suo cosmopolitismo, la sua polifonia ridotta a spartito monotono suonato dal cemento e dall’asfalto, dal traffico e dai traffici. Non dobbiamo disperdere la ricchezza del contrappunto, ma dobbiamo anche saper trovare nuovi “accordi” per generare una nuova armonia della città. Perché, come nella musica l’accordo fra due suoni produce l’intervallo che è a sua volta un suono, anche nella città dobbiamo trovare nuovi accordi tra spazi dell’abitare che producano a loro volta nuovi tipi di spazio, intervalli di funzioni, intervalli vegetali, culturali o sociali che arricchiscono la polifonia urbana, tra accordi e contrappunti. Progettare una città cosmopolita – Palermo o le altre che le somigliano – è quindi un’occasione per discutere e progettare un modello di futuro che includa la storia e la memoria degli attraversamenti, delle ibridazioni, delle commistioni, delle metamorfosi in un progetto complessivo che coinvolga l’abitare e l’incontrarsi, il produrre e il creare, i centri storici e le periferie (radici ed ali, di nuovo). Città minerali ma fatte anche di paesaggi che tornano agrari – ancora accordi – sconfiggendo il caporalato e lo schiavismo che ne hanno accompagnato gli anni recenti. Oggi nel tempo delle migrazioni forzate, sospinte dal dramma dei cambiamenti climatici, da emergenze politiche, economiche e sociali, all’umanità dolente che ci attraversa dobbiamo offrire non solo compassione, ma relazione e contaminazione, figlie della lungimiranza, perché cosmopolis è il nostro passato che si fa futuro.

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5. Il tema di Manifesta 12 “Giardino planetario. Coltivare la coesistenza” sviluppa l’idea di giardino teorizzata da Gilles Clement nel 1997, esplorandone la capacità di aggregare le differenze e generare vita da tutti i movimenti e flussi migratori. Palermogiardino è un luogo in cui forme di vita diverse si mescolano e si adattano per convivere, spazio fisico, culturale e sociale in cui l’impollinazione incrociata avviene attraverso l’incontro. Cfr. G. Clement, Il giardiniere planetario, Milano 22publishing, 2008. 6. Per comprendere il lato oscuro della presenza dei migranti nel centro storico di Palermo, il patto scellerato tra la mafia siciliana e quella nigeriana, le crudeltà, ma anche le forme urbane, dello sfruttamento della prostituzione e del mercato della droga si vedano le straordinarie fotografie di Francesco Bellina e si leggano le cronache di Lorenzo Tondo su Ballarò.


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«Palermo, museo del Mediterraneo: se volete sapere quel ch’è passato su questi flutti azzurri venite a Palermo» Gabriel Hanotaux


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Palermo giardino paradisiaco Si moltiplicano nelle città, e Palermo tra queste insieme a numerose altre esperienze, gli spazi inutilizzati che le amministrazioni non riescono a ripensare e riutilizzare, e che vengono presi in cura dai cittadini, che li restaurano, ne riciclano edifici e materiali, li riusano aprendoli alle comunità urbane creative. Sono i cittadini-artigiani di una città che alle strategie di sviluppo accompagna sempre più spesso le tattiche di manutenzione, di riparazioni e di riciclo. E c’è un fenomeno che sta assumendo i caratteri di una vera e propria rivoluzione: insieme ai nuovi spazi urbani gestiti dalle associazioni e alle pratiche di mobilità sostenibile dal basso, nelle città stanno germogliando numerosi orti, sempre meno solo diletto di chi ama il giardinaggio e sempre più agricoltura multifunzionale in grado di reggere il mercato biologico del prodotto a Km zero, della certificazione del produttore e della qualità del prodotto contro il junk food. Detroit, San Diego, Londra, Monaco e Parigi ne hanno fatto la base delle loro strategie urbane, New York è la città con il più alto tasso di orti urbani per abitante, solo per citare alcune esperienze. Anche a Palermo, con grande fertilità e capacità emulativa, si moltiplicano le esperienze legate al ritorno potente dell’agricoltura nella estetica e produttività della città, tanto che una mia giovane collega architetto, Angelica Agnello, una delle pioniere dell’agricoltura urbana, la chiama “tutta orto”, parafrasando il suo epiteto greco di Panormos “tutta porto”. «Trecento generazioni di agricoltori – mi ricorda sempre il mio amico e collega Giuseppe Barbera, uno dei massimi esperti del paesaggio agrario palermitano – hanno adattato i frutteti a giardini, protetti da una corona di montagne che preservano il clima e che inducono Fernand Braudel a usare l’aggettivo “paradisiaco” per descrivere il paesaggio palermitano»7. A Palermo il paesaggio agrario ha una potente dimensione culturale, modulando le risorse disponibili per dare alla natura una forma in cui l’ulivo cresce in mezzo ai pascoli e la vite punteggia i frutteti: «laboratorio perenne di diversità biologica, archetipo di un modo di civilizzazione». Come ho già detto, Palermo è la perfetta sineddoche di quello che Gilles Clément chiama “giardino planetario” in cui la diversità vegetale è alimento della diversità culturale, «garanzia di futuro per l’umanità»8. Nei secoli l’arrivo delle palme nane, dei datteri e dei melograni trova accoglienza in una città che riprogetta lo spazio attraverso alberi

e piantagioni. La Conca d’oro – ci ricorda sempre Barbera – non è solo un paesaggio agricolo, ma è il più potente manifesto dell’arcipelago di piante ed edifici che è stata Palermo, in un fertile confronto fra diversità vegetali e architettoniche, generando nuovi paesaggi urbani, sapienze manifatturiere, cibi e stili di vita, in una continua metamorfosi cosmopolita delle persone e delle piante. Poi arrivò lo scempio della Conca d’oro durante gli anni Sessanta, il furto della bellezza durante gli anni del “sacco di Palermo” generato dal patto scellerato tra mafia, amministrazione, imprenditoria e professionisti. Un furto di bellezza che travolge anche la Natività di Caravaggio dell’Oratorio di San Lorenzo, rubata nel 1969 e non ancora ritrovata (forse è stata venduta a pezzi), simbolo della depredazione del patrimonio culturale che non si fermerà per molti anni. Un patto di connivenza come quello raccontato con violenta crudeltà da Francesco Rosi nel film Le mani sulla città del 1963, che descriveva una patologia che non era solo di quegli anni crudeli, ma, come un eterno presente, l’infezione della cattiva urbanistica contaminata dalla mafia e dagli affari generati dalla rendita e dal profitto non è stata debellata. Come racconta ancora oggi Dan Franck nella serie tv Marseille con uno straordinario Gérard Depardieu nel ruolo del sindaco-padre-padrone durante gli anni del lancio della rigenerazione dell’area portuale. Dopo la bestemmia cementizia degli anni Settanta e Ottanta, lanciata contro il paradiso vegetale che circondava Palermo e abbelliva i suoi interstizi, oggi è attraverso i paesaggisti e gli orticoltori urbani che la natura torna ad essere materiale del progetto di città, componente del futuredesign. A partire dai primi orti urbani condivisi curati dal Codifas (Consorzio di difesa dell’agricoltura siciliana), a Ciaculli e allo Zen, si sono ogni giorno moltiplicate le aree agricole urbane e periurbane, le quali organizzano eco-mercati e corsi sull’agricoltura urbana e sul consumo responsabile e condiviso per estendere la platea dei cittadini coinvolti. A Ciaculli l’Oasi degli Orti mette insieme approccio etico e interessi produttivi, e altri due orti condivisi pionieristici, uno al Giardino Daniele e un altro a Villa Spina, promossi dall’Associazione culturale Orti delle Fate, sono dedicati alla promozione della cultura e della pratica e della agricoltura biologica. All’interno del Vivaio Ibervillea nell’ex Ospedale Psichiatrico è stato attivato dall’associazione Orto Storto uno spazio dedicato alla progettazione e realizzazione di un piccolo giardino le cui produzioni sono

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7. Per Giuseppe Barbera la Conca d’oro è un fertile concetto: aura concha, che della conca, della conchiglia e del grembo ha la fecondità e la sensualità. Non solo un luogo ma un’idea unitaria, durata centinaia di generazioni, capace di produrre molte altre idee nelle mani e nelle menti. Cfr. G. Barbera, Conca d’oro, Palermo, Sellerio, 2012. 8. Cfr. G. Clément, Il giardiniere planetario, Milano, 22publishing, 2008.


