L'impresa fondamenti e profili economico-finanziari 2/ed - Capitolo 1- L’impresa: aspetti introdutti

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L’impresa: aspetti introduttivi

Gli individui facenti parte di un villaggio possiedono un insieme di fattori della produzione dalla cui combinazione ottengono ciascuno la realizzazione di beni economici, quali, per esempio, cibo, vestiti, armi per la caccia, medicinali. Con il tempo gli individui apprendono che i beni economici possono essere prodotti non solo per appagare i loro bisogni, ma anche per essere scambiati con altri individui in luogo di un corrispettivo. Si forma, dunque, il mercato che comprende un insieme di transazioni concluse tra acquirenti e venditori di un bene economico sulla base di un determinato prezzo. Gli individui ampliano nel tempo il novero dei beni economici che sono prodotti per lo scambio. Nel fare questo, favoriscono lo sviluppo di nuovi mercati nell’ambito dei quali i beni economici sono scambiati. Da questi mercati emergono dei prezzi i quali, a loro volta, influenzano la domanda e l’offerta non solo del bene in oggetto ma anche di altri beni. I mercati diventano tra loro interdipendenti e nel loro insieme tendono a formare un unico grande mercato. Per la produzione di beni, gli individui facenti parte del villaggio combinano anche i loro sforzi, mettono in comune i fattori produttivi e si specializzano, ciascuno, in determinate attività. Alcuni preparano la materia prima, altri la lavorano, altri ancora conservano il prodotto finito. Altri individui, pur non svolgendo direttamente un’attività produttiva, esercitano, infine, i ruoli di direzione e di controllo del lavoro svolto da altri. Si creano, dunque, le organizzazioni nell’ambito delle quali il coordinamento dei rapporti individuali non è più soggetto alle logiche del mercato e dei prezzi bensì alle regole dell’autorità e della gerarchia. Gli esempi riportati qualificano i mercati e le organizzazioni, due istituzioni portanti dei moderni sistemi economici. In questa prospettiva, il presente capitolo si propone di inquadrare l’impresa nell’ambito dei sistemi economici moderni, descrivere i suoi processi di base (in particolare, i processi di produzione e di scambio), introducendo i concetti chiave di contesto, decisione, confine e risultati. Il capitolo discute la distinzione tra mercato e organizzazione e, tra queste ultime, si focalizza sull’impresa, sottolineandone le specificità, ripercorrendone l’evoluzione storica e tratteggiandone le differenze in termini dimensionali.

Obiettivi di apprendimento In questo capitolo discuteremo di: 1. sistema economico e sistema produttivo; 2. processi di produzione e processi di scambio;


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3. mercati, organizzazioni e imprese; 4. imprese artigiane, mercantili, industriali e grande corporation; 5. imprese piccole, medie, grandi, multinazionali, gruppi di imprese.

1.1 Introduzione Oggetto del presente lavoro è lo studio dell’impresa, intesa, in prima approssimazione, come istituzione economica organizzata ai fini della produzione e dello scambio di beni, con le sue componenti costitutive e i suoi rapporti con il contesto esterno. Nell’analisi dell’impresa verranno utilizzati i seguenti concetti chiave: contesto, decisione, confine e risultati. Le nozioni considerate e le loro interazioni sono proposti in Figura 1.1. Il contesto comprende un insieme di elementi strutturali, pro tempore invarianti, che qualificano la cornice entro la quale si svolge l’azione dell’impresa. Assumendo l’ottica dell’impresa, il contesto può essere interno o esterno. Quello interno comprende l’insieme dei fattori umani, tecnici e finanziari che rientrano nella disponibilità dell’impresa, unitamente alle modalità con le quali questi fattori sono organizzati. Quello esterno comprende l’ambiente generale, che racchiude le influenze proiettate sull’impresa dagli ambiti politico, economico, sociale e tecnologico; e l’ambiente specifico, che sostanzia le influenze proiettate sull’impresa da parte di fornitori, concorrenti attuali e potenziali (o di prodotti sostitutivi), acquirenti e partner in generale. Nel passare dal contesto interno a quello esterno si sposta il livello di analisi: nel considerare il contesto interno, l’attenzione è riservata alla singola impresa, all’unità produttiva o anche a gruppi di imprese; in quello esterno, l’attenzione è riservata invece ad aggregati di imprese, quali settori, industrie, comparti. L’area delle decisioni comprende scelte di natura diversa, da quelle strategiche (connesse all’armonizzazione dei rapporti con l’ambiente) a quelle tattiche (relative al miglior uso dei fattori di produzione) sino a quelle di natura più squisitamente operativa. Le decisioni possono a loro volta interessare le dimensioni reale e finanziaria. Nella dimensione reale si comprendono le scelte di acquisizione, uso e dismissione dei fattori della produzione. Si consideri, per esempio, un’impresa che abbia una certa dotazione di impianti, macchinari, brevetti, canali distributivi, risorse finanziarie e conoscenze. Le scelte nella dimensione reale consistono nell’utilizzo Figura 1.1 Modello di analisi dell’impresa.

Contesto esterno

Contesto interno

Risultati

Decisioni

Confine


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di tali fattori nelle combinazioni esistenti (per esempio, produzione di un capo di abbigliamento) ovvero nell’acquisizione di nuovi fattori (per esempio, acquisto di un macchinario) o anche nella dismissione di altri (per esempio, esternalizzazione di alcune attività produttive). La dimensione finanziaria comprende le scelte in materia di raccolta delle fonti necessarie per soddisfare i fabbisogni connessi agli impieghi derivanti dall’acquisizione e dall’uso dei fattori della produzione. In aggiunta, talune scelte hanno natura ricorrente e riguardano il miglior uso dei fattori produttivi esistenti (per esempio, la manutenzione programmata delle macchine, la gestione della tesoreria) mentre altre sono il portato di processi decisionali innovativi, con effetti anche radicali sull’impresa e sulle sue prospettive di sviluppo (per esempio, una ristrutturazione dell’impresa, la modifica della struttura finanziaria). A margine, si nota che l’aver posto le decisioni quale momento centrale del nostro modello segue all’idea di una funzione manageriale alla quale contribuiscono individui che svolgono un ruolo attivo nell’impresa, attenti a leggere i cambiamenti di contesto, e intenti a guidarne la dinamica evolutiva (Nelson e Winter, 1982). Il confine rappresenta un potenziale elemento di demarcazione tra le combinazioni produttive che rientrano nella disponibilità dell’impresa (cui possiede il fattore di produzione e i flussi di servizio che esso genera) e le combinazioni che invece rientrano nella disponibilità di altre entità (di cui l’impresa eventualmente usufruisce dei flussi di servizio). Il confine dell’impresa è variante nel tempo e nello spazio in funzione di diversi aspetti quali l’efficienza economica, il potere di mercato, l’innovazione, e, talora, può assumere caratteri sfumati quando talune organizzazioni imprenditoriali adottano percorsi di innovazione e di crescita sostenuti attraverso molteplici rapporti di collaborazione e di competizione con altre imprese (Coda, 1987). I risultati esprimono gli esiti dell’attività dall’impresa in un arco temporale definito. Questi, a loro volta esprimibili, sostanzialmente, in termini economici e finanziari, sono co-determinati dall’interazione tra le decisioni e i contesti interno ed esterno. Da un lato, il contesto può influenzare la relazione tra decisioni e risultati di impresa. Per esempio, le scelte di imitazione dei concorrenti possono ridurre i benefici derivanti dall’introduzione nel mercato di nuovi prodotti. Uno sciopero prolungato dei lavoratori può precludere la possibilità di un’impresa di beneficiare degli investimenti in nuovi processi produttivi, limitandone così i frutti in termini di risultati economici. Da un altro lato, il contesto può spingere l’impresa ad attuare determinate decisioni al fine di mantenere gli stessi livelli dei risultati ottenuti nei trascorsi periodi. Per esempio, l’ingresso di un nuovo concorrente nel mercato può indurre l’impresa a intensificare gli investimenti in attività commerciali al fine di mantenere la clientela esistente. Modifiche delle attese delle entità di contesto (per esempio, un’autorità di vigilanza che emana un provvedimento restrittivo nei confronti delle politiche di prezzo dell’impresa) possono indurre l’impresa a intraprendere azioni necessarie a soddisfare tali mutati interessi e aspettative e, quindi, mantenere gli attuali livelli dei risultati. Da un altro lato ancora, l’impresa può, attraverso decisioni strategiche e tattiche, modificare anche i contesti interno ed esterno e per questa via migliorare i propri risultati. Per esempio, per mezzo di investimenti volti a modificare la struttura organizzativa, l’impresa può perfezionare le pratiche di lavoro esistenti e, quindi, aumentare le quantità prodotte a parità di numero di ore lavorate. Ancora, l’impresa potrebbe investire nella scala di produzione in vista di erigere barriere all’entrata in un settore, riducendo per questa via la competizione potenziale tra imprese e, quindi, favorendo, al contempo, il mantenimento degli attuali livelli dei risultati da parte delle organizzazioni imprenditoriali che sono già presenti nel settore stesso.

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Sul rapporto tra decisioni, contesto e risultati influisce anche la definizione del confine dell’impresa. Per esempio, la scelta di integrare nel contesto interno determinate combinazioni produttive può consentire all’impresa di ottenere economie di costo così come di accrescere il potere di mercato, funzionali entrambi gli aspetti al miglioramento dei risultati. Il modello proposto lascia, infine, intravedere la possibilità che i risultati possano influenzare le decisioni e il contesto. In particolare, il raggiungimento di adeguati livelli di performance consente all’impresa di accrescere le proprie disponibilità economico-finanziarie utilizzabili per espandere, ovvero rinnovare nel tempo, la dotazione di fattori della produzione a carattere tecnico, umano e finanziario. Questa maggiore dotazione permette all’impresa più ampi spazi di manovra e di opportunità di sviluppo. Parimenti, i risultati possono influenzare il contesto dell’impresa. Per esempio, un livello particolarmente elevato delle performance di un’impresa potrebbe suscitare l’interesse e orientare l’azione di concorrenti così come di fornitori o di organizzazioni di rappresentanza dei sindacati, al fine di appropriarsi di una parte dei surplus di risultati generabili dall’impresa stessa. Nelle imprese decisioni, contesto, confine e risultati sono interdipendenti tra loro non solo nella dimensione sincronica ma anche nella dimensione diacronica. In particolare, decisioni, contesto, confine e risultati risentono e sono il portato della storia delle decisioni passate d’impresa, delle tendenze di fondo maturate nel contesto e dei risultati conseguiti. Essi sono anche influenzati dalle prospettive future che emergono dalle dinamiche evolutive del contesto e dalle aspettative di risultato. La considerazione di queste interdipendenze sincroniche e diacroniche consente dunque di cogliere pienamente l’impresa come «una coordinazione economica in atto nella quale ogni elemento, ossia ogni fenomeno economico, ha la sua ragione d’essere, in corrispondenza agli altri elementi e allo stesso complesso» (Zappa, 1950, pag. 13). Nel corso del capitolo sono approfonditi gli atti economici elementari e, pertanto, i processi di produzione, di consumo e di scambio. Si procede poi a qualificare l’impresa, distinguendola dalle altre istituzioni come le organizzazioni in generale e i mercati in particolare. Il capitolo si conclude con le letture in chiave evolutiva e dimensionale dell’impresa.

1.2 Il processo di produzione e di consumo Per sopravvivere, gli individui soddisfano i propri bisogni attraverso l’utilizzo di beni. Un bisogno si qualifica come una sensazione piacevole presente che si vuole conservare o provocare ovvero una sensazione negativa attuale o futura cui si vuole far fronte (Demaria, 1962, pag. 313). Ai bisogni si collegano i beni i quali, nella dimensione materiale, sono definiti come ogni mezzo che ha una propria attitudine a soddisfare le necessità umane. I beni possono essere distinti in relazione alla natura e al contenuto. Rispetto alla natura, un bene può assumere un carattere fisico e, quindi, rappresentare un oggetto dotato di una propria tangibilità (si pensi a un vestito), o un carattere immateriale, ove la dimensione tangibile sia sostanzialmente assente (si pensi all’opera di un medico). Rientrano sovente nei beni immateriali i cosiddetti servizi che hanno lo scopo di variare nel tempo e nello spazio una data situazione in un’altra. Una ulteriore distinzione per natura riguarda i beni di consumo che sono destinati ad appagare i bisogni umani e i beni capitale (o fattori della produzione) che sono strumentali alla produzione di altri beni. Rispetto al contenuto, invece, un bene assume la qualifica economica se, oltre a soddisfare i bisogni degli individui, si caratterizza per i seguenti ulteriori aspetti.


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Gli individui debbono anzitutto avere contezza e conoscenza che il bene è in grado di soddisfare un bisogno. Il bene a sua volta deve essere accessibile in condizioni normali. Esso deve essere scarso, ovvero disponibile in misura inferiore rispetto alle esigenze manifestate dagli individui. Per esempio, un bene come l’aria, pur essendo utile per il soddisfacimento dei bisogni umani, non è qualificabile come bene economico in quanto, nelle correnti condizioni, è disponibile in maniera illimitata. A margine si nota che un bene economico ha natura privata quando è escludibile (ovvero un individuo può essere escluso dal suo consumo salvo pagare un prezzo per esso) e contendibile (se un soggetto consuma il bene in questione altri soggetti sono automaticamente esclusi dallo stesso) (Samuelson, 1954). Il concetto di bene economico si lega a quello di atto economico che comprende le scelte che un soggetto, liberamente e in assenza di costrizione, pone in essere per soddisfare i propri bisogni con il minimo mezzo (Jannaccone, 1904). Nella definizione di un atto economico, avendo enfatizzato l’elemento volitivo, non si possono comprendere gli atti bellici o di violenza ovvero gli atti che un soggetto subisce per effetto di frode, inganno, e truffa. In aggiunta, nell’atto economico è rilevante il criterio del minimo mezzo, risultante nella scelta della combinazione di beni economici che implica il minimo impiego di risorse per l’individuo. Con riferimento al concetto di minimo mezzo va messo in rilievo che lo stesso può prendere «una serie di altri nomi, per esempio, il nome di legge del rendimento netto massimo, o legge di massima soddisfazione, o di legge del massimo edonistico, sia individuale, sia collettivo, e via dicendo, a seconda che si tratti di un o di un altro aspetto particolare della legge, o di fare il conto in moneta, o invece in termini di costo e di soddisfazione psicologica» (Pantaleoni, 1963, pag. 79). In sintesi, dunque, gli atti economici presuppongono che nel soddisfare i propri bisogni gli individui distribuiscano liberamente i beni economici disponibili tra più usi in concorrenza al fine di ottenere il massimo di soddisfazione con il minimo mezzo (Demaria, 1962, pag. 364). Gli atti economici si distinguono a loro volta in atti di consumo e di produzione. Gli atti di consumo consistono in azioni volte a utilizzare i beni economici per appagare immediatamente i bisogni individuali. Negli atti di consumo i beni economici possono assumere qualifiche diverse in relazione a durata e abitudini degli individui. Con riferimento alla durata si distinguono i beni di consumo immediato (per esempio, un prodotto alimentare, un servizio medico) e i beni di consumo durevole (per esempio, un vestito, un elettrodomestico, un’automobile) a seconda che l’utilità del bene economico si esaurisca o meno in un solo atto di utilizzo dello stesso. Con riferimento alle abitudini di consumo si distinguono i beni di largo consumo che sono omogenei nelle caratteristiche e nel prezzo, di modesto valore unitario, di larga distribuzione ed elevata frequenza di acquisto; i beni di soddisfazione che si caratterizzano per minore omogeneità, maggior valore unitario e frequenza di acquisto meno elevata; i beni di prestigio caratterizzati da elevata differenziazione, elevato prezzo unitario, distribuzione specializzata e frequenza di acquisto non ricorrente (Panati e Golinelli, 1991, pag. 393 e segg.). Negli atti di consumo, i beni economici possono ancora assumere natura complementare, succedanea o indipendente. Due o più beni sono complementari se debbono essere utilizzati congiuntamente al fine di soddisfare un bisogno individuale (per esempio, l’automobile e la benzina). Due o più beni sono succedanei se possono essere utilizzati ciascuno in sostituzione dell’altro in vista di soddisfare i bisogni individuali (per esempio, un treno oppure un aereo). Due beni sono infine indipendenti se possono essere consumati senza che venga a mutare l’utilità dei singoli beni rispetto al bisogno da soddisfare (per esempio, un abito e un’automobile).

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Gli atti di produzione implicano un processo ovvero un insieme di attività attraverso cui i beni economici combinati tra loro in maniera voluta subiscono, mediante applicazione di lavoro, trasformazioni di stato o di luogo o di tempo (Ferrer-Pacces, 1974). Gli atti di produzione sono voluti in quanto basati su un programma di produzione apprestato descrizionalmente da un individuo. Una trasformazione di stato è osservabile quando, partendo da un insieme di beni economici (o input produttivi), si ottengono, mediante trasformazioni successive, altri beni economici (od output produttivi) in determinate qualità e quantità. Per esempio, la lavorazione della materia prima agricola per la realizzazione di confetture è un tipico atto di trasformazione di stato. Una trasformazione di luogo occorre quando un bene economico, originariamente disponibile in un determinato luogo, è reso disponibile in un altro luogo. Una trasformazione di tempo si ha, infine, quando un bene economico, disponibile a un certo tempo, è reso tale in un periodo successivo. Per esempio, la conservazione in magazzino e la successiva distribuzione delle confetture in punti vendita al dettaglio così come la raccolta del risparmio in una città sotto forma di depositi e, poi, il suo impiego in finanziamenti a imprese localizzate in altre città sono tipici atti di trasformazione di tempo e di luogo. In chiusura, si parla in generale di processi manifatturieri per gli atti economici aventi a oggetto trasformazioni di stato mentre si parla di processi mercantili o commerciali o anche distributivi per gli atti economici aventi a oggetto le trasformazioni di luogo e di tempo. Va inoltre osservato che, con riferimento alla natura dei beni economici risultanti dai processi di produzione, si distinguono i cosiddetti prodotti finali, ovvero beni destinabili immediatamente al consumo, e i prodotti intermedi, ovvero beni non destinabili immediatamente al consumo ma adibiti a essere incorporati in altri prodotti. Si pensi, per esempio, a una batteria installata su un’autovettura nuova destinata alla vendita. Si noti peraltro che la stessa batteria quando venduta al dettaglio perde la veste di prodotto intermedio per assumere quella di bene di consumo a carattere durevole. Rispetto alla tipologia del bene prodotto, si distinguono ancora le cosiddette produzioni primarie, che riguardano l’agricoltura, la pesca; le produzioni secondarie, comprendenti le industrie estrattive e manifatturiere; e, infine, le produzioni terziarie nelle quali si concentrano i servizi di natura sia finanziaria che non finanziaria. Con riferimento ai beni economici impiegati negli atti di produzione, questi assumono la qualifica di fattori elementari della produzione. Tipici fattori della produzione sono il lavoro (che include abilità, conoscenze, valori e relazioni), il capitale, (che include tutti i fattori della produzione quali macchinari, impianti, brevetti, stanziamenti di risorse finanziarie) e la terra utilizzabile a fini produttivi. I fattori della produzione possono assumere qualificazioni diverse in relazione a durata, luogo e tipologia di combinazioni produttive in cui questi sono utilizzati. Secondo la durata, si distinguono i fattori a fecondità semplice, ove la loro utilità si esaurisca in un unico atto di produzione, e i fattori a fecondità ripetuta, ove la loro utilità si estenda a più atti di produzione. Da un canto, rientrano nella categoria dei fattori a fecondità semplice le materie prime, ovvero i beni economici destinati a essere trasformati in altri beni economici, i semilavorati, ovvero beni economici che hanno già subito una prima trasformazione, i componenti, ovvero beni economici che hanno subito già una trasformazione e si prestano a essere assemblati con altri beni economici per la realizzazione di un prodotto finito. Dall’altro canto, rientrano nella categoria dei fattori a fecondità ripetuta (beni strumentali o beni capitali) sia i beni materiali, come le macchine, le attrezzature, gli impianti e i terreni destinati a uso produttivo, sia i beni immateriali, come i brevetti, le licenze, i marchi e gli stanziamenti di risorse finanziarie (Panati e Golinelli, 1991, pag. 396). In aggiunta, i fattori della produzione, in base al momento nel quale sono considerati, possono es-


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sere letti come grandezze fondo, qualificandosi in consistenze di fattori colte in un istante (per esempio, una macchina con capacità produttiva massima di 1000 pezzi/ora e dotata di intelligenza per individuare e ripararare automaticamente 100 pezzi difettosi/ora), e in grandezze flusso, qualificandosi in flussi di servizio prodotti dall’utilizzo dei fattori stessi in un periodo (per esempio, il numero di materie prime lavorate e il numero di prodotti finiti realizzati da una macchina in un’ora). Con riferimento al luogo, l’impiego dei fattori per la produzione di beni economici avviene nell’ambito delle cosiddette unità produttive, che possono di volta in volta essere identificate in stabilimenti, laboratori, botteghe, fattorie (Panati e Golinelli, 1991). L’insieme delle unità produttive a sua volta qualifica il sistema produttivo espressione «di una totalità di variabili, di condizioni e di interrelazioni spazio-temporali aventi come primario obiettivo la produzione di beni economici destinati alla soddisfazione dei bisogni» (Demaria, 1962, pag. 3). Il sistema produttivo rappresenta, peraltro, una entità dinamica, soggetta a continuo mutamento. Come vedremo successivamente, il passaggio dalla bottega alla fabbrica determina la transizione da una modalità di produzione cosiddetta artigianale, nella quale è prevalente il lavoro artigiano, a una di tipo industriale, nella quale prevale il capitale industriale e, in particolare, le macchine. Si consideri, inoltre, che le unità produttive afferiscono alle cosiddette unità decisionali che rappresentano il soggetto giuridico, l’impresa, che, nei moderni sistemi capitalistici, svolge il ruolo di intestatario unico dei fattori della produzione. Con riferimento alla tipologia di combinazioni produttive nell’ambito delle quali sono impiegati i fattori della produzione, si distinguono combinazioni che hanno un contenuto ricorrente, essendo le stesse finalizzate a produrre un determinato bene economico combinando in maniera ripetitiva e con proporzioni ben definite i fattori della produzione. Altre combinazioni hanno invece un contenuto innovativo giacché si propongono di generare nuovi beni economici ovvero di individuare modi alternativi di produzione dei beni esistenti. Si pensi, per esempio, ai servizi di ricerca e sviluppo che hanno lo scopo di avanzare le conoscenze sui prodotti e sui processi produttivi esistenti, individuando nuove combinazioni di ben economici. A loro volta i nuovi beni economici e le nuove possibilità produttive possono combinarsi con le alternative correnti e generare così altre originali combinazioni. A margine, non appare inutile osservare che, data la scarsità dei beni economici, l’impiego di un fattore della produzione in una combinazione produttiva può rendere il fattore stesso non disponibile per il suo impiego in altre combinazioni. Questo aspetto crea il cosiddetto dilemma dell’innovazione. L’impiego di fattori della produzione in combinazioni innovative comporta una sostanziale impossibilità di utilizzare gli stessi fattori nelle combinazioni correnti. Di conseguenza, nell’impiegare i fattori della produzione in combinazioni innovative, l’individuo potrebbe sperimentare una perdita immediata di utilità associata alla impossibilità di utilizzare gli stessi fattori nell’ambito delle combinazioni correnti che offrono benefici immediati e già noti. L’impiego di fattori della produzione in combinazioni a contenuto innovativo può, dunque, indurre, da un lato, un’immediata perdita per l’individuo. Dall’altro lato, tuttavia, l’individuo potrà beneficiare di un potenziale più esteso di nuovi beni economici che potranno offrire maggiori benefici in futuro. Questi ultimi sono comunque incerti in quanto il potenziale creato attraverso l’allocazione di fattori della produzione nell’ambito di combinazioni innovative si trasformerà in maggiori utilità correnti solo dopo che i nuovi beni economici siano stati scoperti, il loro valore riconosciuto e la loro produzione sia stata inserita nell’ambito di date combinazioni produttive. Se viene a mancare solo una delle richiamate tre condizioni, il valore potenziale creato dalle combinazioni innovative resterà tale e quindi non si potrà trasformare in un valore corrente di cui l’individuo può beneficiare (Moran e Ghoshal, 1999).

