Principi di scienza politica - Capitolo 1

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Introduzione

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Obiettivi di apprendimento ◆

La scienza politica è lo studio della politica tramite l’applicazione del metodo scientifico. La politica internazionale è lo studio dei fenomeni politici che avvengono prevalentemente tra paesi, la politica comparata è lo studio dei fenomeni politici che avvengono prevalentemente all’interno di paesi.

In questo capitolo, delineiamo le questioni centrali che saranno trattate nel resto del libro. Questi argomenti sono tutti collegati tanto alle cause e alle conseguenze della democrazia e della dittatura quanto alla straordinaria varietà d’istituzioni democratiche e dittatoriali esistenti nelle varie parti del mondo.

Sosteniamo inoltre che i tentativi per favorire la nascita della democrazia, se mai si debbano intraprendere, devono poggiare sulle fondamenta analitiche ed empiriche fornite dallo studio della politica comparata.

Spieghiamo infine il motivo per cui adottiamo un approccio esplicitamente plurinazionale per introdurre gli studenti allo studio della politica comparata.

Il 17 dicembre 2010, il ventiseienne Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protesta contro il trattamento ricevuto dagli agenti della polizia locale che gli avevano confiscato il raccolto. Mohamed faceva il venditore ambulante a Sisi Boudiz. Per svolgere questa attività, Bouazizi era già stato obbligato a contrarre dei debiti. Anche se a Sisi Boudiz la vendita in strada non richiedeva particolari permessi, poliziotti e funzionari locali tormentavano l’uomo, a quanto sembra per riscuotere tangenti, fin da quando, ancora ragazzino, aveva lasciato il liceo per aiutare la sua famiglia allargata. Quel giorno gli agenti gli confiscarono anche le bilance elettroniche che utilizzava per pesare la frutta e, secondo alcuni resoconti, lo malmenarono insultando suo padre defunto. Bouazizi si rivolse all’ufficio del governatore locale e, vedendo che le sue proteste venivano ignorate, si fermò in mezzo al traffico di fronte all’edificio governativo, si cosparse di benzina e si diede fuoco. Morì il 5 gennaio 2011, dopo diciotto giorni di agonia. Nelle settimane successive al suicidio, sollevazioni popolari, che videro la morte di svariati dimostranti, presero il via dal suo villaggio natale giungendo fino alla capitale, Tunisi. Il 15 gennaio il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, che aveva guidato il paese per quasi venticinque anni, fu costretto a rifugiarsi in Arabia Saudita, diventando il primo


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Parte I

Politica e scienza

leader del mondo arabo da generazioni a lasciare l’incarico in seguito a manifestazioni di protesta. In pochi mesi, espressioni di scontento si diffusero per l’intera regione del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale (MENA dall’inglese Middle East and North Africa). I primi segni del contagio si manifestarono a metà gennaio, sotto forma di episodi di suicidio politico in Egitto e Algeria, ma nelle settimane successive proteste di massa sarebbero scoppiate in più di una dozzina di paesi di quell’area. Per esempio, il 23 gennaio le sollevazioni raggiunsero lo Yemen, in cui migliaia di persone scesero in strada a sostegno di Tawakkul Karman, un’attivista incarcerata per aver chiesto la fine del regime che aveva consentito al presidente Ali Abdullah di governare il paese per trentadue anni. Il 25 gennaio in tutto l’Egitto si verificarono proteste organizzate, coordinate tramite social media come Facebook e Twitter. Nelle settimane successive l’esercito egiziano si mostrò riluttante ad aprire il fuoco sui manifestanti. Nonostante tutto, molte persone rimasero ferite o uccise, spesso durante scontri con bande di facinorosi che sostenevano il regime. Le proteste non si placarono neppure quando il presidente Hosni Mubarak, che era stato al governo del paese più a lungo di qualsiasi altro leader egiziano, prima fece dimettere il suo governo e poi promise di non ricandidarsi alle elezioni d’autunno. Mubarak finì per lasciare l’11 febbraio, per essere poi processato e incriminato per corruzione. Il 16 febbraio, un mese dopo che il leader libico Muammar Gheddafi era andato in televisione per condannare la cacciata del presidente tunisino Zine al-Abidine Ben Ali, scoppiarono sommosse anche in Libia. Nel giro di poche settimane le sollevazioni popolari finirono per trasformarsi in una ribellione su larga scala, sostenuta da raid aerei della NATO. Il 25 febbraio in tutta l’area MENA si verificarono una serie di rivolte che vanno sotto il nome di “giorno della rabbia”. In seguito a questi eventi, sia in Arabia Saudita sia in Siria il governo adottò un atteggiamento di tolleranza zero verso i ribelli. Entro la fine del marzo 2011 ampie sommosse, spesso accompagnate da violente repressioni da parte delle autorità, si erano verificate in 17 paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Il fatto che almeno alcuni di questi moti popolari avessero portato alla caduta di dittature in carica da anni suscitò l’impressione che ci trovassimo di fronte all’inizio di un’ondata di liberalizzazioni e forse anche a una nuova ondata di democratizzazione, in una regione a lungo dominata da regimi autoritari difficili da rimuovere. Basta un rapido sguardo alla storia, però, per rendersi conto che questo ottimismo era privo di fondamento. Nel gennaio del 1848, dopo una sommossa avvenuta a Palermo, in Sicilia, un’ondata di quasi cinquanta rivolte si diffuse per tutta Europa e in quasi tutti gli stati minori che allora formavano la Germania e l’Italia, sfidando dinastie che erano alla guida di Francia, Austria e Prussia da decenni. Questo periodo rivoluzionario è noto come la Primavera dei Popoli. Come nella Primavera Araba del 2011, alcuni governanti europei furono destituiti con la forza, altri, quando i loro eserciti si rifiutarono di sparare sulla folla che protestava, furono costretti all’esilio e altri ancora si affidarono al potere coercitivo dello stato per reprimere le rivolte. Sotto diversi aspetti, le cause che scatenarono i moti del 1848 sono simili a quelle che hanno causato le rivolte del 2011. Per esempio, rapidi cambiamenti della struttura sociale determinati dalla rivoluzione industriale avevano attribuito nuovo potere a gruppi della classe media, spesso uniti a gruppi della classe operaia, già in rivolta per la crisi economica. In diversi paesi, i governanti avevano cercato di placare le masse rimuovendo i ministri più invisi, promettendo riforme costituzionali e adottando il suffragio universale maschile. Anche se spesso le sommosse avevano cause locali, erano accomunate dall’obiettivo di sottrarre il potere alla nobiltà, per affidarlo a repubbliche costituzionali che garantissero