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destinate all’autoconsumo e alla condivisione in momenti conviviali, con l’obiettivo di creare un giardino terapeutico nel quale si ritrovi la fiducia nel far vivere, crescere e curare un organismo vivente. A Bonagia, in un’area agricola lungo il fiume Oreto, una coltivazione di banani riporta sapori esotici e riattiva antiche modalità di coltivazione, generando profitti. Ancora, la Cooperativa sociale Orto Capovolto di Angelica Agnello nasce con lo scopo di contribuire alla creazione di un sistema diffuso di orti non solo attraverso la sensibilizzazione ma anche attraverso la progettazione e realizzazione di orti urbani a diverse scale con diversi orientamenti: orti comunitari, orti scolastici e aziendali, orti terapeutici. Fra i vari progetti, “Orto(in)Colto” è quello più fertile, dedicato ad orti scolastici e attività didattiche negli istituti della provincia di Palermo, coinvolgendo centinaia di bambini e ragazzi. O, ancora, il progetto “GalloGarden” dedicato all’agricoltura di strada: un processo di cittadinanza attiva per realizzare un nuovo spazio verde a Ballarò e che vede coinvolti, oltre Orto Capovolto, il Circolo Rotaract Palermo Est, Cooperazione Senza Frontiere, la rete SOS Ballarò, la Cooperativa Terradamare, l’istituto Arrupe e il liceo Catalano. A questi esempi se ne aggiungono ogni giorno di nuovi, talvolta generati dai primi, altre volte indipendenti, in uno straordinario fiorire di migliaia di semi di una rinnovata civiltà urbana che torna alla cura e alla creatività, piuttosto che al degrado e al consumo. Anche il collettivo di Manifesta 12, grazie al lavoro di Gilles Clément con Mariangela Di Gangi di Zen Insieme, Miguel Georgieff del Collettivo Coloco, Angelica Agnello di Orto Capovolto e i bambini dello Zen con i loro genitori, ha creato allo Zen un nuovo giardino in un’area degradata trasformata in uno spazio pubblico vegetale che demineralizza le “insule” abitative per proporsi come spazio di comunità. E poi c’è Danisinni, antico quartiere incastonato tra centro storico e agro, ancora città ma già non più città, dove Fra Mauro ha ricostruito la comunità attraverso i giardini e gli orti che circondano la parrocchia, alimentati dalle acque dei qanat che provengono dalle sorgenti del Gabriele. Una enclave verde sull’alveo del fiume Papireto generata dalla prima espansione fuori le mura, atollo nascosto dalla nebbia dell’indifferenza che i flussi tempestosi della metastasi edilizia non hanno attraversato, lasciandola un po’ fuori dal tempo. E quindi salvandola. Oggi, riemerso timidamente dalle pieghe della storia, il quartiere vuole essere anch’esso protagonista della rinascita culturale e

sociale di Palermo, isola dell’arcipelago vegetale e culturale, attraverso un esperimento di rivoluzione artistica e sociale chiamato “Rambla Papireto”, ideato dall’Accademia di Belle Arti, sotto le sapienti mani di Valentina Console ed Enzo Patti, e realizzato con il sostegno del Comune insieme alle associazioni CaravanSerai, Circ’All e NEU, a cui è stata affidata la conduzione di laboratori di street art e del circo sociale destinati ai giovani del quartiere. L’obiettivo non è solo portare bellezza nel quartiere ma è soprattutto risvegliare il senso del bene comune e dell’appartenenza attraverso l’arte, l’agricoltura, la cura dei luoghi. Il progetto ha portato nel quartiere l’arte, il circo, persino l’opera lirica grazie alla sensibilità visionaria del Sovrintendente Francesco Giambrone che ha aperto il Teatro Massimo alla città, portandolo nelle diverse comunità come catalizzatore di rigenerazione urbana. E poi sono arrivati addirittura i turisti e AirBnB. È stata trasformata in orti sociali e fattoria di comunità la naturale depressione della piazza Danisinni: diecimila ettari di terreno donati in comodato d’uso alla Parrocchia di Sant’Agnese, grazie alle amorevoli cure e alla forza aggregativa di Fra Mauro sono un incubatore di comunità culturale e artistica, ma anche un’opportunità lavorativa per i giovani del quartiere. In occasione di Manifesta 12, poi, con il gruppo diretto da Sara Kamalvand di HydroCity, insieme a Renzo Lecardane del PalermoLab di Unipa e con la straordinaria competenza e passione di Pietro Todaro, il più grande conoscitore del sottosuolo palermitano, abbiamo dato vita al workshop “Ingruttati”, dedicato al sottosuolo di Danisinni, coinvolgendo studenti e professionisti da tutto il mondo insieme alla comunità per progettare un ulteriore passo del percorso di futuro per il quartiere, ma anche come prototipo per altre parti di città. Abbiamo aggiunto al già straordinario progetto per Danisinni la sua dimensione ctonia (vi ricordate il Chthulucene di Donna Haraway?), restituendo importanza, dignità e opportunità al sottosuolo, ai qanat arabi, straordinarie opere di ingegneria idraulica, ai canali, alle grotte e all’acqua che dalle sorgenti limpide del fiume Gabriele passando per l’antico alveo del Papireto scorre sotto i campi donandogli la fertilità che oggi riutilizziamo. Perché Palermo deve tornare a far dialogare aereo e sotterraneo, deve progettare quel reticolo di luoghi lapidei e vegetali, porosi e liquidi, che sono stati per secoli il sistema linfatico della città, rendendola fertile, felice e operosa. Un orto appaga lo spirito, dieci orti

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9. Cfr. E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Bologna, Il Mulino, 2018.

urbani migliorano un quartiere, mille orti urbani trasformano una città che vuole tornare ad essere “Aziz”, la splendida – come la chiamavano gli Arabi – ma questa volta per l’azione collettiva dei suoi abitanti/agricoltori in un verde arcipelago urbano e umano. Una città che rinnova l’alleanza tra naturale e artificiale, tra minerale e vegetale, dotandosi anche di un regolamento sull’agricoltura urbana che assegna statuto normativo alle pratiche. Una città che, come la descriveva Ibn Gubayr nel 1184 «insuperbisce tra piazze e pianure che son tutte un giardino […] i palazzi del re ne circondano il collo come i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo». Nella città del futuro la natura non sarà più antagonista dell’architettura, ma tornerà ad essere materiale vegetale del progetto urbano, prima che l’Antropocene la scacciasse. Nel Neoantropocene, invece, anche la natura sarà «aumentata e pienamente funzionale all’espressione dell’urbano, creata per rendere le nostre città vivibili: corridoi ecologici, vegetazione, specie animali, clima, fonti energetiche rinnovabili, daranno corpo a una nuova infrastruttura urbana: una infrastruttura naturans», come sostiene con vigore Zeila Tesoriere, mia collega e componente del Palermo Lab. Al rinnovato rapporto tra città e natura, tra uomo e ambiente, è dedicata la XXII Triennale di Milano dal titolo Broken Nature, curata da Paola Antonelli, attraverso esempi di architettura e design come riparazione e costruzione di connessioni tra i cicli naturali, in una fruttuosa collaborazione tra progetto, scienze della vita e scienze sociali. Non è un caso che Madrid per celebrare i 400 anni di Plaza Mayor abbia creato un giardino temporaneo di 3500 mq., su progetto dell’artista SpY: per quattro giorni madrileni e turisti hanno usato in maniera diversa, vegetale e circolare, una delle piazze più belle del mondo, quanto di più minerale e rettangolare per i precedenti quattro secoli. Il nuovo rapporto tra città e natura, però, non deve essere circoscritto e parcellizzato, quasi che la natura fosse un oggetto da esporre in una teca di cristallo mentre intorno la vita minerale si svolge indifferente, ma dobbiamo incentivare un mosaico continuo integrato, in cui quasi non distinguiamo le tessere lapidee da quelle vegetali. Non dobbiamo ricadere in quel conflitto mirabilmente sintetizzato nel 1988 dai Talking Heads in (Nothing but) Flowers, in cui cantano con ironia e spaesamento di un mondo sovrappopolato dove i confini tra città e natura sono crollati con un’espansione di una umanità ipertrofica che per essere sfamata ha trasfor-