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Il processo di scambio

Tra le attività di produzione e di consumo si colloca lo scambio che rappresenta una transazione economica nella quale una parte assume, in piena libertà, l’impegno a trasferire un bene economico da lui posseduto a un’altra parte. Quest’ultima si impegna, a sua volta, a rendere all’altra parte un corrispettivo equivalente di beni economici. Premettendo che uno scambio richiede la libertà delle scelte poste in essere dalle parti e la possibilità di queste ultime di disporre di diritti di proprietà sui beni economici rientranti nello scambio, sono elementi caratteristici di questo atto economico le parti, l’oggetto e il contenuto. Le parti di uno scambio sono i soggetti che vi partecipano, con i loro interessi, aspettative e comportamenti attesi ed effettivi (Gatti, 2008). I soggetti sono in generale l’offerente (o venditore) e il richiedente (o acquirente). Essi esprimono sovente interessi contrapposti e antagonistici. Il venditore di un bene economico sarà interessato a ottenere dalla controparte un corrispettivo elevato per i beni economici consegnati ovvero limitare la quantità di beni economici consegnata per un prezzo fissato. All’opposto il compratore vorrà corrispondere al venditore un prezzo basso per i beni economici da acquistare ovvero accrescere la quantità di beni acquistabile a parità di prezzo. Per quanto concerne i comportamenti, la conclusione di uno scambio implica che le parti pongano in essere contrapposti adempimenti, così come definiti dagli impegni assunti nella fase iniziale della negoziazione. L’oggetto dello scambio si identifica con il mutamento di situazione che esso determina. Si possono, dunque, ricomprendere i seguenti oggetti: • • •

• •

la cessione di beni di consumo; la compravendita di fattori della produzione a fecondità semplice e ripetuta; le prestazioni di servizi tendenti a modificare, nello spazio o nel tempo o sotto altri aspetti, una data situazione in un’altra (per esempio, una consulenza in materia di brevetti industriali); la concessione di credito a titolo sia di capitale di rischio sia di capitale di credito; l’assunzione di rischi in via di specializzazione.

Il contenuto dello scambio si riferisce, infine, all’insieme di facoltà e di obblighi e, quindi, al complesso dei comportamenti che da esso derivano. Esso si collega alla sua struttura contrattuale. Rispetto a quest’ultima, la disponibilità di contratti-tipo, definiti sulla base della regolamentazione vigente, tenuto conto dei prevalenti usi e consuetudini, permette alle controparti di più facilmente definirne i contenuti nel quadro degli scambi. Alla disponibilità di contratti-tipo si affianca talora la presenza di standard, di natura sia regolamentare sia non-regolamentare, che concorrono a specificare, in base alle proprietà di maggior rilievo e momento, le caratteristiche essenziali e di pregio dei beni oggetto di scambio. Si pensi, al riguardo, ai diversi standard utilizzati nel campo del commercio del grano per ridurre le incertezze legate alla verifica da parte dell’acquirente dell’adempimento della obbligazione della controparte venditrice di consegnare un dato quantitativo di grano caratterizzato da specifiche caratteristiche qualitative. Gli standard prevedono anche delle tolleranze definite in termini di deviazioni massime negative consentite rispetto alla qualità attesa e dei correlati meccanismi di revisione dei prezzi che scattano nei casi in cui le merci oggetto dello scambio dovessero eccedere la tolleranza pattuita tra le parti (Corsani, 1941, pag. 211). Nella struttura contrattuale assume, inoltre, rilievo, senza entrare negli altri variegati elementi che la compongono, la relazione tra prestazioni e controprestazioni. In particolare, lo scambio può riguardare beni economici contro beni economici oppure beni contro moneta.


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Nel caso di scambio di beni economici contro beni economici si parla di baratto: una data quantità di un bene economico è scambiata contro una data quantità di un altro bene economico. Sebbene rappresenti una delle prime forme di scambio, il baratto esaspera le interdipendenze tra gli individui, rendendo di fatto più difficile la conclusione degli scambi. Nel baratto, la messa in atto di uno scambio richiede che due controparti siano presenti in un medesimo luogo e allo stesso istante temporale, esprimendo allo stesso tempo bisogni speculari e disponibilità eccedenti di beni economici diversi. Queste condizioni tipiche del baratto sono definite come ‘doppia coincidenza’. Nella nostra società di artigiani e di cacciatori ai fini dello scambio è necessario, da un lato, la presenza di un soggetto che abbia un’eccedenza di archi e, allo stesso tempo, abbia bisogno di cibo e, dall’altro lato, di un altro soggetto che abbia bisogno di archi e in cambio sia disposto a cedere del cibo. L’assenza di una delle condizioni appena indicate implica una sorta di impossibilità per lo scambio di concludersi. Nel caso di scambio di beni economici contro moneta si individua un bene con funzione di unità di conto rispetto al quale sono espressi i valori di tutti gli altri beni. In confronto ad altri oggetti, la moneta presenta almeno le seguenti specificità: (i) non ha un suo valore intrinseco; (ii) la sua accettazione da parte degli individui è su base fiduciaria. Senza entrare nei dettagli sull’evoluzione storica che ha portato all’affermarsi della moneta come mezzo di scambio nelle moderne società civili, ci limitiamo qui a considerare che il nostro produttore di archi potrà cedere a un individuo i propri beni economici in cambio di monete che potranno poi essere utilizzate dallo stesso per acquistare altri beni economici da altri individui. L’uso della moneta fa venire meno la condizione di doppia coincidenza e per questa via facilita la conclusione degli scambi. In aggiunta, l’uso della moneta riduce la quantità e la varietà di beni economici che un individuo deve detenere ai fini dello scambio (Coase, 1937). A margine, con l’affermarsi della moneta, i beni economici che sono oggetto di scambio vengono spesso denominati con il termine di merci. Si nota che l’introduzione dello scambio in correlazione con i processi di produzione permette di tracciare un ciclo degli acquisti, correlato all’approvvigionamento dei fattori della produzione, e un ciclo delle vendite, connesso al collocamento dei prodotti ottenuti mediante i processi di trasformazione sul mercato finale. Nell’ambito di scambi intermediati dalla moneta, questi cicli originano uscite ed entrate monetarie: i pagamenti ai fornitori per l’acquisto dei fattori della produzione e l’incasso dai clienti per la vendita di beni economici (Renzi, 1943). Con l’introduzione della moneta si formano dunque, nell’ambito degli scambi, contropartite creditorie e debitorie. Alcuni soggetti pur essendo cessionari di un bene economico non ricevono immediatamente moneta, bensì una promessa di ottenere dall’acquirente un dato quantitativo di moneta nel futuro. Specularmente, alcuni acquirenti acquistano la disponibilità di un bene economico senza pagare con moneta, ma assumendosi l’obbligo di corrispondere al venditore una prestabilita quantità di moneta in futuro. Conseguentemente, alle categorie di acquirenti e venditori si affiancano quelle di creditore e debitore. L’introduzione della moneta nelle transazioni economiche origina anche transazioni puramente finanziarie. Per esempio, si ha uno scambio di moneta contro moneta quando un soggetto (il finanziatore) cede un dato quantitativo di moneta a titolo di credito a un altro soggetto (il prenditore) il quale si impegna, con determinate modalità e tempi, a rimborsare il finanziamento ottenuto e a pagare un interesse sullo stesso. Si noti che, in una transazione finanziaria, l’interesse si qualifica come prezzo che il prenditore paga al finanziatore per compensarlo del sacrificio di essersi privato della moneta per un certo periodo. Un altro esempio di transazione finanziaria è uno scambio di credito verso moneta nel quale un soggetto creditore cede un proprio credito verso un acquirente a un terzo soggetto il quale come corrispettivo corrisponde

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Approfondimento 1.1

Le ragioni di convenienza nei processi di produzione e scambio Negli scambi mediati dalla moneta, il valore di un bene economico può assumere accezioni diverse. In una prima accezione, si delinea il ‘valore d’uso’ (VU) che esprime l’utilità soggettiva che un individuo assegna al consumo di un particolare bene. In una seconda accezione, consideriamo il ‘valore di scambio’ (VS) che è espressione della capacità effettiva di un bene ad acquistare altri beni economici attraverso lo scambio. In altre parole il valore di scambio è la quantità fisica che bisogna cedere di una merce per avere una unità di un’altra merce. Il prezzo (p) rappresenta il valore di scambio di un bene economico nel caso di utilizzo della moneta. In questa ottica, il prezzo è la quantità di moneta a cui un individuo deve rinunciare per acquistare la disponibilità di una unità di un bene. In aggiunta il ‘valore percepito’ (VP) è il massimo sacrificio (in termini di numero di beni o di ammontare di moneta a cui si rinuncia) che un individuo è disposto sopportare per ottenere la disponibilità di un bene economico. Si considera, infine, il costo (C) che è il beneficio minimo unitario che un individuo deve ottenere per compensare l’impiego di fattori nella produzione di un bene. Le relazioni tra i valori appena richiamati definiscono alcune delle condizioni per attivare processi di produzione e di scambio. In primo luogo, l’insieme dei beni economici con valore d’uso non nullo definisce il complesso delle alternative produttive che consentono la realizzazione di beni suscettibili di generare una qualche utilità per almeno un individuo. A sua volta, l’individuo avrà convenienza a produrre un determinato bene economico ove il suo valore d’uso sia superiore al costo per la sua produzione. Detto individuo avrà poi convenienza a consumare il bene ove il valore d’uso sia superiore al suo valore di scambio (o al suo prezzo nel caso di scambi monetari). D’altro canto, lo stesso avrà convenienza a scambiare il bene nel caso in cui il valore di scambio (o il prezzo) sia superiore al valore d’uso. Alla luce delle condizioni sopra delineate, uno scambio potrà poi effettivamente concludersi solo nella circostanza in cui il valore di scambio (o il prezzo) sia contemporaneamente inferiore al valore percepito da parte dell’acquirente e superiore al costo sostenuto dal venditore/produttore del bene. Questa semplice associazione sottende l’idea che un soggetto sia disposto a scambiare un bene economico se e solo se il valore percepito (costo) sia, per lui, superiore (inferiore) al valore di scambio (o prezzo) e, allo stesso tempo, il valore percepito dall’acquirente sia maggiore o, al limite, uguale al costo riferito al venditore.

al primo un quantitativo di moneta pari al valore del credito stesso al netto di uno sconto (la cui natura è simile a quella di un tasso di interesse). Si può, in conclusione, ritenere che l’affermarsi dello scambio e il successivo emergere dei mercati nell’ambito dei quali gli scambi sono ordinati, traccia un distinguo tra valore d’uso e valore di scambio e orienta gli atti economici verso la produzione di beni e servizi da destinare non già alla esclusiva soddisfazione dei propri bisogni ma ai bisogni di altri attraverso gli scambi ovvero con la conclusione di transazioni economiche e finanziarie. Come osservato da Commons (1924) «production for the use of others and acquisition for the use of self, such that the meaning of property and


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liberty spreads out from the expected uses of production and consumption to expected transactions on the markets where one’s assets and liabilities are determined by the ups and downs of prices. And this is, in substance, the change in the meanings of property and liberty, a change from the use-value of physical things to the exchange-values of anything» (pag. 21). In altre parole, mediante lo scambio si delinea un passaggio fondamentale per il contenuto dei diritti di proprietà che possono riguardare non solo il diritto di godere in maniera piena ed esclusiva dei frutti di un bene economico, di natura reale o finanziaria (valore nell’uso), ma anche e soprattutto la possibilità di valorizzare detto bene mediante atti di acquisto e di vendita con terze parti, ricercando così un valore nello scambio.

1.4 Il ruolo dei mercati nei processi di produzione, di consumo e di scambio L’introduzione dei processi di scambio, soprattutto quelli intermediati dalla moneta, favorisce la divisione del lavoro. Nelle società in cui sono possibili gli scambi, anziché auto-produrre tutti i beni economici di cui necessitano, gli individui possono specializzarsi nella produzione di alcuni beni economici, acquisendo la disponibilità di altri beni economici attraverso lo scambio. Lo scambio consente, dunque, a ciascun individuo di specializzarsi nelle combinazioni produttive che maggiormente si addicono alle proprie capacità e, allo stesso tempo, permette a colui che si è specializzato nella produzione di determinati beni economici di disporne anche di altri, ancorché questi non siano da lui direttamente prodotti (Smith, 1904; Davenport, 1913). La divisione del lavoro nell’ambito delle attività di consumo e di produzione crea tuttavia problemi di coordinamento. Dal lato dell’offerta, nel decidere quando e quanti prodotti realizzare ai fini dello scambio, il nostro produttore di archi dovrebbe conoscere la domanda da parte degli utilizzatori di archi. Nel caso in cui questa domanda sia incerta, il produttore potrebbe produrre un numero di beni economici eccedenti le richieste degli utenti e, quindi, subire il rischio che una parte della sua produzione resti invenduta. Dal lato della domanda, l’utente potrebbe manifestare l’esigenza di acquistare un determinato prodotto e non riuscire a soddisfare tale necessità in mancanza di produttori disposti a offrire tali beni economici nelle quantità e nei tempi richiesti. La divisione del lavoro e la specializzazione, con l’ampliarsi del novero delle attività svolte da soggetti indipendenti, rendono più difficile il manifestarsi di condizioni di compatibilità tra i diversi piani di produzione e di consumo che i molteplici individui che compongono una data società hanno formulato allo scopo di determinare il corso delle loro azioni nel tempo. In aggiunta, queste condizioni di compatibilità sono soggette a perturbazioni in considerazione dei cambiamenti dei gusti degli individui stessi, dell’affermarsi di nuove conoscenze e, quindi, delle conseguenti modifiche, temporanee o persistenti, dei piani di produzione e di consumo individuali. Si pone, pertanto, il problema di come assicurare il miglior impiego dei beni economici disponibili tra gli usi noti a ciascuno dei membri di una società, impieghi la cui importanza relativa è nota soltanto a questi individui. La proposizione appena riportata qualifica l’essenza del problema economico nell’ambito del processo di allocazione delle risorse. Problema che consiste nel creare le condizioni affinché si possa garantire un rapido adattamento dei piani degli individui, siano essi venditori o acquirenti, in relazione ai cambiamenti che intervengono nelle particolari circostanze di tempo e di luogo (Hayek, 1945).

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Storicamente, il richiamato problema di coordinamento tra individui si è inserito, agli estremi, nell’ambito di due cornici o ambiti istituzionali diversi. Da un lato, si collocano i sistemi cosiddetti socialisti nei quali il controllo dei beni economici, in particolare i fattori della produzione, e il loro uso dipendono da una istituzione centrale che è dunque responsabile del loro miglior uso per soddisfare i bisogni degli individui. Dall’altro lato, si individuano i sistemi capitalistici nei quali vige la proprietà privata dei beni economici, e, quindi, dei fattori della produzione, e la regolazione dei processi di produzione, consumo e scambio è funzione della discrezionalità contrattuale di soggetti indipendenti le cui decisioni e azioni sono informate dalla ricerca di un proprio tornaconto o guadagno individuale (Schumpeter, 2011). Nel sistemi capitalistici, i mercati assumono pregnante significato per risolvere il più volte richiamato problema di coordinamento tra gli individui. Occorre premettere che i mercati si qualificano come «un insieme complesso di negoziazioni attuate, secondo ordinamenti definiti e secondo consuetudini o usi generalmente accolti da diversi operatori» (Zappa, 1956, pag. 156). I mercati sono luoghi astratti nei quali si realizzano scambi di merci in modalità organizzata. Con riferimento al luogo, nel Medioevo il mercato era spesso rappresentato da uno spazio fisico (per esempio, una piazza pubblica) nel quale erano esposti beni economici e dove affluivano consumatori, commercianti e compratori di varia natura. Va precisato, tuttavia, che il luogo non è un tratto essenziale della definizione di mercato. Se le parti sono localizzate in aree geografiche diverse e nonostante questo riescono a negoziare e, quindi, a concludere transazioni su una data merce, un mercato sarà comunque presente. Il mercato, dunque, si definisce rispetto all’oggetto (ovvero la merce scambiata) piuttosto che in relazione a un luogo fisico nel quale lo scambio si conclude. Nei moderni sistemi capitalistici i mercati esprimono, infatti, «un gruppo di persone che siano in intime relazioni di affari e negozino ampiamente qualsiasi merce» (Caprara, 1954, pag. 15). Con l’affermarsi delle moderne tecnologie di comunicazione e lo sviluppo dei mezzi di trasporto, il mercato è sempre più inteso come uno spazio virtuale nel quale si concretizza «un sistema coordinato di negoziazioni o un complesso di affari attinenti a una determinata merce» (Tridente, 1971, pag. 12). Chiarito il concetto di luogo, i mercati possono qualificarsi ulteriormente in relazione alla merce scambiata. In questo senso distinguiamo i mercati dei capitali (monetari e finanziari a seconda che le attività finanziarie scambiate abbiano una scadenza inferiore o superiore a dodici mesi), dei prodotti, del lavoro, delle materie prime e così via. Considerando i limiti geografici entro i quali gli scambi si realizzano, possiamo, inoltre, distinguere mercati locali, nazionali e internazionali. In questi ultimi gli acquirenti e i venditori sono localizzati in Paesi diversi. L’idea sottesa ai mercati, quale modo di organizzazione delle attività produttive, è che le decisioni finali sono lasciate agli individui che hanno conoscenze specifiche ovvero che conoscono direttamente e immediatamente i cambiamenti rilevanti dei fattori elementari della produzione e dei loro usi rispetto ai bisogni e alle esigenze attuali e prospettiche. Conseguentemente, in un mercato le attività di produzione e di consumo sono il portato di negoziazioni concluse direttamente tra i soggetti che sono intestatari dei fattori elementari della produzione, con i correlati beni economici che sono offerti in conformità a quanto stabilito nei contratti e in assenza di ogni forma di autorità o di controllo gerarchico. Un soggetto può impiegare i propri fattori elementari per realizzare un componente, che poi viene acquistato da un altro soggetto e trasformato in un semilavorato che a sua volta viene utilizzato da un altro che realizza il prodotto finito che, infine, viene ceduto al cliente finale.


