PROCESSI SOCIALI E INFLUENZA SUL CONSUMATORE
Parte
II
5 NEUROMARKETING, EMOZIONI E CONSUMER NEUROSCIENCE Vincenzo Russo
INTRODUZIONE Gran parte delle decisioni di acquisto e di consumo non è frutto di una valutazione consapevole, razionale e logica. Per anni ci siamo lasciati influenzare da una visione razionalizzante del processo decisionale, come indicato dalla Teoria dell’Utilità Attesa enunciata da Bernulli e formalizzata da Von Neumann e Morgenstern nel 1944. Contrariamente a quanto rappresentato in modo astratto dalle teorie economiche normative, tutte le volte che ci ritroviamo a fare una scelta e a decidere se acquistare un prodotto o un servizio siamo “inconsciamente” coinvolti in una tempesta di emozioni di segno positivo e negativo. È in base a questa tempesta che decidiamo di cedere all’acquisto o di resistere e rinviare la nostra spesa.
©Vincenzo Russo
neuronale che conduce alla decisione interessa essenzialmente la componente emotiva della mente, che “a suaIl conflitto volta può anche essere attivata da marcatori somatici sviluppati dalle aziende con la loro comunicazione. ” (Lugli, 2010, p. 48) Le emozioni non sono, quindi, un elemento disturbante del processo decisionale, ma ne rappresenterebbero una parte essenziale. Le emozioni da elemento di disturbo diventano il modo con cui contestualizziamo un problema e le opzioni che caratterizzano una scelta di acquisto. I comportamenti reali si approssimerebbero alla teoria dell’utilità attesa, lasciando spazio a un processo decisionale che meglio viene descritto dai cosiddetti “modelli descrittivi”, quelli cioè in grado di spiegare il comportamento di scelta sulla base di ciò che viene osservato nella vita di tutti i giorni. Basta riconoscere che i consumatori non decidono a partire da tutte le informazioni possibili, ma, come abbiamo già visto nel Capitolo 1 sulle decisioni, a partire da quelle più disponibili, da quelle che più hanno pregnanza affettiva ed emotiva, da quelle che vengono ritenute soddisfacenti anche se non esaustive. Questo modo di leggere le decisioni prende spunto dai lavori di Simon (1959) prima e di Kahneman e Tversky (1972, 1973) poi, che a partire dagli anni Settanta hanno reso evidente che la decisione, lungi dall’essere guidata da processi esclusivamente logici e razionali (“freddi”), è determinata da vissuti e percezioni strettamente legati ad aspetti emotivi e motivazionali (“caldi”). Oggi, grazie anche alle ricerche neuroscientifiche, questo passaggio è stato più che riconfermato, prospettando un vero e proprio cambiamento epocale nel modo di intendere e studiare le decisioni dei consumatori. Damasio, uno dei più noti neuroscienziati contemporanei, nel saggio del 1995 L’errore di Cartesio, offre una nuova visione dell’uomo che decide. Ribalta la tradizione culturale, inquadrando la funzione delle emozioni non come elementi perturbanti la serenità della ragione, ma come elementi di base del buon funzionamento della mente, dimostrando che un danno in un’area cerebrale deputata alle capacità emozionali rende le persone incapaci di manifestare ragionevolezza, soprattutto nella presa di decisione in condizioni socialmente rilevanti. Lo dimostra anche un interessante lavo-
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ro di Bechara e colleghi (1997) secondo i quali lesioni specifiche ai circuiti cerebrali delle emozioni producono performance inferiori alla norma in un gambling task. Altri lavori evidenziano poi come soggetti con lesioni nelle zone deputate alla gestione delle emozioni (amigdala, corteccia orbito-frontale e insula) hanno una minore avversione al rischio agendo anche azioni e decisioni economiche paradossalmente più efficaci dei soggetti normali. Ciò è in linea con i modelli teorici sulle scelte rischiose che mettono in primo piano il ruolo delle emozioni come elemento di disturbo, ma al contempo ne dimostrano la forza e partecipazione nella determinazione delle decisioni. Si comprende perché Damasio (1995), negando la concezione cartesiana del dualismo mente-corpo, evidenzia l’azione reciproca del corpo e del cervello, che costituiscono un organismo unico e indissociabile. Pertanto la ragione non potrebbe funzionare correttamente senza le emozioni, ovvero senza lo stretto collegamento con il corpo, che offre costantemente la materia di base con cui il cervello costruisce le immagini da cui origina il pensiero. In questo caso il ruolo della corteccia prefrontale è quello di supportare le scelte effettuate emotivamente. Il cervello consapevole selezionerebbe le informazioni necessarie per una spiegazione razionale delle scelte emotive e la razionalità interverrebbe per trovare, anche a posteriori, la giustificazione alle decisioni prese (Lindstrom, 2008). Questo nasce da una funzione adattiva delle emozioni che permetterebbero una valutazione degli elementi di contesto con maggiore celerità. In questo modo Damasio (1995) restituisce dignità alle emozioni che considera vere e proprie dimensioni cognitive: i consumatori non sarebbero macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano. Si tratta di una nuova prospettiva che meglio spiega l’acquisto di impulso, l’inintenzionalità delle nostre decisioni, il ruolo della dimensione inconsapevole delle nostre azioni di consumo. In questa prospettiva «la mente cognitiva svolge un ruolo importante, ma residuale nel processo di acquisto: ritarda e razionalizza scelte maturate a livello emotivo. È stato giustamente sostenuto che noi siamo dei razionalizzatori piuttosto che decisori razionali» (Lugli, 2010, p. 41). Ovviamente questo modo di intendere la relazione tra emozione e decisione impone nuovi modelli di studio del consumatore come quelli offerti dal neuromarketing. La pregnanza affettiva o l’emozione scatenata da un evento può essere analizzata attraverso le risposte neuropsicofisiologiche come l’attivazione di alcune parti del cervello (per esempio l’amigdala) o il cambiamento degli indicatori di attivazione psicofisiologica come la conduttanza cutanea, il ritmo cardiaco, la regolarità del respiro e la tensione muscolare. «L’emozione è l’insieme dei cambiamenti dello stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle cellule nervose sotto il controllo di un apposito sistema del cervello; la spiegazione dell’attivazione emotiva dell’atto di consumo ci aiuta a comprenderne l’essenza» (Damasio, 1995, p. 201). Sono questi i principi su cui si muovono il neuromarketing e gli studi di neuroeconomia. Un diverso modo di studiare il consumatore, non più schematizzato nella sua rappresentazione razionale e logica tipica dell’età moderna (homo oeconomicus), ma in una più complessa rappresentazione in cui la dimensione razionale si fonde con il suo substrato biologico (homo neurobiologicus). Accanto alle tradizionali metodologie di studio sul consumatore (focus group, interviste ecc.) si affiancano sempre più frequentemente strumenti in grado di analizzare questo substrato biologico come misuratore di specifiche dinamiche affettive e di processi mnemonici. Non si tratta di considerare in assoluto il comportamento umano nelle sue determinanti biologiche, ma di analizzare le correlazioni tra comportamento osservabile e il suo correlato biologico, la cui natura può contribuire a comprendere il comportamento e gli aspetti ritenuti determinanti nel processo di consumo: il coinvolgimento emotivo, la focalizzazione attentiva e la memorizzazione. «La spiegazione non risiede nel dato biologico, bensì dall’analisi del rapporto tra
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il dato in sé, l’organismo nel suo complesso e l’ambiente in cui l’organismo agisce. Prendere uno di questi separatamente significherebbe privare la disciplina neuroeconomica (e del neuromarketing) di una qualsiasi capacità esplicativa, limitandosi a un esercizio meramente descrittivo» (Lucchiari & Pravettoni, 2011, p. 45). «L’attivazione neurologica non è, infatti, riconducibile all’azione in quanto tale, ma allo scopo che l’acquirente si propone ed è la conoscenza di questo scopo che assume una forte rilevanza per il marketing» (Lugli, 2010, p. 1). Quest’affermazione offre a chi si occupa di comportamenti di consumo una descrizione dello studio neuroscientifico non fine a sé stesso, ma capace di analizzare quali possano essere gli elementi in grado di orientare l’azione e giustificare un atto di consumo. Si parte dal presupposto che se ci emozioniamo positivamente alla vista di un prodotto probabilmente saremo più propensi ad acquistarlo (sempre che rientri tra le possibilità del consumatore). Alla base del neuromarketing vi sono due elementi caratterizzanti: da una parte la consapevolezza che molte scelte di acquisto sono fatte senza un’immediata attivazione del sistema cognitivo, ma grazie al sistema adattivo delle emozioni, offrendo, a volte, significato a ciò che si è fatto solo dopo avere agito (Gray, 2007; Zurawicky, 2010); dall’altra la convinzione che i segnali psicofisiologici e neurologici possono essere in qualche modo misurati e registrati, permettendo di arricchire con utili informazioni gli esiti delle indagini sul consumatore svolte con le tecniche tradizionali (focus group, interviste, questionari ecc.).
LE TECNOLOGIE PER L’ANALISI NEUROSCIENTIFICA DEI CONSUMATORI Attraverso tecnologie sempre più sofisticate è possibile misurare l’attività elettrica del cervello, la conduttanza cutanea, la pressione arteriosa, il movimento oculare e la dilatazione pupillare, il ritmo del respiro e le microcontrazioni di specifici muscoli del volto. Tutti indicatori utili per l’analisi di una modifica psicofisiologica e neurologica da correlare con l’engagement emotivo, l’attenzione focale e la possibile memorizzazione di stimoli legati al mondo del consumo. A queste vanno aggiunte anche le indicazioni che sono state tratte da macchine più sofisticate come la PET (Positron Emitted Tomography), la magnetoencefalografia (MEG) e la risonanza magnetica funzionale (fRMI, Functional Magnetic Resonance Imaging). Tali tecniche di indagine hanno permesso in questi ultimi anni di mappare il cervello offrendo preziose informazioni riguardo le funzioni cerebrali in relazione alle decisioni di acquisto (Lindstrom, 2008; Zurawicki, 2010), indicando quali aree corticali si attivano in relazione a particolari comportamenti o esperienze (Gazzaniga, 2004; Sarter et al., 1996). Definito come brain mapping, questo tipo di studio ha permesso di avere una prima mappatura cerebrale, così come la possibilità di inferire i processi psicologici sottostanti a particolari fenomeni. Ovviamente siamo lontani dall’avere una precisa mappa cerebrale, tuttavia diverse ricerche possono offrire alla ricerca sul consumatore interessanti spiegazioni. Come scrive Zurawicki (2010, p. 40) «le emozioni possono essere in qualche modo accuratamente classificate e descritte in relazione ai circuiti neuronali». Per esempio, Davidson e Van Reekum (2005) hanno dimostrato che l’orgoglio associato al raggiungimento di un obiettivo e il piacere del guadagno è strettamente legato all’attivazione di una specifica area dorsolaterale della corteccia prefrontale (quella deputata alla presa di decisione). Mentre il guadagno ottenuto da situazioni fortuite come la vincita alla lotteria attiva parti diverse del cervello. La gioia per la vincita e l’orgoglio per la riuscita sono emozioni attivate da diverse parti del cervello. Così come il piacere e la riduzione del dolore non sono concetti interscambiabili perché legate all’attivazione di diverse aree cerebrali.
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Esempio di caschetto EEG (EPOC di Emotiv) non invasivo utilizzabile nelle ricerche di neuromarketing. ©Vincenzo Russo
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Questa metodologia di studio di analisi del cervello (si veda la Figura 5.1) ha ripreso e ampliato gli esiti delle scoperte fatte nel secolo scorso e che fino allo sviluppo delle tecnologie neuroscientifiche si era sviluppato sulla base dell’osservazione di soggetti traumatizzati per incidenti e rimasti in vita. Tra questi, oltre ai noti casi trattati da Broca e Wernike, vi è il caso di Phineas Gage grazie al quale si è rilevato per la prima volta che la zona prefrontale mediale è strettamente collegata con le emozioni e con le decisioni (Damasio, 1994). Phineas Gage rimane nella storia (anche perché il suo cranio è esposto al pubblico nel museo della Harvard Medical School) per avere contribuito a far comprendere come le decisioni (attribuibili alla zona prefrontale del cervello) sono strettamente legate alla dimensione emotiva e affettiva. Conosciuto per essere diventato uno dei casi di studio più famosi in neurologia (citato come American Crowbar Case) in seguito a un incidente sul lavoro avvenuto nel pomeriggio del 13 settembre 1848, mentre inseriva una carica esplosiva in una roccia. A causa dell’esplosione accidentale della polvere da sparo, il ferro di pigiatura che Gage stava usando per compattarla schizzò in aria attraversando la parte anteriore del suo cranio, provocando un trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello. Miracolosamente sopravvissuto all’incidente, già dopo pochi minuti Gage era di nuovo cosciente e in grado di parlare. Nonostante non ebbe alcun danno funzionale evidente e riuscendo, dopo appena tre settimane, a essere in grado di uscire di casa in maniera del tutto autonoma, la sua personalità subì radicali trasformazioni, al punto che gli amici non lo riconoscevano, in quanto divenuto intrattabile, in preda a repentini cambiamenti di umore e incline alla blasfemia. L’incidente aveva danneggiato una parte del cervello apparentemente non connessa alle emozioni poiché prossima alla zona prefrontale, deputata alla presa di decisione. Eppure la sua abilità di decidere in condizioni socialmente coinvolgibili fu persa definitivamente. Una prima interessante dimostrazione di come le emozioni non sono solo relegate nell’area più primitiva del cervello (il sistema limbico), ma strettamente correlate a un’area dedicata alla presa di decisione e di come queste contribuiscano a rendere le persone soggetti “socialmente razionali”. In realtà come dimostrarono i coniugi Damasio (Damasio, 1994) la traiettoria Il cranio di Phineas Gage e dell’asta aveva distrutto due aree cerebrali della corteccia prefrontale (la regione la ricostruzione del danno ventromediale e parte di quella mediale) che sono cruciali per l’inibizione dell’acerebrale. ©Photo Researchers/ migdala e per l’integrazione emotiva, cognitiva e dell’informazione sociale. Science History Images/ Damasio rilevò che il comportamento di Gage poteva essere identico a quello di Alamy Stock Photo numerosi suoi pazienti che avevano subito l’asportazione chirurgica a causa di tumore cerebrale della medesima parte del cervello. Era il caso del signor E.V.R., un intelligente e abile contabile che aveva subito un intervento chirurgico cerebrale nella stessa zona di Gage. Per quanto il suo quoziente intellettivo fosse rimasto identico, non era più la persona organizzata e responsabile di prima. Era diventato inaffidabile e non riusciva più a mostrare emozioni di fronte a immagini forti e terrificanti. La sua capacità di prendere decisioni fu decisamente compromessa poiché il suo cervello e non riusciva più a integrare ragionamento cognitivo ed espressione emozionale. Grazie a questi studi sulle connessioni tra amigdala e corteccia prefrontale la vecchia idea che il pensiero e le emozioni siano fra loro opposti non è più credibile. Joshua Greene (2014), studioso di processi decisionali e morali, ha voluto dimostrare ancora una volta questa stretta connessione riflettendo sul famoso caso morale del “carrello ferroviario”. Il problema del carrello ferroviario chiede di valutare che cosa Figura 5.1 Mappa cerebrale sviluppata con brain imaging. farebbe una persona se un pesante carrello ferroviario
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fuori controllo stesse per uccidere cinque persone poste sul suo percorso. Nello specifico un autista di un carrello conduce un veicolo capace solamente, tramite deviatoio, di cambiare rotaia, senza la possibilità di frenare. Sul binario percorso si trovano cinque persone legate e incapaci di muoversi e il carrello è diretto verso di loro. Tra il carrello e le persone legate si diparte un secondo binario parallelo, sul quale è presente una persona legata e impossibilitata a muoversi. Le opzioni sono due: lasciare che il tram prosegua diritto e uccida le cinque persone, oppure azionare il deviatoio e ucciderne una sola. Di fronte a questo dilemma la maggior parte delle persone deciderebbe di deviare il carrello azionando lo scambio ferroviario e sacrificando una persona per salvarne cinque. In una seconda versione la situazione cambia. In questo caso il carrello procede ma non vi è lo scambio. L’unico modo per salvare le cinque persone è quella di prendere una persona che si trova prossima al binario e scaraventarla verso il carrello procurandone la fermata. La conseguenza delle due azioni è la stessa, muore sempre una persona, ma la messa in atto è ben diversa. Nel secondo caso la maggior parte delle persone si rifiuta di sacrificare una persona lanciandola verso il carrello. L’emozione di azionare la leva dello scambio è minore rispetto al lancio della persona. Anche in questo caso la corteccia prefrontale ha un ruolo importante. Coloro che hanno un’alterazione del suo funzionamento non riescono a rispondere coerentemente al dilemma del carrello ferroviario. Un danno nella corteccia ventromediale orbitofrontale e nella corteccia cingolata riducono il comportamento morale e sociale e danno vita al paradosso del problema del carrello ferroviario. La convergenza nei lobi frontali di informazioni provenienti sia dall’esterno (attraverso le vie di associazione con le aree visive, uditive e somestesiche) sia dall’interno dell’organismo (attraverso le connessioni con l’ipotalamo e con diverse strutture del sistema limbico) porta a pensare che una lesione in questa sede possa dissociare la valutazione cognitiva delle situazioni dalla concomitante esperienza emozionale. In generale i lobi frontali hanno la funzione di conferire all’individuo la capacità di valutare le conseguenze di azioni future e di pianificare il proprio comportamento motorio di conseguenza. I lobi frontali integrano quindi le informazioni esterocettive ed enterocettive che ricevono in modo da selezionare la risposta motoria più adatta, tra le diverse possibili. Per dovere di cronaca, ricordiamo che Gage morì diversi anni dopo per una forma violenta di epilessia, forse dovuta all’incidente stesso. Grazie ai contributi raccolti dagli studi sui casi traumatici e dalle indagini neuroscientifiche siamo ormai di fronte a un’elevata quantità di informazioni sia nello specifico campo del neuromarketing e della neuroeconomia, sia nello studio dell’uomo in generale, che possono offrire interessanti suggerimenti nella comprensione del comportamento di consumo. Le neuroscienze, infatti, sono l’esito dell’integrazione di varie discipline come la biologia molecolare, l’elettrofisiologia, la neurofisiologia, l’anatomia, la neurobiologia, la neuropsicologia cognitiva e le scienze cognitive, le quali insieme hanno creato un nuovo campo di ricerca in grado di spiegare alcuni elementi sconosciuti del comportamento umano, soprattutto se queste informazioni vengono criticamente analizzate in una logica integrativa con quanto rilevato con le tecniche di indagine classiche (interviste, questionari e focus group).