mato autostrade e parcheggi in campi agricoli e supermercati e fabbriche in montagne e fiumi. Lo spazio antropico, per permettere la sopravvivenza dell’uomo, è stato riconquistato da piante e animali, dissolvendo i segni del progresso umano. In un tripudio di bestie e verdure, di alberi da frutto e animali da cacciare, però, il protagonista della canzone non riesce a nascondere la sua malinconia per il tempo felice in cui i segni del progresso erano i negozi, le auto e le ciminiere, perché la bellezza della natura stava nel suo essere confinata all’esterno e di poter essere godibile a comando. «Where, where is the town?», invoca con malinconia rimpiangendo un Pizza Hut, un 7-Eleven e il junk food. Con sublime sintesi la canzone ci mette di fronte al dilemma attuale del giardino planetario, alla scelta tra parco recintato e natura interconnessa, tra isole naturali e arcipelaghi rur-urbani. Senza arrivare al parossismo cantato dai Talking Heads, serve una maggiore biodiversità urbana in forme strutturali, in cui parchi, giardini e orti formino un mosaico vegetale in grado di contaminare il reticolo urbano innestandosi tra gli edifici, creando corridoi ecologici comunicanti, per permettere al flusso genico di scambiarsi tra le diverse popolazioni (umane, animali e vegetali) e rendendo le città permeabili alla natura esterna, portandola all’interno nella sua forma più vera e vitale, permettendo agli impollinatori di muoversi e ai semi di viaggiare. Non dimentichiamo che è stata la natura vegetale una delle più potenti forze che hanno plasmato il pianeta. Le piante, come scrive mirabilmente Emanuele Coccia, «attraverso la fotosintesi, hanno permesso di cambiare lo statuto della materia che ricopre la crosta terrestre, trasformandola in centro di accumulazione dell’energia solare. E soprattutto hanno trasformato irreversibilmente la nostra atmosfera. Non illudiamoci: lungi dall’essere un elemento qualunque del paesaggio terrestre, le piante cesellano e scolpiscono incessantemente il volto del nostro mondo»9. Una nuova metafisica vegetale non solo richiede una efficace biopolitica, ma pretende una rinnovata biourbanistica capace di ricomporre l’alleanza tra vegetale, animale e antropico, rimodellando la geografia della loro coesistenza. Ho già ricordato che Italo Calvino sottolineava l’importanza della capacità di una città di fornire risposte alle domande dei suoi abitanti. E la risposta a queste domande è sempre più spesso collettiva attraverso il coinvolgimento attivo di cittadini artigiani, di abitanti orticoltori, di artigiani e riparatori, di produttori sostenibili di città, ma anche di piante


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e animali che tornino a nutrire l’ecosistema urbano. Palermo arcipelago di diversità culturali Rimanendo nell’orto, nel 2013 un seme fu piantato a Palermo: la candidatura della città a Capitale Europea della Cultura 2019. Il dossier fu preparato con cura attraverso un lungo lavoro di coinvolgimento della cittadinanza e di esperti interni – tra cui anche io per la visione urbanistica, insieme a Giuseppe Marsala e Roberto Albergoni – ed esterni, di numerose istituzioni, di imprenditori, di associazioni, di studenti e con testimonial importanti, Moni Ovadia tra questi. La candidatura non passò nemmeno la prima selezione, con grande delusione di tutti noi che vi partecipammo e della cittadinanza che ci credeva. Le ragioni della bocciatura sono consegnate alla piccola storiografia dell’evento: si racconta che il verdetto cambiò l’ultima notte con un colpo di mano, ma non è dato sapere la verità. Alcuni pensarono, e dissero, che quel seme era di cattiva qualità, infertile, selezionato male e ancor peggio seminato. Non era così, come capita anche in agricoltura quel seme aveva trovato un terreno duro (le criticità della città non ancora risolte) che ne aveva compresso la capacità di germogliare. Ma il seme era buono, forte, rigoglioso e, lentamente, ha spaccato il terreno, frantumando la sua resistenza, producendo le necessarie crepe da cui potessero filtrare l’acqua e la luce necessarie alla sua germogliazione. Quel seme conteneva un Dna forte e generoso, il germe della partecipazione, il nucleo della visione a lungo termine e l’energia delle politiche culturali come alimento della rigenerazione urbana. Quel seme parlava dei giovani e del mare di Palermo, utilizzava i diritti umani come molecola di sviluppo e ridisegnava una città senza recinti e separazioni. Quel seme, testardo, è germogliato e ha dato frutti in seguito. Da quel seme, dal quel metodo e da quella visione di città sono nati altri progetti riconosciuti come validi e che hanno consentito a Palermo di essere inserita nel 2015 nella World Heritage List dell’Unesco per il suo patrimonio arabo-normanno (insieme a Monreale e Cefalù)10, di diventare la Capitale Italiana dei Giovani nel 2017, Capitale Italiana della Cultura nel 2018 e, contemporaneamente, di ospitare la dodicesima edizione di Manifesta, la Biennale internazionale nomade di arte contemporanea, diventando così un epicentro mondiale della cultura contemporanea, un luogo attrattore di arte e generatore di creatività, un magnete culturale per la comunità mondiale dei creativi.

Il palinsesto della capitale italiana della cultura si intreccia in un potente tessuto culturale con la seconda edizione di BIAS (Biennale internazionale di arte contemporanea sacra delle religioni dell’umanità), una esposizione transnazionale inventata da quella straordinaria e versatile donna che è Chiara Donà delle Rose, aperta a tutti gli artisti visuali e performativi, architetti e designer, nel mondo ed organizzata nel centro storico di Palermo, ma anche in altri luoghi della Sicilia, come un percorso urbano di luoghi e comunità che abbiano uno stretto legame con il tema della sacralità, che si manifesta attraverso il tema universale della “porta”. Sono convinto che tutto questo sia anche il frutto di quel seme, apparentemente sterile, ma invece solo prematuro, che ha avuto bisogno di cambiare il terreno prima di germogliare, che ha richiesto cura e nutrimento, condivisione e partecipazione per diventare prima arbusto, poi frondoso albero e dare succosi frutti. In un libro sul futuredesign delle città e delle comunità, la micro-storia delle relazioni tra Palermo e Manifesta può dare indicazioni preziose per altre città che scelgano la strada di un diverso presente fondato sull’arte, sulla cultura e sulla creatività, sulla partecipazione e sul welfare culturale, sulla rigenerazione urbana e umana. Voglio qui usare Manifesta 12 per parlare del complesso rapporto tra le città e i grandi eventi culturali, del rapporto con l’identità urbana e con l’eredità sociale ed economica. Perché Manifesta Palermo è stato un utile laboratorio per sperimentare la territorializzazione delle politiche culturali [...]. Un laboratorio che ha svelato preziose opportunità ma che ha anche rivelato inevitabili criticità di un esperimento innovativo. L’incontro con Palermo, infatti, ha cambiato Manifesta facendole compiere una metamorfosi di cui le persone e la cultura sono i catalizzatori. La relazione di Manifesta con Palermo, con il Comune e l’Università, con gli studiosi e i giovani talenti, con gli artisti e gli attivisti, con le associazioni e i cittadini, è stata dirompente per una Biennale innovativa come quella inventata da Hedwig Fijen ventiquattro anni fa e che ha fatto del nomadismo e della fluidità la sua cifra politica e sociale prima che artistica. Approdando nella fluidità plurale, creativa, conflittuale, policroma di Palermo ne è rimasta sedotta e ne ha tratto l’occasione per rivedere sia la visione che la modalità di relazione con la città ospite: utile indirizzo per altri eventi culturali nomadi. Non è stato ridotto il nomadismo ma ne è cambiato ca-