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I contratti sono alla base anche delle relazioni tra i produttori e i clienti-acquirenti. Alcuni soggetti possono svolgere una funzione di intermediazione commerciale utilizzando i fattori elementari della produzione per consentire la vendita del prodotto ovvero la sua consegna ai clienti. In alternativa il cliente può intessere relazioni contrattuali con i vari soggetti portatori dei fattori elementari della produzione e ottenere così, sulla base dei dettami contrattuali, il prodotto desiderato (Coase, 1988). Questa enorme mole di scambi comporta comunque dei costi addizionali rispetto a quelli tipici delle attività di produzione e di consumo. Si introduce il concetto di costi di transazione che, come vedremo meglio nel Capitolo 3, comprendono l’ammontare dei fattori elementari della produzione che, distratti dagli usi produttivi, sono impiegati sia per la ricerca delle informazioni necessarie per assumere a monte le decisioni di concludere uno scambio di beni economici con un determinato soggetto sia per la stipula e la successiva gestione dei contratti a base degli scambi (Coase, 1937; Williamson, 1975). I costi di transazione inerenti le attività di scambio tra individui nei mercati sono in parte mitigati dal funzionamento del meccanismo dei prezzi. Riguardo alla natura dei prezzi, questi assumono il significato di elemento che origina dalla conclusione di uno scambio mediante una transazione. In questa accezione, esso si differenzia sia dal valore percepito, definito nella prospettiva dell’acquirente di un bene economico, sia dal costo, definito nella prospettiva del venditore del bene stesso. Si è in proposito messo in rilievo che «prices are not proportionate either to the labor or the pains or the feeling sacrifices of production on the one side, or to the service or utility or gratification in consumption on the other side, but are merely the equating point between the different reservation prices, based on costs in money terms, on the supply side, and the paying dispositions of consumers, as expressed in money terms, on the demand side. Costs cannot be reduced to any common denominator of pain, or price offers to any common denominator of utility» (Davenport, 1913, pag. 240). Il prezzo dunque appare come una mera espressione della quantità di moneta con la quale un determinato bene si confronta nell’ambito di uno scambio. Introdotta la loro natura, la formazione dei prezzi gioca un ruolo qualificante nell’ambito dei processi di produzione e di consumo. Grazie ai prezzi non ha importanza che l’individuo sappia perché in quel momento sono più richiesti arnesi di una grandezza piuttosto che di un’altra, perché i sacchetti di carta sono più facilmente disponibili di quelli di tela, o perché al momento specifici strumenti siano diventati più difficili da ottenere. Per l’individuo è rilevante solo la difficoltà riscontrata nell’ottenere un bene economico rispetto ad altri a cui lo stesso è pure interessato o con quanta maggiore o minore urgenza sono richiesti beni economici alternativi che egli produce o utilizza. È solo l’importanza relativa dei beni economici che interessa, ovvero il loro prezzo, non le cause che modificano detti rapporti di importanza. In altre parole, se per produrre un sacchetto il prezzo della carta è inferiore al prezzo della tela, l’individuo avrà convenienza a sostituire, a parità di condizioni, la tela con la carta nella produzione del bene. Nel sostituire la tela con la carta nella produzione di sacchetti, si consegue lo stesso risultato consumando minori risorse, ovvero sostenendo più limitati sacrifici (Hayek, 1945). I prezzi non svolgono solo un ruolo informativo e, quindi, integrativo delle conoscenze individuali, ma anche un importante ruolo di coordinamento delle iniziative personali. In particolare, in un sistema in cui la conoscenza di fatti rilevanti è dispersa tra molte persone, i prezzi possono contribuire a coordinare le decisioni e le azioni individuali. Assumiamo che da qualche parte sia emersa una nuova occasione per l’uso di una materia prima, diciamo lo stagno, o che una delle sue fonti di approvvigionamento non sia più disponibile. Ai fini dell’allocazione delle risorse è irrilevante quale di queste due cause abbia determinato la scarsità della materia prima. Rileva, invece, che lo stagno sia ora impiegato con maggiore profitto altrove e che,

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di conseguenza, gli utilizzatori attuali devono economizzare sul suo uso essendo maggiore il suo prezzo. In aggiunta, se alcuni individui sono a conoscenza dei nuovi usi dello stagno e riallocano i propri fattori della produzione verso queste nuove combinazioni produttive, l’effetto di una modifica del prezzo dello stagno si propagherà rapidamente in tutto il sistema economico. Ciò influenzerà non solo tutti i possibili usi dello stagno, ma anche quelli dei suoi sostituti e dei sostituti dei sostituti; e tutto questo senza che la maggior parte di chi concorre ad attuare tali sostituzioni tra fattori della produzione conosca la causa originaria di questi cambiamenti. In una società nella quale i processi di produzione e di consumo sono organizzati mediante i mercati, le informazioni fornite dai prezzi sono essenziali e sono trasmesse e ritrasmesse agli interessati in continuità. Il sistema dei prezzi è paragonabile a una sorta di macchina per la registrazione dei cambiamenti o a un sistema di telecomunicazione che consente ai singoli di sorvegliare solo i movimenti di pochi indicatori per adattare le proprie attività produttive e di consumo ai cambiamenti di cui potrebbero non sapere mai nulla di più di quanto si riflette nel movimento dei prezzi (Hayek, 1945). I mercati, attraverso il meccanismo dei prezzi, oltre a svolgere ruoli di informazione e di coordinamento dei processi di produzione e di consumo, hanno anche una influenza decisiva sulle scelte inerenti la configurazione delle combinazioni produttive. Si consideri il problema del quanto produrre di un certo bene economico e si supponga che, per motivi diversi e favorevoli alla sua produzione, un bene economico sia offerto in misura maggiore rispetto alla sua domanda. In questo caso, gli offerenti saranno in concorrenza tra loro e, quindi, tenderanno a ridurre il prezzo della merce pur di convincere l’acquirente al suo acquisto. Nell’ottica del produttore-venditore, il prezzo del bene economico definito nell’ambito delle transazioni dovrebbe consentire la congrua remunerazione dei fattori impiegati nella sua produzione, in particolare il costo del consumo dei fattori produttivi a fecondità semplice (per esempio, materie prime, semilavorati, componenti), il salario dei lavoratori, l’interesse del capitale, la rendita dei terreni, il ripristino dei fattori produttivi a fecondità ripetuta impiegati nel processo di produzione e il profitto dell’imprenditore. La riduzione del prezzo del bene per effetto delle dinamiche complessive di domanda e di offerta comporterà che il produttore dovrà necessariamente ridurre il salario reso al lavoratore e, o l’interesse concesso al possessore del capitale e, o la rendita del proprietario della terra. Il possessore del fattore della produzione per il quale la remunerazione non è più adeguata o ridurrà in proporzione il flusso di servizio offerto al produttore ovvero, nel caso in cui il pagamento sia inferiore al costo connesso al mantenimento del fattore stesso, lo ritirerà direttamente dalla produzione del bene. L’offerta complessiva del bene si riduce per effetto della minore disponibilità dei fattori della produzione e dei relativi flussi di servizio. Tale riduzione continuerà finché l’offerta non diventa uguale alla domanda. Supponiamo il caso opposto di un bene economico domandato in misura superiore rispetto all’offerta. In questa circostanza i potenziali acquirenti saranno disposti a pagare un prezzo maggiore pur di ottenere il bene. La crescita del prezzo comporta anche, da parte dei produttori, maggiori possibilità di remunerazione dei fattori della produzione, con conseguente possibilità di un più largo uso e disponibilità degli stessi. La produzione complessiva del bene si accresce e questa aumenta sino al punto in cui l’offerta diviene uguale alla domanda (Smith, 1904). A margine, si nota che, il richiamato processo di aggiustamento operato nel mercato attraverso i prezzi assume un carattere dinamico ed evolutivo. In presenza di imperfezioni, connesse, per esempio, all’esistenza di produttori dominanti in posizione di sostanziale monopolio e, o di rigidità e di frizioni nell’offerta di alcuni fattori della produzione, i prezzi e i costi di equilibrio potranno evolvere verso livelli di-


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versi, maggiore o minore, rispetto a quelli a base della previgente condizione di equilibrio tra domanda e offerta. Ciò in considerazione, da un lato, dell’incremento del prezzo di acquisto pagato dai produttori ai fornitori per disporre di un ammontare addizionale di fattori della produzione la cui offerta è sostanzialmente rigida (il cui effetto è, dunque, di incrementare i costi della produzione che, in presenza di posizioni di monopolio, sono traslabili dal produttore ai clienti mediante l’aumento dei prezzi di vendita) e, dall’altro lato, del formarsi di economie di costo originanti dalla grande scala di produzione (il cui effetto è, invece, di ridurre i costi unitari dei produttori, con potenziali benefici per i clienti in termini di riduzione dei prezzi di vendita) (Robinson, 1946). I mercati facilitano, inoltre, la riallocazione dei fattori della produzione verso i beni economici che offrono i maggiori benefici netti per gli individui. In particolare, l’ampliarsi della domanda di un bene economico con conseguente crescita del prezzo stimola gli individui a riallocare i propri fattori verso la produzione di quel bene che offre condizioni di scambio migliori rispetto alle alternative disponibili. Consideriamo l’esempio di un produttore che deve scegliere tra produrre vestiti o archi. Per produrre vestiti, il soggetto in questione sostiene un sacrificio nella misura pari a 2,00 per unità prodotta, ricavando dalla loro vendita un prezzo unitario di 2,25 (con un margine unitario di 0,25). Con lo stesso sacrificio, il nostro produttore riesce a produrre archi e, allo stesso tempo, beneficiare dalla loro vendita un prezzo unitario di 2,10 (con un margine unitario di 0,10). Il produttore, a parità di condizioni, continuerà a produrre e vendere vestiti fino a che il loro prezzo, e quindi il margine, sarà superiore a quello degli archi. Viceversa, si dedicherà alla produzione di archi. A latere, come meglio vedremo in seguito, il prezzo degli archi, nell’ambito delle scelte tra le considerate alternative, assume la natura di un costo opportunità che ex-ante cattura i benefici a cui il produttore dovrebbe rinunciare nell’ipotesi in cui volesse produrre vestiti anziché archi (Haney, 1912). Favorendo la ricombinazione dei fattori della produzione, il meccanismo dei prezzi modifica le priorità assegnate alla produzione dei beni e, allo stesso tempo, crea le condizioni per sviluppare nuove combinazioni produttive. In proposito, si richiama una frase celebre secondo cui in un mercato ogni attore economico, perseguendo il proprio interesse, promuove quello della società più efficientemente (con minore consumo di risorse) rispetto a quello che esso intende realmente promuovere (Smith, 1904). Allo stesso tempo i mercati operano anche una selezione competitiva favorendo la crescita (la decrescita) della dotazione di fattori della produzione dei soggetti i cui costi unitari di produzione sono inferiori (superiori) al prezzo di equilibrio tra domanda e offerta. Nello specifico, i soggetti i cui costi unitari di produzione sono inferiori al prezzo di vendita di equilibrio tendono a produrre surplus economici che potranno essere impiegati nel tempo per espandere la propria dotazione di fattori della produzione. Di contro, soggetti i cui costi unitari di produzione sono superiori al prezzo di equilibrio generano deficit che andranno nel tempo a erodere, riducendola, la loro dotazione di fattori della produzione. A corollario di quanto riportato, attraverso la selezione competitiva, i mercati tendono anche a stimolare l’adozione da parte degli individui nello svolgimento degli atti economici di comportamenti razionali ovvero orientati al conseguimento dei propri obiettivi con il minimo mezzo. Come osservato da Milton Friedman: «let the apparent immediate determinant of business behaviour be anything at all, habitual reaction, random chance or what not. Whenever this determinant happens to lead to behaviour consistent with rational and informed maximization of returns, the business will prosper and acquire resources with which to expand; whenever it does not, the business will tend to lose resources and can be kept in existence only be the addition of resources from outside» (Friedman, 1953, pag. 22).

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A margine si è richiamato, nell’ambito dello studio dei processi di produzione, di consumo e di scambio, il paradosso dell’innovazione legato all’allocazione dei fattori della produzione in combinazioni produttive correnti e innovative. La presenza dei mercati, attraverso la divisione del lavoro, consente che conoscenze, abilità e motivazioni sottese all’impiego dei fattori della produzione nelle combinazioni produttive siano disperse tra vari individui. In questo modo, le combinazioni produttive correnti scaturiscono dalla possibilità che qualcuno intraveda la possibilità di impiegare i fattori della produzione in talune combinazioni, che qualche altro abbia le capacità di porre in essere tali combinazioni e infine che qualche altro ancora sia interessato ovvero attribuisca un valore ai beni prodotti da tali combinazioni. In questa prospettiva, da un lato, i mercati rendono più semplice l’impiego dei fattori della produzione nelle combinazioni innovative, visto che non è necessario che un singolo individuo disponga contemporaneamente di conoscenze, abilità e motivazioni occorrenti per attuare tali combinazioni. È opportuno solo che un primo soggetto abbia una nuova idea, che un secondo soggetto sia in grado di incorporare l’idea in processi produttivi dai quali ottenere beni economici e che un ultimo soggetto ancora sia disposto a pagare un prezzo per tali beni. Dall’altro lato, tuttavia, i mercati possono complicare l’impiego dei fattori della produzione in combinazioni innovative, soprattutto per quelle combinazioni che sono finalizzate a produrre beni economici i cui usi non sono ancora noti ovvero il loro valore non è stato ancora accertato o accertabile e, quindi, non è possibile individuarne un prezzo. Per ipotesi, l’impiego di fattori della produzione nell’ambito di determinate combinazioni innovative non potrà aver luogo laddove un soggetto abbia sviluppato una nuova idea e abbia anche le capacità per incorporare questa idea in combinazioni produttive, ma nessuno sia disposto a pagare un prezzo per acquistare i beni economici scaturenti dalle considerate combinazioni. Nell’esempio, basti pensare alla difficoltà del soggetto di remunerare i fattori della produzione in mancanza della possibilità di valorizzare, mediante scambi di mercato, il bene economico prodotto dalle combinazioni produttive considerate. Dalle valutazioni formulate sembra, dunque, possibile concludere che i mercati siano uno strumento formidabile per allocare i fattori della produzione soprattutto verso quelle combinazioni produttive correnti e innovative i cui beni economici siano destinabili a usi noti o comunque conoscibili e valorizzabili attraverso i prezzi di mercato e meno, invece, verso quelle combinazioni innovative i cui beni economici siano impiegabili verso usi non noti o il cui valore non sia correntemente realizzabile.

1.5 L’impresa nei processi di produzione, di consumo e di scambio Nelle moderne società capitalistiche l’allocazione delle risorse è coordinata non solo attraverso i mercati ma anche mediante le imprese. Tralasciando il ruolo dello Stato e delle altre forme cosiddette policentriche di organizzazione, osservabili soprattutto nell’ambito delle attività di consumo e di produzione di beni privati condivisi, di beni pubblici e di beni a cui gli individui assegnano un elevato valore d’uso e, allo stesso tempo, per vincoli finanziari, un valore percepito nullo (Ostrom, 2010), il lavoro si concentra sui beni economici a carattere privato e introduce la distinzione tra mercati, imprese e organizzazioni. In prima approssimazione, il discrimine tra imprese e mercati è da rinvenire nel concetto di autorità che, nella prima istituzione, ne disciplina e ordina le relazioni tra individui. Nell’ambito dei rapporti di lavoro dipendente o subordinato qualificanti


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l’impresa, l’autorità consiste nella capacità e possibilità di un soggetto (il datore di lavoro) di comandare le attività che un altro soggetto (il lavoratore) deve realizzare, unitamente alle più opportune modalità di svolgimento delle stesse. Completa il concetto di autorità la legittimità del potere del datore di lavoro sulla quale si fonda la disponibilità del lavoratore ad accettare i comandi emessi dal primo nei suoi confronti (Simon, 1951). Come già osservato in precedenza, nell’impresa il lavoratore decide di sacrificare, in parte, la propria individualità associandosi con un altro soggetto al quale affida l’assunzione di decisioni in merito allo svolgimento delle attività produttive. Per esempio, se un soggetto, datore di lavoro, operante nel settore dei beni alimentari assume un lavoratore per svolgere le attività produttive, questo rapporto viene coordinato nell’impresa attraverso il meccanismo dell’autorità. Quando invece lo stesso soggetto acquista la materia prima dagli agricoltori, il coordinamento del flusso di servizi che origina dal fornitore avviene nel quadro degli scambi conclusi e dei prezzi concordati nel mercato. Dunque, i mercati lasciano il posto all’impresa quando il coordinamento delle attività economiche è svolto attraverso l’autorità piuttosto che mediante il sistema dei prezzi. Come osservato da Alchian e Demsetz (1972), il riferimento all’autorità non esaurisce le distinzioni e le differenze tra un’impresa e un mercato. Si consideri, per esempio, un consumatore che abbia stipulato un contratto con un panettiere per la produzione di un certo quantitativo di pane di un determinato tipo che deve essere disponibile a una certa ora e a un certo prezzo. Così come nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, oltre a definire le modalità di produzione del pane, il consumatore potrebbe anche sanzionare il panettiere smettendo di acquistare i suoi prodotti ove questi non siano di suo gradimento. In altre parole, il consumatore dispone comunque di una certa autorità nei confronti del produttore di pane. Si è inoltre rilevato che i rapporti tra individui nell’impresa sono spesso di lungo termine mentre quelli nel mercato sono di breve termine. A questo si potrebbe ribattere che così come il consumatore non è obbligato ad acquistare beni economici dallo stesso produttore, allo stesso modo anche un lavoratore non ha alcun obbligo di continuare a prestare la propria opera per un’impresa. Sulla base delle considerazioni riportate, ci si domanda se sia possibile distinguere l’autorità esercitata dal datore di lavoro sul lavoratore nell’impresa rispetto a quella esercitata, nell’esempio proposto, dal consumatore sul produttore di pane. I mercati attraverso i meccanismi dei prezzi esercitano, a ben vedere, un potere di influenza sugli individui e quindi un’autorità comparabile, se non addirittura superiore, a quella osservabile all’interno di una impresa. Si pensi, in proposito, all’influenza esercitata dai mercati, in particolare quelli finanziari, sul comportamento dei decisori pubblici. In proposito osserva Polany (1944), che i mercati finanziari «acted as a powerful moderator in the councils and policies of a number of smaller sovereign states. Loans, and the renewal of loans, hinged upon credit, and credit upon good behavior. Since, under constitutional government (unconstitutional ones were severely frowned upon), behavior is reflected in the budget and the external value of the currency cannot be detached from the appreciation of the budget, debtor governments were well advised to watch their exchanges carefully and to avoid policies which might reflect upon the soundness of the budgetary position» (pag. 14). Quello che differenzia l’impresa da un mercato non è dunque solo l’autorità, bensì la presenza di altri aspetti quali: (i) un’organizzazione dei fattori della produzione, (ii) un’entità giuridica che è intestataria dei fattori della produzione e dei rapporti contrattuali che ne discendono e, infine, (iii) un soggetto economico ovvero un organo di governo che indirizza, guida e coordina, in ottica unitaria, la dinamica evolutiva dell’impresa (Golinelli, 2012).