LA NASCITA DI UNA NUOVA SCIENZA: LA CONSUMER NEUROSCIENCE David Ogilvy, uno dei più grandi pubblicitari del secolo scorso, nel 1963 disse che il vero problema di chi svolge ricerche di mercato è che «le persone non pensano a quello che sentono, non dicono quello che pensano e non fanno quello che dicono». Una bella frase che però solleva uno dei più grossi problemi per chi si occupa di valutare le decisioni di acquisto e di comprendere le motivazioni più profonde delle scelte dei
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consumatori. Purtroppo il mondo del marketing è pieno di casi in cui i dati di ricerca classica, ovvero quelli raccolti con strumenti tradizionali come focus group, questionari e interviste, non corrispondono al selling out dei consumatori, ovvero ai loro comportamenti nel mercato. Di certo le neuroscienze stanno offrendo un nuovo modo di studiare i consumatori. Si tratta non solo della possibilità di fruire di strumenti di analisi neurologica e psicofisiologica sempre più sofisticati, sincronizzati ed economici, in grado di misurare l’emozione provocata da uno stimolo di marketing, ma anche, e soprattutto, della possibilità di fruire di una migliore conoscenza del funzionamento cerebrale, per essere in grado di comprendere meglio la reazione alle stimolazioni e ai prodotti di consumo. Oggi grazie a questi studi, alle scienze cognitive e all’economia comportamentale sappiamo quanto importante sia l’emozione come variabile cogente delle decisioni e come spesso vengano prese in maniera inconsapevole (Lee et al., 2007). L’attivazione cerebrale inconsapevole e automatizzata è molto più consistente di quanto avremmo potuto immaginare. Lo sosteneva già nel 2003 Gerald Zaltman nel suo testo Come pensano i consumatori, in cui afferma che circa il 95% delle scelte dei consumatori avviene senza un attento processo razionale. Per questo motivo suggerisce di adottare un sistema di analisi di mercato in grado di andare al di là del dichiarato. Da qui le sue critiche all’eccessivo utilizzo dei focus group come strumento affidabile di rilevamento della dimensione emozionale, per esempio quella stimolata da spot pubblicitari, pagine web o packaging di prodotti. Fu proprio Zaltman, con Stephen Kosslyn, a registrare un brevetto per una nuova metodologia di ricerca che anticipava il neuromarketing. Siamo nel 2000 quando i due depositano il brevetto statunitense numero 6.099.319 per la metodologia di ricerca “Neuroimaging as a Marketing Tool”. Un brevetto che farà la storia del neuromarketing, anche se questo termine sarà usato per la prima volta nel 2002 da Ale Smidts dell’Università di Rotterdam. Difatti NeuroFocus, il primo laboratorio di neuromarketing nato alla Berkeley Univerisity nel 2005 sotto la guida di A.K. Pradeep, autore di The Buying Brain (2010), ne acquistò i diritti rilevando il brevetto alla base dell’uso della tecnologia di neuroimaging come strumento di marketing. L’acquisizione ebbe il ruolo di rafforzare fortemente la posizione di leadership dell’azienda nel campo dei test neurologici globali, poiché fondamentale nei test di marketing, branding e pubblicità. Non a caso, nel 2011 il laboratorio NeuroFocus fu acquisito dalla più grande azienda di ricerche di mercato Nielsen, divenendone il dipartimento di neuromarketing e consumer neuroscience. Oggi siamo in una fase di maturità della materia. Anche se alcuni autori continuano a usare i termini “neuromarketing” e “consumer neuroscience” in maniera interscambiabile, oggi li consideriamo complementari. Il primo inteso come un insieme di metodologie e approcci caratterizzato dalla «raccolta sistematica e dall’interpretazione di insight neurologici e neurofisiologici degli individui, utilizzando diversi protocolli che consentono ai ricercatori di esplorare le risposte non verbali e fisiologiche a vari stimoli ai fini della ricerca di mercato», come indicato dalla Neuromarketing Science and Business Association). La consumer neuroscience è invece da intendersi come l’insieme delle conoscenze di base dei processi di consumo analizzati anche grazie ai processi di base neurologici. Se il neuromarketing si può intendere come l’insieme di approcci, metodologie e applicazioni pratiche di analisi dei principali tool di marketing, la consumer neuroscience rappresenta l’insieme delle conoscenze scientifiche per comprendere le motivazioni, i processi neurofisiologici e le basi neuronali dei dati rilevati con le tecniche di neuromarketing. Grazie alle neuroscienze abbiamo capito che buona parte del cervello ha una preponderante attivazione automatizzata, inconscia e incontrollata alle stimolazioni. Anzi, se un buon 20% di energia è consumata dal nostro cervello, che pesa solo il 2% del corpo umano, il 90% di questa energia viene utilizzata in uno stato di ripo-
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so. Sembra paradossale, ma il nostro cervello spende il massimo delle sue energie quando non è impegnato in faticosi processi cognitivi. Al contempo questo dato ci offre una forte testimonianza del valore che ha la dimensione inconsapevole dell’attivazione cerebrale. La consumer neuroscience e il conseguente marketing intuitivo (Genco, 2019) non si soffermano solo sui processi inconsci, ma ci permettono di comprendere come valorizzare, in una logica integrativa con il marketing tradizionale e la Psicologia dei Consumi classica – per la quale rimanda a Olivero e Russo (2013) –, queste nuove conoscenze. Si tratta di un approccio innovativo che considera l’effetto dell’influenza dei processi inconsci su quelli consci, partendo da assunti e paradigmi interpretativi del tutto nuovi, come se si trattasse di una vera e propria rivoluzione copernicana, che a dispetto degli approcci classici non ci chiede di attirare l’attenzione per essere persuasivi con il messaggio pubblicitario, né che la memorizzazione avvenga attraverso un consapevole processo di rivalutazione cognitiva del suo contenuto. Le azioni di marketing che si basano su una più approfondita conoscenza del cervello permettono, come vedremo, l’influenzamento indiretto dei comportamenti attraverso la stimolazione consapevole e inconsapevole dei consumatori. Sappiamo, grazie alle neuroscienze e all’applicazione al campo dei consumi, che uno dei principi del marketing intuitivo è che l’attenzione diretta e consapevole, benché importante, non è necessaria per l’apprendimento. Anzi, in alcune circostanze l’attivazione attentiva e la consapevolezza rischiano di produrre nella mente del consumatore delle profonde controargomentazioni in grado di mettere in discussione il messaggio pubblicitario, a volte del tutto banale e semplificante. Si pensi per esempio a messaggi come “Chiama ora”, “Ultime opzioni disponibili”. È ovvio che pensando attentamente a questi noti claim è facile trovarne i limiti. Molti studi hanno dimostrato che l’attenzione focalizzata sul messaggio può attivare proprio queste controargomentazioni in grado di limitare il valore persuasivo del messaggio (Genco, 2019). La consumer neuroscience e il marketing intuitivo hanno dimostrato che anche a bassa attenzione è possibile determinare memorizzazione o apprendimento e influenzare i comportamenti di consumo. È infatti possibile attivare la parte più antica del cervello, quella legata alle emozioni, anche con stimolazioni intrinsecamente gradevoli e coinvolgenti, senza necessariamente servirsi di noiosi e disturbanti messaggi pervasivi. Si tratta solo di conoscere il funzionamento cerebrale e il processo di engagement o l’emotional journey, che descriveremo meglio più avanti. In questo panorama le connessioni associative tra brand, prodotto e messaggio non devono necessariamente rispettare la logica sequenziale razionale. D’altra parte, nel Capitolo 3 sull’apprendimento vedremo come le teorie comportamentali hanno fondato uno dei processi di apprendimento più importanti, il condizionamento classico, sulla logica della semplice giustapposizione temporale tra due stimoli, osservati in prossimità temporale o fisica per creare una sorta di connessione. Comprendere come il processo persuasivo pubblicitario possa essere caratterizzato da non senso o bassa attenzione e razionalità, come ha dimostrato Robert Heath (2012) nel suo illuminante testo Seducing the Subconscious, modifica profondamente il paradigma di studio e di creazione del messaggio pubblicitario, facendoci capire perché spot del tutto irrazionali o incomprensibili hanno un certo successo. A tal proposito cito quello più noto sia in letteratura sia tra i miei studenti. Si tratta dello spot della Cadbury andato in onda nel 2007, che ha come protagonista principale un gorilla che suona la batteria, con il sottofondo del brano di Phil Collins In the Air Tonight. Lo spot è del tutto irrazionale, eppure ha avuto un successo enorme. La camera parte inquadrando uno sfondo viola e poi si sposta lentamente fino a mostrarci il primo piano di un gorilla, che poi si scopre essere seduto dietro una batteria. Dopo qualche secondo e una stirata di collo da parte del gorilla, questo inizia a suonare egregiamente la batteria. La musica incalza, l’attiva-
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zione fisiologica cresce. La scena continua sempre con lo sfondo viola fino ad arrivare al prodotto. L’ultima scena mostra un’immagine del Cadbury Dairy Milk. Che senso ha? Cosa ci vuole dire? Dopo 84 secondi di gorilla che suona la batteria arriva il cioccolatino. Le associazioni razionali possono essere tante ma forzate: il cioccolato è nero come il gorilla, la forza del gorilla rappresenta l’energia del cioccolato e così via. Tutte considerazioni apparentemente corrette, ma del tutto ingiustificate. Una cosa è certa: analizzando il dato con tecniche di neuromarketing, come ha fatto la Steven Send Research, nota società di ricerca di neuromarketing che ha analizzato l’efficacia emozionale di centinaia di spot di successo come quelli del Super Bowl, si rileva quanto potente fosse l’attivazione fisiologica alla vista dello spot e quanto questa si mantenesse alta anche alla vista del brand e del prodotto. I risultati non si sono fatti attendere. Sky ha riferito che, nello spazio di due settimane, 58000 famiglie hanno ritagliato del tempo nel corso delle loro giornate impegnative per guardare una versione lunga dell’annuncio. La Cadbury con questo spot realizzato dall’Agenzia Fallon di Londra ha conquistato una quota del 10% del mercato nel suo primo anno di attività dopo lo spot. L’intera campagna ha prodotto un recupero del marchio del 171% in più rispetto alle campagne precedenti. Esso ha inoltre ha fornito un ritorno di entrate incrementale di £ 4,88 per ogni sterlina spesa. Come si spiega? Cosa c’è di così chiaro da permettere una forte memorizzazione del prodotto e del brand? L’unico elemento di continuità tra la prima parte dello spot con il gorilla e la chiusura di 6 secondi con il prodotto è il colore viola: quello dello sfondo alle spalle del gorilla e quello del packaging del prodotto. In ogni caso questo è uno dei più noti esempi di come ci possa essere uno spot del tutto irrazionale, senza alcun immediato o evidente messaggio, che abbia però un grande successo. Con gli studi di consumer neuroscience si completano tutte queste conoscenze permettendoci di “entrare” all’interno della “Black Box” per capire, per quanto è al momento possibile, che cosa succede al suo interno. Si tratta di conoscenze utili per comprendere la potenza attivante di alcuni stimoli rispetto ad altri e per individuare soluzioni scientificamente valide per misurare questa forma di attivazione, che in termini tecnici chiamiamo engagement. Lo sviluppo di teorie esplicative coerenti con queste nuove conoscenze ha dato vita non solo a una più rigorosa metodologia di studio della “Black Box”, ma anche a nuove discipline in grado di dare una visione più chiara dei processi decisionali, come la neuroeconomia, ovvero quella nuova area di studio fortemente interdisciplinare che studia il funzionamento della mente umana in relazione ai processi decisionali nella soluzione di compiti economici. Da qui le applicazioni sono cresciute in maniera esponenziale, così come l’interesse di studiosi ed esperti di marketing. In effetti, nell’ultimo decennio lo sviluppo delle conoscenze e degli strumenti delle neuroscienze ha permesso un crescente interesse per la ricerca che collega le tecniche delle neuroscienze alla psicologia, al marketing, al management, all’economia e alla sociologia. Sono passati già diversi anni da quando nel 2006 il professor Qingguo Ma dell’Università di Zhejiang in Cina, vicedirettore dell’Accademia delle Scienze del Management e dell’Ingegneria della Cina, ha proposto il concetto di neuromanagement, applicando le tematiche e le tecniche delle neuroscienze cognitive a soggetti manageriali ed economici. Questo ambito, che comprende anche il neuromarketing e gli studi neuroscientifici dei consumi (consumer neuroscience) ha lo scopo di analizzare i principali problemi di carattere manageriale ed economico attraverso le neuroscienze – insieme alle scienze cognitive, alla psicologia e all’economia comportamentale. L’idea è di fornire alla comunità di esperti di marketing, dirigenti, consulenti, formatori e a tutti gli attori delle realtà aziendali alcuni strumenti utili, da una parte, per gestire al meglio il proprio lavoro – neuroleadership e neuroselling – e, dall’altra, per aiutare le aziende stesse a comunicare meglio, con l’integrazione di modelli tradizionali di studio dei consumi e del marketing con il neuromarketing.