Introduzione

©MARTIN BUREAU/Getty Images

Capitolo 1

Manifestanti tunisini marciano lungo il Viale Bourguiba nel centro di Tunisi nel gennaio 2011 per chiedere le dimissioni dei ministri che avevano collaborato con il presidente deposto.

la tutela delle libertà individuali. A Francoforte, per esempio, un parlamento noto come Parlamento di Francoforte scrisse una costituzione per quella che fu definita Confederazione Germanica, una monarchia costituzionale fondata sugli ideali liberali – democrazia e unità nazionale – formulati nel corso del XIX secolo. Questi cambiamenti avevano creato un clima di euforia, sostenuta dalla speranza che il governo sarebbe finalmente passato nelle mani del popolo. I tiranni si sarebbero fatti da parte e un autogoverno guidato dalla ragione avrebbe soppiantato tradizioni e pregiudizi. Movimenti per l’autodeterminazione nazionale avrebbero portato gruppi a lungo repressi dal potere dispotico di monarchie come quella dell’impero asburgico all’autogoverno. Tuttavia, in quasi tutti i casi, entro l’autunno la speranza indotta dalla Primavera dei Popoli del 1848 avrebbe finito per trasformarsi in delusione, dando luogo a ritorsioni. Un esempio raggelante è fornito dall’Austria, in cui le forze militari imperiali, che avevano cooperato con l’Assemblea costituente nata a Vienna, repressero la “Rivoluzione di Ottobre”, ossia la terza ondata di moti di insurrezione radicale di quell’anno, prendendo d’assalto e infine occupando la città. I membri dell’Assemblea costituente furono esiliati e molti leader radicali giustiziati immediatamente. Anche se l’imperatore Ferdinando I decise di lasciare il trono, abdicando in favore del nipote Francesco Giuseppe I, non cambiò quasi niente. Per usare le parole dello storico Charles Breunig (1971: 1012), “entro l’ottobre del 1848 tutti gli intenti e gli obiettivi della rivoluzione di Vienna erano stati sconfitti”. Il capovolgimento di situazione patito dai riformisti viennesi non è un caso isolato. Entro l’aprile del 1849, la risposta alla domanda posta dallo zar Nicola I alla regina Vittoria, ossia “Cosa rimane ancora in Europa?” non era - come da lui stesso suggerito un anno prima - “Gran Bretagna e Russia”, ma invece “quasi tutto”. Alla rivoluzione seguì immediatamente la reazione. Riforme politiche che sembravano promettenti apportarono nella pratica ben pochi cambiamenti, almeno nel breve termine. Il potere restava grosso modo nelle stesse mani di chi lo deteneva prima delle rivoluzioni della primavera precedente.

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Parte I

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Nell’edizione in inglese del 2012 di questo libro, sottolineavamo che l’ottimismo espresso da alcuni osservatori della Primavera Araba dovesse essere ridimensionato, ricordando che le rivoluzioni democratiche, come quelle della Primavera dei Popoli del 1848, sono seguite spesso da reazioni e repressioni. Sostenevamo che, nonostante i cambiamenti di regime e le riforme politiche siano difficili da prevedere, possiamo raggiungere una più profonda comprensione del fenomeno tenendo presenti le determinanti socioeconomiche che conducono all’instaurazione della democrazia, le interazioni strategiche tra governanti autocratici e gruppi di opposizione riformisti, i fattori che, a livello istituzionale, determinano gli esiti politici nelle autocrazie e nelle democrazie e l’effetto dell’assetto costituzionale sul consolidamento della democrazia, la competizione tra partiti, le politiche fiscali e i conflitti etnici. Dal 2012, gli scienziati politici cercano di spiegare perché la Primavera Araba non abbia dato vita a una nuova ondata di democratizzazione. Dei 14 stati interessati da ampie proteste popolari nel 2011, solo in tre – Egitto, Tunisia e Yemen – la pressione politica interna ha determinato la caduta del despota in carica.1 E anche limitandosi a questi tre paesi, solo la Tunisia ha fatto qualche progresso nella direzione della democrazia. Secondo Brownlee, Masoud e Reynolds (2015), i regimi autoritari dell’area MENA sono riusciti quasi tutti a resistere alla pressione delle rivolte perché disponevano di una notevole ricchezza derivante dal petrolio e si basavano su una trasmissione ereditaria del potere. Questi studiosi sostengono che ciascuno di questi due fattori, anche da solo, sarebbe stato sufficiente a garantire la continuità del regime, a meno che non fossero intervenute potenze straniere a sostegno dell’opposizione” (p. 61). Significativamente, i motivi per cui la ricchezza derivante dal petrolio e un sistema di potere ereditario aiutano i leader dittatoriali a respingere le sfide dal basso sono da tempo noti agli scienziati politici, come emerge dalla tesi della “maledizione politica delle risorse” che tratteremo nel Capitolo 6 e delle conseguenze della monarchia che esamineremo nel Capitolo 10. Ogni generazione sembra avere i propri motivi per studiare la politica e in modo particolare la politica comparata. In verità, ogni generazione sembra purtroppo afflitta da un problema che è al tempo stesso tanto incredibilmente complesso quanto straordinariamente urgente. Per esempio, la grande depressione e l’ascesa del fascismo in Europa costrinsero gli scienziati politici della metà del secolo scorso ad affrontare due temi importanti. Il primo riguardava ciò che i governi possono e devono fare per incoraggiare una crescita economica stabile. In altre parole, c’è qualcosa che i governi possono fare per proteggere i loro cittadini dalle conseguenze devastanti della instabilità del mercato? Il secondo tema aveva a che fare con la progettazione di istituzioni elettorali in grado di rendere meno probabile l’elezione di politici estremisti che si oppongono alla democrazia, come i nazionalsocialisti nella Repubblica di Weimar in Germania. Entrambi questi argomenti rimangono al centro dello studio della politica contemporanea. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la decolonizzazione e l’inizio della Guerra Fredda portarono molti studiosi a concentrarsi sulla questione dello “sviluppo politico”. C’è qualcosa che si può fare per ridurre l’instabilità politica ed economica nei paesi poveri e sottosviluppati? Le ricerche condotte in quel periodo si occuparono spesso

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La cacciata del leader libico Gheddafi nel 2011 è stata resa possibile in larga misura dall’intervento esterno. Solo grazie ai bombardamenti aerei condotti inizialmente dagli Stati Uniti, Francia e Regno Unito nell'operazione Odyssey Dawn e in seguito, anche su richiesta dell'Italia, dalle forze della NATO nell’operazione Unified Protector, i ribelli sono riusciti a spodestare Gheddafi.