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Approfondimento 1.2

Alcune teorie sull’impresa Diverse teorie hanno affrontato il tema dei rapporti tra imprese e mercati, ovvero in quale condizioni l’organizzazione della produzione si può più convenientemente basare sulle imprese piuttosto che sui mercati. Ci limitiamo qui a richiamare le teorie delle quasi-rendite, dell’adattamento, dei costi di transazione. Una prima prospettiva considera l’impresa quale unità decisionale necessaria per coordinare atti economici nei quali sono presenti condizioni di quasi-rendita (Williamson, 1971; Klein, 1988). In un atto economico, sia esso di produzione o di consumo, una quasi-rendita si manifesta quanto il valore dell’atto stesso per una controparte è largamente maggiore del valore di altri atti concorrenti e concomitanti. La presenza di quasi-rendite crea condizioni di conflittualità tra gli individui che potrebbero essere motivati ad appropriarsi di tali rendite mediante attività di negoziazione e ri-negoziazione (per esempio, richiedendo maggiori sconti sui beni acquistati e, o richiedendo condizioni di pagamento migliori). Al crescere di tali potenziali momenti di conflitto in un atto economico si ampliano i costi relativi all’uso del mercato e quindi l’impiego di fattori elementari in usi diversi da quelli produttivi. Tali costi possono essere ridotti sostituendo il mercato con una impresa nell’organizzazione degli atti economici caratterizzati da quasi-rendite (Williamson, 1971). Una seconda prospettiva considera l’impresa quale unità decisionale necessaria per coordinare atti economici nei quali sono presenti condizioni di incertezza (Simon, 1951). Nella richiamata prospettiva, si considera che quando gli esiti delle combinazioni produttive sono incerti, la ricerca della controparte negoziale diventa più difficoltosa, così come la stipula di contratti in grado di incorporare tutte le possibili contingenze future viene a palesarsi come un compito assai arduo se non impossibile. L’incertezza accresce, dunque, i costi connessi all’uso del mercato che, ancora una volta, possono essere ridotti sostituendo il mercato stesso con l’impresa. In altre parole, si tratta di intestare le decisioni a carattere residuale ovvero quelle necessarie per fronteggiare l’incertezza in capo a un organo di governo che dotato di una adeguata autorità abbia il potere di assumere tali decisioni solo dopo che l’incertezza è stata risolta. Ciò fa venire meno la necessità di stabilire ex ante, in un atto economico, tutte le possibili contingenze che potrebbero sorgere nel corso del tempo e, ex post, di ridefinire mediante negoziazioni tra le parti le nuove latitudini dell’atto economico necessarie per incorporare dette contingenze. In sintesi, questa prospettiva suggerisce che l’impresa rappresenta un’alternativa ai mercati nei casi in cui gli atti economici implicano un numero elevato di decisioni soggette a elevata incertezza e, quindi, non programmabili ex ante (Williamson, 1971). Una terza prospettiva, cosiddetta dei costi di transazione, considera mercati e imprese come due meccanismi sostitutivi degli atti economici (Williamson, 1975). In sostanza, mercati e imprese possono essere rappresentati come due estremi di un continuo nel quale i processi di produzione e di consumo si vanno a collocare. Il prevalere del mercato e dell’impresa dipende dal confronto tra i costi di transazione, ovvero i costi connessi all’impostazione, attuazione e revisione delle negoziazioni tra le parti di uno scambio, e i costi di coordinamento interno, ovvero i costi connessi alle tipiche attività produttive dell’impresa. Conseguentemente, gli atti economici saranno svolti internamente e, quindi, coordinati dall’impresa in tutti i casi nei quali i costi di transazione sono eccedenti rispetto ai costi di coordinamento. D’altro canto, il mercato


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sarà lo strumento principale per coordinare quegli atti economici i cui costi di transazione sono inferiori rispetto ai costi di coordinamento dell’impresa. Alle richiamate prospettive si collegano altri approcci nei quali l’emergere dell’impresa è legato al rischio, ad aspetti tecnologici e di incentivazione individuale. Rispetto al rischio, l’impresa emerge come istituzione qualificante per l’assunzione unica e condivisa del rischio quando questo o non è frazionabile ovvero, quando lo è, le sue parti elementari non sono gestibili e sostenibili da singoli individui (Hart, 1995). Rispetto alle condizioni tecnologiche, un’impresa tende a formarsi laddove diversi atti economici sono legati da condizioni di indivisibilità tecnologica. Quando un masso da spostare è troppo grande per un singolo individuo e richiede il coordinamento degli sforzi di più individui oppure il processo produttivo di un bene è troppo complesso per essere suddiviso in parti da assegnare a individui che debbono negoziare tra loro le prestazioni da acquisire e da rendere, ecco, dunque, che si aprono spazi per l’emergere di organizzazioni formali quali le imprese (Barnard, 1938, pagg. 27-28). In termini di incentivi individuali, si ritiene che un’impresa possa esistere se offre benefici ai propri membri in misura superiore ai contributi loro richiesti, tenuto conto delle alternative disponibili. In altre parole, un’impresa può ravvisarsi nei casi in cui dalla combinazione dei fattori della produzione emerga un valore netto complessivo positivo e superiore a quello realizzabile dagli stessi individui in altre forme di organizzazione della produzione, quali i mercati (March e Simon, 1958). Il concetto di impresa può essere meglio qualificato facendo riferimento alla nozione di azienda riportata nell’articolo 2555 del codice civile quale «complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa». La definizione di azienda comprende, quindi, i seguenti aspetti: • •

i fattori della produzione che rientrano nella disponibilità dell’impresa possono assumere, come già osservato, carattere umano, tecnico e finanziario; l’organizzazione dei fattori della produzione ovvero la presenza di regole di coordinamento (ogni bene economico si trova in corrispondenza di altri beni e dello stesso complesso) e di orientamento comune (il complesso dei beni economici viene attivato in vista del raggiungimento di determinati obiettivi); la direzione unitaria dei fattori della produzione da parte di un organo di governo (nella definizione l’imprenditore).

L’elemento organizzativo compreso nell’ambito del concetto di azienda consente, dunque, di introdurre, oltre all’autorità, un ulteriore aspetto di distinzione tra l’impresa e il mercato. L’impresa si qualifica per la disponibilità di una combinazione, coordinata e interdipendente, di fattori della produzione a carattere umano, tecnico e finanziario. In merito osserva Zappa (1950) che «le interdipendenze delle parti e dei momenti di quella coordinazione economica che è l’azienda, si manifesta in stretta connessione con il suo carattere di complesso formato da fattori complementari. L’azienda, come ogni unità economicamente coordinata, è qualcosa di più della somma dei suoi componenti; il complesso ha proprietà che i suoi elementi non posseggono e non valgono a definire; né possono le caratteristiche del complesso essere date da una mera composizione delle caratteristiche dei componenti» (pagg. 11-12). La definizione di azienda quando richiama il ‘complesso di beni organizzato dall’imprenditore’ evidenzia, tra le altre, che l’acquisizione e la formazione dei fattori della produzione nonché il loro rinnovo così come la loro combinazione non discendono da condizioni naturali o spontanee bensì sono il portato delle decisioni di governo,

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dalle quali originano, dati i segnali deboli provenienti dal contesto, gli indirizzi strategici e si definiscono i correlati meccanismi di integrazione, coordinamento e controllo delle combinazioni produttive; e di gestione, qualificate dalla ricerca, a livello tattico, di opportune forme di organizzazione dei fattori della produzione e, a livello operativo, dall’individuazione dei loro migliori usi possibili (Golinelli, 2012). Decisioni di governo e di gestione che, nel loro insieme, si propongono di far prevalere nell’impresa la causalità creativa su quella naturale dettata da condizioni esterne di contesto (Ceccanti, 1996). Il richiamato concetto di azienda mette poi in risalto che il complesso organizzato dei fattori della produzione è funzionale all’esercizio dell’impresa. Una volta costituito, tale complesso organizzato non solo rientra nella disponibilità dell’impresa ma risulta anche strumentale al suo esercizio in considerazione del ventaglio di possibilità e di alternative che da esso scaturiscono e su cui i vari decisori possono far leva per lo svolgimento delle attività correnti nonché per impostare lo sviluppo futuro dell’impresa. Allo stesso modo, il richiamato complesso organizzato dei fattori della produzione si costituisce come un vincolo alla discrezionalità manageriale in relazione sia alla formazione di inerzie organizzative sia alla presenza di componenti e di relazioni strutturali di natura durevole e pro-tempore invarianti. In questo senso, da un lato, Rullani (1984) evidenzia che «il potere soggettivo di imporre all’impresa un fine esterno si arresta di fronte alla rigidità e alle inerzie proprie delle strutture organizzative complesse (sistemi), che solo in parte recepiscono la finalità del soggetto di comando e tendono invece ad operare secondo proprie leggi di funzionamento e di sviluppo. Ciò è particolarmente vero quando l’organizzazione dell’impresa si dilata e si differenzia fino a divenire un sistema ad elevata complessità, ossia dotato di una varietà (specializzazioni professionali) e una variabilità (rapidità dei mutamenti nei problemi e nelle tecniche per affrontarli) che il soggetto di comando non può più facilmente controllare di persona» (pag. 44). Dall’altro lato, Renzi (1953) osserva che l’impresa «sorge con un caratteristico complesso di immobilizzazioni più o meno grande e più o meno vincolante al rischio di successive invenzioni. Questo complesso imprime all’azienda un carattere precostituito di rigidezza il quale la lega, in un certo modo e sotto qualche aspetto, al suo atteggiamento prossimo e lontano» (pag. 116). Dato che l’elemento organizzativo e la discrezionalità manageriale concorrono a distinguere le imprese dai mercati, il problema successivo è quello di comprendere se tutte le organizzazioni sono imprese oppure se l’impresa è una organizzazione di tipo particolare. A tal proposito si richiama la circostanza che una organizzazione si qualifica, in generale, per la presenza di uno scopo od obiettivo condiviso, è dotata di un insieme di fattori umani, tecnici e finanziari, palesa sforzi combinati che si inquadrano nell’ambito di uno schema prestabilito di relazioni e di interazioni opportunamente indirizzate e coordinate. In questo senso, un circolo culturale, una chiesa, un ente militare sono tutti esempi di organizzazioni in quanto composte, al pari delle imprese, di persone diverse, organizzate opportunamente, supportate da adeguate risorse tecniche e finanziarie, e soggette all’autorità e al coordinamento di uno o più individui. Nonostante l’elemento organizzativo e la discrezionalità accomunino diverse organizzazioni, gli esempi richiamati di un circolo culturale, di una chiesa, di un ente militare non possono essere comunque qualificati come imprese. Nel definire l’impresa si consideri l’esplicitazione della figura dell’imprenditore offerta dall’articolo 2082 del codice civile come soggetto che svolge «professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi». Nella proposta definizione il concetto di attività economica sottende da un lato un carattere persistente e duraturo dell’impresa, che si oppone ai concetti di occasionalità e temporaneità. L’impresa dunque non si esaurisce in un solo atto, un singolo affare, un risultante guadagno, bensì è una organizzazione nella quale atti, affari, gua-


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dagni si combinano, si alternano, si rinnovano e si prolungano nell’ambito di orizzonti temporali auspicabilmente non brevi. Dall’altro lato, la definizione proposta richiama i concetti di scambio, di reddito e di capitale. Questi concetti sono rievocati anche da Caprara (1955) quando rileva che «le negoziazioni, cioè le operazioni di scambio oneroso, sono le manifestazioni caratteristiche della vita economica delle imprese. Nelle imprese si scambia per produrre; merci, prodotti e servizi si scambiano per conseguire un guadagno» (pag. 1). Allo stesso modo Zappa (1957) rileva che l’impresa si qualifica per un’attività di produzione rivolta «alla formazione o all’ottenimento di beni, merci o servizi, destinati allo scambio di mercato per il conseguimento di un reddito» (pag. 706). Per quanto attiene lo scambio, l’impresa è sempre in relazione con almeno due mercati, quello dei fattori produttivi e quello dei beni economici venduti. A questi due mercati si associano, rispettivamente, i cosiddetti processi di approvvigionamento dei fattori della produzione dai fornitori e di collocamento di prodotti e, o di servizi presso i clienti finali. I processi di approvvigionamento consentono all’impresa di disporre dei beni economici necessari per alimentare i processi di trasformazione. Questi beni economici possono, a loro volta, essere acquistati dall’impresa mediante il ricorso diretto ai fornitori ovvero con il supporto di altre imprese specializzate nell’intermediazione mercantile o ancora attraverso l’utilizzo di forme collettive di approvvigionamento rappresentate dai gruppi di acquisto o da organizzazioni consortili. A loro volta i beni economici generati per mezzo dell’attività produttiva sono collocati direttamente sul mercato finale ovvero mediante altre imprese commerciali, quali, per esempio, grossisti, grande distribuzione organizzata, piccolo dettaglio organizzato e singoli dettaglianti. Per completezza, si definisce lunghezza del canale il numero di intermediari commerciali che si frappongono tra l’impresa produttrice e il cliente finale (sulle ragioni di convenienza nella scelta dei diversi canali vedi Fabrizi, 1963, pag. 297 e segg.). Considerando i restanti aspetti riportati nella definizione di imprenditore da parte del codice civile, il capitale esprime un fondo di valori riferito a un complesso di fattori rientrante nella disponibilità dell’impresa in un dato istante la cui funzione non è rappresentata dalla produzione di generiche utilità nei confronti di terzi e nemmeno dalla soddisfazione delle loro aspettative ma dalla specifica produzione e distribuzione del reddito. I valori che sono ricompresi nel capitale possono essere attivi (per esempio, liquidità, crediti, scorte e immobilizzazioni) o passivi (per esempio, debiti a breve termine, debiti consolidati). A loro volta, questi valori «hanno una determinata identità, segnata, non foss’altro, se sono elementi attivi, dalle spese che ne segnarono l’origine, o se sono elementi passivi, dalle entrate che si accompagnano al loro sorgere» (Zappa, 1950, pag. 63). Nell’ambito del capitale complessivamente concepito è possibile poi qualificare un capitale investito netto (pari al totale dell’attivo al netto dei fondi di rettifica, delle disponibilità liquide, delle attività finanziarie a breve e dei debiti commerciali) e un capitale di funzionamento o ‘capitale puro’ o anche mezzi propri le cui parti ideali sono il capitale sociale, le riserve, gli utili riportati a nuovo, le perdite dei trascorsi esercizi (Zappa, 1950). Per quanto attiene al reddito, quest’ultimo si sostanzia nell’utilizzo, in un determinato periodo, del capitale a fini economici e si manifesta attraverso un flusso ovvero una differenza tra i ricavi derivanti dalla vendita di prodotti e, o servizi (le utilità dei beni rivolti al consumo) e i costi derivanti dall’acquisizione e dall’uso dei fattori della produzione (i sacrifici conseguenti dalla produzione dei beni economici). Capitale e reddito, nonostante la natura del primo quale grandezza fondo e del secondo quale grandezza flusso, sono intimamente connessi nell’economia dell’impresa. Nella formazione dei conti annuali, il flusso di reddito registrato in un periodo coincide con la variazione del capitale di funzionamento (o capitale netto) rilevata tra la fine e l’inizio del periodo considerato per effetto della gestione. In questo senso, «il capitale appare, nominalmente, come un fondo

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dal quale il reddito fluisce, ed al quale il reddito periodicamente può aggiungersi» (Zappa, 1950, pag. 81). La connessione tra capitale e reddito è osservabile considerando anche la dinamica dell’impresa in un orizzonte temporale ampio. In quest’ultima prospettiva, il fluire del reddito concorre alla formazione del capitale economico che assume così la natura di un «valore unico, risultante dalla capitalizzazione dei redditi futuri» (Zappa, 1950, pag. 81). Dunque, nell’economia dell’impresa capitale e reddito sono elementi intimamente connessi e fortemente interdipendenti tra loro, con il capitale che concorre alla produzione del reddito e, allo stesso tempo, quest’ultimo che è il presupposto per la formazione capitale L’essenza dell’impresa sta, dunque, nell’impiego di un capitale al fine di conseguire una differenza tra ricavi e costi attraverso la ricerca di una massima convenienza nella soddisfazione dei bisogni del cliente, tenute presenti le esigenze connesse allo svolgimento dell’attività di produzione. Questa convenienza si collega a prezzi di vendita atti a coprire i costi unitari di produzione, consentendo un margine congruo per la remunerazione del capitale investito nelle attività produttive (Zappa, 1962). Si è osservato che «l’attività dell’impresa deve concepirsi come categoria a sé soltanto se concorra, di regola, alla produzione di un prodotto di valore superiore a quello ottenibile separatamente dai fattori fondamentali della produzione» (Demaria, 1962, pag. 152). Nell’impresa la soddisfazione dei bisogni degli individui è strumentale rispetto alla produzione del reddito e, allo stesso tempo, la misura con cui l’impresa stessa contribuisce a tale soddisfazione è dipendente dalla produzione del reddito stesso. Infatti, si è osservato che «se la produzione d’impresa non perseguisse l’ottenimento di un reddito, essa non potrebbe contribuire, sia pure indirettamente, mediante i consumi, all’appagamento dei bisogni presenti, o, mediante il risparmio, al soddisfacimento dei bisogni futuri» (Zappa, 1957, pag. 706). Occorre inoltre osservare che il reddito una volta prodotto può essere destinato a incrementare il capitale stesso dell’impresa o a essere prelevato e distribuito non solo ai diversi interlocutori sociali dell’impresa, nella forma di remunerazioni eccedenti quelle considerate normali, ma anche a coloro che (a seconda dei casi, imprenditore, socio o azionista) hanno conferito nell’impresa il capitale di rischio (o capitale di funzionamento), avendo cura però che, in quest’ultima circostanza, sia preservato non solo il capitale iniziale, ma anche e soprattutto la capacità del capitale dell’impresa a fornire un reddito in futuro (Zappa, 1950). Ecco, quindi, che la distribuzione del reddito ai conferenti il capitale di rischio rappresenta un ulteriore elemento qualificante e distintivo dell’impresa rispetto ad altre organizzazione. In altre parole, l’impresa si distingue dalle altre organizzazioni in quanto una parte del reddito prodotto, tenendo presenti le necessità del capitale appena sopra indicate, è assegnata ovvero distribuita a soggetti diversi (l’imprenditore, il socio o l’azionista) da quelli che hanno contribuito con i propri flussi di servizio ad alimentare i processi di produzione (per esempio, lavoratori, fornitori, finanziatori a titolo di credito). Rispetto ai due momenti della produzione e della distribuzione del reddito, i diversi interlocutori dell’impresa tendono ad esprimere aspettative e posizioni diverse. Questo aspetto è riassunto efficacemente da Pantaleoni (1963) il quale rileva che «mentre i fattori di produzione, o meglio, coloro che ne dispongono hanno un interesse comune a ciò che il flusso globale del reddito sia massimo […], questi fattori sono rivali nella divisione tra di loro del ricavato delle vendite, poiché se uno riceve di più, un altro riceve di meno» (pag. 126). Nell’impresa questa tensione non resta circoscritta ai rapporti tra i portatori dei diversi fattori della produzione come i fornitori, lavoratori, finanziatori, ecc., ma si estende, come già osservato, anche all’imprenditore (o azionisti o soci nelle imprese organizzate in forma di società). Talora si possono anche prospettare situazioni, per lo più deleterie, nelle quali l’in-


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Capitolo 1

disponibilità da parte di una coalizione dominante di individui a distribuire il reddito a un dato portatore di interesse può indurre la coalizione stessa a escluderlo dalla produzione del reddito, a prescindere anche dal potenziale contributo che tale portatore di interesse potrebbe offrire all’impresa. La tensione verso la produzione di un reddito e, in particolare, la sua successiva distribuzione rappresentano elementi centrali per distinguere l’impresa dalle altre organizzazioni. Si pensi al caso di un piccolo villaggio organizzato in forma autarchica nel quale c’è chi lavora la terra, chi alleva il bestiame e chi dirige la produzione. Ognuno svolge il proprio lavoro in attenta coordinazione con gli altri. Parallelamente, i frutti, ovvero il reddito prodotto dal lavoro dei vari individui, sono divisi equamente tra i vari soggetti a prescindere dallo specifico contributo individuale. Possiamo ritenere che il villaggio sia paragonabile a un’impresa? A ben vedere, si può riconoscere la presenza di una organizzazione economica nell’attività del villaggio, ma, tuttavia, manca lo scambio di beni economici e, soprattutto, il perseguimento negli scambi del fine del lucro ovvero della produzione di un reddito e della sua successiva distribuzione ai fornitori del capitale di rischio. Dalle considerazioni appena formulate risulta, dunque, che l’impresa implica l’azienda, ovvero un’organizzazione economica dei fattori della produzione, ma non si esaurisce in essa. Conseguentemente, non è inutile ripeterci che non tutte le organizzazioni sono imprese. Se l’organizzazione economica dei fattori della produzione è ravvisabile in soggetti collettivi quali una famiglia, un istituto religioso, un partito politico, questi mancano completamente dello scopo produttivo di carattere economico e, in particolare, della finalizzazione dei beni capitale, in combinazioni che sempre si rinnovano, alla produzione di un reddito e alla sua successiva distribuzione (Airoldi, Brunetti et al., 1994). Questi ultimi aspetti sono elementi specifici dell’impresa che non condivide con altre organizzazioni (Merlani, 1952). In questo senso, per esempio, l’impresa si distingue dalle organizzazioni pubbliche stante che nelle seconde il fine è di appagare i bisogni delle persone destinatarie dei servizi pubblici, nonché di remunerare congruamente le prestazioni di lavoro. Nelle organizzazioni pubbliche la produzione di beni economici rappresenta il fine e non già lo strumento per il conseguimento di un reddito. Si vuole inoltre precisare che le organizzazioni pubbliche non vanno confuse con le imprese pubbliche. Le seconde sono imprese che assumono questa qualifica per effetto del conferimento di tutto o di parte del capitale sociale da parte di enti pubblici. Partecipazione al capitale di enti pubblici che ha come effetto, dato il fine del reddito, di collegare l’azione amministrativa degli organi di vertice con le scelte di politica economica (Cafferata, 1986). Sovente nelle imprese pubbliche si parla anche di oneri impropri, ovvero utilizzando le parole di Saraceno, «se il reddito prevedibile è minore di quello normale, la differenza costituisce un onere improprio, costituisce cioè un costo che lo Stato deve sopportare se vuole conseguire il fine politico attribuito a quel particolare investimento» (Saraceno, 1977, pag. 26). Rimandando peraltro l’approfondimento del discorso al Capitolo 6 della presente opera, l’aver posto la formazione di un reddito e la sua distribuzione quale elementi centrali dell’impresa, non fa venir meno il suo ruolo di istituzione del capitalismo rivolta al soddisfacimento dei bisogni umani e neanche la tensione a considerare gli interessi dei diversi portatori di interesse, siano essi manager, lavoratori, fornitori, finanziatori, ecc. Come è stato chiaramente osservato, «i giusti interessi di alcuni non possono essere perseguiti se non sono soddisfatti congiuntamente anche quegli degli altri, cosicché l’interesse economico di un singolo è proprio anche di tutti i restanti membri […]. In sintesi, l’equo appagamento degli interessi dominanti di un’impresa è un bene comune che si deve attingere con i vincoli posti dalle esigenze di un equo contemperamento con gli interessi esterni» (Coda, 1963, pag. 16).