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Nuovi modi di intendere il consumatore e il marketing In contrasto con il modello classico di marketing persuasivo, si fa sempre più strada un nuovo modo di studiare i consumatori. Stephen Genco, noto esperto di neuromarketing e coautore di Neuromaketing for Dummies (2013), descrive i principi di base del marketing intuitivo fondato sul ruolo dei sistemi di elaborazione inconsci. Alla base del marketing intuitivo vi è la consapevolezza che il contenuto di uno stimolo di marketing è capace di influenzare la risposta del consumatore anche se privo di apparente significato razionale. Siamo molto lontani dall’idea che il marketing debba per forza fare pensare e convincere con il coinvolgimento razionale del consumatore. Difatti, un principio importante del marketing intuitivo è che l’attenzione diretta può non essere l’unico elemento capace di garantire persuasione. Gli studi di consumer neuroscience e i contenuti di questo libro si focalizzano sui classici temi della Psicologia dei Consumi, integrando le più recenti conoscenze su come funziona il marketing fondato anche sulle neuroscienze e sui cosiddetti “consumatori intuitivi”. Questi ultimi, paradossalmente, sono più facilmente riconoscibili per ciò che non fanno, piuttosto che per ciò che fanno; sono naturalmente attratti da cose semplici, familiari e confortevoli, risultando naturalmente sospettosi delle novità. Si tratta di un modo di reagire agli stimoli che risponde a una specifica struttura cerebrale la quale contribuisce a farci accettare il fatto che i consumatori possano anche essere inconsapevoli di poter venire influenzati da processi inconsci, al di fuori della loro consapevolezza cosciente. A partire da questa considerazione, Genco definisce, di conseguenza, il neuromarketing come un nuovo insieme di metodi e strumenti per misurare il modo in cui le persone rispondono al marketing, alla pubblicità, ai prodotti e ai marchi in modo conscio e inconscio. Come spiegheremo in dettaglio più avanti, siamo di fronte a un profondo cambiamento di paradigma del marketing. Per decenni abbiamo ipotizzato che per vendere di più occorra attirare l’attenzione del target per convincerlo a scegliere il nostro prodotto, adducendo spiegazioni razionali e convincenti. Vedremo, in realtà, che accanto a questo approccio, considerabile valido e attuale, bisogna considerare anche la possibilità di “guidare” i comportamenti dei consumatori senza necessariamente attivare un profondo coinvolgimento attentivo e razionale. Così come vedremo che l’idea di costruire preferenze attraverso un attento ragionamento lascia il posto alla consapevolezza che il nostro cervello, o meglio la parte più primitiva di questo, agisce lasciandosi guidare dagli stimoli del momento. Non si spiegherebbe perché il 64% degli acquisti nei punti vendita avviene in maniera istintiva, come suggerito da alcune interessanti ricerche di una delle più grandi aziende al mondo di ricerca di mercato, Ipsos. Pensare che le nostre preferenze siano stabili e ben definite è del tutto un’illusione. Le decisioni vengono fortemente condizionate da bias, euristiche, schemi anticipatori (priming) e possono essere inconsapevolmente modificate da diverse variabili come la presenza di altre persone, l’effetto di colori, profumi e altre forme di “spinte gentili” (nudging). Oggi sappiamo che le emozioni hanno un ruolo determinante nelle scelte dei consumatori. Non mi riferisco però al sentimento, ovvero alla razionalizzazione della dimensione affettiva, altrettanto importante ma non sufficiente a comprendere l’aspetto affettivo inconsapevole, ovvero quello che non si potrà mai intercettare pienamente con un’intervista o un questionario. Una delle più affascinanti scoperte delle neuroscienze è l’esistenza di una sorta di perseguimento inconscio di un obiettivo. Gli obiettivi dichiarati e consapevoli sono sempre stati di grande interesse per gli studiosi dei consumi. L’approccio tradizionale del marketing e la finalità degli spot da sempre hanno cercato di guidare il perseguimento degli obiettivi in maniera razionale, convincendo il consumatore della bontà del prodotto.
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Tuttavia, molti studi di neuropsicologia e di psicologia sociale hanno dimostrato che gli esseri umani possono anche avere obiettivi inconsci e che questi possono essere attivati e perseguiti senza la piena consapevolezza dei consumatori. Basti pensare ai numerosi studi sul priming, sul nudge, o alla behavior economics, l’economia comportamentale, di cui parleremo nei prossimi capitoli. Questa nuova visione non deve però fare credere che sia tutto più semplice e che si possa facilmente condizionare il nostro consumatore. Infatti, come sostiene Genco (2019, p. 7), l’avversione alla persuasione può anche agire inconsapevolmente, rendendo ancora più difficile il lavoro del marketing, al di là della banalizzazione, già citata, dell’avere scoperto il “pulsante dell’acquisto” nel cervello dei consumatori. In effetti il processo decisionale è troppo complesso per essere localizzato in un singolo punto del cervello o in un singolo processo neurologico. Siamo tutti così diversi che qualunque stimolo capace di spingere qualcuno a comprare qualcosa rischierebbe di non funzionare per tanti altri. È interessante notare, tuttavia, che le neuroscienze hanno individuato quello che sembra essere un “pulsante di arresto” responsabile del controllo degli impulsi. Influenzando aree così diverse come comportamenti rischiosi e dipendenze, quest’area potrebbe essere ciò che ti fa cambiare idea all’ultimo minuto quando stai per ordinare la ciambella gigante da accompagnare al tuo caffè mattutino, o per acquistare il grande televisore a schermo piatto che ha attirato la tua attenzione mentre stavi comprando un telefono cordless. A tal proposito, i neuroscienziati Marcel Brass della Ghent University e Patrick Haggard dello University College di Londra hanno trovato un’area, la corteccia frontale dorsomediale situata appena sopra gli occhi, che sembra essere responsabile dell’arresto del comportamento impulsivo. Secondo gli autori dello studio, questa specifica rete cerebrale è coinvolta nell’autocontrollo e controlla e limita il desiderio di agire degli esseri umani. Questo è importante nella vita di tutti i giorni, quando le decisioni di fare o non fare qualcosa in una data situazione possono avere conseguenze irrimediabili. Dallo studio si evince inoltre che i ricercatori erano persino in grado di prevedere con quale frequenza i singoli volontari avrebbero deciso di fermarsi nel cliccare un pulsante, osservando l’attività cerebrale nella corteccia frontomediale. Coloro che presentavano un’intensa attività in questa regione si trattenevano dall’agire, mentre le persone con una scarsa attività premevano il pulsante più spesso, sebbene talvolta le istruzioni indicassero loro di frenarsi. Si potrebbe considerare questo un pulsante “NON acquisto”, almeno per gli acquisti d’impulso. Da qui a sostenere che abbiamo scoperto che esiste il pulsante dell’acquisto vi è una distanza enorme.
LE NEUROSCIENZE: UNA NUOVA RISPOSTA PER ESPERIENZA, EMOZIONI E MOTIVAZIONI
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Alla base delle decisioni degli individui si trova, quindi, la dimensione soggettiva dell’esperienza: che cosa è un profumo? che cosa è un’emozione? perché qualcuno dovrebbe preferire una particolare situazione rispetto a un’altra? Una possibile chiave di lettura e di spiegazione è fornita dalle neuroscienze che indagano sui meccanismi neurali che sono alla base della nostra esperienza soggettiva. Come già accennato, non dobbiamo dimenticare che un soggetto umano giudica le offerte che gli vengono presentate non sulla base del loro valore oggettivo e razionale, ma sollecitato dalle sensazioni soggettive che tali offerte gli suscitano e gli prospettano. In passato, molti modelli psicologici avevano cercato di evitare di trattare direttamente con l’esperienza soggettiva, suggerendo dei modelli a scatola nera dell’esperienza umana. Il mondo dell’esperienza soggettiva è ancora in gran parte misterioso e solo in anni recenti le 1
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Questo paragrafo ripropone la scheda di Riccardo Manzotti pubblicata nella prima edizione di questo testo.
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neuroscienze lo hanno preso in considerazione grazie agli sviluppi delle tecniche di brain imaging e delle metodologie di registrazione diretta dell’attività neurale in soggetti umani e animali coscienti. Il decennio 1990-2000 è stato considerato dagli esperti di neuroscienze il decennio del cervello perché ha visto un impressionante incremento nella comprensione delle basi neurali dell’esperienza soggettiva. Si deve tenere presente che, prima di questo periodo, la maggior parte degli esperimenti era condotta su animali anestetizzati, mentre per l’essere umano ci si basava su patologie oppure dati ottenuti su soggetti deceduti. Dai primi anni Novanta a oggi, nuove tecniche, come la fRMI, hanno stimolato molti studiosi a cercare di comprendere i meccanismi neurali che portano i soggetti a compiere scelte e decisioni qualche volta anche con eccessivo entusiasmo, suggerendo discipline quali neuroetica, neuroeconomia, neuromarketing, neuroestetica. È chiaro che il prefisso neuro- attira su di sé molta attenzione (e molti fondi), ma un minimo di cautela è d’obbligo soprattutto per evitare di riporre eccessive (e troppo affrettate) speranze su una disciplina che è ancora agli inizi. Il cervello, vale la pena di ricordarlo, è il sistema fisico più complesso che esista. Il numero di combinazioni dei suoi neuroni è di gran lunga superiore a quello di tutte le stelle dell’universo (Edelman & Tononi, 2000) e gli strumenti oggi a nostra disposizione, per quanto sofisticati, si limitano a scalfire la superficie della sua attività. È possibile identificare una serie di problemi che si cominciano a comprendere sotto una luce nuova grazie ai recenti sviluppi delle neuroscienze: l’esperienza soggettiva, le emozioni, le motivazioni. L’esperienza soggettiva è il problema di fondo che oggi le neuroscienze devono risolvere. Nella letteratura anglosassone si utilizza il termine consciousness, che non ha un esatto equivalente nella lingua italiana, nella quale il termine “coscienza” indica anche aspetti etici e morali. Che cosa è l’esperienza soggettiva? Fatta di colori, forme, sapori, sensazioni, piaceri, dolori? Si tratta di un problema che non trova ancora una risposta soddisfacente (Koch, 2004; Manzotti & Tagliasco, 2008), ma che avrebbe ricadute notevoli in ogni disciplina, non ultima la Psicologia dei Consumi, la comunicazione e il marketing. I consumatori odierni sono sempre più interessati all’aspetto soggettivo dei beni o prodotti acquistati, al punto che la loro consistenza materiale è quasi irrilevante. Ed è stupefacente che, fino a ora, non si disponga di un modello soddisfacente di questa ineffabile esperienza soggettiva: non si sa che cosa sia, non si sa come venga prodotta, non si sa come studiarla. Le neuroscienze, dopo una sorta di ostracismo scientifico durato per decenni, hanno finalmente affrontato il problema (Jennings, 2000; Miller, 2005) e, anzi, l’autorevole rivista “Science” ha addirittura posto tale problema tra i primi cinque grandi problemi che la scienza deve risolvere. Il momento di svolta in questa disciplina sono stati gli anni Novanta, quando vari autori hanno iniziato a occuparsi di esperienza soggettiva (Chalmers, 1999; Crick, 1994; Dennett, 1993) e si sono resi conto dell’esistenza di quello che, con nome appropriato, è stato definito il “problema difficile”: ovvero, anche se si potessero individuare tutte le connessioni neurali, perché tale attività dovrebbe trasformarsi nella qualità dell’esperienza dei soggetti? Il problema non è solo scientifico, ma anche pratico, dato che, per esempio, un soggetto è pronto a pagare a caro prezzo un prodotto perché è convinto che, grazie a esso, avrà certe esperienze soggettive e non perché, grazie a esso, il suo cervello assumerà certe configurazioni. È chiaro che molti neuroscienziati reputerebbero che esperienza soggettiva e attività neurale siano la stessa cosa, ma nessuno è stato finora in grado di spiegare in che modo questa relazione possa avere luogo. Allo stato attuale delle ricerche ci sono due diversi approcci all’esperienza soggettiva. Secondo il primo, la coscienza è il frutto delle interazioni tra il mondo esterno e il soggetto grazie alla percezione, all’apprendimento, alla cultura, alle relazioni
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intersoggettive, alla comunicazione, all’interazione linguistica. Addirittura molti autori ritengono che l’esperienza soggettiva dipenda in maniera sostanziale dall’ambiente esterno al punto di poter parlare di mente distribuita, estesa o allargata (Clark & Chalmers, 1998; Di Francesco, 2003; Honderich, 2006; Hurley & Nöe, 2003; Manzotti, 2006; Nöe, 2004). Si tratta di tesi che, in chiave aggiornata, riprendono alcune intuizioni già sviluppate (Bateson, 1988; Gibson, 1999). Alternativamente, le neuroscienze reputano che l’esperienza soggettiva sia esclusivamente una proprietà dei neuroni, anche se, per potersi sviluppare, il cervello richiede un corpo inserito in una rete di relazioni. L’esperienza soggettiva sarebbe soltanto una proprietà emergente delle combinazioni neurali (Crick & Koch, 1990; Crick, 1994; Kay et al., 2008; Tononi, 2004). Tuttavia, finora, non si è ancora stati capaci di spiegare come sia possibile che «l’acqua dell’attività neurale si trasformi nel vino dell’esperienza cosciente», per usare le parole del filosofo della mente Colin McGinn (McGinn, 1989). Strettamente apparentate con l’esperienza soggettiva, e tradizionalmente altrettanto sfuggevoli, sono le emozioni. Anche in questo caso si tratta di un tema che era stato lungamente tenuto lontano dalla ricerca scientifica. Nuovi studi hanno cominciato a mettere in luce le basi neurali dei sistemi emotivi (Damasio, 1994; LeDoux, 1996). In realtà, emozioni e sentimenti sono definibili in termini funzionali come stati dell’organismo attivati da strutture biologiche specializzate. È istruttivo rifarsi all’etimologia di questi due termini. “Emozione” deriva dal latino ex e movere, cioè qualcosa che entra a far parte della catena di cause che determinano il movimento, l’azione di un certo agente. “Sentimento” deriva dal latino sentire, come termine quindi implica l’esistenza di un soggetto, di un atto di coscienza in cui qualche cosa è, appunto, sentito. I due termini, emozione e sentimento, esprimono la natura duplice del soggetto: da un lato la capacità di compiere azioni e dall’altro la capacità di provare soggettivamente qualcosa durante queste azioni. Da un punto di vista neurologico, le emozioni possono essere viste come “stati” prodotti da un “segnale di rinforzo”, generati da quei particolari stimoli che un essere vivente dev’essere in grado di riconoscere in quanto legati a situazioni critiche per la sua sopravvivenza. Per esempio, la presenza di un rettile o di un insetto velenoso è un evento pericoloso e quindi meritevole di essere associato a un segnale di rinforzo. I segnali di rinforzo devono il loro nome al fatto di essere responsabili dell’apprendimento delle reti neurali e di condizionare la crescita e lo sviluppo di un individuo da un punto di vista cognitivo. Sono segnali che codificano i valori in base ai quali ogni organismo seleziona determinati insiemi di stimoli piuttosto che altri. È stato possibile studiare le strutture neurali responsabili della realizzazione dei meccanismi emotivi (Adolphs et al., 1998; LeDoux, 1996). Si è così compreso che, mentre l’esperienza soggettiva è strettamente correlata con le aree corticali, le emozioni dipendono da alcune strutture nervose molto antiche e altamente specializzate, come l’amigdala e il talamo. L’idea più comune è che esistano sistemi neurali dedicati a riconoscere certe situazioni selezionate durante l’evoluzione della specie umana (il pericolo, i serpenti, gesti violenti, segnali sessuali, la vista del sangue). L’amigdala costituirebbe il fulcro di questi sistemi, il luogo ove la selezione naturale ha depositato l’esperienza antica della nostra specie (si veda la Figura 5.2). Si tratta del repertorio di stimoli incondizionati ai quali, esplicitamente o implicitamente, pubblicitari ed esperti di marketing continuano a fare riferimento per suscitare reazioni quasi certe da parte del pubblico. Al contrario, la corteccia, ove le associazioni di più alto livello sono portate a termine, contiene l’esperienza individuale dell’individuo: emozioni personali, esperienze uniche, archetipi culturali; un dominio molto più ampio, ma anche molto più personalizzato e difficile da determinare a priori.