Capitolo 1

Introduzione

del giusto rapporto tra stato e mercato. Forse il titolo che sintetizza meglio le questioni centrali è il classico Capitalismo, socialismo e democrazia di Joseph Schumpeter del 1942. La Guerra Fredda tra Stati Uniti e l’Unione Sovietica rese più urgente la necessità di comprendere le cause e le conseguenze delle rivoluzioni comuniste in Cina e a Cuba, così come gli sconvolgimenti politici in paesi come il Vietnam e il Cile. Negli anni Settanta, tornò nei paesi ricchi e industrializzati l’instabilità economica causata dalla crisi petrolifera del Medio Oriente. Di conseguenza, gli scienziati politici rivisitarono le questioni sollevate in Europa occidentale nel corso del periodo tra le due guerre. Ormai tuttavia il dibattito si era in qualche modo ridimensionato: molti studiosi avevano effettivamente accettato la “soluzione del dopoguerra”, o il “compromesso di classe” che, in sostanza, aveva visto i lavoratori accettare una economia capitalista e di libero mercato in cambio di una espansione dello stato sociale e di altri benefici. Con l’accettazione delle economie capitaliste diffusa in tutta l’Europa occidentale i ricercatori rivolsero quindi la loro attenzione a come lo specifico tipo di capitalismo, che esisteva in un determinato paese, poteva influenzare la capacità di quel paese di affrontare le crisi economiche originate altrove. Sul finire del XX secolo, l’attenzione si spostò sulle conseguenze della fine della Guerra Fredda. Improvvisamente, decine di paesi dell’Europa centrale e orientale intrapresero la doppia transizione da una economia pianificata a una basata sul mercato e da un regime autoritario a partito unico alla democrazia. Ora, nel XXI secolo e dopo la crisi economico-finanziaria mondiale scoppiata nel 2007, sembra che l’attenzione sia ritornata alle questioni riguardanti l’autorità dello stato. Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), noto anche come Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), nel giugno del 2014 proclamò un califfato mondiale, rivendicando l’autorità religiosa, politica e militare su tutti i musulmani, indipendentemente da dove vivevano. Questa rivendicazione ha costituito una sfida diretta al principio organizzativo primario del sistema internazionale, ossia la sovranità degli stati, in vigore fin dalla pace di Vestfalia del 1648.2 L’ISIS ha controllato per un certo periodo alcuni territori dell’Iraq e della Siria, dove ha imposto la sharia o legge islamica ai milioni di persone che vivono in quelle terre. Le persecuzioni, il caos e le violenze che sono seguite, insieme agli esiti nefasti della guerra civile siriana, hanno spinto molti a fuggire da quell’area, causando una crisi migratoria in Europa. Come spieghiamo nel Capitolo 4, per “stato moderno” si intende un’organizzazione che utilizza la coercizione e la minaccia della forza per controllare gli abitanti di un determinato territorio. La proclamazione di un califfato mondiale da parte dell’ISIS e i conseguenti atti di ribellione violenta di gruppi sparsi in tutto il mondo costituiscono una sfida diretta a questo concetto di stato moderno. Tuttavia, le azioni militari di due coalizioni guidate dagli Stati Uniti e dalla Russia e prontamente avviate già dal 2014 hanno ridimensionato significativamente l’influenza dell’ISIS negli ultimi anni. Non pare quindi che questi sviluppi costituiscano una minaccia duratura all’idea che lo stato sia un’entità in grado di controllare con successo gli abitanti di un territorio ben definito. In ogni caso, questi avvenimenti suggeriscono che non dovremmo dare l’ordine politico per scontato. Gli studi antropologici e archeologici ci ricordano che, in quanto specie, per gran parte della nostra storia abbiamo vissuto in gruppi relativamente ristretti di cacciatori e raccoglitori e che gli atti di violenza all’interno e tra questi

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Il legame tra la pace di Vestfalia e la nascita di un nuovo sistema internazionale è tuttavia più il risultato della propaganda anti-Asburgica del XIX e XX secolo che attinente alla realtà storica (Osiander 2001).

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Politica e scienza

gruppi erano molto comuni (Gat 2006). L’ordine sociale in gruppi molto estesi è qualcosa che deve essere spiegato, più che dato per scontato.