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Capitolo 1

Approfondimento 1.3

Fine del lucro e rendite nell’economia dell’impresa Il fine del lucro può essere collegato alla capacità dell’impresa di creare e di appropriarsi di rendite dalle proprie combinazioni produttive. In proposito si possono considerare le rendite monopolistiche, Richardiane, Marshalliane e imprenditoriali. Le rendite monopolistiche originano da condizioni di potere di mercato che di fatto limitano o escludono la concorrenza nel mercato in cui l’impresa opera. Queste rendite possono scaturire, per esempio, da condizioni di monopolio naturale (si pensi, per esempio, al controllo delle reti di trasmissione dell’energia elettrica), da vincoli normativi (si pensi all’esempio del trasporto aereo prima della deregolamentazione) e da altre condizioni limitanti la concorrenza predisposte dalle imprese stesse (si pensi, per esempio, ai cartelli e, in generale, alle relazioni collusive tra imprese). Le rendite Richardiane sono collegate alla presenza di una differenza tra ricavi e costi (o surplus) associati all’utilizzo di un determinato fattore della produzione nell’ambito di combinazioni produttive di un’impresa. Il surplus scaturente dall’uso dei fattori della produzione è collegato alla presenza di condizioni di scarsità e di fissità nell’offerta del fattore stesso; condizioni che, ove presenti, rendono difficile per altre imprese scambiare nel mercato il fattore stesso o riprodurlo internamente a condizioni economicamente convenienti. Si pensi, per esempio, a un’impresa che dispone di una tecnologia innovativa che permette, a parità di qualità, la produzione di orologi a costi unitari sensibilmente minori rispetto a quelli sostenuti dai concorrenti. Le rendite Marshalliane sono collegate alla presenza di una differenza tra il surplus ottenibile dall’impiego dei fattori della produzione nel migliore uso noto possibile e il surplus ottenibile in impieghi alternativi. Queste rendite si giustificano in relazione a condizioni di specificità che, presenti nei contesti interno ed esterno dell’impresa, consentono a determinati fattori della produzione di produrre un surplus maggiore rispetto a possibili usi alternativi. Si pensi, per esempio, a un’impresa le cui persone abbiano sviluppato competenze specifiche nell’ambito di gruppi di lavoro dedicati per la generazione di nuovi prodotti. Queste competenze afferiscono al gruppo come insieme e, quindi, si ipotizza che ove un individuo lasci il gruppo di lavoro per unirsi a un’altra impresa, il suo contributo potrebbe risultare non equivalente a quello fornito all’impresa di origine. Si pensi ancora alla presenza di costi di transazione che rendono di fatto particolarmente oneroso il trasferimento di un fattore della produzione da un’impresa a un’altra. Le rendite imprenditoriali sono collegate alla scoperta e, o alla creazione di combinazioni innovative e originano in presenza di una differenza tra il valore di una combinazione ex post (o flusso di ricavi) e il suo valore-costo ex ante. Le rendite imprenditoriali sono nulle nei casi in cui un decisore abbia piena contezza del valore ex post di una combinazione produttiva. Di contro, in presenza di incertezza ex ante sul valore futuro di una combinazione produttiva, le rendite imprenditoriali possono manifestarsi ove il valore-ricavo ex post sia maggiore del valore-costo ex ante. In altre parole, assente ogni condizione di incertezza legata alla scoperta o alla invenzione di nuove combinazioni produttive, è possibile attendersi che i fattori della produzione impiegati nelle combinazioni produttive riflettano il loro valore prospettico ovvero si


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può immaginare che ove anche un surplus sia prodotto questo possa essere eroso dalle azioni dei fornitori dei fattori produttivi e, o da processi imitativi da parte dei concorrenti. Alle tradizionali categorie di rendite appena descritte si affiancano le cosiddette rendite da influenza che qualificano il surplus derivante da regole del gioco costruite in maniera coerente rispetto alle condizioni di operatività di un’impresa ovvero di un gruppo di imprese. Queste rendite possono discendere, per esempio, dalle influenze esercitate da una o più imprese sulle decisioni e sulle azioni assunte da autorità di vigilanza o da enti di regolamentazione, sull’istituzione di determinate autorità di vigilanza, sulla regolamentazione vigente e sulle norme in materia di concorrenza tra imprese (Ahuja e Yayavaram, 2011). Le diverse categorie di rendite appena considerate rappresentano un potenziale che per trasformarsi in reddito richiedono che l’impresa sia in grado prima di proteggere queste rendite dalle azioni di imitazione poste in essere dai concorrenti. Si parla in proposito di barriere all’imitazione (per esempio, brevetti, segreto industriale, ambiguità causale, creazione di elementi di specificità nei fattori della produzione da cui si generano rendite, investimenti ripetuti in combinazioni innovative). In secondo luogo, l’impresa deve essere in grado di appropriarsi del surplus generato da tali rendite in misura sostanziale, prevenendo che altri attori, come i clienti e i fornitori, possano appropriarsene (per esempio, un fornitore tramite l’incremento dei prezzi delle materie prime) (per approfondimenti vedi Rumelt, 1987).

L’attenzione al momento distributivo del reddito rispetto ai diversi portatori di interesse è anche funzionale al mantenimento di condizioni di sopravvivenza dell’impresa in quanto «qualsiasi combinazione aziendale di fattori produttivi rende complementari i fattori stessi non soltanto nelle mobili combinazioni del loro impiego, ma anche nel momento della loro congiunta remunerazione, se non altro quando quest’ultima, nei suoi mutevoli giudizi di congruità, costituisce condizione necessaria e sufficiente per attrarre e trattenere, nell’ambito dell’impresa, i fattori di produzione qualitativamente e quantitativamente richiesti, secondo variabili condizioni di vincolo, dall’operare dell’impresa medesima» (Ferrero, 1965, pag. 49). Si aggiunga, inoltre, che l’impresa, soprattutto quando di grande dimensione, oltre a svolgere un’attività di produzione di beni economici ha anche un ruolo di carattere sociale. In particolare, si è osservato che «l’impresa è anche un centro di potere sociale e politico nonché un centro di cultura, in quanto la pluralità dei suoi dipendenti e il tipo di gerarchia economica cui sono soggetti ne determinano consapevoli atteggiamenti nel campo extra-economico, che non di rado condizionano quelli di natura economica» (Demaria, 1962, pag. 150). All’impresa è stato anche riferito il concetto di socialità per descrivere un’attitudine, da ricercare, verso il bene comune conseguita mediante la produzione e la distribuzione di ricchezza, creando condizioni di benessere «non solo per i singoli che hanno particolari interessi d’azienda [per esempio i fornitori del capitale di funzionamento], ma anche per la collettività, i cui interessi di generale benessere riposano su una durevole e progredente prosperità economica del mondo aziendale, delle cui sorti la collettività stessa non è certo agnostica spettatrice» (Ferrero, 1965, pag. 61).

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Approfondimento 1.4

Ancora sul fine del lucro nelle imprese «Si dice che le imprese hanno fine speculativo e si vuole non di rado che la speculazione, implicita tuttavia in ogni forma di scambio economico, alteri le vie migliori aperte alla produzione. Ma nell’impresa lo spirito di lucro, l’avidità di guadagno, il tornaconto particolare del soggetto della produzione non sono punto, un’ara sulla quale ogni interesse si debba o si possa sacrificare. Anche nell’impresa l’egoismo economico non è mai un sentimento intangibile: nei nostri tempi anzi è forse evidente che nelle imprese l’interesse individualistico è sempre più contenuto. Anzitutto è evidente che la cupidigia nei riguardi dei collaboratori non è sentimento atto a giovare all’amministrazione profittevole. Gli stessi collaboratori sono mossi a operare dallo stimolo di guadagno per il necessario appagamento dei loro bisogni. Di più l’impresa, per svolgersi utilmente nel lungo andare, deve assolvere una somma vasta di doveri non solo verso i dipendenti ma anche verso la collettività nella quale diviene. Insomma l’impresa deve contemperare il tornaconto del suo soggetto con gli interessi di coloro che all’impresa danno volenterosi il loro lavoro e deve sottomettersi alle esigenze volute dal bene comune della collettività nazionale nella quale l’azienda agisce. E così anche il vilissimo stimolo di sordido lucro e le altre vili passioni nostre, spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate» (Zappa, 1956, pag. 271).

Alle considerazioni appena svolte in merito al concetto di socialità dell’impresa, si lega la prospettiva teorica elaborata da Ghoshal e Moran (1999) in tema di contributo dell’impresa stessa attraverso l’innovazione, allo sviluppo economico e sociale. Questa prospettiva considera l’impresa come caratterizzata da incentivi, politiche, regole e strutture che nel loro insieme definiscono un contesto istituzionale che in parte è parallelo e in parte complementare al contesto esterno, in particolare al mercato, nel quale l’impresa stessa opera. Si consideri, per esempio, la creazione di un programma di imprenditorialità interna ovvero di un meccanismo di innovazione aperta che, utilizzando risorse finanziarie eccedenti e disponibili dall’impresa, sostengono e stimolano i lavoratori ovvero i cittadini a proporre e sviluppare idee finalizzate alla elaborazione e all’implementazione di nuove combinazioni produttive che altrimenti non sarebbero state attuate secondo le logiche di funzionamento a base dei mercati. In questa ottica, l’impresa si giustifica non già per qualche limite presente nel funzionamento dei mercati e nemmeno per un confronto tra i costi connessi all’uso del mercato rispetto ai costi di coordinamento interno, bensì per un diverso modo di allocare le risorse e, quindi, per una diversa capacità rispetto ai mercati di favorire lo sviluppo di nuove combinazioni produttive, creando così le condizioni per la produzione di nuova ricchezza e, quindi, per l’accrescimento del benessere sociale. In altre parole, alcune combinazioni produttive che non sarebbero giustificabili in termini strettamente economici nell’ambito di un mercato potrebbero ritrovare una propria ragione d’essere nell’impresa e nelle sue logiche specifiche di funzionamento. Le considerazioni formulate si possono collegare con il pensiero di De Woot (1968) il quale rileva che la ragione d’essere dell’impresa si trova nella sua funzione di stimolo al progresso in un mondo in continua evoluzione. Nella accezione dell’autore il progresso si lega a fenomeni di cambiamento non solo quantitativi ma anche e soprattutto qualitativi e si realizza nell’impresa mediante combinazioni e ricombinazioni originali dei fattori della produzione.


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Nell’impresa, infatti, l’integrazione in un’unica istituzione dei requisiti per l’attuazione delle combinazioni produttive (conoscenze, abilità e motivazioni), senza peraltro richiedere che tali requisiti sussistano in capo a un singolo individuo, unitamente al coesistere di logiche economiche ed extra-economiche alla base delle scelte di impresa, rende possibile l’impiego di fattori della produzione verso combinazioni innovative che altrimenti non sarebbero sostenibili in un mercato, soprattutto quando i relativi beni economici siano impiegabili in usi non ancora noti (ma l’impresa trova comunque al suo interno un modo per impiegare dette combinazioni) o il valore di tali beni economici non sia apprezzabile ovvero non sia incorporabile in un prezzo di mercato (ma l’impresa trova al suo interno un modo per valorizzare dette combinazioni). Non rappresenta, invece, un elemento distintivo dell’impresa che il suo governo sia il portato dell’azione dei proprietari/azionisti che hanno conferito il capitale di rischio. Come vedremo più avanti, nei periodi nei quali il capitale era un fattore scarso e la complessità dell’impresa era limitata, il governo dell’impresa era sovente il portato dei capitalisti. Nei tempi moderni, con l’affermarsi della grande impresa e con l’ampliarsi dei mercati dei capitali, la dinamica evolutiva dell’impresa stessa è sempre meno dipendente dai proprietari/azionisti, realizzandosi quella che viene definita la separazione tra proprietà e controllo dell’impresa (Berle, 1959). Ritornando al nostro discorso sull’impresa quale forma specifica di organizzazione della produzione, alla luce degli aspetti che la caratterizzano (in particolare, la discrezionalità manageriale, l’organizzazione dei fattori della produzione, la produzione di beni economici per lo scambio, la disponibilità di un capitale e la produzione e la distribuzione di un reddito) e, quindi, la differenziano da altre istituzioni, quali i mercati e le organizzazioni in generale, l’attenzione si sofferma sulle caratteristiche delle sue combinazioni produttive, dando così evidenza delle diverse, specifiche forme con cui un’impresa può manifestarsi nell’ambito di un sistema capitalistico. Si introduce così la distinzione tra imprese artigiane e industriali, tra imprese industriali, da un lato, e imprese mercantili, bancarie, di assicurazioni e di trasporto, dall’altro. L’ampiezza di tali combinazioni concorre inoltre al distinguo tra imprese di dimensioni piccole, medie e grandi. Questi aspetti saranno oggetto di approfondimento nei paragrafi successivi attraverso la lettura dell’evoluzione storica dell’impresa e delle sue varie classi dimensionali.

1.6

L’impresa nell’evoluzione storica dei sistemi capitalistici

La qualificazione dell’impresa si arricchisce ulteriormente considerando la sua evoluzione storica in parallelo con lo sviluppo della legislazione in materia (si veda in proposito Vagnani, 2010).

1.6.1

L’impresa artigiana

Una prima forma di impresa è quella artigiana. L’artigiano è il proprietario e, sovente, con la sua famiglia, assume le funzioni di assunzione del rischio, di organizzazione dei fattori di produzione e di fornitura delle risorse finanziarie. Utilizzando la classificazione proposta da Amaduzzi (1976), l’artigiano è colui che, facendo leva sulle sue capacità e conoscenze tacite, esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi attinenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il

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proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, provvedendo, altresì, alla fornitura delle risorse finanziarie. In questo senso, l’artigiano assume i ruoli di imprenditore, finanziatore, amministratore, direttore ed esecutore delle attività produttive. Oltre alla presenza dell’artigiano che svolge molteplici ruoli, l’impresa artigiana non dispone neanche di un proprio specifico patrimonio essendo lo stesso confuso con il patrimonio dell’artigiano stesso e dei suoi familiari. Con riguardo ai rapporti impresa-mercato, l’impresa in oggetto opera prevalentemente su commessa: un atto di produzione si manifesta solo e soltanto a fronte di una richiesta proveniente da un cliente. La sua attività è, dunque, collegata e, in parte, vincolata ai caratteri qualitativi e quantitativi degli ordini che provengono dai clienti. L’artigiano conosce, quindi, i clienti, concordando con loro le specifiche dei beni da produrre. In termini di rapporti impresa-lavoratori, in un contesto nel quale il contributo alle attività produttive fornito dal lavoro dell’individuo è prevalente rispetto a quello offerto dal capitale, le persone partecipano all’impresa con funzioni di lavoranti o di garzoni o anche di apprendisti e talvolta coincidono con gli stessi familiari dell’artigiano. Conseguentemente, non può propriamente parlarsi di rapporto di lavoro dipendente bensì di una relazione tra maestro e discepolo, tra insegnante e apprendista regolato da consuetudini e da tradizioni e funzionale al trasferimento, da una generazione all'altra, delle conoscenze tacite proprie dell’artigiano.

1.6.2

L’impresa mercantile

Nel XIII secolo con la formazione di grandi Stati sovrani e di aree commercialmente unificate nelle quali gli acquirenti e i venditori erano localizzati in zone assai distanti, anche a seguito dello sviluppo delle vie di comunicazione e dei trasporti, si afferma la piccola impresa mercantile. Questa è organizzata come un’impresa individuale, con il mercante imprenditore che direttamente svolge e conclude gli affari legati all’attività di commercio. Affermatasi prima nell’industria laniera e, più tardi, nell’industria tessile, l’impresa mercantile tramite il mercante imprenditore si occupa di acquistare la merce, di farla lavorare al domicilio di diversi artigiani, per poi ricevere il prodotto finito del cui smercio è responsabile. Questa forma di impresa svolge, dunque, un’attività di pura intermediazione commerciale consistente nella trasformazione di beni economici nel tempo e nello spazio attraverso, da un lato, l’approvvigionamento di beni economici da parte di produttori e di fornitori e, dall’altro lato, la commercializzazione dei beni economici ai clienti finali. Analogamente alla piccola impresa artigiana, il mercante imprenditore svolge una molteplicità di ruoli: è il soggetto che apporta la maggior parte dei capitali nell’impresa, sostiene il rischio della intrapresa economica, detiene il potere decisionale e di controllo, presta la propria opera all’interno dell’impresa e cura la conclusione degli affari. Nel XIV secolo, con l’ulteriore espansione del commercio internazionale, si affermano le grandi compagnie di commercio. All’inizio, queste compagnie nascono in seno alle famiglie che, oltre a sostenerle finanziariamente, sono responsabili in solido per tutte le obbligazioni sociali. Più tardi, nel XV secolo, in considerazione dei crescenti fabbisogni finanziari legati vuoi all’acquisto di grosse partite di merci vuoi ai crescenti costi di trasporto, la famiglia non è più in grado, da sola, di sopperire alle esigenze finanziarie dell’impresa. Queste esigenze sono, dunque, coperte sia con l’emissione di strumenti di debito, sia aprendo l’assetto proprietario a terzi soggetti. Le esigenze finanziarie delle imprese commerciali consentono il formarsi di nuovi attori economici quali gli intermediari finanziari, specializzati nella raccolta e nell’impiego di risorse monetarie a titolo di credito nelle imprese, e i capitalisti, ovvero soggetti specializzati nella fornitura di capitale di rischio. Parallelamente, stante i crescenti ri-


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schi connessi al trasporto delle merci da un luogo a un altro si sviluppano imprese che, a fronte del riconoscimento di una somma di denaro (denominato premio), hanno il compito di ristorare le società mercantili dagli effetti negativi connessi al verificarsi di eventi avversi. Si vengono a creare, dunque, le imprese di assicurazione. L’affermarsi delle grandi compagnie di commercio è sostenuta anche dall’evoluzione legislativa. In particolare, su concessione di un atto sovrano – che assume talora la forma di licenza, talaltra di patente, talaltra ancora di atto di incorporazione – la compagnia acquista una personalità giuridica autonoma, con il patrimonio dell’ente che si scinde da quello dei proprietari/capitalisti (la cosiddetta joint-stock nel diritto inglese), con questi ultimi che sono intestatari di prerogative e di diritti utilizzabili nell’ambito del governo dell’impresa. Si parla, in particolare, di socio-capitalista che svolge un ruolo di controllo e di indirizzo nell’impresa. I soci, per alzata di mano, nominano gli amministratori che sono responsabili della gestione e ai quali viene concessa una gratificazione solo quando gli affari vanno a buon fine, previo consenso dei soci stessi. Ogni socio/capitalista può consultare i libri della compagnia, visionare i contratti, rivedere i conti della gestione. Nell’assunzione delle principali decisioni concernenti l’impresa, i soci si riuniscono nella assemblea dei soci. In questa assemblea ogni socio ha diritto a un voto; diritto che può esercitare solo personalmente così come solo personalmente può ispezionare i libri sociali. Il socio ha, inoltre, diritto alla ripartizione periodica degli utili e al rimborso del capitale in caso di liquidazione (Williston, 1888; Evans, 1908).

1.6.3

L’impresa industriale

Con la rivoluzione industriale del XVIII e del XIX secolo si assiste alla sostanziale trasformazione dell’organizzazione dei processi di produzione. Come osservato da Aron (1962) la società industriale si qualifica come una «società in cui l’industria, la grande industria, sarebbe la forma di produzione più caratteristica […] viene introdotto un modo originale di divisione del lavoro […] e suppone un’accumulazione di capitale» (pagg. 7980). A ciò si affianca inoltre, come osservato da Masini (1964), «un gruppo di fattori di alto rilievo nel configurare la vita del mondo moderno che si connette alla spiccata tendenza alla sostituzione dell’intervento diretto dell’uomo nei processi di produzione sia in quelli di utilizzazione dei beni per consentirne il consumo ultimo» (pag. 2). Si va verso la standardizzazione dei prodotti e dei materiali, la semplificazione, la meccanizzazione delle lavorazioni e la specializzazione delle attività di lavorazione. La standardizzazione è un metodo con il quale si definiscono ex ante tipologie, dimensioni e caratteri qualificanti dei vari stadi dei processi di trasformazione nonché degli input e degli output utilizzati e ottenuti da tali processi. La standardizzazione consente, a latere, di trasformare sempre più la conoscenza, tipicamente tacita della bottega artigiana, in esplicita e, come tale, incorporata in codici, procedure e processi. Allo stesso tempo, la standardizzazione si accompagna alla semplificazione intesa come un procedimento rivolto a ridurre la varietà di approcci, metodi, tecniche e strumenti impiegati nell’ambito delle combinazioni produttive. In questa accezione, la semplificazione implica una riduzione della varietà tecnologica dell’impresa. La meccanizzazione riguarda infine la sostituzione del lavoro svolto prestato dagli uomini con lavoro svolto dalle macchine (Bethel, Atwater et al., 1950, pag. 178 e segg.). Con riferimento alla meccanizzazione, questa è favorita dalla comparsa di macchine con capacità produttive crescenti (per esempio il telaio per filare di Hargreaves del 1764 era composto da ben 156 000 fusi), in grado di utilizzare il vapore come fonte di energia in sostituzione del lavoro manuale. L’avvento delle macchine porta a concentrare il lavoro all’interno della fabbrica. In questo spazio i lavoratori svolgono compiti sempre più specifici, parcellizzati e