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Per ottenere risposte più complesse a stimoli non semTalamo pre selezionabili su base evolutiva è stato proposto il Corpo calloso meccanismo del marcatore somatico che, in pratica, estende il sistema cognitivo umano non solo alle Ghiandola pineale strutture corticali, ma anche al suo intero organismo (Damasio, 1994). Ogni volta che una combinazione di stimoli viene riconosciuta pericolosa o piacevole viene associata a uno stato fisico corporeo. Quando lo stesso Ipotalamo stato fisico si ripresenta, anche in assenza dello stimolo originario, il sistema emotivo induce lo stesso tipo di reazioni associate all’evento esterno: questo stato fisico Cervelletto Amigdala sarebbe il marcatore somatico dell’evento esterno. Per esempio, ogni volta che un soggetto si trova di fronte a Solco centrale un grosso ragno velenoso, prova una serie di sensazioni Corteccia motoria Corteccia che derivano dal suo stato fisico (sudorazione, accelerasomatosensoriale Corteccia zione della frequenza cardiaca, eccitazione del sistema primaria associativa endocrino); il soggetto prova paura (ha di fronte a sé prefrontale un insetto pericoloso). Se, in una successiva occasione Lobo frontale priva di aracnoidi ostili, gli stessi sintomi sono indotti Lobo occipitale nel soggetto attraverso l’iniezione di farmaci, egli prova Corteccia paura, anche se non è in grado di indicarne la causa. La visiva primaria Solco laterale paura coincide, secondo questo modello, con il marcaCorteccia Lobo temporale tore somatico, cioè lo stato fisico che è associato a deterauditiva minati eventi esterni. I primi a proporre questo schema primaria furono James (1884) e Lange (1868) che sostennero che Cervelletto le emozioni non sono solo espressione delle strutture nervose, ma anche dell’organismo nel suo complesso. Il Figura 5.2 Principali suddivisioni del cervello e posizionacorpo diventerebbe così il teatro in cui le emozioni sono mento dell’amigdala. rappresentate (inconsciamente) e dove una determinata situazione corrisponde a un certo stato corporeo (Damasio, 1994). In base a questa teoria il corpo diventa, attraverso le emozioni, un elemento della struttura funzionale cognitiva di un certo agente. Il meccanismo del marcatore somatico è utilizzato in molte situazioni. Un caso ricorrente è lo schema avventura-innamoramento ripetuto incessantemente in tantissimi film (da Indiana Jones alla serie di James Bond). Lui e lei, che all’inizio si disprezzano cordialmente, si trovano coinvolti in situazioni di estremo pericolo che fanno sì che i due provino molte delle sensazioni normalmente associate a un forte innamoramento. Dopo un po’ il loro sistema nervoso associa all’altra persona la capacità di suscitare questo stato corporeo e la conclusione non può che derivare quasi automaticamente. Infine le neuroscienze stanno iniziando a trovare le basi delle motivazioni (Manzotti & Tagliasco, 2005; McFarland & Bosser, 1993; Montefiore & Noble, 1989). A questo riguardo ci troviamo di fronte alla capacità di determinare nuove combinazioni di eventi che possono in tal modo essere perseguite dai soggetti. Si tratta, è chiaro, di un aspetto di estremo interesse per la Psicologia dei Consumi in quanto è alla base della determinazione delle scelte (di consumo, ma non solo). Per valutare le motivazioni dei consumatori spesso ci si limita a modelli classici quali quello di Maslow (1943), peraltro non del tutto confermati in anni più recenti (Wahba & Bridgewell, 1976). La sfida che oggi offrono le neuroscienze consiste nell’integrare questi modelli con i nuovi elementi offerti dalla ricerca sperimentale – non ultimi i neuroni specchio (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006) – con nuovi quadri teorici che consentano di trattare in modo diretto l’esperienza soggettiva e la mente cosciente (Manzotti & Tagliasco, 2008).
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LE EMOZIONI E IL CONSUMO: DALLA TEORIA ALLA PRATICA Le tecniche neurofisiologiche e psicofisiologiche integrano e modificano i numerosi modelli che negli anni sono stati sviluppati per lo studio delle emozioni. Occorre tuttavia segnalare che alcune interessanti applicazioni del neuromarketing si riferiscono a modelli esplicativi che non necessariamente nascono con le neuroscienze. Per esempio, l’uso delle tecniche di riconoscimento facciale con nuove soluzioni informatiche come il Face Reader più avanti descritto, si serve degli studi pioneristici di Paul Ekman sul riconoscimento delle emozioni facciali. Per questo riteniamo utile una breve dissertazione sulle principali teorie delle emozioni. Molte di queste verranno riprese per spiegare quali possibili applicazioni si possono avere nella ricerca sul consumatore. Lo studio della motivazione e dell’affetto sono strettamente correlati (Young, 1961). D’altra parte derivano dalla stessa radice terminologica, dal latino movere. L’affetto, infatti, ha la capacità di attivare, di preparare all’azione e di stimolare il raggiungimento dell’obiettivo. Alcuni autori sostengono che l’affetto sia simile a un programma sovraordinato in grado di direzionare la motivazione e guidare le scelte (Cosmides & Tooby, 2000). L’influenza però non è unidirezionale ma bidirezionale: l’affetto permette di raggiungere gli obiettivi e il loro raggiungimento incide sull’affetto. Prima di entrare nel merito, però, proviamo a dare qualche definizione, visto che sotto la parola “affetto” si nascondono diverse dinamiche. I termini “affetto”, “emozione”, “sentimento” sono stati più volte citati nel precedenti capitoli e paragrafi. Essi rappresentano concetti estremamente importanti nell’influenzare il comportamento dei consumatori, anzi come abbiamo visto Damasio (1994) sostiene che l’uomo può essere inteso come una macchina emotiva che pensa: ma cosa sono le emozioni e che cosa differenzia questi termini? Il termine affetto lo ritroviamo nella teoria degli atteggiamenti che verrà trattata più avanti, che definisce uno dei concetti più utili per lo studio dei consumatori, l’atteggiamento, come l’insieme di tre componenti: la cognizione, l’azione e l’affetto. Per affetto intendiamo uno stato sentimentale interiore, una valutazione sentimentale verso un oggetto, evento o persona che nulla ha che fare con i pensieri e la valutazione cognitiva ma con un genuino sentimento interiore o con l’umore. L’affetto si distingue dall’umore semplicemente perché quest’ultimo è considerato come uno stato affettivo che generalmente può mancare di una precisa identificazione della sua origine ed è di bassa intensità. L’umore può essere facilmente manipolato attraverso l’esposizione a stimoli sonori, musica, immagini o attraverso il recupero di particolari ricordi emotivamente connotati, come abbiamo visto nel Capitolo 2 dedicato alla percezione. L’intensità della manipolazione dello stato emotivo e affettivo con stimoli per esempio pubblicitari è alla base della distinzione tra emozione e umore. L’emozione, infatti, è uno stato affettivo più intenso dell’umore e meno stabile. L’emozione è, infatti, una reazione intensa, improvvisa, di breve durata, in grado di incidere sul consumatore a tre livelli: quello fisiologico attraverso modificazioni riguardanti la respirazione, la pressione arteriosa, il battito cardiaco, la circolazione, la digestione e così via; quello comportamentale grazie al quale possiamo vedere come cambiano le espressioni facciali, la postura, il tono della voce e le reazioni (attacco o fuga, per esempio); quello psicologico che si riferisce a ciò che sentiamo e proviamo personalmente e che è in grado di modificare il controllo di sé stessi. In genere sono reazioni che partono dall’ambiente, hanno una durata breve come le sensazioni, sono più intense di queste, sono inconsapevoli e inizialmente non si riescono a controllare.
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Diversa è invece la descrizione del concetto di sentimento. I sentimenti si riferiscono alla capacità di provare sensazioni ed emozioni in maniera consapevole e riguardano la coscienza delle proprie azioni, del proprio essere e dell’altro. Si riferiscono a una o a più persone (o animali), sono meno intensi delle emozioni, hanno una durata più lunga delle emozioni e sono consapevoli. Il ruolo della comunicazione pubblicitaria è di creare un’emozione alla vista della marca o del prodotto e con il tempo di promuovere un conseguente coinvolgimento sentimentale. Le emozioni hanno un ruolo di guida nei comportamenti. Questo obiettivo è suffragato da numerose ricerche che dimostrano come l’emozione (anche quella indotta) è strettamente correlata con la memorizzazione di fatti, episodi e persone. Un’esperienza emotiva intensa incrementa il ricordo sia a breve sia a lungo termine (Bradley et al., 1992). Anche se non è detto che questa relazione sia sempre garantita. A volte emozioni particolarmente intense inibiscono il processo mnemonico. Uno spot particolarmente divertente, per esempio, potrebbe creare eccessiva ilarità tanto da non incidere nella memorizzazione del prodotto comunicato. Noto è il caso della pubblicità di qualche tempo fa della Fiat sul claim “Cogli l’attimo” in cui il “Buonasera” di un giovane è diventato un tormentone senza che nessuno si ricordi del prodotto. Anche se non possiamo attribuire l’intero successoinsuccesso dello spot all’eccesso di emozione, ma anche alla disposizione finale e a margine del logo e del prodotto, l’aspetto emotivo dello spot ha avuto certamente una sua influenza sul processo di memorizzazione. In genere lo studio dell’effetto della pubblicità dal punto di vista emotivo ha prevalentemente fatto riferimento a due dimensioni emotive o affettive: piacevolezza e non piacevolezza e attivazione e deattivazione (detta anche engagement) (Russell & Carroll, 1999). Molte delle valutazioni dell’effetto delle emozioni sui processi di consumo si valutano su queste due dimensioni. Questa tuttavia sembra essere un’eccessiva semplificazione. Una forte emozione positiva non è detto che sia contraria a un’emozione negativa, anzi alcuni autori hanno individuato deboli correlazioni tra queste emozioni in soggetti coinvolti emotivamente (Diener et al., 1995). Anche se la rappresentazione grafica proposta (si veda la Figura 5.3) da Barrett e Russell (1999) del Circumplex Model of Affect sembra essere tanto accattivante per la sua semplicità, non possiamo non considerare la sua possibile applicazione nel campo dei consumi. In effetti nelle analisi di neuromarketing la possibilità di incrociare il dato relativo al tipo di emozione (valenza emotiva misurata con l’EEG o il Face attivazione Reader) con l’attivazione (intensità emotiva misutensione allerta rata con la sudorazione, il battito cardiaco e/o la nervosismo eccitazione respirazione) permette di costruire una mappa stress euforia ovvero una rappresentazione dello spazio affettisconvlgimento felicità vo, facilmente comprensibile in cui posizionare gli stimoli analizzati. dispiacere piacere L’idea di potere vivere contemporaneamente emozioni apparentemente contrastanti, cosa tristezza contentezza impossibile secondo il Modello Bipolare di depressione serenità Russel e Carroll (1999), è stata dimostrata da Williams e Aaker (2002). Si tratterebbe di emonoia rilassatezza zioni miste che permettono di essere al contempo fatica calma felici e tristi. La visione di alcuni film permette disattivazione di provare queste emozioni così come alcuni spot si servono di questa emozione mista per attrarre l’attenzione e per incidere sulla memorizzazione Figura 5.3 Il Modello Bipolare tratto da Barrett e Russell (1999). del prodotto.
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La dimostrazione del rapporto tra mood e memoria è stata dimostrata da Bower e Forgas (2000) secondo cui soggetti con un umore positivo tendevano a ricordare più facilmente eventi positivi di quanto facessero soggetti con umore negativo nel richiamare eventi negativi. Gli stati emotivi sono stati anche correlati con la produzione di cambiamento di attenzione, di possibilità di richiamo di stimoli e di elaborazione delle informazioni. MacLeod e Mathews (1988) hanno dimostrato che in un gruppo di studenti con un elevato stato di ansia da esame l’attenzione risulta particolarmente attiva per il riconoscimento di frasi e parole connesse con il tema dell’esame, al contrario in coloro che avevano basso livello di ansia non si registrava questa forma di attenzione selettiva. Numerose pubblicazioni presentano utili review sull’effetto delle emozioni sui processi cognitivi, sulla memoria e sull’attenzione. Un elemento che però risulta particolarmente evidente da queste analisi è che in questi ultimi venti anni la ricerca sui consumatori ha dimostrato il grande valore delle emozioni nella decisione. Grazie alle riflessioni della psicologia economica, agli studi di behavioral economic e alle neuroscienze, le emozioni, gli affetti, l’umore non sono più nell’atto di consumo elementi ritenuti intervenienti o disturbanti da controllare, ma quegli elementi essenziali della scelta da studiare. La ricerca sul consumatore considera oggi il ruolo determinante che hanno nel condizionarne le scelte sia nel caso in cui l’emozione sia integrale alla relazione con il prodotto (ovvero stimolata dal prodotto), sia quando è incidentale al rapporto con il prodotto (ovvero quando è preesistente alla relazione e determinata da altre cause), sia infine quando l’emozione è task-related ovvero strettamente legata al processo di scelta come quando occorre fare una scelta su due prodotti o alternative emotivamente identiche. Al contempo cresce l’esigenza di individuare nuove tecniche di indagine in grado di permettere l’accesso alla dimensione emotiva nella sua immediatezza e purezza e senza il processo di razionalizzazione imposto da interviste o questionari, ma di questo parleremo più avanti descrivendo le nuove potenzialità offerte dalle neuroscienze alla ricerca sul consumatore. Prima di entrare nel merito delle tecniche è bene soffermarsi brevemente sul concetto di emozione e sulle numerose teorie che nel tempo hanno cercato di darne una spiegazione.
LE FORME E LE TIPOLOGIE DI EMOZIONE Come per molti concetti della psicologia parlare di emozioni sembra facile e immediato fino a quando non cerchiamo di darne una spiegazione più precisa o declinabile in termini di oggetto di studio, ovvero misurabile. In questi casi il rischio di scontrarsi con la difficoltà di avere un unico punto di vista è strettamente collegato alla presenza di diversi postulati di partenza che mettono in evidenza la molteplicità dei fattori in gioco e la diversità degli indicatori da misurare. Un primo punto condiviso da quasi tutte le teorie risiede nel fatto che le emozioni si possono dividere in primarie, o di base, e secondarie, o complesse. Mentre le emozioni di base hanno una forte determinazione biologica (per esempio la paura o la collera), quelle secondarie derivano dal diverso peso di alcune emozioni primarie, ma sono anche il risultato delle esperienze passate e quindi del contesto educativo, storico e culturale (per esempio la colpa o la vergogna). Diversi autori tuttavia descrivono le emozioni in maniera non totalmente sovrapponibile. Negli anni Settanta Argyle sostiene che le emozioni di base sono sette: paura, felicità, sorpresa, collera, disgusto, interesse, tristezza. Secondo Izard le emozioni sono invece dieci: sorpresa, rabbia, disgusto, tristezza, paura, gioia, sconforto, disprezzo, vergogna/timidezza, colpa. Plutchick (1980) dichiara che le emozioni di base sono otto, raggruppate a coppie,
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secondo quattro dimensioni definite da antitetiche polarità: gioia/tristezza; paura/ rabbia; sorpresa/anticipazione; accettazione/disgusto. Secondo questo autore, le emozioni secondarie come l’amore, la sottomissione, la delusione e il rimorso derivano dalla combinazione di quelle primarie. Secondo Tomkins (1984) le emozioni sono nove: sconforto, paura, vergogna, disprezzo, disgusto, rabbia, interesse, gioia, sorpresa. Ekman (1984), che ha tanto lavorato nell’elaborare il FACS (Facial Action Code System), ovvero il Sistema di Codifica delle Azioni/Espressioni Facciali, sostiene che le emozioni sono sei: felicità, paura, tristezza, sorpresa, disgusto, collera. Campos e Barrett – sempre negli anni Ottanta – ancora in modo più restrittivo, individuano cinque emozioni: felicità, interesse, collera, paura e tristezza. Come si vede nella Tabella 5.1, le emozioni comuni nei lavori di molti autori sono la tristezza, la rabbia (o collera), la paura (l’unica presente in tutti gli elenchi), la felicità e la sorpresa. Se da una parte queste liste differenti suscitano dubbi su un’opinione condivisa in merito a quali e quante siano le emozioni studiate in ambito scientifico, dall’altra riassumono le emozioni che presentano le qualità specifiche generalmente attribuite agli stati emotivi. Di certo vi è un consenso generale nell’ascrivere agli stati emotivi i seguenti denominatori comuni: spontaneità, pervasività e transitorietà. Un ulteriore fattore condiviso risiede nell’attribuzione agli stati affettivi di una connotazione o di un valore. Per questo alcuni ricercatori parlano di valenza, lungo l’asse su cui possono essere scanditi i giudizi di piacevolezza/spiacevolezza di un’emozione. Il significato del termine “valenza” può essere anche spiegato come la qualità di una esperienza emotiva, per cui essa può essere giudicata da chi la prova come positiva o negativa. Per citare degli esempi, le emozioni positive sono la felicità o la sorpresa, mentre quelle negative sono la collera e la paura. Secondo il grado si gradevolezza o meno che si esperisce, si può quindi etichettare tale giudizio soggettivo come qualità edonica dell’esperienza. Il carattere di soggettività con cui un individuo percepisce e giudica la propria esperienza emotiva è molto importante. Si potrebbe, infatti, pensare che la paura sia un’emozione spiacevole per tutti gli individui e che quindi essa rappresenti un’emozione da tutti giudicata negativamente. Tuttavia vi possono essere delle eccezioni. Specialmente in ambito clinico, è nota la presenza di certe sindromi mentali patologiche in cui il paziente prova piacere nell’avere paura, per esempio nel Tabella 5.1 Confronto fra emozioni Autore Anno Emozioni
Argyle
Izard
Plutchick
Tomkins
Ekman
Barrett
1975
1979
1980
1984
1984
1984
7 emozioni
10 emozioni
8 emozioni
9 emozioni
6 emozioni
5 emozioni
Felicità
Gioia
Gioia
Gioia
Felicità
Felicità
Sorpresa
Sorpresa
Sorpresa
Sorpresa
Sorpresa
Collera
Rabbia
Rabbia
Rabbia
Collera
Disgusto
Disgusto
Disgusto
Disgusto
Disgusto
Tristezza
Tristezza
Paura
Paura
Interesse Tristezza Paura
Interesse Paura
Sconforto
Sconforto
Disprezzo
Disprezzo
Vergogna/ Timidezza
Vergogna
Collera Interesse
Tristezza
Tristezza
Paura
Paura
Colpa Anticipazione Accettazione
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Parte II - Processi sociali e influenza sul consumatore
masochismo. Così come nel campo del consumo vi sono alcune scelte di acquisto che sono finalizzate a fare provare una lieve e controllata dose di paura (si pensi alle montagne russe o alla visione di film dell’orrore). Senza entrare nel merito delle teorie che cercano di spiegare perché esistono tali fenomeni, vale però la pena di riflettere sul rilievo che la soggettività esercita su un’emozione. Per questa ragione si parla di qualità edonica di un’esperienza, non solo emotiva. “Edonico” è un aggettivo che deriva dal greco, la cui radice etimologica è edonè, che significa “piacere”. Nel linguaggio comune si parla di persona edonistica quando un individuo ha la tendenza a cercare di approfittare dei cosiddetti “piaceri della vita”. Con l’etichetta di qualità edonica si vuole catturare la dimensione soggettiva di uno stato psicologico o affettivo in termini di positività/negatività. Un ultimo denominatore comune e condiviso dai ricercatori consiste nel riconoscere alle emozioni un correlato biologico di attivazione, in inglese chiamato arousal. In sostanza, ogni qual volta si fa l’esperienza di un’emozione, si ravvisa un cambiamento, rilevabile anche attraverso delle alterazioni fisiologiche e biologiche del corpo e/o del sistema nervoso centrale e periferico. Per esempio, quando si prova paura, si assiste a un incremento del battito cardiaco, della sudorazione della pelle, il ritmo respiratorio cambia, come pure la dilatazione delle pupille. Tutti questi cambiamenti possono essere oggi meglio studiati ed esplorati grazie alle tecnologie, in grado di “vedere” sempre meglio attraverso il corpo in modo non invasivo. Sia la valenza sia l’arousal possono essere misurate e permettere una valutazione del ricercatore a prescindere della descrizione in self-report che il consumatore esprime consapevolmente.