1.1 ◆ LA SCIENZA POLITICA E LA POLITICA COMPARATA La scienza politica è lo studio della politica tramite l’applicazione del metodo scientifico.3 Così formulata, questa definizione è piuttosto tautologica, quindi i concetti di scienza e di politica saranno trattati in dettaglio nei prossimi capitoli. Il campo d’indagine di questa disciplina è stato tradizionalmente caratterizzato da diverse, seppur collegate, attività di ricerca. Un testo autorevole, scritto da Joseph LaPalombara (1974), si intitolava Politics within Nations, cioè la politica all’interno delle nazioni. Il ◆ La politica comparata è lo studio titolo di LaPalombara distingueva la politica comparadei fenomeni politici che avvengono ta dalla politica internazionale, che Hans Morgenprevalentemente all’interno di paesi. thau (1948) aveva definito Politics among Nations nel suo ◆ La politica internazionale è lo stucelebre libro Politica tra le nazioni. La lotta per il potere dio dei fenomeni politici che avvengoe la pace. Questa definizione di politica comparata, con no prevalentemente tra paesi. quella complementare di politica internazionale, possiede la caratteristica, comune a tutte le buone classificazioni scientifiche, di essere esaustiva dal punto di vista logico. Definendo in questo modo la politica comparata e quella internazionale, i due studiosi hanno esaurito le possibilità intrinseche allo studio della politica, poiché i fenomeni politici avvengono all’interno di paesi o tra paesi. Tuttavia una buona classificazione scientifica dovrebbe possedere anche il requisito della reciproca esclusione. Se l’esaustività dal punto di visto logico implica che disponiamo di una categoria in cui collocare qualsiasi entità osservata, per la reciproca esclusione deve verificarsi la condizione che non sia possibile assegnare alcun singolo caso a più di una categoria. Sfortunatamente la classificazione presentata sopra non soddisfa questo requisito. Un rapido sguardo ai quotidiani rivela chiaramente che molte questioni politiche contemporanee chiamano in causa una buona dose di fattori che avvengono sia “all’interno di paesi” sia “tra paesi”. Di conseguenza, il confine tra politica comparata e politica internazionale è spesso confuso. Questo si verifica in particolare quando si studiano le interazioni tra politica ed economia. Per esempio, provate a domandarvi se sia possibile comprendere appieno la politica commerciale americana, diciamo nei confronti della Cina, senza prendere in considerazione la politica interna degli Stati Uniti, o se sia possibile comprendere la crisi del debito sovrano nella zona euro senza tener conto della politica interna della Grecia. Allo stesso modo molte questioni ambientali coinvolgono fattori sia interni sia esterni ai confini di un paese. Inoltre, giacché molti movimenti sovversivi ricevono supporti dall’estero, sarebbe difficile catalogare lo studio delle rivoluzioni, del terrorismo e delle guerre civili come appartenenti unicamente all’ambito della politica comparata o a quello della politica internazionale. Molti di questi movimenti hanno in effetti una componente separatista che solleva esattamente la questione di dove dovrebbe trovarsi il confine tra il “domestico” e l’“internazionale”.

◆ La scienza politica è lo studio della politica tramite l’applicazione del metodo scientifico. Il suo campo d’indagine è caratterizzato da due diverse, seppur collegate, attività di ricerca.

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La definizione de Il Dizionario di Politica è simile e, anch’essa, piuttosto tautologica. La scienza politica è “un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico… la metodologia delle scienze empiriche” (Bobbio, Matteucci e Pasquino 2004: 862).


Capitolo 1

Introduzione

Elezioni Conflitto

Sistemi di partito Rivoluzione

Politica estera

Politica economica

Relazioni esecutivo-legislativo

Politica ambientale Organizzazioni internazionali

Gruppi d’interesse Legislativo

Politica internazionale (tra paesi)

Politica comparata (all’interno di paesi)

Figura 1.1 Una panoramica della scienza politica

Tuttavia possiamo tenere per buone le intuizioni basilari di LaPalombara e Morgenthau dicendo semplicemente che la politica comparata è lo studio dei fenomeni politici che riguardano prevalentemente relazioni “interne al paese” e che la politica internazionale è lo studio dei fenomeni politici che riguardano prevalentemente relazioni “tra paesi”. Questo approccio alla scienza politica è illustrato nella Figura 1.1. Come si può vedere, la politica internazionale si occupa di questioni che connotano i rapporti tra paesi come i conflitti, la politica estera e le organizzazioni internazionali. Per contro, la politica comparata riguarda questioni come i sistemi di partito, le elezioni, le politiche identitarie e le relazioni tra i gruppi d’interesse all’interno di singoli paesi come il Brasile, la Cina, la Francia e la Nigeria. Gli studiosi di politica economica che s’interessano di commercio, indipendenza delle banche centrali e politica del cambio attraversano lo spartiacque tra politica internazionale e politica comparata. In questo manuale ci limitiamo a studiare i fenomeni che avvengono prevalentemente all’interno di paesi. Ci limitiamo, dunque, alla politica comparata. Ci sono, tuttavia, almeno altre due definizioni comuni di politica comparata. Secondo una prima accezione, diffusa soprattutto negli Stati Uniti, la politica comparata è lo studio dei fenomeni politici che avvengono all’interno di ogni paese, eccetto quello in cui lo studioso risiede. Secondo questa definizione, quindi, la politica comparata sarebbe lo studio di quello che gli economisti chiamano spesso “il resto del mondo”. Questa definizione, tuttavia, ci sembra piuttosto assurda perché implica che lo studio della politica nigeriana dovrebbe essere considerato come parte della politica comparata a condizione che lo studioso non svolga la sua attività di ricerca in Nigeria, nel qual caso sarebbe semplicemente “politica nigeriana”. In base a una seconda accezione, la politica comparata è lo studio della politica tramite il “metodo comparato”. Infatti, come vedremo nel Capitolo 2, gli studiosi di politica comparata che cercano di definire in questo modo il loro campo di studi hanno in mente spesso un particolare tipo di metodo comparato. Questa tradizione, che risale al tentativo aristotelico di classificare differenti forme costituzionali, cerca di trovare risposta alle domande sulla politica confrontando e contrapponendo le caratteristiche di differenti forme di governo (al tempo di Aristotele prevalentemente le città-stato, oggi gli stati nazionali). Anche se questa definizione è abbastanza precisa in termini descrittivi, non è particolarmente utile. Come vedremo nel Capitolo 2, la comparazione è al centro di qualsiasi indagine scientifica. Ne consegue che de-