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caratterizzati dall’utilizzo di attrezzature funzionali al lavoro delle macchine. La macchina si affianca, dunque, alla divisione del lavoro che, come osservato da Smith (1904), con il ridurre il mestiere di ciascun uomo a qualche semplice operazione e col rendere questa operazione il solo affare della sua vita, necessariamente aumenta l’abilità dell’operaio. Parimenti, Babbage (1832) osserva che il principio forse più importante da cui dipende l’economia di una manifattura è la divisione del lavoro tra le persone che svolgono il lavoro stesso. L’affermarsi della fabbrica produce riflessi anche nei rapporti tra l’impresa, da un lato, e i consumatori, lavoratori e management, dall’altro. Per quanto attiene ai rapporti impresa-consumatori, i mercati di sbocco, grazie anche allo sviluppo dei nuovi mezzi di trasporto e comunicazione, assumono una dimensione sempre più estesa, anche a livello internazionale. Viene meno la produzione per commessa tipica delle imprese artigiane e si afferma la produzione per il mercato o per il magazzino. In sostanza, l’impresa prima produce i beni economici e poi successivamente questi beni sono oggetto di collocamento sul mercato. In altre parole, a differenza delle produzioni su commesse di terzi, l’impresa che produce per il magazzino «programma e svolge una produzione a flussi di beni le cui qualità e quantità siano la manifestazione di un’azione anticipatrice della domanda del mercato» (Fazzi, 1984, pag. 43). In ciò, il crescente distacco della produzione industriale dal consumo stimola lo sviluppo di imprese di trasporto e, in generale, di imprese mercantili chiamate a svolgere un ruolo di cerniera tra fabbrica e mercato finale del consumo (Merlani, 1952, pag. 37). La rivoluzione industriale segna, dunque, il passaggio alla cosiddetta produzione di massa che consiste «in un flusso continuo di prodotti omogeneo costituenti massa unica, oppure di unità di prodotti identici, o anche di parti diverse resi uniformi dopo una fase complessiva, e che l’impresa destina alla immissione nel processo della distribuzione» (Fazzi, 1958, pag. 11). Per quanto attiene i rapporti impresa-lavoratori, si viene a creare una separazione tra chi conferisce le prestazioni di lavoro (i lavoratori) e chi investe il capitale necessario ad apprestare i fattori tecnici della produzione a fecondità sia semplice sia ripetuta impiegati nell’ambito dei processi di produzione (i capitalisti). Si è osservato che «il lavoratore (e pertanto la persona umana) non può utilizzare le nuove tecniche di produzione (da cui dipende l’aumento della produttività e del benessere economico) se non può disporre di un capitale molto più rilevante di quello richiesto dalla società preindustriale e quello in genere richiesto nelle attività di piccole dimensione, specie se artigianali. Ora poiché questo capitale non è in genere posseduto dal lavoratore, quest’ultimo deve porsi in rapporto con chi, disponendo di un capitale non utilizzato, è in grado di consentire al lavoratore di svolgere una attività, di conseguire un reddito e quindi, in definitiva, di vivere» (Vaccà,1966, pagg. 513-514). Data la posizione di forza dei detentori del capitale, i lavoratori si inseriscono in un nuovo contesto nel quale le loro attività sono svolte in assoluta continuità sulla base di obiettivi, vincoli, regole e sottoposte alla supervisione e al controllo del management dell’impresa, sovente espressione diretta o indiretta degli stessi capitalisti (Taylor, 1993). Si afferma il management scientifico del lavoro e, conseguentemente, nella fabbrica si delinea il cosiddetto rapporto di lavoro dipendente. In questo tipo di relazione il lavoratore inizia a percepire gli oneri (condizioni di lavoro, sacrifici, disagi) e i benefici offerti (retribuzione, possibilità di crescita professionale). In aggiunta, il rapporto di lavoro dipendente induce una potenziale forma di dissociazione tra gli obiettivi dell’impresa e gli obiettivi dei lavoratori. L’individuo inserito nell’ambito della fabbrica perde di vista il complesso delle attività lavorative e il suo obiettivo diviene quello connesso all’assolvimento del compito specifico che gli è stato assegnato. Nella fabbrica l’obiettivo dell’organizzazione assume sem-


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pre minore significato per i lavoratori mentre diventa rilevante il rapporto tra l’organizzazione e il lavoratore. In questo quadro di rapporti di lavoro si creano i primi conflitti di classe e si affermano le prime posizioni che contrappongono il capitalista al lavoratore. L’emergere di questi conflitti spinge alcuni studiosi, in particolare Marx ed Engels (2002), a considerare l’impresa industriale quale strumento per l’espropriazione del valore prodotto dal lavoratore. L’impresa e, in particolare, la fabbrica è considerata come un luogo fisico in cui masse di lavoratori sono confinati e organizzati come soldati, posti al di sotto di una gerarchia di ufficiali e sergenti. I lavoratori non sono solo soggetti al controllo dell’impresa e del capitalista ma anche delle macchine che rappresentano il prodotto del capitale e gli strumenti attraverso i quali si realizza l’appropriazione del valore prodotto dal lavoratore da parte del capitalista. In altre parole, grazie alle macchine l’impresa può aumentare la produttività del lavoratore, ovvero il rapporto tra quantità di prodotto e ore lavorate. Tuttavia, alle macchine anziché al lavoratore viene imputato in tutto o in parte l’incremento di produttività, dando così vita al cosiddetto fenomeno di espropriazione del valore prodotto dal lavoratore da parte dell’impresa.

1.6.4

La grande impresa organizzata in forma di società di capitali

La rivoluzione industriale crea i presupposti per l’affermarsi della grande impresa organizzata sotto forma di società di capitali. Questa impresa si caratterizza per elevati investimenti specifici nelle attività di produzione, nel marketing, nella distribuzione e nelle reti commerciali di vendita. Parallelamente, nella grande impresa industriale si afferma, dunque, una condizione nella quale l’esercizio della funzione e del ruolo della proprietà dell’impresa non è più espressione monolitica e granitica di un soggetto (si pensi all’artigiano o al mercante imprenditore o al capitalista) o di un gruppo coeso di soggetti (si pensi a una famiglia) bensì di una varietà di attori caratterizzati da diverse qualificazioni e da specifici livelli di partecipazione alla vita aziendale. Si delinea così una prima forma di separazione tra la proprietà e il controllo che si accompagna a quella già analizzata tra i capitalisti (o anche proprietari) e i lavoratori. Da un lato, si colloca il soggetto (o il gruppo di soggetti) che – intestatario del capitale di comando, ovvero di quei titoli che gli permettono il controllo delle deliberazioni in seno alle assemblee dei soci – è in grado di esercitare un sostanziale potere di governo sull’impresa e sulla sua dinamica evolutiva. Dall’altro lato, si pone un altro gruppo di soggetti che, pur avendo conferito risorse a titolo di rischio dell’impresa, non disponendo del capitale di comando, sono di fatto esclusi dall’esercizio di tale controllo sull’impresa. Come osservato da Vaccà (1996) si delinea quindi una scissione tra la funzione creativa e sociale del capitale (prerogativa esclusiva del soggetto intestatario del capitale di comando) e la funzione acquisitiva o di consumo (svolta prevalentemente dai soggetti che non dispongono di detto capitale di comando). In taluni casi, il controllo dell’impresa si può anche scindere, in parte o in tutto (in presenza, per esempio, di gruppi di imprese in forma piramidale o di azioni senza diritto di voto o anche di azioni a voto multiplo) dalla mera partecipazione di un soggetto al capitale di funzionamento dell’impresa, facendo così emergere una sostanziale differenziazione del potere nel quadro dei conferenti del capitale e, allo stesso tempo, creando una frattura tra il controllo dell'impresa e l’assunzione del rischio. In secondo luogo, nell’impresa organizzata in forma di società di capitali emerge come centrale la figura del manager che svolge un ruolo di supervisione delle attività

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connesse alla produzione e alla distribuzione di beni economici e di allocazione dei fattori della produzione alle combinazioni produttive correnti nonché a quelle prospettiche, tenuti presenti i risultati correnti e la domanda futura (Chandler, 1990, pagg. 31-32). Più in generale, il manager si occupa delle funzioni di direzione e «svolge due tipi di compiti quando coordina, valuta e pianifica le attività dell’impresa: da una parte è responsabile della solidità a lungo termine della propria compagnia, dall’altra deve occuparsi dell’efficiente conduzione delle attività ordinarie» (Chandler, 1962, pag. 43). Nello stesso senso si è espresso Drucker quando considera che i manager sono intestatari di due ruoli ovvero sono responsabili di due doveri specifici. Il primo riguarda la creazione di un tutto il cui valore sia superiore alla somma delle parti. In questo senso, si rileva che «la figura del dirigente trova il suo analogo in quella del direttore d’orchestra, per merito del quale le parti dei singoli strumenti, che di per sé altro non sono che rumore, si integrano, originando un insieme che è musica viva. Il direttore d’orchestra ha, però, a sua disposizione la partitura del compositore. Lui non è che un interprete, mentre il manager è, al tempo stesso, compositore e direttore d’orchestra» (Drucker, 1954, pag. 353). Il secondo dovere è armonizzare le esigenze immediate dell’impresa con quelle di più lungo respiro. Si è riportato in proposito che «non si può sacrificare le une alle altre, senza mettere in pericolo l’impresa stessa. Un manager deve per così dire guardare dove mette i piedi e tenere d’occhio la meta a cui vuole arrivare» (Drucker, 1954, pag. 354). Nei sistemi capitalistici moderni la grande impresa concorre così all’affermazione di una classe di individui, il cosiddetto management, che, supportati da appropriati metodi e tecniche, assumono un ruolo centrale nel governo e nella gestione dell’impresa (Zanda, 2009). Con riferimento ai settori delle telecomunicazioni e dei trasporti ferroviari, Chandler (1990) osserva che «the massive investment required to construct those systems (telegraph and rail) and the complexities of their operations brought the separation of ownership from management. The enlarged enterprises came to be operated by teams of salaried managers who had little or no equity in the firm. The owners, numerous and scattered, were investors with neither the experience, the information, nor the time to make the myriad of decisions needed to maintain a constant flow of goods, passengers, and messages» (pag. 1). Oltre all’affermarsi della figura centrale del manager, nella grande impresa industriale la struttura organizzativa tende a incentrarsi su una tecno-struttura manageriale (Ceccanti, 1996), articolata sovente in organi di amministrazione e organi di direzione (Sciarelli, 1988, pag. 75 e segg.). Gli organi di amministrazione sono composti da attori che, sulla base di determinati poteri e deleghe decisionali, hanno il compito di definire gli obiettivi generali dell’impresa, prevedere, pianificare e predisporre i piani a medio e lungo termine, nominare i dirigenti e i quadri intermedi, coordinare le attività organizzative ed esercitare il controllo. Allo svolgimento delle richiamate attività concorrono sia momenti collegiali estesi nell’ambito del consiglio di amministrazione o ristretti nel contesto di comitati esecutivi o, anche, individuali quando posti in essere da un presidente o da un amministratore delegato. Agli organi di amministrazione si affiancano gli organi di direzione che svolgono il ruolo di cerniera tra le decisioni degli organi di amministrazione e le azioni e i processi operativi svolti nell’impresa. Gli organi di direzione concorrono, quindi, alla programmazione delle attività nonché al coordinamento e al controllo delle attività lavorative. Alle attività degli organi di direzione contribuiscono sostanzialmente il direttore generale, i direttori responsabili di unità organizzative definite a livello divisionale (prodotto, mercato ecc.) o funzionale (approvvigionamenti, produzione ecc.) o anche a livello di unità produttive (stabilimento, reparto ecc.).


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L’affermarsi della tecno-struttura manageriale, in relazione alla complessità raggiunta dall’organizzazione della grande impresa industriale e ai connessi fabbisogni di professionalità richiesti dal suo governo e dalla sua gestione, favorisce il nascere di una ulteriore forma di seprazione tra la proprietà e il controllo dell’impresa, affidato, quest’ultimo, al management (Panati, 1970; Nanut, 1984; Pilotti, 1988). La richiamata separazione tra proprietà e controllo viene inoltre sostenuta dalle innovazioni in materia di diritto societario. Nei Paesi avanzati i codici di commercio recepiscono la figura giuridica della corporation o società di capitali che si caratterizza per i seguenti aspetti: •

la personalità giuridica diventa frutto dell’autonomia privata e non più il portato di un atto di concessione sovrana; si afferma la separazione tra il patrimonio dell’impresa e quello dei proprietari-capitalisti, con questi ultimi che sono responsabili delle obbligazioni sociali, limitatamente al loro conferimento di mezzi finanziari a titolo di pieno rischio; gli interessi dei proprietari sono incorporati in un titolo che, a fronte di un investimento finanziario, conferisce al suo possessore un insieme di prerogative (per esempio, nominare e revocare gli amministratori, approvare il bilancio, esercitare azioni di responsabilità). Il proprietario assume la qualifica di azionista ovvero di portatore di un titolo di credito rappresentativo del capitale di rischio dell’impresa; i diritti di proprietà, incorporati in un titolo di credito, sono liberamente trasferibili. Si crea così un mercato per lo scambio dei titoli rappresentativi del capitale di rischio. Si è al riguardo osservato che i titoli azioniari «put on the market are this way subjected to an interminable process of valuation and revaluation on the basis of the firm presumptive earning-capacity, whereby it all assumes more or less character of intangibility» (Veblen, 1978, pag. 124). È importante sottolineare che la ‘mercificazione’ dei diritti di proprietà comporta, come osservato da Pacces (1974), che in passato il proprietario stesso «aveva un volto e un nome ben definiti. Anche quando non dirigeva personalmente l’impresa, sapeva bene cosa finanziava e soprattutto sapeva che il suo investimento rappresentava un immobilizzo per un periodo di tempo determinato». Nei tempi moderni, invece, il proprietario «è un ben più mobile investitore […] che non ha bisogno di farsi uomo e di munirsi di una laurea di dottore e di sedersi a un tavolo per dirigere la produzione» (Ferrer-Pacces, 1974, pagg. 366-367).

Nell'impresa organizzata in forma di società di capitali, in relazione alla separazione tra proprietà e controllo si delineano nuove opportunità, in particolare, «nella misura in cui chi dirige effettivamente l’impresa basa il suo potere su rapporti di impiego e non di capitale (professionalizzazione della direzione aziendale) si determina una conseguenza di particolare momento nel rapporto tra i conferenti il capitale e i prestatori di lavoro, nel senso che il suddetto rapporto tende a essere mediato ed integrato da quello fra direttori professionisti e prestatori di lavoro. La qualcosa è di notevole importanza non solo perché fa emergere sul piano dell’impresa il valore fondamentale del lavoro nel suo duplice aspetto di lavoro direttivo o di tipo imprenditoriale e di lavoro esecutivo, ma soprattutto perché la professionalizzazione del management stimola la sostituzione delle tradizionali motivazioni di ordine finanziario (che sono proprie dei conferenti di capitale) con motivazioni di tipo professionale, che possono favorire una maggiore consapevolezza nei dirigenti di una loro responsabilità sociale verso i lavoratori» (Vaccà, 1966, pag. 515). A ciò va aggiunto, in relazione alla formazione del sistema organizzativo, che quanto maggiore è la dissociazione tra proprietà e controllo nell’impresa «tanto più è probabile che questa sia governata nella consapevolezza che è un istituto la cui importanza trascende assai quella degli interessi della proprietà del capitale» (Coda, 1967, pag. 11).

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A fronte delle citate opportunità, la separazione tra proprietà e controllo porta con sè anche dei potenziali conflitti, in particolare quelli tra azionisti e management e tra azionisti di maggioranza e azionisti di minoranza (Saraceno, 1962, pag. 78) Con riferimento al rapporto tra azionisti e management, si osserva, quindi, che il management assume un ruolo centrale nell’azione di governo tanto che alcuni autori parlano di una nuova impresa manageriale che appare sempre meno espressione esclusiva degli organi di proprietà e sempre più espressione degli organi di amministrazione e di direzione a cui partecipano sovente manager e dirigenti professionali e specializzati. In buona sostanza, coloro che ricevono il trattamento preferenziale ma residuale nella distribuzione del reddito (gli azionisti) vanno perdendo il controllo diretto e, quindi, il governo e la gestione dei fattori della produzione pur restando esposti al rischio d’impresa, mentre i manager tendono a guadagnare il controllo di tali fattori della produzione pur restando nella sostanza immuni al richiamato rischio d’impresa, non essendo obbligati a conferire alcun capitale a titolo di rischio nell’impresa ed essendo la loro remunerazione di carattere non residuale. In tal senso, Berle (1959) rileva che «a relatively small oligarchy of men operating in the same atmosphere, absorbing the same information, moving in the same circles and in a relatively small world knowing each other, dealing with each other, and having more in common than in difference, will hold the reins. These men by hypothesis will have no ownership relation of any sort» (pag. 51). La separazione tra proprietà e controllo, può assumere significati e modi diversi, tanto che alcuni autori parlano anche di dissociazione della proprietà dalla proprietà. Al riguardo, Marris (1972) riporta che nella società di capitali il proprietario è intestatario di un insieme di diritti nella società, con gli azionisti che non sono i proprietari legali della società, né, in molti Paesi, dei profitti correnti prima della distribuzione. I proprietari possono non essere più espressione della volontà dell’impresa, con la capacità di influenza sull’impresa che diviene illusoria e abusiva: illusoria quando gli organi di amministrazione e di direzione dell’impresa godono, di fatto, di una grandissima autonomia di decisione; abusiva quando essi subiscono la legge di una minoranza, sovente occulta, detta di controllo. Le componenti dell’organo di amministrazione, in particolare, si cooptano tra loro liberamente, rendono conto in modo sommario a delle assemblee vuote e si sottomettono meno che sia ai suffragi dei portatori di titoli, praticando l’autofinanziamento (Block Lainé, 1968). Come evidenziato da Saraceno (1969), «salvo casi eccezionali, le votazioni nelle assemblee sociali non hanno alcuna portata pratica e si risolvono in periodiche e attese riaffermazioni di posizioni notorie» (pag. 103). La proprietà tutta, ovvero una parte sostanziale della stessa, tende non solo a non avere alcuna capacità amministrativa, di voto o di iniziativa di ogni tipo sull’impresa, ma addirittura non ha sostanzialmente alcuna possibilità di nominare o revocare gli amministratori. La proprietà o comunque una buona parte di essa tende ad assumere una fisionomia paragonabile a quella di un cliente che ha acquistato delle attese di futuri e di incerti flussi di ricchezza. In tale veste, oltre a non assumere alcuna delle tipiche funzioni proprietarie, i fornitori di capitale di rischio non hanno neppure le prerogative di cui sono intestatari i creditori, essendo i flussi di reddito loro destinabili solo eventuali e sperati (per una trattazione della partecipazione del socio nelle assemblee, cfr. Gatti, 1975). Con riferimento ai rapporti tra azionisti di maggioranza e azionisti di minoranza, si osserva che il capitale di rischio nelle moderne imprese capitalistiche organizzate in forma di società di capitali è suddiviso in quote rappresentate, ciascuna, da titoli liberamente negoziabili sul mercato. Anche se possono assumere configurazioni variegate, i titoli rappresentativi del capitale di rischio conferiscono ai loro possessori prerogative o diritti a contenuto patrimoniale sia diretto che indiretto. Tra i diritti patrimoniali diretti ricordiamo il diritto a ricevere una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione della società; il diritto di opzione nella sottoscrizione di azioni od obbligazioni conver-


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Capitolo 1

tibili; il diritto di recesso; il diritto di essere liberati dall’obbligo di eseguire i versamenti ancora dovuti sulle azioni non liberate, nel caso di riduzione del capitale per esuberanza dello stesso rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale; il diritto a trasferire le azioni a terzi dietro un corrispettivo. Tra i diritti a contenuto patrimoniale indiretti richiamiamo, senza pretesa di esaustività, la partecipazione all’assemblea dei soci e l’esercizio del diritto di voto; il diritto di richiedere la convocazione dell’assemblea; il diritto di intervento alle assemblee; il diritto di impugnazione delle delibere assembleari; la nomina e la revoca degli amministratori; il diritto di denunciare al collegio sindacale fatti ritenuti censurabili; il diritto di prendere visione del libro soci, dei libri delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee. A fronte dei diritti appena citati, il proprietario ha anche degli obblighi, tra i quali quelli di conferire le risorse finanziarie a titolo di pieno rischio e di non esercitare il diritto di voto nei casi in cui il socio abbia, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con l’impresa. Rispetto al primo obbligo, nostro ordinamento giuridico, l’emissione e l’intestazione in capo a un soggetto di titoli rappresentativi del capitale di rischio richiedono che lo stesso abbia conferito nell’impresa un capitale di rischio che resta soggetto alle alee della gestione; conferimento che, occorre sottolineare, può originare sia nella fase di costituzione dell’impresa (cosiddetto conferimento iniziale) sia nella fase di successiva operatività dell’impresa (in conseguenza di deliberati aumenti di capitale). L’aumento del capitale, osserva Fazzi (1984), esige «quando appena esista separazione fra proprietà del capitale e governo di impresa, una linea concordata con i rappresentanti più qualificati del capitale […] tutto ciò al fine di giungere al sicuro e totale collocamento delle azioni di nuova emissione», limitando così il rischio che detta emissione possa creare uno «spostamento dell’equilibrio delle forze proprietarie, con effetti sugli stessi indirizzi generali dell’impresa» (pag. 75). Successivamente al conferimento del capitale di rischio, si instaura un rapporto continuo tra il fornitore di risorse a titolo di pieno rischio e l’impresa. Questo rapporto può terminare o con il recesso del socio o con la cessione a terzi dei titoli di cui lo stesso è possessore. Prescindendo dagli obblighi a cui sono soggetti gli azionisti, l’esercizio dei diritti amministrativi è condizionato, stante il principio maggioritario che informa il funzionamento delle assemblee dei soci, dal numero di azioni possedute da ciascun soggetto. Considerando il numero di azioni possedute, si possono distinguere, come già osservato, i cosiddetti azionisti di maggioranza (o anche di controllo) – detengono la maggioranza assoluta delle azioni ovvero un numero di azioni che consente loro di esercitare nei fatti un’influenza dominante sull’impresa – dagli azionisti di minoranza che, in considerazione delle azioni possedute della società, non hanno modo di esercitare altra attività se non quella di ottenere eventuali dividendi che originano dalla distribuzione di utili di esercizio. In merito alla figura dell’azionista di maggioranza e dell’azionista di minoranza si parla, rispettivamente, anche di capitale di comando e capitale di controllo dove, per il primo, si intende il capitale posseduto da azionisti interessati alla gestione e nominalmente detentori della maggioranza di capitale; per il secondo si intende il capitale posseduto da azionisti di due categorie: quelli interessati alla gestione, ma esclusi dal comando, in quanto possessori di meri pacchetti di minoranza, e quelli non interessati alla gestione, come i risparmiatori acquirenti di azioni nel mercato azionario (Panati e Golinelli, 1991). Il capitale di comando può assumere forme diverse in relazione al possesso della maggioranza assoluta delle azioni con diritto di voto, che conferisce un pieno potere di indirizzo e di controllo delle dinamiche evolutive dell’impresa o al possesso di azioni che conferiscono comunque una maggioranza relativa la quale, nei casi di elevata polverizzazione del capitale, può anche assumere dimensioni limitate.