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10. Il dossier di candidatura fu anch’esso un lavoro collettivo di analisi, interpretazione e visione coordinato da Aurelio Angelini, con la mia collaborazione insieme a Barbara Lino per la parte urbanistica di inquadramento e la definizione delle buffer zones.


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rattere, si è fatta urbana. Non è più la leggerezza del passaggio temporaneo alla ricerca di nuova energia la spinta che ne guida il cammino, ma vi è la disponibilità di arare il terreno e seminare per far germogliare frutti che rendano rigogliosa la città. Manifesta – sineddoche di altre iniziative artistiche urbane – non ha più la neutralità dell’innesto di arte contemporanea ma ha la responsabilità dell’innesco di processi evolutivi generati dall’arte contemporanea. Manifesta non ha proposto un programma precompilato, ma ha stimolato i visitatori ad essere i coder che generano, in un tripudio open-source, una personale geografia di luoghi che ricompone in innumerevoli modi le tre sezioni principali: Garden of Flows, che esplora la tossicità ambientale, Out of Control Room, che investiga il potere di controllo globale, e City on Stage, dedicato alla rigenerazione urbana, lungo i 21 luoghi e 60 installazioni del programma generale e i 90 eventi collaterali, intessuti di ulteriori iniziative che sono scaturite in emulazione, in contrasto, in sintonia, in uno spartito corale dove tutta Palermo risuona – con esiti diversificati – delle coesistenze che l’arte contemporanea genera. Con le sue numerose installazioni e performance articolate lungo una ampia geografia urbana Manifesta 12 ha preteso un approccio triplice: da un lato le opere d’arte hanno stimolato una riflessione critica e militante sui problemi del cambiamento climatico, delle migrazioni, del controllo e dei diritti, dall’altro lato i luoghi prescelti, alcuni aperti al pubblico per la prima volta, hanno reclamato attenzione e acceso lo stupore per la loro bellezza dolente ma ancora vitale, infine la città si è fatta coprotagonista della nostra meraviglia mostrandosi dalle finestre, dai cortili e dalle terrazze, completando spesso il senso delle opere con l’evidenza di una città che vive sulla pelle della comunità e sulle pietre degli edifici i temi della Biennale. Così Manifesta si è fatta un po’ meno aerea e più tettonica, ha generato bradisismi delle comunità con cui è entrata in contatto, ha agito come catalizzatore evidente nel suo manifestarsi, disposto a sparire una volta che la catalisi abbia generato una nuova sostanza urbana, culturale, sociale, economica e, perché no, politica. Si perché politica è questa nuova vita di Manifesta che nasce dai lombi materni di Palermo, tra Santa Rosalia e San Benedetto il Moro, e che è salpata verso Marsiglia dove nel 2020 farà germogliare i frutti seminati a Palermo, probabilmente risolvendo le criticità scoperte nel nuovo e complesso rapporto tra curatela, messaggio artistico e luogo.

E che una nuova etica abbia animato Hedwig Fijen e il Board, e poi la Fondazione Manifesta 12, è evidente nel primo atto della Biennale: iniziare, fin dall’anno precedente, il percorso di costruzione dell’evento con uno studio urbano affidato alle sapienti mani di OMA e in particolare alla sensibilità, rispetto e creatività di Ippolito Pestellini Laparelli e del suo team. Il primo esito di quasi sei mesi di intenso percorso della città, di archeologia delle sue comunità e di interpretazione delle diversità è stato il Palermo Atlas11. Un atlante che racconta, senza pretese di esaustività ma con stimoli di complessità, le molte Palermo che oggi convivono in un profondo palinsesto di valori e visioni e in un intricato reticolo di spazi percepiti, di spazi concepiti e di spazi vissuti, tutti insieme costituenti quella eterotopia di spazio e società che è sempre stata Palermo. Uno «strumento di sviluppo sostenibile per guidare e radicare l’eredità di Manifesta 12 per i prossimi anni», lo definisce Hedwig Fijen. Insieme ad altri documenti/strumenti elaborati negli anni dall’Università di Palermo, dalle associazioni culturali, dagli studiosi e dai professionisti – aggiungo io. Un iper-atlante mi piace definirlo, un atlante di atlanti, un racconto di racconti, una mappa di mappe, un ritratto di persone e di spazi, una quadreria di architetture e paesaggi. Ippolito Pestellini, che è anche uno dei Creative Mediators di Manifesta 12, lo dichiara espressamente nella sua introduzione: «non c’è un solo modo per avvicinarsi a Palermo, perché la città non può essere ridotta ad una singola identità o a definizioni precise: essa – e noi lo sappiamo bene – è un vitale e dinamico mosaico di frammenti e identità che emergono dal palinsesto di incontri e scambi di culture differenti che hanno reso intrinsecamente cosmopolita e sincretica la città. Più che una città, Palermo è lo snodo di una geografia allargata di flussi […], un laboratorio di impollinazione incrociata e un incubatore di condizioni globali. Palermo è paradigma del mondo nuovo». Iniziare il progetto curatoriale di una Biennale di arte contemporanea con uno studio urbano è un importante contributo al futuredesign, perché non vuol dire solo che è mutata la visione e la missione dell’evento, ma vuol dire anche accettare la sfida di compromettersi con la transizione di una città verso la contemporaneità, accettare la battaglia di contribuire a realizzare un diverso presente possibile. Manifesta, con la forza della sua comunicazione, ha rivelato a tutti Palermo come un «arcipelago del globale, non una città globalizzata, quanto

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11. Cfr. OMA, Manifesta12. Palermo Atlas, Milano, Humboldt Books, 2018.