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Parte I

Politica e scienza

finire la politica comparata in funzione di un metodo “comparato” equivale a dire che è sinonimo di scienza politica. In effetti, se la scienza politica è lo studio della politica tramite l’applicazione del metodo scientifico e la politica comparata è lo studio della politica tramite il metodo comparato, siccome la comparazione è centrale in qualsiasi indagine scientifica, scienza politica e politica comparata risulterebbero sinonimi. Se è così, viene da chiedersi perché esistano due locuzioni per dire la stessa cosa. Crediamo sia meglio identificare la politica comparata come lo studio dei fenomeni politici che avvengono prevalentemente all’interno di paesi. Come tale, è un campo di ricerca molto vasto. Per motivi che spiegheremo in questo capitolo, abbiamo scelto di non prendere in considerazione la politica di una singola nazione o di un particolare gruppo di nazioni. Cercheremo invece di comprendere il comportamento politico attraverso il confronto diretto di alcune caratteristiche salienti a livello nazionale. In altre parole, metteremo a confronto il comportamento politico interno in una prospettiva plurinazionale. Per esempio, preferiamo chiederci perché alcuni paesi hanno due partiti politici (come gli Stati Uniti) mentre in altri paesi, come la Francia o l’Italia, ne esistono più di due piuttosto che esaminare separatamente il sistema politico americano e quello francese o italiano. Scegliendo questo approccio, non intendiamo affermare che lo studio della politica all’interno dei singoli paesi debba essere escluso dal campo della politica comparata, né vogliamo sottintendere che un confronto plurinazionale sia un metodo migliore dello studio di un singolo paese. Crediamo però che un confronto di caratteristiche a livello nazionale sia una ragionevole introduzione alla politica comparata e che possa costituire una griglia più ampia in cui collocare lo studio a livello avanzato della politica entro i singoli sistemi di governo. Infine, a chi si avvicina allo studio della politica in Italia, le due locuzioni – scienza politica e politica comparata – potrebbero sembrare sinonimi perché i manuali italiani che dichiarano di trattare i fondamenti della scienza politica si occupano sostanzialmente di politica comparata, cioè trattano fenomeni politici come i regimi politici, i sistemi di partito e i governi, che avvengono prevalentemente all’interno di paesi. Inoltre, fanno ciò in prospettiva comparata, cioè si avvalgono di un confronto plurinazionale, per esempio paragonando le caratteristiche di diversi regimi autoritari o democratici. Data la vastità dei suoi temi, la politica internazionale oramai richiede trattazioni a sé stanti e questo campo di ricerca non è più coperto da testi che si limitano ai principi. Sarebbe forse più opportuno considerare i manuali italiani di scienza politica come introduzioni alla politica comparata. Come apparirà evidente nel prossimo paragrafo, il campo d’indagine di questo manuale è la politica comparata, cioè gli stessi fenomeni politici presentati dai manuali italiani sui fondamenti. Per evitare di dare l’impressione che si tratti di una disciplina differente e confondere i lettori, manteniamo quindi la tradizione italiana nel presentare il manuale come un’introduzione ai principi della scienza politica. Tuttavia, nel testo, usiamo il termine “scienza politica” quando ci riferiamo allo studio della politica in generale, per esempio nei capitoli dedicati ai concetti di scienza e di politica, mentre utilizziamo la locuzione “politica comparata” quando ci riferiamo allo studio di quei fenomeni politici che avvengono prevalentemente all’interno di paesi.

1.2 ◆ PANORAMICA GENERALE DEL LIBRO La scienza politica, abbiamo sostenuto, è lo studio della politica tramite l’applicazione del metodo scientifico. È facile intuire che, così com’è, questa definizione non è par-


Capitolo 1

Introduzione

APPROFONDIMENTO 1.1

La scienza politica in Italia: cenni storici L’unico sistema possibile col quale l’uomo può fino a un certo punto dominare le proprie passioni e migliorare le proprie sorti consiste nello studio della psicologia umana individuale e collettiva. Gaetano Mosca, Elementi di Scienza Politica, prefazione all’edizione del 1923 La scienza politica italiana può vantare un passato illustre e studiosi che hanno contribuito a porre le sue fondamenta come scienza sociale, tra cui Niccolò Machiavelli, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels. Il primo manuale italiano su Elementi di Scienza Politica fu scritto da Mosca nel 1896 e trattava molte questioni di cui ci occuperemo in questo volume, tra cui il metodo scientifico, la classe politica, il rapporto tra religione e politica, e i tipi di governo e di regime. Incontreremo anche alcuni di questi studiosi. Per esempio, nel Capitolo 11, tratteremo il concetto di ottimalità paretiana, una condizione minima di equità dei processi decisionali collettivi. Mentre nel Capitolo 14 presenteremo la legge ferrea dell’oligarchia; legge applicata alle dinamiche organizzative dei partiti ed elaborata da Michels, un sociologo tedesco naturalizzato italiano. Più in generale, lo studio delle élite fu il contributo più importante dei primi studiosi italiani. La scienza politica italiana si sviluppa staccandosi dal diritto costituzionale. Tuttavia il periodo fascista e la presenza di discipline affermate, come il diritto pubblico e la filosofia della storia, quest’ultima con studiosi di rilievo quali Benedetto Croce e Giovanni Gentile, soffocarono l’innovazione della disciplina. Nel dopoguerra la scienza politica riprese gradatamente slancio, specialmente grazie al forte impeto dell’attività di ricerca statunitense e al formarsi di una comunità internazionale di studiosi (Cotta, Della Porta e Morlino, 2001: 11-12; Morlino, 1989). Il primo insegnamento in Italia fu attivato nel 1956 presso l’Università di Firenze, mentre nel 1971, a testimonianza del continuo aumento della produzione scientifica, fu fondata la Rivista Italiana di Scienza Politica su iniziativa di Giovanni Sartori, che è stato uno tra i maggiori esperti di partiti e sistemi di partito. Dieci anni più tardi si costituì la Società Italiana di Scienza Politica sancendo, in effetti, la separazione dalla sociologia con la quale aveva condiviso il percorso istituzionale fino ad allora. L’attivazione di ulteriori insegnamenti portò a una maggiore, sebbene ancora piuttosto disomogenea, diffusione della disciplina e alla creazione di dipartimenti. Mentre la fondazione di nuove riviste e il rilancio di vecchie, tra le quali Comunicazione Politica, Il Politico, i Quaderni di Scienza Politica, Stato e Mercato, la Rivista Italiana di Politiche Pubbliche e Teoria Politica, hanno agito da importante stimolo alla specializzazione e alla produzione scientifica. Come a suo tempo Gaetano Mosca, alcuni scienziati politici italiani attivi nel dopoguerra, tra cui Norberto Bobbio, Domenico Fisichella, Gianfranco Miglio e Gianfranco Pasquino, hanno anche ricoperto prestigiose cariche politiche nazionali. In termini di produzione accademica, riviste scientifiche, numerosità di studiosi e d’insegnamenti universitari, la scienza politica rappresenta oramai un’importante realtà del panorama scientifico italiano.

ticolarmente istruttiva. Che cosa è infatti la politica? Che cosa è la scienza? Affrontiamo esplicitamente queste domande nei Capitoli 2 e 3. Dopo questi aspetti preliminari, cominciamo a esaminare le questioni di merito che sono il tema centrale del libro, cioè le cause e le conseguenze della democrazia e della dittatura.