LE PRINCIPALI TEORIE SULLE EMOZIONI In termini evoluzionistici l’origine delle emozioni si può fare risalire a una precisa funzione adattiva, risultando funzionali allo sviluppo e all’azione umana. Secondo Scherer (1984), la flessibilità comportamentale e adattiva dell’organismo dipende largamente dalle emozioni. Esse, infatti, si sono sostituite a comportamenti innati e rigidi quali i riflessi, permettendo di ampliare le possibilità di risposta comportamentale di fronte agli stimoli ambientali. Sono le emozioni che permettono in maniera rapida di farci capire se lo stimolo ambientale è attrattivo o repulsivo. Come se si trattasse di un codice di lettura della realtà che non può sottostare ai tempi della razionalità e che indica immediatamente l’azione corretta da agire. Si tratta di un codice comportamentale in grado di farci riconoscere immediatamente una sagoma sul terreno simile a un pericolo (un serpente) e a fuggire. Questa visione adattiva è alla base di una delle più antiche teorie dell’emozione, la Teoria degli Effetti Periferici di James (1884) (poi resa nota come Teoria di James-Lange) che sostiene che la percezione di eventi esterni è in grado di determinare delle modificazioni corporee periferiche, che vengono poi elaborate retroattivamente a livello cognitivo ed etichettate come emozione o sentimento emozionale. Considerare le emozioni come uno strumento di lettura della realtà che ci circonda, veloce e funzionale alla sopravvivenza così come alla utile guida nella scelta delle decisioni, giustifica l’adozione di un sistema di misurazione come quello offerto dal neuromarketing e spiega anche perché si continui a sostenere che buona parte delle decisioni di acquisto vengano fatte per impulso. La relazione stimolo-sentimento emotivo può essere riassunta nella sequenza: stimolo, risposta fisiologica, retroazione, sentimento. Ispirandosi agli studi di Darwin sull’espressione delle emozioni di cui parleremo più avanti, James ipotizzò che i movimenti espressivi fossero provocati direttamente da stimoli esterni, determinando una conseguente percezione alla base dell’esperienza soggettiva delle emozioni: se all’improvviso vediamo un orso che ci rincorre, rispondiamo con fuga, tremito,
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sudorazione e batticuore e le percezione di tutti questi movimenti viene poi letta come emozione di paura. Per James quando nell’ambiente si verifica un avvenimento emotivamente rilevante questo provoca in modo diretto un’attivazione fisiologica a livello periferico (misurabile con le attrezzature offerte dal neuromarketing), la cui percezione da parte dell’individuo è alla base dell’esperienza emotiva (i cambiamenti corporei avvengono per primi). James postulava un processo di base nel quale particolari stimoli ambientali eccitano un quadro specifico di reazioni corporee per mezzo di un meccanismo innato e inderogabile (Damasio, 1994). Il sentimento emotivo non è determinato dallo stimolo ma da queste reazioni. L’ipotesi di James (1884) presentava analogia con quella formulata quasi contemporaneamente da un fisiologo, il danese Carl Lange. Secondo Lange (1868) ciò che caratterizza l’emozione è la percezione dei cambiamenti dell’organismo, cioè quelli causati da un aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo. Questo sistema controlla tutte le attività viscerali, come la conduttanza cutanea, il ritmo del battito cardiaco e della respirazione, la sudorazione, il flusso sanguigno in varie parti del corpo attraverso la dilatazione o la restrizione di vene e arterie. A sostegno di questa teoria un esperimento condotto da Hohmann nel 1966 dimostra la veridicità del modello. Hohmann, intervistando un gruppo di pazienti con gravi danni alla spina dorsale e che non provavano sensazioni al di sotto del punto danneggiato (collo, livello sacrale o in un punto intermedio), chiese di parlare della qualità delle proprie emozioni e della capacità di identificarle, considerando le differenze tra prima e dopo l’incidente. Le persone con danni alla regione sacrale riferivano solo minime alterazioni negli stati emotivi, mentre quelle con danni cervicali riferivano un netto calo delle sensazioni di paura, rabbia, tristezza e desiderio sessuale. Hohmann, in linea con la concezione di James, concluse che per provare emozioni intense è necessario avere un qualche feedback dal proprio corpo. Secondo Damasio (1994) queste emozioni innate sarebbero le emozioni primarie (modello che richiama quello di LeDoux del 1996, che discuteremo più avanti), da distinguere dalle emozioni secondarie che si presentano una volta che abbiamo cominciato a provare sentimenti e a formare connessioni sistematiche tra categorie di oggetti (di consumo) e situazioni da un lato, emozioni primarie dall’altro. Il processo delle emozioni secondarie non può basarsi solo sul sistema limbico (o su processi innati), ma richiede il coinvolgimento di aree corticali deputate alla valutazione consapevole e ai processi di apprendimento. Purtroppo la dimensione interiore che caratterizza l’emozione e la sua capacità di coinvolgere elementi cerebrali di grande complessità rende difficile considerare questa teoria come l’unica di riferimento. Non a caso per descrivere in maniera esaustiva tutti gli approcci sarebbe necessario un testo dedicato. Tuttavia riportiamo alcune delle altre principali teorie utilizzate per la descrizione degli effetti del consumo sul vissuto dei consumatori. Una delle più note è quella sviluppata da Darwin che sosteneva che l’espressione delle emozioni fosse universale e adattiva, finalizzata alla coesione del gruppo e alla sopravvivenza della specie. Darwin sottolineò la continuità e somiglianza delle espressioni emotive umane con quelle del mondo animale e la loro duplice funzione: consentire un’azione efficace nei confronti dell’ambiente (si pensi al valore comunicativo del colore rosso della rabbia o della vergogna) e costituire un magnifico strumento di comunicazione. La funzione evoluzionistica che sottolinea questa teoria giustifica l’ipotesi diffusa che nell’emozione vi siano delle componenti primitive tra cui il controllo esercitato su di essa dalle parti più antiche del cervello. Questa ipotesi apre interessanti fronti nel campo del riconoscimento delle emozioni per lo studio del consumo. La possibilità di riconoscere le emozioni indipendentemente dall’etnia di appartenenza, oltre ad avere una funzione comunicativa, permette di potere studiare l’effetto di uno stimolo pubblicitario con modelli interpretativi fondati sul riconoscimento delle emozioni.
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A questa finalità si potrebbe affiancare anche quanto previsto dalla Teoria del Feedback Espressivo di Paul Ekman (1978) le cui applicazioni pratiche sono riportate nella scheda sul riconoscimento facciale (si veda il Box Espressioni facciali ed emozioni). La teoria del feedback facciale sottolinea il ruolo dei muscoli facciali sulla percezione delle emozioni. Alla base di tale concezione vi è l’idea che le emozioni abbiano un carattere innato, pertanto una specifica configurazione facciale è associata o determina una specifica emozione. A sostegno della teoria Ekman segnala: (a) l’universalità delle espressioni facciali, così come evidenziata dalla capacità degli adulti di associare espressioni facciali di soggetti appartenenti a culture diverse a emozioni specifiche; (b) la presenza fin dalla nascita di espressioni emotive differenti, per esempio rabbia, disgusto in risposta a specifici stimoli fisici; (c) la capacità di differenziare ed elaborare una identica percentuale di espressioni facciali da parte di bambini ciechi e non. La teoria del feedback espessivo è molto interessante perché sostiene che il feedback proveniente dai muscoli facciali influisce sull’emozione che il soggetto prova: ciò significa che il feedback sensoriale che deriva dalle espressioni facciali contribuisce all’emozione che noi proviamo in un dato momento. Le espressioni facciali forniscono informazioni propriocettive, motorie, cutanee e vascolari che influenzano il processo emotivo. Nel campo delle applicazioni di marketing e di studio del consumatore questa teoria offre due importanti applicazioni, ovvero la possibilità di stimolare emozioni nel consumatore attraverso la promozione di immagini in grado di modificare il volto dello spettatore e la possibilità di utilizzare la lettura dei movimenti facciali per il riconoscimento delle emozioni mentre si fruisce di un messaggio pubblicitario. Oggi alcuni sofisticati software permettono di rilevare il tipo di emozione provata a partire dai movimenti del volto.
PER SAPERNE DI PIÙ ESPRESSIONI FACCIALI ED EMOZIONI: INNOVAZIONI TECNOLOGICHE E FACE READER Behavior and Brain Lab IULM: la ricerca neuropsicofisiologica sui consumi e sulla comunicazione Ekman e colleghi (1978) ha dimostrato che le espressioni facciali delle emozioni non sono determinate dalla cultura ma sono universali e possono quindi essere considerate di origine biologica. Le espressioni base che Ekman identificò come universali sono: rabbia, disgusto, tristezza, gioia, paura, sorpresa. Per giungere a questa conclusione il ricercatore seguì e studiò una tribù della Papua Nuova Guinea isolata dal resto del mondo. I segnali facciali rapidi danno luogo a microespressioni facciali e sono il risultato di movimenti della pelle del viso e del tessuto connettivo in concomitanza con una contrazione di uno o più dei 44 muscoli che costituiscono i muscoli facciali e che non operano direttamente muovendo le strutture dello scheletro, ma piuttosto combinano i tratti facciali in configurazioni significative (Rinn, 1984). Le emozioni principali sono registrate da cambiamenti dei muscoli della fronte, delle sopracciglia, delle palpebre, delle guance, del naso, delle labbra e del mento.