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12. Per esplorare il progetto di futuro fondato sul diverso presente è stato lanciato nell’ottobre 2017 il Manifesta 12 Research Studios, un progetto curato da Ippolito Pestellini Laparelli e me che mette insieme in un’unica piattaforma quattro centri di ricerca di architettura (Palermo Lab dell’Università degli Studi di Palermo, AA Museum Lab dell’Architectural Association School of Architecture di Londra, Complex Project della Delft University of Technology e ADS8 del Royal College of Art di Londra). Nell’arco di due semestri, i quattro studi universitari internazionali hanno lavorato con gli studenti per proporre nuovi futuri della città partire dalle tracce interpretative contenute nel Palermo Atlas di OMA e nel dossier Palermo Portraits of the Future elaborato dal PalermoLab del Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo (Maurizio Carta, Alessandra Badami, Renzo Lecardane, Marco Picone, Filippo Schilleci e Zeila Tesoriere). Gli esiti del progetto hanno generato la mostra omonima allestita all’ex mulino del Complesso di Sant’Antonino.

piuttosto un incubatore di differenti condizioni globali che fanno della città l’affresco più seducente e potente dell’Europa e del Mediterraneo di un diverso presente», una città – a tanti di noi ben nota – di incompiute e mai realizzate, ma anche di culti e culture, una epifania quotidiana di bellezza archeologica, architettonica e artistica ma anche uno scrigno dell’immaginario visivo e cinematografico mondiale. L’Atlante è già un’eredità concreta, un lascito fertile, perché è una fonte preziosa per la città, di conoscenza e di ispirazione, di analisi e denuncia. Ma lo è soprattutto per me urbanista impegnato da anni a capire, progettare e trasformare la città. E non perché vi trovi informazioni che non conoscevo – si, ci sono anche quelle – ma perché Palermo Atlas è una potente macchina della verità, ci rivela Palermo attraverso le sue ricchezze e contraddizioni, ci mostra luoghi in ripresa ma anche comunità in attesa, ci mostra come eravamo nel passato e come saremmo in un differente presente capace di attivare un diverso futuro possibile. Dobbiamo vedere con occhi nuovi la bellezza e la ricchezza quotidiana che ci circondano e che abbiamo la responsabilità di arricchire e tramandare: talenti all’opera, scuole di resistenza, paesaggi resilienti, dismissioni creative punteggiano la città offrendo a noi urbanisti potenti punti appoggio per una ascensione senza inutili orpelli, usando mente e mano, verso il nuovo livello di una Palermo che si manifesta. L’Atlante è ricco di mappe e dati, di immagini e diagrammi, e ogni volta che lo sfogliate vi svela nuove indicazioni, come se ogni volta che lo chiudete il Genio di Palermo si divertisse a spostare le pagine e ad aggiungerne di nuove. Ma c’è una mappa per me emblematica di quello che si deve fare per riattivare il futuro, ed è la carta di Palermo composta da tanti tasselli di altre mappe, con linguaggi differenti, di epoche diverse, un palinsesto di immagini cartografiche, di analisi e progetti, che ci svela la profonda archeologia del sapere di cui è fatta questa città mille volte disegnata e mille volte immaginata: una città di isole urbane che vogliono tornare ad essere arcipelago. È una mappa preziosa perché ci impone una sfida: riconnettere senza omologare, ricomporre senza ridurne la ricchezza, raccontare senza semplificare. Noi futuredesigner progettiamo Palermo lavorando sull’identità senza annullare le differenze, trovando nuovi equilibri ma anche più solide equità, immaginando armonie senza cadere nell’omologazione, riconnettendo le parti diversificandole. Progetti che indaghino Palermo come centro di

produzione culturale, e la sua relazione con gli eventi culturali, che modellino la natura urbana come modello per lo sviluppo di nuove forme di coesistenza, che governino il ruolo dell’innovazione digitale e sociale nella progettazione delle città resilienti12. Come progettare il futuro di una città contemporanea che ha fatto della coesistenza, dell’ibridazione e della molteplicità il suo carattere distintivo? È questa domanda uno dei lasciti di Manifesta, perché ci obbliga ad una risposta non consuetudinaria. Palermo deve tornare ad essere una città che guarda al Mediterraneo e al Mondo, ai flussi e alle reti che ci attraversano, essere metropoli generosa con le città che la circondano, usare un approccio olistico ma sapere attuare pratiche, agire per agopunture che sappiano diramare i loro effetti. Palermo – l’ho sostenuto molte altre volte – non può più avere un solo centro, perché si sono moltiplicati i centri differenti, i nuovi epicentri di socialità della città metropolitana e progressivamente policentrica. E dalle periferie oggi vengono potenti segnali di innovazione sociale, di ribellione civica, di nuovi modi di abitare e di lavorare. Riserve preziose per la resilienza della città. Questa per me è la sfida più seducente: reimmaginare Palermo dopo che Palermo ha reinterpretato il ruolo di Capitale della cultura, ha ripensato i luoghi con Bias e ha ricodificato il ruolo di una Biennale nomade di arte contemporanea dedicata alla “coltivazione della coesistenza”. Dobbiamo, a mio parere, stimolare la germogliazione della consistenza, nel mirabile senso con cui la proponeva, purtroppo senza completarne l’argomentazione, Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, in una oscillazione epistemologica tra solidità e coerenza, tra identità e apertura. E il frutto più prezioso della consistenza è la dimensione etica della nostra azione. Per fare germogliare la consistenza di Palermo dobbiamo partire dagli epicentri dell’arte contemporanea (Palazzo Butera, la GAM, il Museo Riso, i Cantieri Culturali alla Zisa, il Teatro Garibaldi), dalle istituzioni culturali che si stanno aprendo al contemporaneo (lo Steri, l’Orto Botanico, il Museo Diocesano, la Fondazione Federico II, la Fondazione Sant’Elia, Palazzo Branciforte e Villa Zito, il Museo Salinas, Palazzo Abatellis), dai luoghi del riscatto (lo Zen, la Favara di Maredolce, la Costa Sud), dalla riapertura della città al mare (il parco archeologico del Castello a Mare, la Cala, Sant’Erasmo e la nuova area crociere) e poi dai palazzi, gallerie, studi d’artista, centri culturali,


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piazze e giardini, per ridisegnare complessivamente la città. Per non fermarci alle intenzioni servono sperimentazioni! Come il “Progetto Kalsa” che abbiamo redatto io, Massimo Valsecchi e Marco Giammona con il contributo di molte persone e nato dalla collaborazione tra Unipa e la Fondazione Valsecchi. Figlio di una visione lungimirante e multidisciplinare, il progetto di rigenerazione urbana e umana della Kalsa ha una poderosa carica innovativa poiché agisce contemporaneamente sull’innovazione urbana, sociale, culturale ed economica, riattivando i cicli latenti ma ancora vitali di uno dei quartieri a più alta intensità culturale del centro storico di Palermo, alimentata dalla presenza dell’Università di Palermo e il suo complesso Monumentale e Museale dello Steri e l’Orto Botanico, di Palazzo Butera come motore culturale e creativo tra memoria e contemporaneità aperto alla città e dell’Ufficio del Centro Storico come laboratorio istituzionale di politiche urbane. Il progetto agisce su tutte le eccellenze culturali già presenti nell’area, mettendole a sistema con la vivace vita sociale, artistica e comunitaria che negli ultimi anni ha reso il quartiere vibrante di creatività. Il risultato è un “arcipelago culturale” di spazi pubblici, di luoghi porosi e attraversabili, di musei e laboratori, di manifatture e teatri, di residenze e atelier, di istituzioni e associazioni che in sinergia agiscono per sperimentare in questo brano importante di città un nuovo modello urbano fondato sulla generazione di valore a partire dalla cultura e dai nuovi stili di vita ad essa legati. Palermo arcipelago reclama di ricomporre conflitti senza abolire le diversità, ricucendo la relazione tra centro e periferie, tra città e mare, tra minerale e vegetale, persino tra sotterraneo ed aereo, perché Palermo è percorribile nei qanat, nei cunicoli dei Beati Paoli, nei rifugi anti-aerei e nelle cisterne sotterranee di Pier Luigi Nervi, come Parigi, ma anche dalle terrazze, dai tetti e delle torri, come Istanbul e Marrakech. Coltivare la coesistenza per far germogliare la consistenza è l’occasione per generare effetti creativi di rigenerazione urbana e umana attorno ai luoghi interessati dagli eventi, riattivandone la vitalità attraverso usi ibridi e condivisi. È il momento di completare la restituzione dello spazio urbano ai cittadini e non alle macchine: «lasciate perdere la maledetta auto e costruite le città per gli innamorati e per gli amici», scriveva Lewis Mumford nel 1979. È il momento per trovare nuove funzioni culturali e produttive agli spazi dismessi attraver-