1.2.1

Stati falliti e le determinanti della democrazia

Nella Parte II confrontiamo le democrazie e gli autoritarismi. In particolare, esploriamo le origini dello stato moderno e ci poniamo due domande che sono centrali nello studio

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Parte I

Politica e scienza

della politica comparata. In primo luogo, perché alcuni paesi hanno regimi democratici mentre altri hanno regimi autoritari? In secondo luogo, ciò fa una differenza? Quali sono le conseguenze? Il fallimento dello stato è da tempo riconosciuto come una delle principali fonti d’instabilità politica ed economica in tutto il mondo. Gli orribili attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno reso più urgente la necessità di comprendere le condizioni in cui gli stati falliscono e le condizioni in base alle quali tali vuoti di potere potrebbero favorire il terrorismo internazionale. La ragione di questo è che gli attacchi terroristici dell’11 settembre sono stati pianificati dall’Afghanistan, uno stato fallito in cui i talebani hanno fornito rifugio ad al-Qaeda per addestrare i terroristi e pianificare attacchi contro vari obiettivi in tutto il mondo. Nel Capitolo 4 definiamo che cosa intendono gli scienziati politici quando parlano di “stato” e descriviamo com’è la vita in uno stato fallito esaminando in particolare due stati falliti, la Somalia e la Siria. Per capire come si potrebbe colmare il vuoto di potere che esiste negli stati falliti, è necessario comprendere lo sviluppo storico dello stato moderno. Che cosa distingue lo stato moderno da altre forme di organizzazione politica? Che cosa ha portato al suo sviluppo? Il resto del capitolo affronta questi tipi di domande. I restanti capitoli esaminano le cause e le conseguenze della democrazia e della dittatura, ma prima di tutto dobbiamo rispondere a questa domanda: come facciamo a sapere se un paese è una democrazia oppure no? Gli scienziati politici hanno sviluppato diverse concettualizzazioni e misure di democrazia. Queste sono trattate ampiamente nel Capitolo 5. Nell’ottobre 2001 gli Stati Uniti risposero agli attacchi terroristici dell’11 settembre invadendo l’Afghanistan al fine di rovesciare i talebani. Oltre a cercare di catturare Osama bin Laden e distruggere le infrastrutture terroristiche di al-Qaeda, uno degli obiettivi dichiarati di questo attacco era quello di sostituire il regime talebano con una forma di governo più democratica. Se vogliamo favorire l’instaurazione e il consolidamento della democrazia in paesi come l’Afganistan e l’Iraq, è importante che comprendiamo prima di tutto i fattori che incoraggiano o scoraggiano la nascita e la sopravvivenza della democrazia. Allo stesso modo, per comprendere le prospettive di democrazia in Medio Oriente e Nordafrica, dobbiamo analizzare sia il caso specifico che abbiamo sottomano quanto il notevole corpus di teorie e dati empirici sui fattori determinanti della democrazia prodotte e accumulati negli anni dagli scienziati politici. Nel Capitolo 6 esaminiamo dunque come lo sviluppo economico e la struttura dell’economia di un paese influenzano la probabilità che un paese diventi e rimanga democratico. Alcuni studiosi hanno sostenuto che i paesi hanno maggiori probabilità di democratizzarsi man mano che le loro economie diventano più moderne, cioè meno dipendenti dalle esportazioni di risorse naturali, più produttive, più industriali, più altamente istruite e così via. Altri studiosi hanno sostenuto che tale modernizzazione potrebbe influenzare la sopravvivenza, ma non l’emergere, della democrazia. In altre parole, sostengono che la modernizzazione aiuta le democrazie a rimanere tali, ma non aiuta i regimi autoritari a diventare democratici. Nonostante il dibattito sulla relazione tra modernizzazione economica e democrazia resti aperto, la maggior parte dei paesi interessati dalla Primavera Araba non soddisfa molti dei criteri fondamentali relativi al concetto di “modernizzazione”. Ciò implica che, per quanto riguarda le prospettive di democratizzazione della regione del MENA, i sostenitori di entrambi gli schieramenti arriverebbero alla stessa conclusione: sono paesi poveri. Allo stesso modo, molti scienziati politici hanno sostenuto che la probabilità che si instauri un regime democratico in paesi la cui economia dipende dall’estrazione di risorse naturali è bassa. Se, dopo aver letto il Capitolo 6, sarete d’accordo con


Capitolo 1

Introduzione

questa tesi, significa che, rispetto ai tentativi di instaurazione della democrazia, la scoperta di vaste riserve di petrolio in paesi come l’Iraq e la Libia dovrebbe suscitare preoccupazione, più che speranza. Negli anni molti studiosi hanno sostenuto che la democrazia è incompatibile con particolari culture. Quali siano esattamente quelle ritenute dannose per la democrazia tende a cambiare nel tempo, a seconda di quali paesi nel mondo sono democratici. Per esempio, il cattolicesimo è stato visto come un ostacolo alla democrazia durante gli anni Cinquanta e Sessanta, quando pochi paesi cattolici al mondo erano democratici. Con la democratizzazione di paesi cattolici dell’Europa meridionale e dell’America Latina negli anni Settanta e Ottanta, questa opinione è diventata meno comune. Oggi, ovviamente, la cultura che è ritenuta più antitetica alla democrazia è l’Islam. Si tratta di un argomento alquanto controverso che ha infiammato la discussione politica e scientifica anche in Italia. Nel gennaio 2010, è stato oggetto di un aspro dibattito in Italia sulle pagine del Corriere della Sera fra due noti scienziati sociali: Giovanni Sartori, che sosteneva l’inopportunità dell’estensione di diritti politici ai musulmani residenti in Italia poiché portatori di una cultura non integrabile, e Tito Boeri, che riteneva tali argomentazioni prive di fondamento. Come in passato, il motivo fondamentale per cui le persone comunemente considerano l’Islam un impedimento per la democrazia tende a essere il fatto che non vedono molte democrazie islamiche contemporanee. Infatti, questo è uno dei motivi per cui il rapido aumento delle dimostrazioni di massa in molti paesi a maggioranza musulmana durante la Primavera Araba ha colto di sorpresa molti osservatori. Nel Capitolo 7 valutiamo le teorie e l’evidenza empirica degli argomenti secondo i quali alcune culture non sono adatte alla democrazia. Nel far ciò, suggeriamo che la teorizzazione post hoc, che porta le persone a concludere, per esempio, che deve esserci qualcosa nell’Islam che scoraggia la democrazia perché ci sono poche democrazie a maggioranza musulmana del mondo contemporaneo, dovrebbe essere trattata con notevole scetticismo. Se ritenete, dopo aver letto i Capitoli 6 e 7, che i fattori economici e culturali in paesi come l’Iraq e la Libia fanno sì che sia possibile instaurare la democrazia in questi paesi, potreste cominciare a chiedervi se l’intervento militare sia il modo migliore per favorirla. Fu, in effetti, un intervento militare che portò alla fine del regime fascista in Italia e di quello nazista in Germania. Noi non esaminiamo in dettaglio i tentativi di paesi stranieri di imporre la democrazia con la forza, ma prendiamo in esame nel Capitolo 8 il processo attraverso il quale i paesi transitano dalla dittatura alla democrazia. In particolare, studieremo le transizioni dal basso verso democrazia, nelle quali una insurrezione popolare rovescia il regime autoritario, e le transizioni dall’alto, in cui le élite autoritarie introducono politiche liberali che, in ultima analisi, portano alla democrazia. La discussione in questo capitolo offre una spiegazione del perché i regimi autoritari spesso appaiano così stabili, perché le rivoluzioni sono così rare e perché, quando si verificano, sono quasi sempre una sorpresa anche se spesso sembrano così inevitabili con il senno di poi. Focalizzandoci sull’interazione strategica tra le élite e le masse coinvolte nelle transizioni dall’alto verso il basso, porremo l’enfasi anche sul ruolo importante che le informazioni, le convinzioni e l’incertezza possono svolgere in questi tipi di transizioni democratiche.