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Capitolo 1

Gli assetti strutturali della proprietà

Approfondimento 1.5

L’esercizio delle prerogative della proprietà nell’impresa dipende anche dall’assetto proprietario. In proposito, si delineano le seguenti configurazioni (Golinelli, 2012, con particolare riferimento al Capitolo 6): •

impresa a controllo proprietario forte, caratterizzata dalla presenza di una proprietà stabile, coesa e intenzionata a svolgere un ruolo significativo nel governo dell’impresa; impresa a controllo proprietario debole, nell’ambito della quale si individuano due fattispecie. Una prima, contraddistinta dall’assenza di un capitale di comando, in relazione all’estremo frazionamento del capitale di rischio. Una seconda, caratterizzata dalla presenza nella compagine proprietaria dei cosiddetti investitori istituzionali in grado di esercitare una certa influenza sulla dinamica imprenditoriale.

L’impresa a proprietà forte è tipica delle realtà imprenditoriali in cui gli azionisti svolgono un ruolo di rilievo, influenzando direttamente le scelte strategiche e talora tattiche dell’impresa stessa. Simili fattispecie si riscontrano sovente nelle cosiddette imprese familiari, realtà economiche in genere di piccole o di medie dimensioni condotte in forma individuale, caratterizzate dalla presenza pervasiva del (o dei) fondatori o dei loro successori (sul tema del governo delle imprese familiari, anche in periodi di crisi, si veda Minichilli, Brogi et al., 2015). L’impresa in oggetto, inoltre, si rileva nelle imprese capitalistiche (società di capitali e, segnatamente, le società per azioni) in cui si determina la presenza di un nucleo di comando relativamente stabile e forte. In questi casi, scopo della proprietà è quello di conseguire un livello di profitto tale da ripagarla del rischio corso nello svolgimento dell’attività imprenditoriale. Trattasi, in genere, di uno scopo perseguito nel medio-lungo termine che, di fatto, orienta e pervade tutta l’attività d’impresa, dominata e guidata dalla figura dell’imprenditore che si identifica, appunto, nella proprietà. Nelle imprese suddette è agevole inoltre notare come, non di rado, i profitti ottenuti in determinati periodi amministrativi vengano reinvestiti nell’impresa, onde finanziare processi di sviluppo che garantiscano alla proprietà anche prestigio e potere sociale. Il modello dell’impresa a controllo proprietario debole si determina, in primo luogo, in corrispondenza delle grandi realtà imprenditoriali affermatesi nel capitalismo anglosassone (large corporation e public company), in cui i titolari del capitale di rischio (azionisti), in virtù dell’elevato frazionamento, non sono in grado di esercitare i poteri di iniziativa, decisione e controllo. La polverizzazione del capitale, infatti, non consente la formazione di una volontà maggioritaria da cui deriva il trasferimento delle funzioni di iniziativa, decisione e controllo alla tecno-struttura manageriale. L’incapacità e l’impossibilità di esercitare il controllo conferisce al management poteri pressoché assoluti e la possibilità di svolgere un ruolo predominante di indirizzo della dinamica imprenditoriale. Agli azionisti non resta che il residuo dei contenuti del ruolo imprenditoriale, e cioè il finanziamento e l’assunzione del rischio: il capitale viene di fatto a essere interamente controllato dal management il quale, paradossalmente, non detiene alcuna titolarità del capitale di rischio (sui rapporti tra proprietà e management, si veda anche Esposito de Falco, 2014).


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Capitolo 1

Nell’ambito dell’impresa a controllo proprietario debole si colloca anche un’altra fattispecie, diffusa anche essa nel capitalismo anglosassone, che si riferisce all’impresa manageriale. In questa impresa è possibile osservare significative aggregazioni di azionisti i quali, pur capaci di esercitare pressioni rilevanti, non qualificano in maniera significativa il soggetto economico dell’impresa ovvero il suo organo di governo. Le caratteristiche di questo modello sono simili a quelle dell’impresa manageriale perfetta: la grande dimensione (si tratta sempre di large corporation o di public company), un azionariato diffuso e il potere di indirizzo affidato al management. Se ne distacca, tuttavia, per la presenza, nella compagine proprietaria, dei cosiddetti investitori istituzionali, quali i fondi pensione, i fondi comuni di investimento, le merchant bank, le compagnie di assicurazione e così via. Gli investitori istituzionali costituiscono soggetti di particolare rilievo, poiché svolgono un ruolo centrale nell’attività intermediatrice dei capitali esterni, tipica espressione del sistema finanziario. Gli investitori istituzionali fungono da collettori del piccolo risparmio, il quale viene successivamente investito nel capitale di rischio di particolari imprese, ritenute particolarmente appetibili sotto il profilo del rischio-rendimento. Ne deriva che essi agiscono in qualità di mandatari degli investitori individuali, in vista di assicurare loro un adeguato rendimento dell’investimento effettuato. Essi, tuttavia, agiscono secondo proprie logiche economiche e finanziarie, maturando essi stessi – nei confronti dell’impresa nella quale investono il denaro raccolto – aspettative e attese che vengono proiettate sull’impresa. Nella realtà, gli investitori istituzionali sono poco propensi a intervenire nelle vicende gestionali dell’impresa, in quanto considerano quest’ultima all’interno di un portafoglio di investimenti comprendente molteplici possibilità di allocazione dei capitali. Gli investitori istituzionali, in altri termini, a motivo dell’ampia diversificazione del proprio portafoglio di investimenti, tendono a perseguire una logica puramente finanziaria, privilegiando le attese di rendimento, in particolare di breve termine. Il disinteresse verso le modalità gestionali della specifica impresa in cui sono allocati i capitali e il comportamento secondo logiche finanziarie tendenti a privilegiare risultati di breve periodo, tuttavia, non significano mancanza di capacità di esercizio di pressioni. La proiezione dei suddetti scopi sul sistema impresa non di rado è accompagnata da alcuni meccanismi di regolazione attivati in casi particolari. In un recente passato e sempre più in prospettiva, gli investitori istituzionali tendono, infatti, a esercitare poteri di controllo e di influenza particolarmente significativi sulla dinamica evolutiva del sistema impresa. Nel qualificare gli assetti strutturali della proprietà è necessario richiamare anche la partecipazione dei lavoratori (conseguita mediante l’assegnazione a loro di azioni o quote del capitale sociale) i quali, in questo ambito, potrebbero svolgere, con le opportune cautele e senza far venire meno l’unità di comando e l’ordine gerarchico dell’impresa, un primario ruolo nel quadro del governo dell’impresa «sia per la posizione di contrasto che, a differenza degli azionisti [segnatamente quelli di minoranza], i lavoratori assumerebbero in confronto del gruppo di comando, sia per la maggiore conoscenza che i lavoratori dei vari gradi avrebbero dei problemi aziendali […]. Le accennate assemblee potrebbero così divenire strumenti di controllo dell’attività dei capi non proprietari, non di rado inclini a far dell’azienda uno strumento di potenza personale» (Saraceno, 1969, pag. 104).

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Capitolo 1

Stante le differenze tra capitale di comando e capitale controllato, ai possessori del primo spettano le caratteristiche competenze in materia di impulso, indirizzo e di supervisione sulla dinamica evolutiva dell’impresa. In questo senso, gli azionisti di maggioranza concorrono a esprimere il cosiddetto soggetto economico, cioè colui che ha il potere di determinare le finalità e gli indirizzi aziendali, esercitando un controllo di tipo finanziario e strategico, cioè un potere di indirizzo e di controllo (Airoldi, Brunetti et al., 1994). Gli azionisti di minoranza assurgono invece molto spesso al ruolo di meri finanziatori dell’attività imprenditoriale, soprattutto quando gli stessi siano espressione di piccoli risparmiatori tra i quali non siano ravvisabili sostanziali momenti di aggregazione. Non appare inutile osservare che, alla luce delle considerazioni svolte in merito al distinguo tra capitale di comando e capitale controllato, ove gli azionisti di controllo siano portatori di interessi specifici e di motivazioni diverse da quelle degli azionisti di minoranza. Al riguardo, Coda (1967) mette in risalto che «coloro che detengono il capitale di controllo non sono soltanto interessati ad una congrua remunerazione dei mezzi investiti, ma sono anche portatori di altri interessi, spesso di maggiore peso rispetto ai primi, che si connettono appunto all’esercizio del supremo governo dell’azienda e che si possono enunciare richiamandosi alla volontà di esplicare le proprie attitudini imprenditoriali e di conseguire lauti compensi solitamente corrisposti per prestazioni di notevole impegno; al desiderio di conservare il controllo dell’azienda e di mantenere l’eminente posizione che nella società moderna viene riconosciuta agli alti dirigenti di importanti imprese e via dicendo» (pagg. 9-10). Le richiamate divergenze si ampliano, potendo assumere anche tratti patologici, soprattutto quando gli azionisti di controllo gestiscono imprese concorrenti o complementari con quella in oggetto e, quindi, perseguono un obiettivo di reddito riferito al complesso delle imprese partecipate. Gli azionisti di controllo potrebbero così porre in essere azioni i cui effetti potrebbero comportare conseguenze anche negative per gli azionisti di minoranza. Per esempio, il trasferimento di prodotti e, o di servizi a prezzi favorevoli da un’impresa a un’altra per sfruttare particolari opportunità di mercato potrebbe essere conveniente nell’ottica del reddito complessivamente prodotto dalle imprese in oggetto anche se il reddito specifico dell’impresa trasferente potrebbe temporaneamente ridursi (Cassandro, 1962). In proposito, Villa (1882) rileva che «gli abusi più gravi ai quali aprono l’adito frequentemente le società per azioni sono i seguenti: l’atto pel quale si costituisce una società è dettato il più delle volte dallo stesso gerente e senza alcuna controlleria, contiene soltanto ciò che al gerente piace ed interessa di introdurvi. Qualche volta egli esagera il valore della propria quota messa in società; nell’atto costitutivo della società si dà per sussistente il capitale in una cifra rilevante, sebbene non sia ancora stato sottoscritto [o versato]. Poi si usa e si abusa della pubblicità e, mettendo sotto gli occhi del pubblico quel grosso capitale, si fanno concorrere i capitalisti all’acquisto delle azioni; si garantisce un interesse fisso, qualunque sia per essere la riuscita dell’intrapresa e sotto la denominazione di dividendi anticipati, si distribuiscono quote di capitale agli azionisti» (pag. 193). In conclusione, l’affermarsi della moderna impresa organizzata sotto forma di società di capitali fa emergere potenziali divergenze e conflitti di interesse tra azionisti e management e tra azionisti di controllo e azionisti di minoranza. In presenza di questi conflitti si formano i cosiddetti costi di agenzia che generalmente concorrono negativamente alla formazione del reddito di impresa, essendo gli stessi espressione di fattori della produzione distratti dagli usi produttivi. La riduzione di tali costi, mediante opportuni meccanismi di governance, rappresenta un aspetto di fondamentale rilevanza nell’economia delle grandi corporation (Burnham, 1946; Berle, 1959; Mason, 1960; Saraceno, 1962; Vaccà, 1966; Jensen e Meckling, 1976; Berle e Means, 2002).


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Capitolo 1

Peraltro, in talune condizioni, l’emergere dei richiamati conflitti può essere limitato o, al limite, annullato. In particolare, questa ultima proposizione è vera se: •

• •

si esclude l’idea che il proprietario-azionista svolga la funzione tipica dell’imprenditore, funzione che, nelle sue due componenti di governo dell’impresa e di assunzione del rischio, viene svolta in maniera diffusa nell’impresa; l’impresa è soggetta alla disciplina della concorrenza, disciplina che forza i manager ad attentamente governare l’impresa e controllare i suoi risultati; i manager sono sottoposti al controllo ovvero sono attenti alle opportunità connesse all’offerta dei loro servizi nell’ambito dei mercati del lavoro presenti nei contesti interno ed esterno dell’impresa.

Nelle condizioni appena richiamate, si avrebbe, dunque, una sostanziale irrilevanza della proprietà rispetto all’impresa e alla sua dinamica evolutiva e nessun conflitto sarebbe ravvisabile tra azionisti e manager (Fama, 1980). L’evoluzione del capitalismo segnata dal passaggio dall’impresa artigiana alla grande impresa industriale organizzata in forma di società di capitali non sembra conclusa. Si parla, in particolare, di economia delle reti che, sospinta anche dalle moderne tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni e dai progressi nei sistemi di raccolta dei dati (big data) nell'intelligenza artificiale e nella robotica, segna l’affermarsi di modelli produttivi modulari e ricchi di intelligenza diffusa che rendono possibile, da un lato, il disaccoppiamento tra le fasi di disegno del prodotto e della sua produzione, e dall’altro lato, consentono la conveniente dispersione delle attività manifatturiere in diverse unità produttive, non necessariamente facenti capo a un’impresa. Talora anche le attività di innovazione, tipicamente confinate nell’ambito degli uffici di ricerca e sviluppo di un’impresa, si frammentano e si disperdono per accogliere idee provenienti da individui che sovente non sono parte dell’impresa. La grande impresa integrata si disintegra e si deverticalizza, decentrando la propria produzione (e anche le sue attività di ricerca e sviluppo) su più unità produttive e decisionali. Si delineano, inoltre, possibili processi di sostituzione tra lavoro e macchine, anche in attività a elevata complessità, e, allo stesso tempo, si affievolisce la linea di demarcazione tra lavoratore e imprenditore, con il primo che sempre più si ‘imprenditorializza’. Parallelamente, si delineano forme nuove di coordinamento, diverse dai mercati e dalla grande impresa integrata e basate su nuovi rapporti vuoi tra individui nell’ambito di reti sociali vuoi tra individui e macchine in contesti di intelligenza diffusa vuoi tra individui e imprese nel quadro di percorsi di condivisione di obiettivi, di decisioni e di fattori delle produzione (Rullani e Rullani, 2018, pag. 15). Nell’economia della conoscenza, utilizzando le parole di Rullani (2004), si ha che «le persone sostituiscono – come protagonisti soggettivi dello sviluppo economico – gli individui. E il legame sociale delle reti comunitarie, con la sua complessità di interazioni e di significati, sostituisce il meccanismo impersonale del mercato. Individui e mercati rimangono attivi ma non operano più in uno spazio astratto, privo di altre caratteristiche. Al contrario, il loro lavoro viene prestato nello spazio incurvato delle reti personali e dal legame sociale» (pag. 121). I richiamati aspetti assumono peraltro rinnovato interesse alla luce dell’evoluzione della economia della conoscenza in una economia digitale che, caratterizzata dal «pervasivo impiego di macchine e algoritmi che hanno perso la rigidità standardizzante e replicativa del passato, sta cambiando i modi di fare impresa, di svolgere le funzioni manageriali, di dare senso al consumo e alle relazioni sociali. I dispositivi digitali di oggi diventano sempre più capaci di interagire con le nostre idee e capacità, fornendoci servizi sempre più flessibili, personalizzati, collaborativi. Cambiano i modi di generare valore, mettendo insieme economia del gratuito (free), condivisione (sharing economy), globalizzazione (global value chain), trasformazione dei business model e perfino dei prodotti (servitization) in una

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Capitolo 1

nuova economia in cui le piattaforme digitali facilitano le relazioni tra persone, imprese e territori, da un lato, e dall’altro le controllano in regimi di quasi monopolio» (presentazione del testo di Rullani e Rullani, 2018, pag. 1).

Approfondimento 1.6

Individui e mercati Nel capitalismo delle reti assume una rinnovata centralità l’individuo e i suoi sentimenti di fiducia, benevolenza, affetto, amore. I sentimenti diventano il collante ovvero il meccanismo che alimenta e sospinge, facilitandolo, il processo di trasferimento dei fattori della produzione e, in particolare, della conoscenza. La ritrovata centralità dell’individuo e dei suoi sentimenti apre tuttavia degli interrogativi circa le possibili conseguenze per il funzionamento generale del sistema economico. In particolare, i sentimenti degli individui si sviluppano soprattutto nell’ambito di relazioni con persone care, siano esse familiari o amici, mentre difficilmente emergono quando si hanno di fronte persone sconosciute. Un creativo così come un individuo facoltoso che possiede determinati fattori della produzione, quando motivati da affetto e da benevolenza, potrebbero favorire i propri amici o la propria famiglia, cedendo a loro una parte o tutti i propri beni economici, anche a condizioni di favore. Così facendo, però, l’individuo sta di fatto impedendo ad altri soggetti di accedere a fattori della produzione che questi ultimi avrebbero potuto combinare in modi tali da consentire la produzione di beni economici di maggior valore. La centralità dei sentimenti degli individui si scontra, dunque, con le esigenze di coordinamento. Il mercato quale istituzione per coordinare le interazioni tra individui si colora di nuovi tratti di interesse. Enfatizzando l’individuo, i suoi interessi personali e la ricerca della soddisfazione dei bisogni con il minimo mezzo, il mercato rende i sentimenti di fiducia, benevolenza, affetto e amore meno importati ovvero non essenziali per la conclusione degli scambi. Conseguentemente, i mercati garantiscono anche agli individui che sono sconosciuti, poco importanti o anche scarsamente attrattivi di vedere soddisfatti i propri bisogni in misura tendenzialmente simile ad altri soggetti, considerati in genere come familiari, importanti e attrattivi (per un’ampia discussione si veda Coase, 1976). Nell’ambito di uno scambio non è importante se la controparte sia familiare o meno bensì che da tale scambio un individuo possa soddisfare i propri interessi con il minimo sforzo. Il mercato, dunque, è l’unico meccanismo che consente di mantenere viva negli individui la loro «propensity to barter, truck and exchange one thing for another» (Smith, 1904, pag. 7). Propensione allo scambio che è un fattore essenziale per sostenere la divisione del lavoro e allo stesso tempo per garantire il coordinamento delle attività produttive. Le esigenze di coordinamento vengono, quindi, preservate riportando, attraverso il mercato, l’individuo a persona orientata a perseguire nello scambio i propri interessi mediante il minimo sforzo. Ragionando di converso, nessuna possibilità di coordinamento tra gli individui sarebbe possibile in un sistema nel quale manca il motivo del guadagno o il fine del lucro individuale, è assente il principio di proprietà privata dei beni economici e si sviluppano istituzioni le cui logiche di comportamento sono informate anche da motivi di carattere extra-economico. Nonostante quanto appena affermato, appare legittimo chiedersi se divisione del lavoro e coordinamento possono coesistere anche in sistemi informati da logiche diverse da quelle economiche tipiche dei mercati.


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Capitolo 1

Al riguardo, Polanyi (1944) sembra offrire una risposta affermativa al quesito appena formulato, osservando che «the answer is provided in the main by two principles of behavior not primarily associated with economics: reciprocity [i. e., today’s giving will be recompensed by tomorrow’s taking] and redistribution [i. e., there is an intermediary in the person of the headman or other prominent member of the group; it is he who receives and distributes the supplies, especially if they need to be stored]. Reciprocity and redistribution are able to ensure the working of an economic system without the help of written records and elaborate administration only because the organization of the societies in question meets the requirements of such a solution with the help of patterns such as symmetry [i. e., social subdivisions that lends itself to the pairing out of individual relations and thereby assists the give-and-take of goods and services], centricity [i. e., the headman of a village or another central official] […] As long as social organization runs in its ruts, no individual economic motives need come into play; no shirking of personal effort need be feared; division of labor will automatically be ensured; economic obligations will be duly discharged; and, above all, the material means for an exuberant display of abundance at all public festivals will be provided. In such a community the idea of profit is barred; higgling and haggling is decried; giving freely is acclaimed as a virtue; the supposed propensity to barter, truck, and exchange does not appear. […] An intricate time-space-person system covering hundreds of miles and several decades, linking many hundreds of people in respect to thousands of strictly individual objects, is being handled here without any records or administration, but also without any motive of gain or truck. Not the propensity to barter, but reciprocity in social behavior dominates. Nevertheless, the result is a stupendous organizational achievement in the economic field» (pag. 47-48 e 50). L’Autore richiamando esperienze diverse, qui omesse per ragioni di spazio, suggerisce, pertanto, la possibilità di conciliare le esigenze della persona di restare individuo in senso pieno, con i suoi sentimenti di fiducia, benevolenza, affetto, amore, con le esigenze della divisione del lavoro e con la conseguente necessità di mantenere il coordinamento delle azioni individuali, coordinamento che nella formulazione proposta si basa su aspetti quali, per esempio, la reciprocità e la redistribuzione piuttosto che sui meccanismi dei prezzi e degli scambi e dalla correlata ricerca di redditi da conseguire, nell’ottica di soddisfare un proprio interesse.