Esistono numerosi metodi per misurare i movimenti facciali che risultano dall’azione dei muscoli. Il sistema di misura inventato da Ekman e Friesen (1978) Facial Action Coding System (FACS) è il più comprensivo e il più usato. Il FACS fu sviluppato per determinare come le contrazioni di ogni muscolo facciale (singolarmente o in combinazione con altri muscoli) cambiano le sembianze di una faccia. Gli autori hanno videoregistrato più di 5000 differenti combinazioni di azioni muscolari, che sono state esaminate accuratamente per determinare i cambi più significativi che ognuna di esse apportava alla struttura del volto, studiando anche come era possibile differenziare un movimento dall’altro. Il FACS è divenuto uno standard comune per classificare sistematicamente l’espressione fisica di emozioni. Ekman e Friesen hanno calcolato 44 AU (Action Unit) che considerano variazioni nelle espressioni facciali e 14 AU che interpretano i cambi nella direzione dello sguardo e nell’orientamento della testa. L’analista FACS può interpretare quasi tutte le espressioni del viso, scomponendole in unità di azione specifiche e suddividendole nelle loro fasi temporali. L’elettromiografia (cioè la misurazione dell’attività elettrica muscolare che si effettua posizionando degli elettrodi alla superficie del viso) è servita alla ricerca per confermare il sistema di codifica dell’azione facciale (Cacioppo et al., 1990). (segue)
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(continua)
Attualmente esistono numerose strategie per il riconoscimento automatizzato o semiautomatizzato di facce che sono basate sulla rilevazione di distanze normalizzate tra punti salienti quali: gli angoli degli occhi e della bocca, la punta del naso e il punto centrale del mento (Cannon et al., 1986; Craw et al., 1987). Lo stesso Ekman ha lavorato a un software di rilevamento emozionale chiamato Face Reader. Il riconoscimento di facce da parte dei computer di immagini statiche o in movimento è un’area di ricerca emergente che comprende diverse discipline quali processazione di immagini, riconoscimento di modelli, computer vision e reti neurali. Gli esseri umani riconoscono le facce con grande facilità, mentre questo compito per le macchine sembra essere molto più complesso. Il software Face Reader nasce per aiutare il ricercatore a individuare le emozioni provate da un individuo in reazione a determinati stimoli e rendere tale operazione più rapida ed efficace. Il software funziona attraverso una webcam che inquadra il volto della persona; quando la persona manifesta un’emozione il computer riesce a rilevare i micromovimenti facciali utilizzando il sistema di codifica creato da Ekman e dai suoi collaboratori. Il sistema mappa un insieme di movimenti che uniti tra loro potrebbero dare utili informazioni per il riconoscimento dell’emozione. Nel laboratorio di ricerca Behavior and Brain Lab IULM si stanno adottando queste tecniche di indagine per analizzare le emozioni provate dai consumatori di fronte a stimolazioni pubblicitarie. Questo dato viene
integrato con le informazioni che si possono raccogliere con tecniche classiche come il differenziale semantico, le interviste e il questionario di gradimento. Il dato estrapolato dal Face Reader che ci indica l’emozione prevalente che il volto ha espresso, integrato anche con i dati estrapolati dal biofeedback (EEG, dilatazione pupillare, conduttanza cutanea, respirazione e battito cardiaco) offre importanti informazioni sull’emozione provocata dagli stimoli comunicativi e pubblicitari. Una nuova frontiera della ricerca sul consumatore su cui occorre ancora investire in termini di ricerca visti i promettenti risultati che sono stati già ottenuti. Oltre alle ricerche sulle emozioni e le loro espressioni, negli ultimi trent’anni Ekman ha svolto uno studio approfondito anche sui meccanismi dell’inganno e della menzogna. Grazie all’uscita della serie televisiva Lie to Me prodotta dalla Fox, Ekman ha assunto una notorietà degna di una star più che di un semplice accademico. La serie è stata creata con la consulenza dello stesso Ekman che ha però messo in guardia gli ascoltatori sul fatto che nella finzione televisiva scoprire una menzogna è molto più semplice di quanto non sia nella realtà. Attualmente Ekman è manager del Paul Ekman Group, LLC (PEG), un’impresa che offre formazione nel campo delle strategie attinenti alle abilità emotive (http:// www.paulekman.com/), collabora inoltre con le forze dell’ordine con ricerche in ambito di sicurezza nazionale. Anna Missaglia, Università IULM
Ciò è possibile grazie alla teoria di Ekman che identifica specifici pattern espressivi per distinguere la felicità, la sorpresa, la tristezza, la paura, la rabbia, e il disgusto (Kleinke et al., 1998; Izard, 1971, 1977). Ekman (1982), così come altri autori (Ekman & Friesen, 1978; Izard, 1977; Tomkins, 1962), sostiene infatti che le emozioni primarie o fondamentali sono caratterizzate anche da configurazioni facciali espressive, distintive e non ambigue, innate e universali. Ekman nelle sue ricerche è riuscito, inoltre, a dimostrare l’esistenza anche di microespressioni del volto che sono strettamente legate ai circuiti cerebrali delle emozioni e pertanto poco controllabili. Si tratta di microespressioni strettamente legate alle emozioni fondamentali perché sono risposte adattive. Ekman e colleghi in uno studio del 1983 hanno rilevato una serie di indici di attivazione fisiologica (per esempio temperatura cutanea, battito cardiaco) in soggetti che riproducevano, a loro insaputa, espressioni facciali tipiche delle sei emozioni di base e in soggetti che venivano chiamati a ricordare eventi della loro vita congruenti con quelle stesse emozioni. In entrambe le situazioni sperimentali i risultati furono simili. Il lavoro di Ekman sulle espressioni facciali ha messo in evidenza come vi siano delle gestalt universali (composte dai muscoli facciali) sul volto umano in grado di veicolare diversi tipi di emozioni o stati mentali, a prescindere dalle culture di appartenenza. Applicando a tali gestalt universali dei punti di riferimento sul volto in modo tale da poterli usare per elaborare l’espressione facciale, è possibile misurare le emozioni attraverso le espressioni facciali. Il sistema, come quello usato nel laboratorio Behavior and Brain Lab presso l’Università IULM si serve di un software di Face Reader, “allenato” nel riconosci-
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mento delle diverse espressioni facciali e della corrispondente emozione e usa alcuni punti di riferimento per il riconoscimento delle emozioni nel volto: gli occhi, il naso e la bocca, e fissa su di loro una sorta di punti di riferimento. A partire da questi ultimi è possibile inferire le espressioni facciali e, da queste, le emozioni. Già Wiles e Cornwell nel 1991 avevano segnalato che la misurazione dei muscoli facciali poteva permettere una misurazione della direzione della risposta affettiva (pleasure vs displeasure) agli stimoli esterni e Bolls et al. (2001) già diversi anni fa ne avevano segnalato il grande valore applicativo nel campo del marketing. La ricerca in questo campo offre un notevole contributo alla possibilità di costruire macchine o tecnologie dotate di abilità di inferire stati mentali di tipo cognitivo (interesse, concentrazione, attenzione ecc.) ed emotivo (sorridere, impaurirsi ecc.) in tempo reale e a partire da comportamenti ed espressioni non verbali. Il riconoscimento delle espressioni emotive fondamentali e delle microepressioni attraverso le nuove tecnologie ha creato una nuova branca scientifica di grandissimo interesse per lo studio dei consumi, l’Affective Computing nata nei laboratori del MIT. Infatti i progressi fatti nell’ambito del HCI (Human Computer Interaction) e le nuove frontiere di sviluppo dei prodotti informatici mirano all’implementazione di “macchine affettive” che riuscendo a riconoscere l’emozione del soggetto attraverso le emozioni del volto o l’attivazione dei parametri fisiologici connessi all’emozione possano interagire con il soggetto sulla base del suo stato emotivo, riconoscendolo e offrire a chi si occupa di neuromarketing un sistema di lettura delle emozioni provate in relazione a stimoli di consumo (spot pubblicitari, packging, assaggio, ecc.). La Ruota delle Emozioni creata da Plutchik evidenzia le polarità e l’intensità via via decrescente delle emozioni, più i vari stati intermedi (decrescendo di intensità le emozioni si mescolano sempre più facilmente). In questa rappresentazione le emozioni si contrappongono a coppie in modo polare (gioiatristezza, fiducia-disgusto, paura-rabbia, sorpresaaspettativa). Seguendo il petalo del fiore verso l’interno l’emozione primaria aumenta di intensità (la tristezza diventa angoscia, la gioia diventa estasi ecc…). Si forma così il cerchio centrale del fiore. Verso l’esterno invece l’emozione cala di intensità (la rabbia diventa irritazione, l’aspettativa interesse e così via). Secondo questo modello le emozioni poi si combinano tra di loro, per creare quelle cha abbiamo già definito emozioni secondarie o complesse; per esempio gioia e fiducia generano amore, fiducia e paura generano sottomissione e così via.
LA TEORIA DEGLI EFFETTI CENTRALI In risposta all’interpretazione delle emozioni come somma di sensazioni corporee periferiche, occorre anche citare la Teoria di Cannon o Teoria degli effetti centrali, in cui si sottolinea il ruolo che le strutture centrali del cervello svolgono sulle emozioni. L’ipotesi periferica di James porta ad un corollario, secondo il quale ad ogni emozione deve corrispondere uno specifico correlato corporeo. Cannon, attraverso i suoi studi ha dimostrato, che gli stessi cambiamenti viscerali si verificano in stati emozionali molto diversi, e anche in stati non emozionali Secondo questo modello, definito Teoria Centrale delle Emozioni, la risposta emotiva è conseguente alla stimolazione dei nuclei dell’ipotalamo. In questo caso il sistema nervoso centrale ha un ruolo determinante e lo dimostrano numerosi
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studi in cui si è messo in evidenza come stimolando in modo sistematico le zone più diverse del cervello si producono comportamenti coincidenti con quelli tipici di alcune emozioni, quali gioia e rabbia. La differenza è netta con le altre teorie: infatti, secondo l’ipotesi di Cannon, tutte le emozioni presentano la stessa configurazione di risposte fisiologiche osservate nella reazione di emergenza, mentre secondo James (1884) ogni emozione presenta una propria specifica configurazione di risposte fisiologiche. Per Cannon le emozioni però iniziano e terminano in coincidenza con la stimolazione nella zona cerebrale specifica secondo quella che può essere anche chiamata Teoria delle Emozioni di Cannon-Bard. Ed è questo uno dei limiti della teoria che lascia spazio a nuove spiegazioni utili anche per il contesto del consumo. Infatti dalle ricerche seguenti è possibile affermare che il vissuto emotivo ha una sede e un’origine diversa dalle zone individuate da Cannon, sede che è stata collocata in strutture meno primitive del cervello, ovvero in strutture che sono a ponte tra i nuclei dell’ipotalamo e la corteccia cerebrale. La moderna neurofisiologia non conferma che le strutture talamiche individuate da Cannon siano alla base delle emozioni, però è interessante ipotizzare che uno stimolo portatore di emozioni produca sia cambiamenti fisiologici sia, separatamente e simultaneamente, l’esperienza soggettiva dell’emozione. Non a caso gli studi di Cannon hanno costituito un punto di partenza per le cosiddette Teorie dell’Attivazione o Arousal. Tra queste quella di Arnold (1960) che sostiene che lo stimolo determina a livello della corteccia cerebrale un eccitamento che a sua volta ha il doppio e contemporaneo effetto di suscitare un’emozione e di attivare schemi dinamici ipotalamici che si esprimono a livello periferico. Queste alterazioni vengono, poi, percepite come stimolo iniziale, modificando successivamente il vissuto emotivo che ha sede nella corteccia. Secondo questa teoria l’emozione contribuisce ad articolare la comprensione e la percezione della realtà e non porta alla perdita di razionalità (Moderato, 2006). Nello studio della cosiddetta “reazione di emergenza”, Cannon ha individuato l’esistenza dell’arousal simpatico (o autonomo) che prevede un quadro tipico di modificazioni fisiologiche. Il pattern di attivazione del sistema nervoso simpatico si manifesta attraverso: aumento della frequenza cardiaca e della gittata cardiaca, vasodilatazione muscolare, vasocostrizione cutanea e viscerale, broncodilatazione, aumento dell’attività delle ghiandole sudoripare, riduzione della motilità gastrica e intestinale, contrazione degli sfinteri, dilatazione pupillare, diminuzione della secrezione salivare. Tale pattern si osserva in tutte le forme di eccitamento: dolore, fame, paura, rabbia, eccitazione sessuale e divertimento. La reazione di emergenza viene interpretata come una preparazione per la fuga, la lotta, in generale per una risposta energica nei confronti di una situazione ambientale di emergenza. A sua volta Lindsley negli anni Cinquanta ha osservato l’esistenza di un arousal corticale, inteso come una sorta di blocco o comunque di de-sincronizzazione delle onde alfa che avviene in seguito alla stimolazione della formazione reticolare del tronco encefalico, connessa all’eccitazione emotiva. Si tratta di sistemi che, pur essendo funzionalmente distinti, presentano un certo grado di interrelazione. L’aspetto più importante è che essi variano lungo la dimensione dell’intensità. Anche se non si può identificare l’emozione con l’arousal, esso è tuttavia senza dubbio una condizione necessaria per l’esperienza emozionale e che può essere facilmente misurata. A questa teoria si affianca anche il lavoro di Schacter e Singer (1962) e la Teoria dell’Eccitazione Cognitiva (o Teoria Cognitivo-Attenzionale dell’Appraisal), che sembra comprendere sia la posizione di Cannon sia quella di James. Schacter (1964) sostiene che l’esperienza emotiva si verifica quando una persona si trova in uno stato di attivazione (arousal) e, contemporaneamente, attribuisce tale condizione a un qualche evento emozionale e la definisce appraisal, che in inglese significa significa
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“valutazione”. Secondo questa teoria cognitiva l’emozione è la risultante dell’interazione tra due componenti: una di natura fisiologica caratterizzata dall’attivazione diffusa dell’organismo, l’altra di natura psicologica con la percezione di questo stato di attivazione e con la sua spiegazione in funzione di un evento emotigeno plausibile, definito come appraisal, che significa “valutazione”, in opposizione all’arousal. Entrambe queste componenti sono considerate condizioni necessarie per l’occorrenza di uno stato emozionale, ma la loro semplice presenza non è tuttavia sufficiente a generare un’emozione. Secondo Schachter e Singer (1962) occorre un’attribuzione causale che stabilisca una connessione fra queste due componenti, in modo da attribuire la propria attivazione corporea a un evento emotigeno pertinente e in modo da etichettare la propria esperienza emotiva in maniera adeguata. Pertanto, l’emozione è la risultante dell’arousal e di due atti cognitivi distinti: uno che riguarda la percezione e il riconoscimento della situazione emotigena, l’altro che stabilisce la connessione fra questo atto cognitivo e l’arousal stesso. Di conseguenza, la consapevolezza dell’arousal rende emozionale l’esperienza vissuta dal soggetto. Mentre l’elaborazione cognitiva della situazione (appraisal) che ha provocato l’attivazione fisiologica determina il tipo di emozione provata (Frijda, 1986). Il feedback periferico proveniente dall’organismo rende consapevole il soggetto di uno stato di attivazione (arousal), ma solo la valutazione cognitiva (appraisal) del contesto permette di identificare l’emozione specifica. Noto a tal proposito è l’esperimento condotto da Schacter e Singer (1962) nell’indurre in un gruppo di soggetti uno stato di attivazione con epinefrina e posizionandoli in condizioni sperimentali differenti (uno in un contesto in cui un collaboratore stimolava condizioni emotive di rabbia e l’altro in cui un altro collaboratore stimolava una condizione di ilarità); l’emozione percepita dai soggetti veniva fortemente influenzata dalla condizione sperimentale indotta. Schachter e Singer coinvolsero dei soggetti reclutati per un esperimento che doveva valutare gli effetti prodotti sulla vista da un prodotto vitaminico, il Suproxin. Al gruppo di controllo venne iniettato un placebo, vale a dire una sostanza inattiva. Gli altri vennero poi suddivisi in tre gruppi – quelli informati, quelli non informati e quelli informati inadeguatamente – e tutti ricevettero una piccola dose di epinefrina. Al gruppo informato venne detto che doveva aspettarsi determinati effetti dalla sostanza, fra cui alterazione del battito cardiaco e tremiti (gli effetti prodotti in realtà dall’adrenalina). Al gruppo non informato gli sperimentatori riferirono che si trattava solo di una medicina molto blanda che non produceva alcun effetto. Infine, al gruppo informato inadeguatamente dissero di aspettarsi alcuni effetti come l’intorpidimento ai piedi, il prurito e un leggero mal di testa. Gli autori si aspettavano che questi ultimi due gruppi, che non avevano ricevuto spiegazioni soddisfacenti per lo stato di attivazione, avrebbero cercato nell’ambiente gli indizi per capire la loro attivazione fisiologica. Durante l’esperimento i ricercatori fornirono gli indizi necessari alla valutazione cognitiva dell’attivazione. Essi infatti usarono un “complice” che fingeva di essere uno studente che aspettava di fare il test della vista e si comportava in modo da suscitare euforia o rabbia. Nella condizione di euforia rideva e scherzava, giocava e invitava i soggetti a partecipare al gioco. Nella condizione di rabbia, il complice e i soggetti erano seduti l’uno accanto all’altra e dovevano completare un questionario di cinque pagine, molto personale e anche irritante. I risultati dell’esperimento confermarono le attese: chi non aveva ricevuto informazioni, o ne aveva ricevute di inadeguate, tendeva ad assumere l’umore del complice. I soggetti informati, che sapevano come spiegare il loro stato di attivazione fisiologica, tendevano in misura minore a imitare il complice e a provare una specifica emozione, indotta dal collaboratore dei due ricercatori. Secondo Schachter e Singer perché si verifichi un’emozione occorrono necessariamente due ingredienti: l’attivazione fisiologica (arousal) intesa come un tipo di attivazione indifferenziata e che offre indicazioni sull’intensità dello
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stato emotivo; la cognizione specifica della situazione che permette di etichettare con dei nomi specifici, per esempio felicità, paura, rabbia ecc. Le emozioni sarebbero, così, il risultato dell’interpretazione cognitiva dell’attivazione secondo il seguente schema: stimolo, attivazione, cognizione, sentimento o emozione. La teoria di Schacter e Singer ha aperto la strada ai successivi approcci cognitivisti alle emozioni. Tra queste vi sono le teorie cognitiviste per le quali l’affettività deriva dal modo in cui il soggetto struttura e interpreta gli eventi del mondo circostante, cioè dipende da specifici processi cognitivi e di riflessione. Le emozioni, infatti, possono essere definite come degli stati di personalità che danno senso e colore alle esperienze individuali. Così le emozioni sono caratterizzate da specifiche idee e cognizioni e hanno dei particolari correlati fisiologici, influenzando il comportamento e determinando un effetto retroattivo su quell’ambiente che in origine le aveva scatenate. In questo caso il valore emotivo nasce dal modo in cui il consumatore lo interpreta. Questo primo modello cognitivista in qualche modo mette in discussione il valore predittivo dell’approccio di neuromarketing perché ripropone un modello interpretativo in cui la razionalizzazione ha una funzione determinante. Questa funzione e il ruolo del processo cognitivo sono stati rivalutati anche grazie agli studi delle neuroscienze. Diverse ricerche (svolte su animali e su uomini che, a seguito di malattie, presentavano danni all’amigdala) hanno permesso di individuare il ruolo centrale che tale porzione del sistema limbico esercita nelle esperienze emotive. Sembra che la distruzione dell’amigdala determini l’incapacità di attribuire significati emotivi agli eventi. Per cui nelle scimmie si è riscontrato per esempio che non avvertono più paura, ma appaiono indifferenti, rispetto a stimoli che prima dell’intervento le spaventavano, anche in modo sano, per esempio tenendole lontano dai serpenti velenosi.