1.2.2 Che c'è di così buono nella democrazia? Il nostro tempo è stato denominato “l’età della democrazia”. Anche le dittature investono un bel po’ di tempo ed energie a professare una finta ammirazione verso le meraviglie della democrazia. I benefici della democrazia di cui molte persone parlano pos-

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sono essere reali, ma gli scienziati politici preferiscono giungere a conclusioni sulla base della logica e dell’evidenza empirica, piuttosto che avvalersi del senso comune e dell’ideologia. Pertanto, dedichiamo uno sforzo considerevole nei Capitoli 9-11 per analizzare se ci sono delle buone ragioni per realizzare la democrazia. Nel Capitolo 9 ci occupiamo della questione se la democrazia faccia una differenza materiale nella vita delle persone. La crescita economica delle democrazie è maggiore di quella delle dittature? In democrazia le persone vivono più a lungo, godono di una salute migliore e raggiungono livelli di istruzione superiori rispetto a chi vive in una dittatura? Come mostreremo, il quadro che emerge dagli studi è molto più sfumato rispetto alla retorica generalmente utilizzata dai politici di tutto il mondo. Anche se è raro che i regimi democratici ottengano risultati scarsi per quanto riguarda il livello di benessere materiale che assicurano ai loro cittadini, spesso la loro performance non supera in modo considerevole quella di parecchie dittature. Uno dei motivi per cui è difficile mettere a confronto democrazie e dittature e trovare risposte nette rispetto a quale regime politico offra una performance migliore è legato al fatto che esistono tipi di dittature molto diversi. Per esempio, le dittature personaliste, come quella di Kim Jong-un in Corea del Nord, funzionano in maniera molto differente dalle monarchie ereditarie degli stati del Golfo o dalle giunte militari di paesi come la Thailandia. Di conseguenza, dedicheremo il Capitolo 10 all’esame dell’influenza che le differenze istituzionali che caratterizzano i vari tipi di dittatura esercitano sull’andamento economico, sulla stabilità del regime e sulla probabilità di una transizione democratica. Nel Capitolo 11, adottiamo un approccio un po’ diverso per analizzare se il processo democratico possieda effettivamente alcune proprietà intrinseche che lo rendono moralmente o normativamente attraente, al di là dei benefici materiali che è in grado di produrre. Il quadro che emerge dalla letteratura di scienza politica su questo argomento potrebbe sorprendervi. La conclusione è che non vi è alcun supporto all’idea che esista una forma ideale di organizzazione politica – e questo vale anche per la democrazia.

1.2.3

Disegno istituzionale

Ipotizzando che la democrazia costituisca l’alternativa migliore per paesi come l’Iraq, l’Egitto o la Libia, la domanda che segue logicamente è come questa democrazia dovrebbe essere progettata. Progettare una democrazia presuppone che si conoscano sia il funzionamento sia le conseguenze delle varie istituzioni democratiche. Nella restante parte di questo libro analizziamo cosa dice la scienza politica a questo riguardo. Nel Capitolo 12 illustreremo le differenze più significative tra i tipi di democrazia parlamentare, presidenziale e semipresidenziale. Particolare attenzione sarà riservata al modo in cui si formano e sopravvivono i governi nelle democrazie parlamentari e presidenziali. Nel Capitolo 13 prendiamo in analisi la varietà davvero vertiginosa dei sistemi elettorali impiegati nel mondo, cercando di evidenziare punti di forza e di debolezza di ognuno rispetto a elementi quali la proporzionalità, la capacità di tener conto delle differenze etniche, la responsabilizzazione, la rappresentanza delle minoranze. Nel Capitolo 14 ci soffermiamo sul sistema dei partiti. In particolare, ci concentriamo su come la scelta del sistema elettorale si combina con le caratteristiche della struttura sociale di un paese nel determinare sia il numero sia i tipi di partito che possono esistere. Nel Capitolo 15 analizziamo brevemente altri aspetti istituzionali che possono variare tra le democrazie. Le democrazie possono essere federali o unitarie, bicamerali o unicamerali e possono variare rispetto al livello di indipendenza della magistratura. Federalismo, bicameralismo e indipendenza della magistratura possono essere pensate come forme di pesi e contrappesi che creano, in un sistema politico, attori istituzionali