so forme innovative e profittevoli di partenariato pubblico-privato. È lo spunto per ripensare il ruolo delle biblioteche, dei musei e dei teatri come piazze del sapere. È il momento per coltivare l’azione collettiva del tessuto culturale e creativo che è il terreno fertile su cui devono germogliare i frutti duraturi delle Vie dei Tesori, della Settimana delle Culture, del Festival delle Letterature Migranti, di Ballarò Buskers Festival, e altre iniziative, in una feconda contaminazione che alimenti e renda stabile l’ecosistema culturale. Palermo è stata fondata come “tutta porto” e il mare le ha dato per secoli la sua vitalità, poi è diventata “tutta orto”, giardino paradisiaco di diversità botanica e la natura le ha donato la vitalità della sua bellezza vegetale, ed è stata anche “tutta arte”, da sempre luogo di artisti sublimi, di correnti artistiche e di avanguardie, spesso autorevole nel panorama internazionale, anche dell’arte contemporanea. Oggi può rinascere dall’essere contemporaneamente tutta porto, tutta orto e tutta arte. Non si tratta solo di un gioco linguistico, ma è la sintesi delle tre identità – anzi re-identità – che possono definire, accelerare e focalizzare la grande metamorfosi della città del diverso presente che rigenera il futuro a partire dal suo migliore passato. Ripartendo dal rapporto d’amore con il mare, dalla simbiosi con la natura e dalla energia creativa dell’arte. Significa riaprire la Porta del Sole che attraverso il nuovo porto crociere, il parco lineare costiero e la Cala illumini la città dei suoi flussi globali che vi penetrano da est. Significa far rivivere la Conca d’Oro che attraverso orti e giardini torni a rinverdire ferrovie dismesse, cortili ed aree agricole periurbane. Significa attivare la dimensione urbana degli spazi dell’arte contemporanea, a partire dalla storica galleria Arte al Borgo [...] (ancora esistente e in cerca di nuove battaglie), e dalle altre gallerie, centri culturali indipendenti e studi d’artista nati negli ultimi anni, come la galleria di Francesco Pantaleone, la Rizzuto Gallery di Giovanni Rizzuto e Eva Oliveri, il Caffè internazionale di Stefania Galegati Shines, o l’Ascensore di Albertò Laganà e Gianluca Concialdi, o gli studi d’artista di Andrea Kantos, Ignazio Mortellaro, Michele Tiberio, Linda Randazzo, Francesco Cuttitta, Gabriele Massaro, Dimitri Agnello, Luca Cutrufelli, solo per citarne alcuni. Dobbiamo ripartire da quello spirito leggero e impegnato allo stesso tempo, contaminando musei, spazi espositivi, teatri, librerie, studi, residenze e gallerie per far

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tornare Palermo ad essere avanguardia di sperimentazione, di vitalità e di inventiva. Possiamo ripartire dalle nostre eccellenze delle arti visive e performative spesso dimenticate o ignorate, ma mai cancellate o sopite, ancora vibranti sotto le macerie della falsa modernità del cieco presente, pronte ad essere la spinta della nuova città. Per far rifiorire Palermo, per farla tornare la splendente Aziz, città dell’acqua, della natura e dell’arte, non è di un grande evento che abbiamo bisogno, ma di numerosi avvenimenti – cioè un futuro emergente – da costruire insieme attingendo alla proteiformità di Palermo che si disvela sempre differente a seconda di chi la guardi. E Palermo porto, orto e arte pretende un’idea di città e invoca un’urbanistica che mutino in funzione delle domande dei suoi abitanti piuttosto che fornire una risposta predefinita, spesso solo utopica, nel senso di incapace di farsi luogo. Dalla Whl Unesco, da Manifesta, dalla Capitale Italiana della Cultura, o da altre occasioni simili, non mi aspetto che nasca la città del futuro, ma pretendo che si attivi la città di un differente presente, disvelata dal potere ermeneutico delle arti visive e performative, progettata dall’architettura e pianificata dall’urbanistica, rigenerata dalla loro capacità di indagare a fondo nei tessuti spaziali e umani della vita contemporanea per ricombinarne il codice genetico. Le città del diverso presente, tuttavia, non sono fatte solo di centri vibranti di creatività, di luoghi che reagiscono e di comunità effervescenti, non sono solo utopie possibili, ma sono composte di pluralità, sono fatte di fertili eterotopie, di margini che si fanno centri, di periferie che tornano città.

(nella pagina a fianco e nelle pagine precedenti) Foto di: Francesca Marchese.



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Progettare città aumentate antifragili estratto da: Menichini D., Repetto D. (a cura di), Panglossismo. L'architetto post pandemico, Pacini Editore, Pisa 2020.

Maurizio Carta La pandemia di Covid-19 ha squarciato l’illusione di esserci emancipati dalle dinamiche ecosistemiche e di essere indipendenti dalla natura. Con la sua corsa attraverso il pianeta, contagiando quasi 5 milioni di persone, uccidendone centinaia di migliaia e costringendo in quarantena quasi la metà della popolazione mondiale, ha generato due opposte risposte. Alcuni sperano che la crisi passi e tutto torni come prima. Altri, io tra questi, invocano una metamorfosi che modifichi profondamente il nostro modo di abitare il pianeta come “specie imperfetta”1 abbandonando presunte superiorità dietro cui nascondevamo la fragilità dei nostri sistemi urbani. Perché sono stati anche i nostri comportamenti a scatenare il virus, che, cacciato dal suo ambiente silvestre, ha trovato una nuova specie da infettare: noi. Il Covid-19, infatti, non è stato un “cigno nero” (un imprevisto), ma il “rinoceronte grigio” (un rischio ben noto che vogliamo ignorare) che correva furioso verso di noi annunciando il salto di livello della crisi ambientale dell’Antropocene2. Siamo, infatti, in una fase apicale di una pandemia ecologica prodotta dalle modifiche territoriali, sociali, economiche e climatiche generate dall’umanità che, sbaragliando tutte le altre specie viventi, è diventata sempre più potente con la grande accelerazione del Secondo Dopoguerra3. Una pressione che aveva trovato un primo allarme negli anni Sessanta del Novecento, quando esplosero le contraddizioni del capitalismo prodotto dalla Rivoluzione Industriale e iniziò a diffondersi la consapevolezza che il modello di sviluppo estrattivo e predatorio producesse diseguaglianze sociali, un impoverimento culturale, un consumo di risorse fisiche

molto oltre i limiti del pianeta4 e un susseguirsi di crisi economiche derivate5. L’Antropocene con la sua urbanizzazione espansiva, ha divorato il suolo naturale, le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città. È stata devastata la capacità degli insediamenti urbani di intrattenere le necessarie relazioni omeostatiche con le componenti naturali, è stato spazzato via il valore rigenerativo della cura dei luoghi di vita. Oggi, svelato l’inganno anche ai più ciechi evangelisti della crescita illimitata, abbiamo l’obbligo di ripensare radicalmente il modello di sviluppo assecondandone la sua transizione verso una resilienza strutturale, come scrivo nel mio libro sul futuro6 in cui propongo le azioni necessarie per non farci sorprendere dalle drammatiche epifanie – come l’apparizione improvvisa (ma annunciata) del coronavirus – adottando invece un atteggiamento proattivo che ci consenta di agire oggi, cambiando molte distorsioni della nostra relazione con la natura, progettando un futuro che non sia distopico, ma seducentemente “protopico”: fondato sul progetto ecologico di una rinnovata alleanza tra specie viventi e tra città e territorio. Da urbanista, da progettista, sono convinto che adesso serva una riflessione competente e di sistema per imparare dalla crisi, per rivoluzionare i nostri comportamenti una volta superata la pandemia, e per evitare – o mitigare – la prossima crisi. Significa progettare un modo diverso di abitare il pianeta, realizzando città che non ci facciano ricadere nella trappola di una distopia, ma che alimentino l’audacia della fiducia nel futuro. Città ecologiche a prova di crisi in equilibrio

1. Pievani T. Imperfezione. Una storia naturale, Milano, Cortina, 2019. 2. Crutzen P.J., Stoermer E.F., Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Milano, Mondadori, 2005. 3. McNeill J.R., Engelke P., La Grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Torino, Einaudi, 2018. 4. cfr. Meadows D.H., Meadows, D.L., Randers J., Behrens III W.W., I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972; Rockström J., Klum M., Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari, Milano, Edizioni Ambiente, 2015. 5. Moore J.W., Anthropocene or Capitalocene? Nature, History, and the Crisis of Capitalism, Oakland, PM press, 2016. 6. Carta M., Futuro. Politiche per un diverso presente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019. (nella pagina a fianco) Olafur Eliasson, The Weather Project, 2003, London Tate Modern Gallery.