IL CONTRIBUTO NEUROSCIENTIFICO DELLA TEORIA A DUE VIE DI LEDOUX LeDoux e la sua Teoria a Due Vie (1996) offre un’interessante chiave di lettura per lo studio del consumatore attraverso le tecniche di neuromarketing: secondo l’autore il cervello valuta lo stimolo e stabilisce le modalità di risposta. Ciò avviene prevalentemente grazie a un ruolo determinante agito dall’amigdala che, trovandosi al centro di un sistema di comunicazioni del nostro cervello e ricevendo informazioni da diverse fonti (segnali sensoriali specifici dal talamo, informazioni sensoriali di livello superiore dalla corteccia, informazioni dall’ippocampo), è alla base dell’intero processo emotivo ed è in grado di elaborare in maniera complessa l’esperienza emotiva di uno stimolo, attraverso il collegamento e la retroazione tra centri specifici sensoriali, cognitivi e motori. La ricerca neuroscientifica ci dimostra che la stimolazione elettrica dell’amigdala induce risposte emozionali associate a rabbia, paura e ansia; la sua disattivazione farmacologica (benzodiazepine, oppio) attenua la risposta emozionale e la sua distruzione praticamente la abolisce; stimoli visivi che illustrano visi impauriti inducono nel soggetto umano una significativa attivazione bilaterale dell’amigdala. Secondo LeDoux è ipotizzabile, quindi, un processo a due vie (la via subcorticale e quella corticale), in cui è implicata l’amigdala, e che spiegano il suo ruolo in qualità di “centralina dell’emotività”. La via o circuito subcorticale collega l’amigdala al talamo e per questo sembra essere la diretta responsabile della valutazione automatica (e inconscia) degli stimoli. Si tratta di un circuito primitivo in termini evoluzionistici, ma molto efficace soprattutto in situazioni di pericolo. Secondo questo approccio la prima “impressione” emotiva che potrebbe guidare l’atto di consumo è attribuibile a questa via. Mentre il circuito corticale implicherebbe connessioni più articolate tra
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DIFFERENZE DI GENERE E CAMBIAMENTO DEGLI ATTEGGIAMENTI: RIFLESSIONI SULLA BASE DELLA RICERCA NEUROPSICOLOGICA Uno studio che promette di essere molto utile per le future campagne pubblicitarie è quello che riguarda le differenze di genere. Le neuroscienze stanno indagando in profondità le differenze funzionali fra il cervello dell’uomo e quello delle donne. A partire da un famoso articolo di Seymour Levine del 1966, esiste un fertile dibattito sulle differenze neurobiologiche legate al sesso, che negli ultimi anni si stanno concretizzando in un corpus di conoscenze con un valore pratico, oltre che epistemico. In particolare, sono state messe in evidenza l’influenza delle differenze di genere su numerose aree cerebrali, come l’ippocampo, l’amigdala, il rapporto fra neuroni e cellule gliali, e processi cognitivi, come la memoria, l’elaborazione degli stimoli visivi e acustici, i circuiti delle emozioni e così via. Gli studi, sia sugli animali che sull’uomo, sono così numerosi sia le evidenze circa le differenze di genere non possono più essere trascurate.
Tutto ciò non può non essere considerato quando si studia il comportamento d’acquisto. Per esempio, se, come detto, consideriamo fondamentale il ruolo delle emozioni nella decisione di acquistare un certo bene, allora non possiamo esimerci dall’analizzare le differenze fra i due sessi nel vivere l’esperienza emotiva. In particolare, l’amigdala, una struttura situata nella parte mediale-anteriore al di sotto della corteccia di ciascun emisfero, è considerata svolgere un ruolo chiave nel modulare l’elaborazione e la memorizzazione di stimoli emotivi. Uomini e donne sembrano effettivamente diversi di fronte a uno stimolo emotivo intenso, mostrando una diversa lateralizzazione. Le donne mostrano di ricordare in modo particolare gli stimoli emotivi quando viene attivata maggiormente l’amigdala sinistra, il contrario avviene per gli uomini. Sebbene non sia ancora chiaro cosa significhi questa diversa attivazione, ciò mette in luce una fondamentale differenza funzionale, potenzialmente utile nel campo nel (segue)
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(continua) marketing: uomini e donne memorizzano in modo diverso le qualità emotive degli stimoli e dunque anche dei prodotti di consumo. Ma le differenze non si fermano alle strutture sottocorticali come l’amigdala. La corteccia prefrontale, un’area anteriore della corteccia, sottostante all’osso frontale, è considerata un’area cognitiva, nel senso che soggiace al funzionamento di diversi processi cognitivi di alto livello, come la memoria di lavoro, il problem solving e il decision making. In pratica, la corteccia prefrontale è considerata una regione chiave per le funzioni esecutive, ovvero i processi più complessi della mente umana. Ebbene, proprio la corteccia prefrontale presenta un’elevata concentrazione di recettori di ormoni sessuali. Ciò rende questa regione particolarmente sensibile alle differenze ormonali esistenti fra uomini e donne. Anche in questo caso, alcuni studi mostrano una differente lateralizzazione funzionale, soprattutto nei compiti decisionali: le donne utilizzerebbero per decidere soprattutto l’emisfero sinistro, gli uomini il destro. Ancora una volta non è del tutto chiaro cosa questo significhi. Non è banale comprendere se queste differenze neurofunzionali in realtà indichino strategie decisionali differenti e, soprattutto, in che modo. Tuttavia, ciò ha stimolato, e stimola tuttora, un importante filone di ricerca volto a indagare i potenziali correlati di queste differenze. Ciò è di fondamentale importanza per iniziare a pensare a strategie di marketing gender-oriented. In questo senso sono molto utili gli studi basati su metodologie che permettano l’utilizzo di contesti sperimentali sufficientemente complessi e non troppo artificiali. Una di queste metodologie consiste nell’analisi del segnale corticale attraverso l’uso dell’elettroencefalogramma (EEG). Gli strumenti moderni e le metodologie di analisi avanzate di cui disponiamo ci consentono di registrare il biosegnale corticale in modo semplice, non invasivo ed economico, e di ricavare una pluralità di informazioni molto importanti sul funzionamento cerebrale. Per esempio, nel Centro di ricerca di neuromarketing dell’Università IULM stiamo svolgendo diversi studi sui correlati EEG dei processi decisionali in generale e dei comportamenti di acquisto in particolare. I dati sembrano proprio confermare l’esistenza di specifiche differenze legate al genere sessuale. In particolare, di fronte alla scelta se acquistare o meno un certo bene rappresentato attraverso immagini e descrizioni visualizzate su un monitor, le donne mostrano una modulazione elettroencefalografica differente da quella degli uomini. Questi ultimi, infatti, presentano una maggiore attivazione dell’emisfero destro, mentre nelle donne si osserva una maggiore implicazione dell’emisfero sinistro e in regione più posteriore. La complessità dei dati, inoltre, mette in evidenza anche una diversa modulazione relativamente alle frequenze EEG più basse (sotto gli otto cicli al secondo). Sebbene non sia semplice descrivere in breve le implicazioni di queste diverse modulazioni, un dato appare evidente: da un punto di vista fun-
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zionale, di fronte a un prodotto da acquistare, e a parità di condizioni contestuali e di motivazioni, uomini e donne “funzionano” in modo selettivamente diverso. In particolare, sintetizzando le informazioni a nostra disposizione e integrando le informazioni provenienti dai vari studi sul ruolo delle diverse regioni corticali e sottocorticali, possiamo ipotizzare che le donne utilizzino strategie di acquisto maggiormente mirate a classificare i prodotti in precise categorie. In questo modo, la decisione d’acquisto si basa molto su quanto contenuto in memoria e dunque sulle esperienze pregresse. Ciò permette decisioni più veloci in situazioni routinarie, quando cioè non è richiesta una valutazione estesa delle caratteristiche di un bene: è il caso di un prodotto di consumo già noto e provato. Tuttavia, le attivazioni rilevate suggeriscono non solo un processo di scelta più veloce, ma anche più efficace, in quanto basato su categorizzazioni tutt’altro che grossolane: sembra infatti che venga utilizzata una struttura di categorie ricca, oltre che ben consolidata. Del resto, basta osservare le corsie di un supermercato qualsiasi per verificare la differenza fra uomini e donne nel fare gli acquisti. E se ciò può essere pensato come la conseguenza di uno stile di vita o di uno stereotipo culturale, in realtà gli stili di consumo sembrano ancorarsi a solide differenze cerebrali. Infine, le ricerche suggeriscono anche una diversa risposta fra uomini e donne di fronte a messaggi pubblicitari o prodotti che veicolano un forte contenuto emotivo. È proprio vero che le donne sono più sensibili a questi aspetti? I dati a disposizione non sostengono affatto questa ipotesi. Piuttosto in determinate condizioni gli uomini possono mostrarsi anche più sensibili delle donne, soprattutto in relazione a emozioni con valenza negativa e ad alta intensità (arousal). In queste condizioni i prodotti vengono maggiormente ricordati dagli uomini, influenzando marcatamente la scelta di un prodotto rispetto ad altri. Inoltre, essendo gli uomini meno “determinati” in alcune tipologie di scelta (si veda il supermercato), si mostrano più vulnerabili rispetto a informazioni marginali, ma con un impatto emotivo positivo: come dire, il cervello dell’uomo sembra più malleabile e l’abilità comunicativa degli esperti di marketing può facilmente fare presa. Ciò, ovviamente, non significa che le donne siano invulnerabili, ma in determinate condizioni si mostrano particolarmente abili nel perseguire le proprie strategie d’acquisto. Naturalmente questo è solo l’inizio. Ancora molto deve essere compreso circa le differenze di genere nei comportamenti di acquisto, e ancora di più circa le modalità più idonee per sviluppare strategie di neuromarketing gender-oriented. Tuttavia, ciò che si evince con chiarezza è la complessità della materia, che non può essere ridotta a un mero schema descrittivo del funzionamento cerebrale. Gabriella Pravettoni - Università Statale di Milano
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Misurazione delle emozioni
Il Behavior and Brain Lab della IULM in cui si svolgono attività di biofeedback e di ricerca neuroscientifica realizzato in collaborazione la società leader in Italia, la Mind Room di Vicenza. ©Vincenzo Russo
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Le teorie sopra descritte dimostrano che il tema è assai complesso e difficile da trattare, soprattutto quando si prova a trasformare la teoria in modelli di valutazione e tecniche di misurazione. La Psicologia dei Consumi, tuttavia, si pone come obiettivo la misurazione dell’emozione considerando questa un elemento determinante per predire i comportamenti di consumo. Se uno spot, un brand o un prodotto riesce a fare provare emozioni positive è probabile che questa positività contribuirà nella scelta. Anche se il sistema, come detto, è molto più complesso, possiamo affermare che il legame tra emozione e consumo è in ogni caso tanto forte da trasformare l’emozione stessa in un importante elemento da valutare. Non a caso nel tempo il problema della misurazione delle emozioni ha focalizzato i ricercatori a soffermarsi su una vasta gamma di segni o evidenze, che includono le valutazioni sugli atteggiamenti, le sensibilità soggettive, le posture e le gestualità del corpo, le espressioni facciali, le risposte psicofisiologiche, le azioni e, ancor più recentemente, i cambiamenti neurali nel cervello grazie alle nuove tecniche di neuroimaging. Così come tante sono le teorie, altrettanto numerose sono le tecniche di misurazione. Le metodologie verbali si basano sul coinvolgimento diretto di un intervistato cui è richiesta l’esplicitazione delle sensazioni provate nel corso di un’esperienza, per esempio di fruizione di uno stimolo in laboratorio oppure di una pubblicità. Le tecniche neurofisiologiche su cui si fonda il neuromarketing consentono di verificare con maggiore precisione la variazione della condizione emotiva rispetto a uno stato di quiete o comunque a una condizione presa come punto di riferimento e di paragone. Da questo confronto, in merito a diversi parametri, come l’intensità, la durata ecc. è possibile studiare i processi emotivi in maniera più articolata. La pratica di misurare le reazioni psicofisiologiche correlate con le emozioni è anche conosciuta generalmente con il termine di biofeedback. Essa è stata la base dei trattamenti di medicina comportamentale praticata a partire dagli anni Settanta. Proprio questo termine inglese suggerisce che il concetto di base ruota attorno alla possibilità di fornire una “informazione di ritorno” in merito al singolo stato psicofisico generale con il fine di migliorare la propria regolazione dei processi fisiologici che più o meno direttamente influiscono sugli stati mentali. Il termine “autoregolazione” rimanda alle abilità di osservare e acquisire le competenze necessarie per portare dei cambiamenti nella propria fisiologia, nel proprio comportamento o addirittura nel proprio stile di vita per promuove salute e benessere. È un utile strumento per raggiungere una maggiore integrazione tra mente e corpo. Nella terapia basata sulla tecnica del biofeedback, attraverso l’impiego di schermi di computer che rappresentano i loro indici fisiologici, gli individui sono allenati a esercitare il controllo volontario sui loro parametri fisiologici, che in genere sono: l’attività cardiaca, la sudorazione della pelle, la respirazione, la temperatura periferica, la pressione del sangue, la tensione muscolare e l’attività cerebrale. Nel caso si concentri l’attenzione sull’attività cerebrale, in genere espressa attraverso le onde elettroencefalografiche, si parla anche di neurofeedback oppure neurobiofeedback, anch’esso impiegato come tecnica per modificare i propri funzionamenti mentali, come concentrazione e attenzione focalizzata. Le applicazioni nel campo del marketing si servono degli stessi processi e delle medesime tecniche di indagine. Nello specifico i parametri fisiologici più utilizzati sono: 1. sudorazione cutanea, detta anche elettroconduttanza della pelle (in inglese definita come skin conductance) o resistenza psico-galvanica della pelle. In generale, quando aumenta il sudore, diminuisce la resistenza elettrica della pelle, ma vedremo meglio in seguito i meccanismi di acquisizione; 2. variabilità cardiaca, comprendente le misure del battito cardiaco in tutte le sue espressioni (battito per minuto, distanza tra i battiti ecc);
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3. consumo di ossigeno (generalmente nel sangue, anche se possono variare i siti nel corpo in cui compiere la rilevazione); 4. livello di tensione/rilassamento del tono muscolare, o, generalmente, elettromiografia abbreviata nell’acronimo EMG; 5. vasocostrizione periferica (blood volume pulse, letteralmente “pulsazione del volume del sangue” presente nei capillari, per esempio nel dito); 6. segnale elettroencefalografico del cervello, comunemente noto come EEG, con cui si misurano le onde cerebrali (onde delta, theta, alpha, beta e gamma). Oltre a questi parametri un ulteriore dato è offerto dalla dilatazione pupillare che permette di misurare il grado di attivazione di un soggetto. Essa può essere misurata attraverso uno strumento indispensabile per analizzare i movimenti oculari, l’eye tracker. L’eye tracking (letteralmente, dall’inglese, “tracciatore dell’occhio”, perché in effetti in grado di tracciare su uno schermo tutti i punti dove gli occhi guardano (a un campionamento che può arrivare anche a 500 volte al secondo) è in grado di misurare in modo abbastanza preciso il puntamento del fuoco visivo sullo schermo dell’apparecchiatura, del tutto simile a uno schermo piatto di un normale pc. In virtù del fatto di essere governata dall’azione del sistema nervoso autonomo, la dilatazione della pupilla può essere un indicatore anche degli stati psicologici come lo stress (pupilla dilatata) e il rilassamento (pupilla ristretta) oltre che degli stati emotivi (Onorati et al., 2013). Inoltre l’eye tracking è in grado, come accennato, di tracciare il percorso degli occhi sullo schermo. Oltre al percorso (ricostruibile dai numeri, 1 = primo punto dove il soggetto ha guardato; 2 = secondo punto; ecc.), il sistema permette di misurare il tempo trascorso guardando un certo punto dello schermo e la frequenza di visione permettendo di valutare cosa attira l’attenzione di un soggetto o di un gruppo di persone. La mappa calorica offerta dall’eye tracking permette di avere una rappresentazione grafica di quali parti dell’immagine attirano di più l’attenzione visiva del consumatore. Gli esseri umani, ma anche altri animali, non osservano il mondo con uno sguardo “fisso”, anche se così potrebbe sembrare. Gli occhi si muovono velocemente, localizzando differenti parti della scena visiva e costruendo una “mappa” o “immagine mentale” (durano tra i 200 e i 300 millisecondi in media) della scena stessa, elaborata dalla corteccia visiva occipitale. Quando si guarda qualcosa, gli occhi compiono, infatti, delle soste, dette fissazioni, e dei “salti” (durano in media 10-20 millisecondi) o movimenti molto rapidi, chiamati saccadi. La ragione in chiave evolutiva che sembra giustificare la presenza di saccadi e fissazioni è imputabile al fatto che solo la parte centrale della retina, la fovea, possiede quell’acuità visiva necessaria per la corretta visione, mentre le parti periferiche hanno una visione molto ridotta. Muovendo gli occhi, si possono visionare diverse (limitate) parti della scena, avendone un’alta risoluzione. L’eye tracking è stato utilizzato fin dagli anni Ottanta per le ricerche sul consumo, in particolare per misurare l’attenzione del consumatore (Lohse, 1997; Pieters et al., 1999; Pieters & Wedel, 2004), la memorizzazione (Krugman, 1971; Morrison & Dainhoff, 1972; Wedel & Pieters, 2000), e per il processo di elaborazione delle informazioni (King, 1972; KroeberRiel, 1984; Kroeber-Riel & Barton, 1980). Infine non si può non fare un breve cenno alle tecniche di neuroimmagine frutto di tecnologie molto complesse in continua evoluzione. Le principali metodologie
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204 Parte II - Processi sociali e influenza sul consumatore sono: la risonanza magnetica (Magnetic Resonance Imaging, MRI, si aggiunge l’aggettivo “funzionale” se la scansione ha il fine di studiare la funzione delle aree attivate), la magnetoencefalografia (MEG), la tomografia computerizzata o TC (detta anche tomografia assiale computerizzata o TAC, anche se oggi il termine “assiale” è superfluo, in quanto le nuove tecniche non necessitano più la scansione assiale o trasversale), la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET). Tutte tecniche che hanno permesso di mettere in evidenza le aree del cervello che si attivano maggiormente quando i soggetto fa l’esperienza di stati emotivi.