Capitolo 1

Introduzione

con potere di veto. Le cause e le conseguenze di queste scelte sono strettamente correlate e, pertanto, le trattiamo in un unico capitolo. Come si evince dai Capitoli 12-15, le democrazie nel mondo possono assumere diverse forme istituzionali. Ma queste forme producono esiti differenti? Ci occupiamo di questo nel Capitolo 16 nella quarta parte del libro. Inizieremo analizzando le conseguenze normative e materiali legate ai diversi tipi di democrazie. I governi di alcuni tipi di democrazia sono più responsabilizzati, rappresentativi e reattivi di quelli di altri tipi? Quali sono le conseguenze economiche attese associate ai diversi tipi di democrazia? Passeremo poi ad analizzare ciò che la letteratura ha da dire a proposito di come le istituzioni adottate da un paese influenzano la sopravvivenza della democrazia. Molti scienziati politici hanno ipotizzato che le divisioni etniche e religiose che caratterizzano paesi come l’Iraq costituiscano un elemento di destabilizzazione delle democrazie. Ma se esistono divisioni di questo tipo la stabilità di una democrazia è di fatto impossibile oppure si possono individuare meccanismi istituzionali in grado di mitigare gli effetti di queste differenze etniche e religiose? Oltre a esaminare in che modo le istituzioni possono attenuare gli effetti delle divisioni etniche e religiose, analizzeremo anche se la scelta del tipo di regime democratico, parlamentare o presidenziale influenza le prospettive di sopravvivenza della democrazia stessa. L’evidenza empirica mostra che le democrazie parlamentari sopravvivono molto più a lungo di quelle presidenziali. Tuttavia, se questo è vero, ci si potrebbe chiedere cosa spieghi la tenuta di una democrazia presidenziale come quella statunitense. Gli scienziati politici hanno una risposta a questa domanda, ma per comprenderla pienamente dobbiamo essere disposti a compiere un viaggio attraverso lo spazio e il tempo.

1.3 ◆ L’APPROCCIO DIDATTICO DEL LIBRO Un corso introduttivo sui principi di scienza politica ha diversi obiettivi. Noi riteniamo che debba innanzitutto stimolare l’interesse degli studenti verso la disciplina e far loro conoscere i suoi principali oggetti di ricerca e le sue principali scoperte. Il corso dovrebbe inoltre fornire agli studenti un resoconto sul livello di consenso raggiunto riguardo a tali scoperte. Di conseguenza, abbiamo cercato di focalizzare la nostra attenzione sugli argomenti che gli scienziati politici hanno storicamente considerato di vitale importanza e su quelli intorno ai quali vi è un consenso crescente. È innegabile che le cause e le conseguenze della democrazia e della dittatura siano un tema centrale della scienza politica. È per questo motivo che esse sono il tema centrale del nostro libro. Forse meno evidente è il crescente consenso sulle cause e conseguenze di particolari tipi d’istituzioni democratiche e autocratiche. Noi cerchiamo sia di far luce su questo emergente consenso sia di fornire gli strumenti analitici necessari per confrontarsi criticamente con esso. L’approccio plurinazionale è il più utile per affrontare queste domande di ricerca. In pochissimi paesi l’esperienza della democrazia varia a sufficienza nel corso del tempo da consentire a un singolo studio di caso di rispondere alle domande sulle cause e sulle conseguenze della democrazia. Allo stesso modo, pochissime democrazie sperimentano nel corso del tempo un sufficiente mutamento delle loro istituzioni per permetterci di comprendere le cause di tali mutamenti e le loro conseguenze. Per esempio, i paesi che adottano il presidenzialismo o un particolare insieme di leggi elettorali tendono a mantenere queste scelte per lunghi periodi di tempo. In effetti, quando costretti a scegliere nuovamente quelle istituzioni (per esempio, al termine di un’interruzione autoritaria), i paesi spesso fanno la stessa scelta. È per queste ragioni che i confronti tra i paesi sono importanti per comprendere le domande di ricerca che sono al centro di

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questo libro – forniscono la tanto necessaria variabilità che spesso non si trova in un solo paese. Poiché la questioni principali di questo libro riguardano fattori istituzionali, sociali, economici e culturali che rimangono abbastanza costanti nel tempo all’interno dei paesi, il massimo che una comparazione tra un numero relativamente limitato di osservazioni può fare è presentare alcuni casi confermativi. Nel Capitolo 2 esaminiamo perché tale pratica è problematica dal punto di vista del metodo scientifico. Riteniamo inoltre che l’approccio tradizionale adottato da numerosi manuali abbia la spiacevole conseguenza di generare uno scollamento tra ciò che gli scienziati politici insegnano agli studenti e ciò che questi studiosi effettivamente fanno nella loro attività di ricerca. Gli scienziati politici a volte sono coinvolti in esercizi descrittivi come, per esempio, la trattazione dettagliata di come sono adottate le leggi, di come funzionano le istituzioni o di chi detiene il potere in diversi paesi. Tradizionalmente è questo l’oggetto di molti manuali. Tuttavia, è molto più frequente che gli scienziati politici investano il loro tempo a costruire e testare le teorie sui fenomeni politici del mondo. In realtà, essi sono interessati principalmente a spiegare, piuttosto che a descrivere: perché, per esempio, la politica è organizzata secondo linee etniche in alcuni paesi o linee classiste in altri, o perché alcuni paesi sono democrazie mentre altri sono dittature? Alcuni autori di manuali sembrano riluttanti a presentare questo tipo di materiale agli studenti perché lo ritengono troppo complicato. Tuttavia, crediamo fermamente che la politica comparata non sia astrofisica. Il fatto che il metodo scientifico abbia cominciato a essere applicato allo studio dei fenomeni politici solo in tempi relativamente recenti ci suggerisce che gli studenti dovrebbero essere in grado di confrontarsi con relativa facilità con la letteratura di scienza politica. Anzi, riteniamo che, rispetto ad altre discipline come la fisica o la matematica, ci sia una rara opportunità per gli studenti di offrire davvero un contributo rilevante all’accumulazione della conoscenza in scienza politica. Di conseguenza, uno degli obiettivi del nostro libro è di presentarvi ciò che gli scienziati politici fanno nell’ambito della maggior parte del loro tempo e di iniziare a darvi gli strumenti per contribuire ai dibattiti nella nostra disciplina.4

CONCETTI ◆ ◆

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Politica comparata, 6 Politica internazionale, 6

CHIAVE ◆

Scienza politica, 6

Clark e Reichert (1998); Brambor, Clark e Golder (2006, 2007); Uzonyi, Souva e Golder (2012); Golder e Lloyd (2014); e Golder e Thomas (2014) sono esempi di ricerche originali pubblicate su riviste scientifiche in cui i nostri studenti hanno avuto un ruolo rilevante.


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