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«La sfida per le città aumentate post-covid sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo»


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con le altre specie viventi, ma soprattutto luoghi privilegiati della salute pubblica, come era stato alla nascita dell’urbanistica moderna alimentata proprio dalla matrice igienista: si pensi ai piani innovativi di Barcelona (1859) e Londra (1944). Significa tornare – come abbiamo fatto storicamente in Italia – a progettare città policentriche e con densità differenziate, porose alla natura, fondate su un più adeguato metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, con una maggiore prossimità delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi. Sono quelle che io chiamo “città aumentate”7 perché capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare risorse: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove all’abitare e alle forme e funzioni dello spazio pubblico, più intelligenti per gestire le informazioni e ridurre i costi di intervento, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti e agli shock entro una rinnovata dimensione ecologica, più fluide per accogliere le diversità, più produttive per tornare a generare lavoro e benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e, infine, più circolari per ridurre il consumo di suolo ed eliminare gli scarti. È venuto il momento di entrare nel Neoantropocene8, che definisco come una nuova era in cui l’umanità, invece di essere il problema, progetta e mette in atto la transizione verso lo sviluppo ecologico, riattivando l’antica alleanza tra componenti umane e naturali come forze coagenti: un antropocentrismo sensibile, rispettoso e temperato volto a riposizionare l’umanità in uno schema integrato, ibrido, con la natura. E lo strumento del nuovo paradigma urbano ecologico non può che essere una nuova “urbanistica circolare”9, capace di progettare e rigenerare città, territori e paesaggi riattivando i loro naturali metabolismi, lavorando sugli scarti, progettando il riciclo e contrastando l’obsolescenza programmata delle città dell’Antropocene predatorio con la sua famelica necessità di espansione. Serve un nuovo paradigma di sviluppo a prova di cambiamento ambientale che fornisca anche rinnovata sostenibilità economico-ecologica10 all’alleanza tra dimensione urbana e rurale, guidando adeguate strategie reticolari11. Un progetto di nuovi pattern insediativi che eliminino il concetto di periferia come scarto prodotto dalla famelica espansione edilizia e relativa concentrazione di valori immobiliari e finanziari, stimolando la creatività degli habitat resilienti che stanno producendo pratiche

dell’audacia in varie parti dell’Europa12. Dobbiamo usare tutta la creatività, imparando dalla natura che si evolve per innovazioni, per adattamenti creativi, per inedite cooptazioni13. Nel concreto, dobbiamo progettare città antifragili che usino le crisi per innovare14, luoghi mutaforma capaci di adattarsi alle esigenze sempre più flessibili delle città postpandemiche (ma anche di quelle prepandemiche, se le avessimo ascoltate con maggiore attenzione). Non più il tradizionale elenco di funzioni separate, ma un fertile bricolage di luoghi che, quando serve, siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando più ruoli ciclici. La sfida per le città aumentate post-covid sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo, la diversità dei loro quartieri e borgate che, smettendo di essere fragili periferie, tornino ad essere luoghi di vite e non solo di abitazioni, colmando il divario educativo, lavorativo, culturale, digitale, dotandosi di micro-presìdi di salute pubblica e di comunità energetiche autosufficienti. Immagino città fondate su una nuova prossemica15 che riduca la loro forsennata mobilità centripeta, garantendo la risposta a molti bisogni entro un raggio di 15 minuti a piedi (lo stanno già facendo Parigi, Barcelona, Milano, Bologna). Servirà quindi estendere lo spazio domestico ampliando, anche attraverso dispositivi pop-up, quegli spazi intermedi che possano consentire una vita di relazioni in sicurezza: allargare i marciapiedi e prevedere pedonalizzazioni temporanee per ampliare gli spazi per l’educazione, il gioco e l’attività fisica, realizzare interventi di urbanistica tattica per il ripensamento dello spazio pubblico e per nuove modalità di fruizione della cultura e del tempo libero. Distribuire il teatro, il cinema, i musei e le scuole nello spazio pubblico, proiettare il commercio sulla strada invece che confinarlo dietro le vetrine, riutilizzare edifici dismessi per accogliere funzioni condivise distribuite nel tempo. Una sorta di fascia osmotica che dia forma a quel concetto di “nei pressi della propria abitazione” che ha caratterizzato la quarantena e che potrebbe diventare un progetto di città, riempiendo questi pressi di orti, di attività produttive e di spazi per una vita relazionale più sicura perché distribuita. Non propongo una città di tribù recintate, ma un fluido arcipelago di prossimità e centralità differenziate, connesso da una potente rete di parchi e giardini, vie pedonali, ciclovie e strade per auto elettriche

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7. Carta M., Augmented City. A Paradigm Shift, Trento, ListLab, 2017. 8. idem 9. Carta M., Lino B., Ronsivalle D. (a cura di), Recyclical Urbanism, Trento, ListLab, 2016. 10.Raworth K., L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Milano, Edizioni Ambiente, 2017. 11. Schröder J., Carta M., Ferretti M., Lino B., eds., Territories. Rural-Urban Strategies, Berlin, Jovis, 2017. 12. Schroeder J., Carta M., Ferretti M., Lino B., Dynamics of Periphery. Atlas of Emerging Creative Resilient Habitats, Berlin, Jovis, 2018. 13. Gould. S.J., Vrba E.S., Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 14. Taleb N.N., Antifragile. Prosperare nel disordine, Milano, il Saggiatore, 2013. 15. Hall H., La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 1968.


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a guida assistita, vere e proprie arterie di una mobilità sostenibile alternativa alla riduzione di capienza dei mezzi pubblici e alla esplosione di un inaccettabile ritorno all’automobile, che connettano in sicurezza i quartieri “zona 30”, attraversando parchi e giardini, riutilizzando ferrovie in disuso, persino usando cortili e vicoli. Una vera e propria “domesticità aumentata” dallo spazio pubblico definito da un perimetro di prossimità che consente di usufruire di attività che non siano solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza in caso di pericolo. Una sorta di rielaborazione laica dell’Eruv, la recinzione rituale degli ebrei ortodossi che circonda Manhattan e che estende di fatto l’ambiente domestico anche agli spazi pubblici16. La pandemia ha inciso sui nostri corpi la consapevolezza del cambiamento climatico e ci sfida a progettare per rigenerare, poiché il degrado ecologico prodotto dall’Antropocene si è rivelato non curabile con la crescita, che è stata, invece, un oltraggioso predatore di risorse vitali del pianeta. È venuta l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo, alla città del Neoantropocene, la città resa flessibile dalle sue policentricità e prossimità aumentate.

16. Bechhofer Y.G., The Contemporary Eruv: Eruv in Modern Metropolitan Areas, Scotts Valley, CreateSpace, 2013. (nella pagina a fianco) Olafur Eliasson, Yellow forest, Hamburger Bahnhof Museum, Berlin, 2017; Foto: David von Becker.