1.7

L’impresa in chiave dimensionale

Un’altra chiave di lettura attraverso la quale indagare l’impresa è quella dimensionale (Amaduzzi, 1966). Il concetto di dimensione richiama la grandezza, ovvero la forma di un determinato oggetto. Quando il concetto di dimensione è applicato a oggetti materiali, come per esempio a un tavolo, l’indeterminatezza è minima. Quando invece è riferito all’impresa, il concetto di dimensione diventa incerto, rispetto alle misure utilizzabili, e variante nel tempo, in relazione allo stadio di sviluppo dell’impresa e alle caratteristiche dell’ambiente in cui l’impresa stessa opera (Nanut, 1984). Il concetto e le misure a base della dimensione dell’impresa sono inoltre influenzati dalle finalità conoscitive dei soggetti che a tale istituzione sono interessati, quali, per esempio, un responsabile di politica industriale, spinto dalla definizione del perimetro degli interventi di sviluppo per particolari classi di imprese; un ricercatore, interessato a indagare uniformità nel campo dei fenomeni imprenditoriali; un manager di un’impresa bancaria, attento a valutare la diversa attitudine delle imprese a rimborsare i finanziamenti ottenuti; un decisore di una impresa indu-

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striale, attento alle esigenze di crescita della propria organizzazione imprenditoriale. I criteri di base per la misurazione della dimensione possono inoltre variare in funzione delle tipologie di attività produttive svolte e dello stadio del ciclo di vita nel quale le imprese sono collocate (Zappa, 1956, pag. 327 e segg). Rispetto all’oggetto, la dimensione può essere sostanzialmente riferita alle unità produttive, cogliendo così l’ampiezza della scala produttiva dell’impianto; alle unità decisionali, qualificando così la dimensione complessiva dell’impresa; e, infine, ad aggregati di unità decisionali, quali le imprese afferenti un gruppo di imprese, qualificando così la dimensione del complesso economico costituito da più imprese (Panati e Golinelli, 1991). Rispetto alla grandezza e alla forma, la dimensione viene misurata attraverso l’impiego di variabili quantitative ovvero mediante il ricorso a tratti qualitativi.

1.7.1 Gli approcci quantitativi Nell’ambito degli approcci quantitativi una prima variabile considerata nella misurazione della dimensione di impresa è il numero di addetti, ovvero il numero medio di addetti, a tempo determinato o indeterminato, iscritti nei libri matricola dell’impresa durante un determinato periodo (solitamente l’anno). Questa variabile presenta dei limiti giacché risente delle caratteristiche dei processi produttivi e del loro grado di meccanizzazione. In tal senso, un’impresa potrebbe apparire più piccola di un’altra in termini di addetti solo perché la prima, a differenza della seconda, ricorre all’esternalizzazione di alcune fasi di produzione e impiega processi produttivi a elevata automazione che richiedono una minore quantità di lavoro per unità prodotta. Una seconda variabile quantitativa è il capitale investito che è sovente riferito, come osservato, alla somma delle attività dello stato patrimoniale. Anche questa variabile presenta dei limiti poiché è influenzata dalle pratiche contabili adottate dalle imprese (si pensi ai cosiddetti annacquamenti di capitale nelle imprese organizzate in forma di società di capitali o agli interventi di svalutazione e rivalutazione dei fattori della produzione dell’impresa), risente dell’inflazione, che, ove crescente, contiene il significato dei valori storici ai quali sono iscritte le diverse voci dello stato patrimoniale, e, infine, trascura i fattori produttivi immateriali, come la conoscenza, l’immagine, la reputazione, che spesso non sono indicati nei bilanci di esercizio. In aggiunta il totale del capitale investito non rende nemmeno conto della sua composizione e, in particolare, un’impresa che ha rilevanti liquidità potrà apparire di dimensioni maggiori di un’altra impresa che pur disponendo di un ammontare di attività immobilizzate pari alla prima non presenta uno stesso livello di liquidità. Una terza variabile quantitativa è il totale delle quantità prodotte da un’impresa in un determinato periodo. Questa variabile ha la natura di un flusso ed esprime l’utilizzo del capitale fisso e circolante a fini produttivi. Secondo le finalità conoscitive, questa variabile può essere espressa in termini di quantità vendute di prodotti finiti, quantità complessivamente prodotte di prodotti finiti (che comprende quelle vendute e quelle in attesa di esserlo) e quantità complessivamente prodotte di prodotti finiti e di semilavorati. I limiti di questa variabile sono da ricercare nell’impossibilità di confrontare tra loro attività produttive eterogenee. Si considerino, per esempio, le difficoltà di comparare un’unità produttiva che produce aerei con una che realizza bulloni. Si pensi ancora alle problematiche associate alla misurazione della quantità prodotta di un’unità decisionale alla quale afferiscono due unità produttive destinate, rispettivamente, alla produzione di beni di largo consumo e alla prestazione di servizi di assicurazione. Un’alternativa all’uso delle quantità prodotte per misurare la dimensione dell’impresa consiste nell’esprimere dette quantità in valori, moltiplicando ciascuna


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unità prodotta per il suo prezzo unitario. Il fatturato (quantità vendute moltiplicate per il prezzo unitario) o il valore della produzione (quantità prodotte moltiplicate il prezzo unitario) sono tipici indicatori di dimensione aziendale. Si noti che nella prassi questa grandezza flusso viene considerata al netto degli sconti e delle imposte e tasse direttamente connesse alle attività di vendita. Trasformando le quantità in valori si facilita la comparabilità tra imprese nel tempo e nello spazio. Tuttavia, la dimensione viene ora a dipendere dal livello dei prezzi che è legato, a sua volta, agli andamenti macroeconomici (per esempio, l’inflazione) e alla dinamica competitiva. In aggiunta, il fatturato o il valore della produzione sono anche influenzati delle condizioni mercatistiche, quali, per esempio, la dimensione del mercato servito e il numero di imprese presenti nel mercato. In tal senso, un’impresa potrebbe apparire più piccola di un’altra in termini di fatturato solo perché questa opera in un mercato ristretto e nel quale prevalgono prezzi dei prodotti contenuti. Una quarta variabile quantitativa è il valore aggiunto, ovvero la differenza tra il fatturato e i costi esterni di produzione. Questa grandezza oltre a presentare tutti i limiti già richiamati per il fatturato e per il valore della produzione risente anche del grado di integrazione verticale. In particolare, un’impresa potrebbe apparire di dimensione inferiore a un’altra solo perché la prima acquista materie prime e semilavorati dall’esterno mentre la seconda svolge la gran parte delle operazioni produttive nel proprio contesto interno. Stante i limiti di ciascuna grandezza elementare nel catturare correttamente la dimensione dell’impresa, la prassi suggerisce di utilizzare congiuntamente più criteri. Per esempio, la Commissione Europea ha introdotto, mediante la raccomandazione 2003/361/CE del 6 maggio 2003, la distinzione tra micro-impresa (meno di 10 occupati e, un fatturato annuo oppure, un capitale investito non superiore a 2 milioni di €), piccola impresa (meno di 50 occupati e un fatturato annuo, oppure, un capitale investito non superiore a 10 milioni di €) e media impresa (meno di 250 occupati e, un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di €, oppure un capitale investito non superiore a 43 milioni di €).

1.7.2 Gli approcci qualitativi La dimensione dell’impresa può essere letta anche con riferimento a criteri di carattere qualitativo (Panati e Golinelli, 1991). Nella prospettiva qualitativa, così come riportato in Figura 1.2, il distinguo tra impresa artigiana e piccola impresa industriale si basa sul grado di automazione e di standardizzazione delle combinazioni produttive. In sostanza, mentre l’impresa artigiana fonda i suoi processi produttivi sul lavoro manuale e sull’estro dell’artigiano stesso, la piccola impresa industriale si qualifica per un’organizzazione della produzione basata sulla fabbrica. Il lavoro manuale lascia il posto alle macchine e l’estro dell’artigiano alla standardizzazione della produzione. La differenza tra piccola impresa e media impresa si basa sul grado di articolazione e di strutturazione dell’organizzazione aziendale. La piccola impresa si qualifica per un’organizzazione sostanzialmente centrata sulla figura dell’imprenditore. La centralizzazione delle decisioni è elevata e conseguentemente la delega decisionale è ristretta, così come limitata è l’articolazione della struttura organizzativa. Di contro, la media impresa si contraddistingue per una struttura organizzativa nella quale il lavoro direttivo si articola in unità organizzative di primo livello alle quali afferiscono, in posizione di dipendenza gerarchica, altre unità organizzative caratterizzate da gradi crescenti di specializzazione e di articolazione. Alle varie unità organizzative sono assegnate deleghe decisionali cosicché il potere decisionale, anziché essere accentrato nelle mani dell’imprenditore, tende a diffondersi nell’ambito della struttura organizzativa dell’impresa.

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Dimensioni

Produzione

Artigiana

Artigiana

Organizzazione

Potere di mercato

Ambito di operatività

Nessuno

Locale

Scarsamente strutturata Piccola Scarso Media

Nazionale Industriale

Grande

Multinazionale

Ben strutturata

Elevato Struttura complessa

Sovranazionale

Figura 1.2 La dimensione dell’impresa in ottica qualitativa. Fonte: adattata da Panati e Golinelli (1991).

La distinzione tra media impresa e grande imprese si basa sul differente potere di mercato. In buon sostanza, grazie alla dimensione della sua scala produttiva l’impresa di grande dimensione palesa un maggiore potere di mercato rispetto alla media impresa sia nei rapporti con i fornitori sia nelle relazioni con le imprese commerciali e i clienti finali. In altre parole si è osservato che l’impresa di minori dimensioni opera «in un contesto dove non vi è sostanzialmente possibilità di determinare il prezzo, di investire sul mercato, di influire sulle decisioni dei vari sottosistemi che compongono la struttura esterna della produzione industriale. La grande impresa, invece, [… ] considera la possibilità di creare un mercato, di determinare il prezzo e di influire sui processi decisionali delle varie componenti esterne» (Golinelli, 1974, pagg. 36-37). Si segnala, infine, che la differenza tra grande impresa e impresa multinazionale si radica nell’ampiezza dei mercati serviti a livello internazionale. La grande impresa domestica concentra le sue attività di produzione e di vendita in un determinato spazio geografico, mentre l’impresa multinazionale tende a svolgere le proprie combinazioni produttive in diversi contesti geografici anche assai distanti gli uni dagli altri, tessendo al contempo sostanziali relazioni e interazioni con i contesti sociali e culturali che qualificano i suoi ambiti di operatività (Vaccà, 1995). Talora, le imprese multinazionali possono sviluppare un approccio cosiddetto globale allorché ricercano il successo capitalizzando e sfruttando le opportunità in ambiti geografici diversi senza considerare i confini nazionali (Doz, Santos et al., 2001).

1.8 I gruppi di imprese Nel considerare la dimensione di impresa, occorre rilevare anche la possibilità che le attività imprenditoriali si organizzino sotto forma di gruppi di imprese. Un gruppo di imprese si definisce per la presenza di un soggetto che estende il suo potere di indirizzo e di controllo su diverse unità decisionali (Panati e Golinelli, 1991). Le condizioni affinché si abbia un gruppo di imprese sono riconducibili anzitutto alla presenza di un insieme di imprese giuridicamente autonome e distinte. Nel caso in cui si abbia una sola impresa, anche se caratterizzata da diverse unità organizzative


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operanti ciascuna in maniera sostanzialmente autonoma e in diversi settori di attività, questa non configura un gruppo di imprese (Mosconi e Rullani, 1978). Le imprese dell’insieme devono essere connesse tra loro da legami strutturanti. Questi legami possono assumere nature finanziaria, economica o personale. I legami di natura finanziaria comprendono le partecipazioni al capitale di rischio possedute da un’impresa nei confronti di un’altra. Rispetto al peso, nel caso di imprese organizzate in forma di società di capitali, le partecipazioni possono essere di maggioranza assoluta, rappresentando il 50% più una delle azioni, oppure di maggioranza relativa, rappresentando meno del 50% più una delle azioni ma conferendo al suo possessore un potere equivalente a un azionista di maggioranza. Rispetto al rapporto di influenza, le partecipazioni possono essere dirette, quando un’impresa partecipa direttamente a un’altra impresa, oppure indirette, quando la partecipazione tra due imprese è mediata da un’altra società. In questo ultimo caso, un’impresa A partecipa in un’impresa B che a sua volta partecipa in un’impresa C. Attraverso questa catena di partecipazioni, l’impresa A esercita un controllo sull’impresa B e grazie a ciò esercita anche un controllo su C tramite l’impresa B. I legami di natura economica comprendono tutti i rapporti giuridici che creano, in sostanza, una dipendenza funzionale tra un’impresa e un’altra. Tra questi si comprendono, per esempio, i rapporti di fornitura in esclusiva di beni economici, l’affitto di impianti per lunghi periodi, l’assunzione della gestione mediante il conferimento di procure, la concessione di finanziamenti il cui rimborso è a lunga scadenza così come i rapporti di collaborazione tra due imprese. Si noti che questi rapporti contrattuali concorrono a definire un gruppo quando sono tali da contenere ovvero ridurre l’autonomia economica e finanziaria e la discrezionalità manageriale di un’impresa rispetto ad altre facenti parte del gruppo stesso. I legami personali comprendono i rapporti di parentela, amicizia e professionali tra i manager delle imprese facenti parte del gruppo così come la presenza di uno stesso manager (o gruppi di manager) in tali imprese. La sussistenza di tali legami strutturanti rende possibile che imprese formalmente indipendenti si compongano in altrettante unità complementari di un unico complesso economico (Saraceno, 1962, pag. 65 e segg.). Infine, nel gruppo deve essere presente un soggetto che, facendo leva sui legami strutturanti, esercita un’influenza dominante ovvero un potere di indirizzo sul governo e sulla gestione delle imprese afferenti il gruppo stesso. Questo soggetto è spesso indicato con il termine holding. Si richiama che la holding può essere pura se detiene esclusivamente partecipazioni e non svolge alcun processo di trasformazione. Il capitale della holding sarà in questo caso composto essenzialmente da partecipazioni e crediti nelle altre società facenti parte del gruppo. In caso contrario, ovvero quando la holding svolge anche attività produttive, questa sarà allora detta mista. Considerando il livello, le holding posizionate al vertice del gruppo vengono sovente indicate come capo-gruppo o casa-madre mentre le holding che controllano altre imprese ma che sono, al loro volta, controllate dalla casa-madre prendono il nome di sub-holding. L’influenza dominante della capogruppo trova poi particolare momento nei gruppi nei quali sono presenti imprese tecnicamente collegate. In sostanza, il potere della capogruppo unitamente al legame tecnico creano i fondamenti del rapporto economico tra le imprese del gruppo, rafforzando così l’unità complessiva del gruppo stesso (Cassandro, 1962). I gruppi registrano differenze in termini, almeno, della loro natura e delle funzioni svolte. In termini di natura, i gruppi di imprese possono essere di tipo industriale quando le diverse imprese a esso afferenti sono preordinate allo svolgimento di combinazioni produttive tra loro complementari e tecnicamente collegate (si pensi, per esempio, a un gruppo siderurgico) o di tipo finanziario quando i richiamati

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rapporti di complementarietà e di collegamento sono sostanzialmente assenti, ovvero non prevalenti. Si parla anche di gruppo bancario quando le attività svolte dalle imprese afferenti il gruppo sono preordinate in via esclusiva alla raccolta e all’impiego del risparmio (Saraceno, 1962, pag. 94). In termini di funzioni, il gruppo consente a più imprese di raccogliere, mobilitare e impiegare capitali nelle attività produttive (Saraceno, 1962), accrescere il potere nei confronti dei mercati e delle altre istituzioni (Caselli, Ferrando et al., 1990), di rafforzare la capacità di cogliere opportunità di sviluppo, ottenere benefici fiscali, facilitare le attività di controllo, stante che le società del gruppo sono obbligate, ciascuna, a tenere proprie scritture contabili e a produrre autonomi conti annuali (Ferrando, 1995). In aggiunta, la formazione di gruppi di imprese rende possibile nuove forme di organizzazione della produzione industriale nelle quali coesistono, tra gli stessi attori, relazioni di cooperazione e di competizione a carattere più o meno permanenti. La presenza di questi legami strutturanti consente il formarsi di mercati organizzati nei quali le imprese del gruppo possono concludere transazioni, reali e finanziarie, a condizioni, anche assai diverse, rispetto a quelle vigenti negli altri scambi conclusi con entità non afferenti al gruppo stesso. Per esempio, all’interno di un gruppo di imprese la holding può accentrare la gestione e l’allocazione delle risorse finanziarie, creando di fatto un mercato interno per l’allocazione di tali risorse. Parimenti, la capogruppo può avviare investimenti in innovazione nei prodotti e nei processi così come può formare le risorse umane su specifiche tematiche, salvo poi riversare gli investimenti e allocare le risorse umane tra le varie imprese facenti parte del complesso (Vaccà, 1995, pag. 142 e segg.). D’altro canto, a fronte di questi vantaggi, nei gruppi di imprese perde di significato la dimensione della singola impresa, mentre diventa rilevante la dimensione del complesso economico tutto. La produzione del reddito a livello del gruppo nel suo complesso prevale rispetto alla produzione del reddito a livello della singola impresa. Si parla in questo caso di economicità super aziendale (Onida, 1971). Ciò può dar luogo a un conflitto di interessi tra l’azionista di controllo e l’azionista di minoranza che partecipa alla singola impresa (Saraceno, 1962). Per esempio, la casa-madre potrebbe decidere il trasferimento di beni economici da un’impresa a un’altra a prezzi vantaggiosi per la seconda al fine di sovvenzionarne l’ingresso in nuovi mercati. Va da sé che gli azionisti della prima impresa vedranno il reddito contrarsi e, quindi, contenersi la redditività del proprio capitale investito. Al riguardo, Zappa (1956) riporta come, in particolare, nei gruppi di imprese, possono crearsi le condizioni tali per cui «procedimenti dannosi alla produzione e al diffondersi dei consumi sono talora seguiti da uomini di affare troppo destri, che amministrano grandi concentrazioni di capitali nel proprio esclusivo tornaconto. Con abili politiche dei prezzi e dei dividendi, essi possono favorire altre imprese nelle quali, forse per sole relazioni personali, vantano vasti interessi, possono manovrare i corsi di date azioni unicamente per agevolare il passaggio da mano a mano di forti pacchetti azionari, per conseguire grandi lucri negli annacquamenti e nelle variazioni dei capitali sociali, nella concentrazione o nella dissociazione di produzione già riunite, o in bene ordite speculazioni di borsa aperte solo agli insiders più avveduti» (pag. 165). Le considerazioni appena formulate aprono la strada a un interrogativo di fondo, ovvero se il gruppo sia uno strumento teso prevalentemente verso la generazione di livelli di redditività che sarebbero, in taluni casi, preclusi alla singola impresa (Siegel e Choudhury, 2012), piuttosto che un meccanismo per sfruttare gli investimenti posti in essere dagli azionisti di minoranza e, in parte, attraverso complesse catene societarie, per espropriare anche parte dei loro diritti amministrativi sull’altare della ricerca di una economicità che travalica la singola impresa (Bertrand, Mehta et al., 2002).


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Sommario Il presente capitolo si apre con la formulazione di un modello di analisi dell’impresa articolato su diversi concetti interagenti di contesto (interno ed esterno), decisione, confine e risultati. Di seguito, il capitolo introduce le differenze tra processi di produzione e di consumo. Si tracciano poi i processi di scambio, mediati da beni economici o da moneta, evidenziandone le implicazioni per la divisione del lavoro tra individui, con i correlati fabbisogni di coordinamento che ne discendono. La crescita degli scambi favorisce la divisione del lavoro tra individui che, in ultima istanza, amplifica i fabbisogni di coordinamento delle iniziative individuali. I fabbisogni di coordinamento degli individui sono soddisfatti mediante istituzioni diverse. Nell’ordine vengono approfonditi i mercati, le organizzazioni in generale e, quindi, le imprese, quale specifica organizzazione caratterizzata dalla disponibilità di un capitale impiegato nella produzione di beni economici per lo scambio in vista della generazione e della distribuzione di un reddito. Con riferimento all’impresa, lo studio contribuisce a una lettura nell’evoluzione di questa istituzione nel corso del tempo: dall’impresa artigiana si passa all’impresa mercantile, dall’impresa industriale si va verso la

grande impresa organizzata sotto forma di società di capitali. Con riferimento alla grande corporation il lavoro si sofferma sul concetto di soggetto economico, sulla distinzione tra capitale di comando e capitale controllato, impresa a controllo proprietario forte e debole, sui potenziali conflitti di interesse che possono sorgere tra azionisti e manager e tra azionisti di controllo e azionisti di minoranza. Questi conflitti creano costi di agenzia che nel loro insieme contribuiscono negativamente al reddito di impresa. Il lavoro termina analizzando la dimensione delle imprese in ottica sia quantitativa che qualitativa. Nella prima ottica distinguiamo imprese piccole, medie e grandi in conformità a indicatori quantitativi quali il numero di addetti, il capitale investito, la quantità prodotta, il fatturato, il valore aggiunto ecc. Nella seconda ottica distinguiamo imprese artigiane, piccole imprese industriali, medie imprese industriali, grandi imprese e imprese multinazionali. Infine, il lavoro affronta in linea generale il tema dei gruppi di imprese, evidenziando come, in tali forme di organizzazione della produzione, il concetto di dimensione trovi applicazione al complesso economico piuttosto che al livello della singola impresa facente parte del gruppo stesso.

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Capitolo 1

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