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Il terremoto come frattura nella continuità storica estratto da: Badami A., Gibellina, la città che visse due volte. Terremoto e ricostruzione nella Valle del Belice, FrancoAngeli, Milano, 2019.

Alessandra Badami Il volume ripercorre la storia della città di Gibellina, ovvero le storie delle due città di Gibellina. L’una, oggi chiamata Gibellina Vecchia, costituisce uno dei pochi casi di città completamente rase al suolo. Distrutta dal terremoto che colpì nel 1968 la Valle del Belice, vide il trasferimento dei suoi abitanti in un altro insediamento appositamente costruito e la trasfigurazione dei suoi ruderi in un’opera di Land Art, operata dall’artista Alberto Burri. L’altra, ormai per tutti Gibellina Nuova, è una città costruita ex-novo a partire da un progetto ispirato dalle visionarie intenzioni di innestare, nel contesto dell’entroterra della Sicilia occidentale, modelli urbanistici e architettonici attinti dalle più avanzate sperimentazioni avviate nei paesi nord-europei tra gli anni ‘50 e ‘60 del XX secolo. La discontinuità tra le due città, interposta dal dramma del terremoto, è stata amplificata dalle repentine trasformazioni culturali, sociali, economiche e tecnologiche introdotte a partire dalla seconda metà del Novecento; è stata resa ancora più evidente dall’innesto di modelli urbanistici e architettonici estranei alla cultura locale; è stata, inoltre, estesa a causa del lasso temporale (per un periodo di dodici anni circa, corrispondente quasi ad un salto generazionale) intercorso tra il ricovero dei terremotati nelle baraccopoli e il loro trasferimento nel nuovo insediamento. Tali distanze temporali, culturali e sociali hanno prodotto una profonda frattura nella continuità storica tra i due insediamenti. Le due storie si iscrivono all’interno dell’evento calamitoso occorso nel 1968 nella Valle del Belice e la cui intensità è stata tale da scuotere un’intera valle e sconvolgere le vite e le storie

vissute da una popolazione, complessivamente, di circa 100.000 persone. Storie che sono state il doloroso campo di esercitazione dello Stato italiano sulle modalità di intervento in caso di calamità naturali e sui cui errori – sperimentati sulla vita delle persone – sono stati riconsiderati le procedure di soccorso e di pronto intervento, le modalità di risarcimento dei danni ai terremotati, i principi guida per la ricostruzione e per il riassetto dei territori. Storie spesso intrecciate con vicende politiche non sempre trasparenti, con scelte pilotate, con ingiustificabili dilazioni, varianti e suppletive di lavori e con l’immancabile speculazione a carico dei sinistrati. La spaventosa potenza del terremoto scaricata sulle popolazioni del Belice ha condotto anche ad una significativa riflessione sulle azioni politiche approntate e sui modelli di riferimento assunti dall’urbanistica italiana a partire dal Secondo Dopoguerra. L’esito delle soluzioni adottate per la ricostruzione post sismica si è rivelato, nei fatti, colpevolmente distante rispetto alle ipotesi teorizzate in partenza, conducendo ad una profonda revisione delle modalità di intervento. La storia della “città che visse due volte” mette a confronto le due città, ricostruendone per la prima la struttura e l’immagine, per la seconda dipanando l’intrecciarsi degli eventi che hanno portato alla sua configurazione attuale, fornendo chiavi di lettura per interpretarne le palesi contraddizioni in atto. Del periodo di passaggio tra le due città vengono ricordate le principali vicende che hanno accompagnato la vita delle popolazioni terremotate: il passaggio dalle tendopoli, alle baraccopoli e alla nuova città; le esperienze

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«Il passato di Gibellina Nuova non è Gibellina Vecchia»


#Approfondimenti scientifici

della partecipazione popolare alla formulazione di piani e proposte per lo sviluppo dei territori della Valle del Belice e le prospettive occupazionali per gli abitanti; le marce e gli scioperi di protesta; le contraddizioni sulla scelta del sito dove fondare il nuovo insediamento. In merito alla ricostruzione della storia di Gibellina Vecchia, si è fatto riferimento a fonti letterarie, iconografiche, cartografiche e catastali nonché a fonti orali. Sulla base dei dati raccolti è stata ricomposta non soltanto la rappresentazione fisica dell’insediamento e del territorio comunale allo stato di fatto precedente il terremoto, ma anche l’immagine della città attraverso la toponomastica e la localizzazione degli edifici principali, dei servizi e delle attività commerciali al fine di restituire, nel modo più fedele possibile, la vita che animava l’insediamento fino a quella notte in cui l’intera popolazione della valle ha subito la furia devastante della natura. Grazie alla ricostruzione della geografia dell’insediamento, ormai completamente scomparso, è stato possibile riscoprirne le trame all’interno degli intrecci dei solchi del Grande Cretto, il monumento funerario che ha fissato definitivamente nel territorio e nel tempo il dramma vissuto dalla città. Per la breve ma intensa storia di Gibellina Nuova, nata da un piano fondato su teorie non opportunamente verificate in base alle specificità geografiche e socio-culturali locali e la cui ambizione era di definire unitariamente e simultaneamente ogni aspetto dell’impianto urbano, vengono descritti i principi ispiratori del progetto e narrata la successione delle varianti urbanistiche che, dal 1979 al 1996, si sono rese necessarie per ovviare agli errori di pianificazione. In aggiunta alle varianti di piano, che hanno in qualche modo modificato la forma dell’impianto urbano, la storia della nuova città è stata sensibilmente plasmata dalla forza visionaria del sindaco Ludovico Corrao, che ha voluto – con potente capacità politica – che Gibellina Nuova rinascesse “dal soffio creativo dell’arte”, dando vita ad un luogo unico, un insediamento dove si concentrano architetture e centinaia di opere d’arte contemporanea, distribuite en-plein-air e raccolte nei musei, per addensare lo spazio rarefatto di un paesaggio urbano anonimo e indifferente al tessuto delle emozioni dei suoi nuovi abitanti. Dal confronto tra le due storie vissute da Gibellina, ad una distanza critica di cinquanta anni dal

sisma (sociologicamente lunga ma urbanisticamente breve), è possibile avanzare alcune osservazioni rispetto agli effetti prodotti dalle scelte impartite per la ricostruzione, sull’efficacia dei provvedimenti emanati dalle autorità statali e regionali e sul loro reale impatto sul territorio e sulla popolazione. Si è cercato, con visione laica e spirito critico, di individuare i motivi che hanno separato la presunta perfezione di modelli ritenuti tecnicamente perfetti dal fallimento della loro applicazione nella realtà, analizzando i conseguenti cambiamenti di rotta che si sono resi necessari per adattarli al contesto locale. Non pochi interrogativi oggi si pongono sulle modalità con cui metabolizzare tutto il portato di innovazione, per molti versi estraneo alle tradizioni locali, immesso dalla cultura urbanistica, architettonica e artistica più avanzata a Gibellina Nuova. Occorre riflettere su come innestare questi nuovi valori all’interno delle tradizioni culturali della popolazione locale e trasferirli all’interno di un concetto patrimoniale in cui identificarsi, da condividere come bene comune, da valorizzare come risorsa e da salvaguardare come nuova eredità. Gibellina Nuova è il prodotto del convergere di diversi approcci intellettuali, progettuali e interpretativi, di sogni utopici e di realizzazioni superficiali, di paternalistici interventi e di visionarie riparazioni. Ripercorrerne la storia, per rintracciare motivazioni ed esiti delle scelte operate, aiuta a comprendere la città attuale quale esito di un processo diretto da più mani e, probabilmente, ad individuare le tracce per un futuro possibile.

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#Bibliografia di riferimento

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