PER SAPERNE DI PIÙ L’ANALISI DEI MOVIMENTI OCULARI E L’EYE TRACKING Sebbene l’utilizzo dell’eye tracking risalga ai primi anni Venti, solo recentemente si è manifestato un maggiore interesse verso questa metodologia di analisi dell’attenzione visiva. L’eye tracking è un metodo di misurazione dei movimenti oculari di grande utilità nella ricerca di marketing poiché è in grado di determinare in modo oggettivo l’attenzione visiva di un soggetto posto dinnanzi a uno stimolo di marketing. Ricordiamo che i movimenti oculari si possono dividere in due categorie: le fissazioni e le saccadi. Quando l’occhio si ferma su un determinato elemento visivo si ha una fissazione. Al contrario il movimento oculare tra una fissazione e la successiva viene definito saccade e ha il compito di acquisire il bersaglio sulla fovea. Infatti, in condizioni normali gli occhi vengono mossi continuamente cambiando di direzione circa cinque volte al secondo. La velocità dei saccadi può raggiungere i 600-700 °/sec. Durante la loro esecuzione il cervello non è in grado di elaborare nessuna informazione. Questo fenomeno, che prende il nome di soppressione saccadica, viene attuato probabilmente per evitare di percepire il movimento e lo sfuocamento dell’ambiente circostante, conseguente al movimento delle immagini del mondo esterno sulla retina, che si verifica durante i saccadi. Tuttavia è proprio grazie a questi movimenti che è possibile ottemperare alla zona d’ombra presente nella retina nel punto di contatto con il nervo ottico. Il susseguirsi di saccadi e fissazioni è conseguente al tipico funzionamento degli occhi che permette la focalizzazione su un nuovo punto di interesse. La fissazione varia tipicamente tra i 200 (durante la lettura di un testo) e i 350 millisecondi (durante la visione di immagini). Le saccadi tipicamente durano dai 100 ai 200 millisecondi. Durante le saccadi la vista è completamente sfocata e il sistema visivo non è assolutamente in grado di definire ciò che sfuma davanti agli occhi della persona. È solo durante le fissazioni che le persone sono in grado di definire con assoluta precisione la realtà che stanno osservando. L’occorrenza di saccadi e fissazioni ha un riscontro molto importante per la ricerca applicata allo studio di un qualsiasi stimolo visivo. Esse sono tipicamente registrate usando un eye tracker.
L’eye tracker è una tecnologia che si avvale di infrarossi in grado di tracciare il movimento oculare fino a una velocità di 500 Hz. Benché sia nata per scopi militari e clinici, con l’obiettivo di comprendere come funzionavano gli automatismi della visione umana, con il tempo si è diffusa anche in altri campi di applicazione tra cui il marketing. L’eye tracker fornisce numerosi dati classificabili in due macrocategorie: quelli qualitativi, ovvero basati sulla visualizzazione grafica del comportamento visivo di uno o più utenti, e quelli quantitativi, basati cioè sull’analisi quantitativa di dati numerici. Gli output più utilizzati dell’eye tracker sono le Heat Map, la Focus Map, la Scan Path, l’Area of Interest e la Gridded Area of Interest. In funzione della specifica finalità di ricerca, possono essere usati singolarmente o combinati tra di loro.
L’Heat Map e la Focus Map L’Heat Map (o mappa di calore) è una mappa colorata in funzione del numero o della durata delle fissazioni sugli elementi visivi che compongono lo stimolo visivo sottoposto a studio. Solitamente tra queste due modalità di caratterizzazione delle Heat Map si predilige quella basata sulla durata delle fissazioni, poiché più idonea a riflettere il livello di attenzione dell’utente e la cui validità come indicatore di attenzione visiva è stata ampiamente dimostrata. I colori dell’Heat Map vanno dal rosso (massimo numero o massima dura- Esempio di Heat ta delle fissazioni) al verde (minimo Map di una bottinumero o minima durata delle fissa- glia di vino delle zioni). Le aree colorate sono le parti Cantine Il Robineto. effettivamente osservate. All’opposto Riproduzione autodella Heat Map, la Focus Map resti- rizzata. tuisce il dato sulle aree non osservate. Essa permette di avere una visione più immediata delle aree “fredde” dell’elemento visivo testato, ovvero le aree che non colgono minimamente l’attenzione del fruitore. Esempio di Focus Map. (segue)
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Lo Scan Path L’insieme di fissazioni e saccadi forma lo Scan Path (detto anche Gaze Plot) ovvero il percorso disegnato dall’occhio. Lo Scan Path (o percorso di esplorazione) permette di visionare il tracciato oculare su uno stimolo. È caratterizzato da cerchi che rappresentano le fissazioni, ovvero le soste dell’occhio su un determinato elemento e hanno dimensioni differenti in base alla durata della fissazione. Maggiore è la durata della fissazione, maggiore è anche la dimensione del cerchio. Inoltre lo Scan Path Heat Map di donne Heat Map di uomini è caratterizzato dalle linee di collegaLe Heat Map rendono maggiormente evidenti le aree in cui si sofferma la visione mento tra un cerchio che indicano gli oculare a seguito del percorso rilevato dallo Scan Path. In questo esempio si spostamenti oculari (saccadi), momenti vede la diversa visione uomo/donna del Giudizio Universale di Michelangelo. in cui l’occhio ha bassissima acuità visiva e non è in grado di focalizzare correttamente ciò che sono le aree di maggior interesse. Questo output permette sta osservando; purtuttavia attraverso lo studio dello Scan anche di evidenziare le eventuali difficoltà per esempio nel Path di una persona o di un gruppo di utenti è possibile ricercare un’informazione su una pagina web o su uno sticomprendere quali sono le modalità tipiche di esplorazione molo di marketing. Più lungo è lo Scan Path maggiore è il di un packaging, di un prodotto o di un sito internet, quali tempo dedicato prima di arrivare al punto focale e di interesse. Ciò è molto utile nella valutazione dell’efficacia di posizionamento di immagini o pulsanti in pagine web o applicazioni per smartphone. Lo Scan Path permette di numerare i singoli passaggi oculari su un’immagine o un’etichetta permettendoci di distinguere le modalità di visione in base alle diverse esigenze, come per distinguere il movimento oculare di giovani o anziani, di esperti o inesperti della materia, di donne o uomini. Per esempio, analizzando lo Scan Path di uomini e donne su etichette di vino, su packaging o su opere d’arte Scan Path di donne Scan Path di uomini rileviamo abbastanza frequentemente Lo Scan Path di uomini e donne che guardano il Giudizio Universale di Michelangelo. una diversità di movimento oculare sugli stimoli. Come si può vedere dalle immagini di questa pagina, solo gli elementi visivi posti al di sotto dei cerchi colorati (fissazioni) sono le parti dell’affresco effettivamente viste. Le parti grafiche poste al di sotto delle linee di collegamento tra un cerchio e un altro (saccadi) non sono invece percepite. I numeri riportati nei cerchi corrispondono all’ordine di visualizzazione dello specifico elemento rispetto agli altri. Il tracciato visivo di ciascun partecipante è identificato da uno specifico colore nell’Heat Map. Analizzando il movimento oculare Scan Path di donne Scan Path di uomini di uomini e donne sull’affresco di Michelangelo, il Giudizio UniverDiversità di visione uomo/donna rilevato da Scan Path su etichette di vino delle sale presente nella Cappella Sistina Cantine Conte Vistarino. Riproduzione autorizzata. (segue)
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a Roma si può rilevare come il movimento oculare degli uomini e delle donne siano diversi. Gli uomini tendono a mostrare un comportamento visivo caratterizzato da un’esplorazione specifica e dettagliata di poche aree. Non prendono cioè in considerazione tutte le informazioni disponibili, selezionandone solo alcune. Per questo motivo vengono definiti selective processors. Al contrario le donne, definite comprehensive processors, sono più sensibili ai molteplici dettagli che compongono una scena visiva. In questo modo sembrerebbero caratterizzate da un’elaborazione cognitiva più completa. Dall’analisi della corrispondente Heat Map è possibile vedere come le aree che attirano più l’attenzione delle donne, oltre a essere più distribuite sull’immagine nel suo complesso, sono quelle in cui è particolarmente presente l’espressione del volto. L’inserimento dei volti nelle immagini ha una forte capacità attrattiva sui comportamenti visivi, come vedremo più avanti. Certamente questa forza attrattiva è più evidente nelle donne, soprattutto se i volti sono di bambini o adolescenti. Questa diversità di analisi è stata rilevata anche in altri lavori di neuroestetica, come quelli realizzati in collaborazione con la Triennale di Milano analizzando la diversa reazione emotiva e visiva di uomini e donne a opere di design, così come nei lavori di analisi di diversa visione di genere.
Gridded Area of Interest La Gridded Area of Interest è un altro importante output offerto dall’eye tracker e si tratta di una griglia che suddivide lo stimolo visivo oggetto di studio attraverso una rappresentazione cromatica di intensità visiva. I singoli quadratini con cui lo stimolo visivo viene suddiviso assumono colorazione differente a seconda della durata o del numero delle fissazioni ricevuti dai soggetti. A differenza dell’Heat Map, oltre al dato qualitativo restituito dalla colorazione dei vari quadrati, la Gridded Area of Interest permette di avere anche un dato quantitativo poiché ogni singolo quadratino riporta il numero o la durata delle fissazioni. Questo output consente di avere un quadro complessivo più dettagliato della performance attentiva delle varie parti dello stimolo grafico testato. Da questa griglia è possibile per esempio vedere gli effetti dei bias attentivi, tra cui quelli della cosiddetta Lettura secondo il Pattern F. Secondo questo errore visivo gli utenti tendono a guardare una pagina o un testo iniziando a vedere le parole all’inizio della riga più di quelle alla fine e le righe all’inizio del brano più di quelle a metà o alla fine. Così facendo disegnano la forma della lettera F, esempio tipico di pattern di lettura che caratterizza prevalentemente le popolazioni che sono abituate a leggere da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. Il Pattern F indica che: • gli utenti raramente leggono tutti i testi di una pagina web; • i primi due paragrafi sono determinanti e devono contenere gli elementi di interesse; • sarebbe opportuno inserire all’inizio di paragrafi elenchi puntati o immagini per attirare l’attenzione. Occorre segnalare che nel caso vi siano pochi elementi testuali e molti visivi il sistema di attenzione visiva cambia
dal Pattern F a quello Z, ovvero l’occhio si muove diversamente: da destra verso sinistra, poi in diagonale verso giù e poi ancora da destra verso sinistra. In questo caso la zona più appropriata in cui inserire le informazioni è nella parte centrale della pagina, considerando anche che l’ultima parte della pagina a destra è quella che viene vista con più frequenza. Questo strumento è inoltre utile per evidenziare in maniera efficace la diversità di movimento oculare di soggetti in base alle loro aspettative o competenze. Analizzando per esempio la diversa reazione di un gruppo di sommelier alla vista di un’etichetta di vino dell’Oltrepò pavese con quella di un gruppo di giovani inesperti si rileva immediatamente la diversità di attrazione che le varie parti dell’etichetta determinano nei due gruppi di soggetti.
Area of Interest (AoI) Un altro importante output rilevato dall’eye tracker è la cosiddetta Area of Interest. A dispetto degli output precedentemente descritti, questo è quello che si avvicina maggiormente agli output di tipo quantitativo, poiché restituisce una serie di dati numerici su tutti gli elementi dello stimolo visivo. Le informazioni numeriche che restituisce questo tool di analisi sono le seguenti. • Sequence: indica il numero di passaggi necessari affinché venga osservata l’area di interesse. • Entry time: restituisce il tempo antecedente alla prima fissazione. • Dwell time: conteggia il tempo medio di permanenza dei soggetti sull’area di interesse. • Hit ratio: conteggia il numero di soggetti che guardano almeno una volta l’area di interesse. Esempio di AoI tratto dall’analisi • Revisits: conteggia di una bottiglia di Cantine Due il numero di volte in Palme. Riproduzione autorizzata. cui l’area di interesse è stata rivisitata (tra tutti gli utenti). • Revisitors: conteggia il numero di volte in cui l’area di interesse è stata rivisitata dallo stesso utente. • Average fixation: calcola la durata media delle fissazioni (espressa in millisecondi). • First fixation: calcola la durata media della prima fissazione (espressa in millisecondi). • Fixation count: conteggia il numero medio delle fissazioni sull’area di interesse. Questi output, come si può facilmente comprendere, restituiscono una serie di dati molto utili per fare riflessioni (segue)
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in merito all’efficacia visiva di un particolare elemento grafico di uno stimolo visivo più complesso. Si pensi per esempio a un banner pubblicitario all’interno di una pagina internet, a un brand in una campagna pubblicitaria o ancora a un messaggio informativo su un’innovazione di prodotto riportato sul packaging. Durante la fase di indagine di efficacia dello stimolo è pertanto possibile individuare un’area di interesse e analizzare il movimento oculare che essa provoca in un gruppo di persone. Questo tipo di informazione è altrettanto utile per valutare l’efficacia della scelta di un colore per attirare l’attenzione del consumatore su una informazione specifica (per esempio il prezzo in un volantino pubblicitario) o per apprezzare la funzionalità di una pagina web o una particolare area della pagina rilevante per la strategia del sito stesso. In questo caso la conoscenza del tempo necessario affinché queste informazioni vengano visualizzate può essere di fondamentale importanza. Se l’utente resta su un sito web un tempo molto limitato (in media 1 minuto e 49 secondi), è necessario fornire un’esperienza di navigazione piacevole e immediata affinché le informazioni ricercate possano essere individuate velocemente e senza troppe difficoltà. Ecco quindi che conteggiare il tempo medio necessario a individuare un link riveste un’importanza strategica in contesti competitivi come sicuramente è quello del web. Ancora, rimanendo sempre in ambito web, analizzare le statistiche inerenti al tempo passato su un bottone può altresì fornire indicazioni sul livello di comprensione dello stesso. Infatti, maggiore è la durata delle fissazioni, maggiore è anche la difficoltà nel comprendere l’informazione. L’area di interesse può semplicemente offrire le indicazioni del tempo necessario impiegato da un gruppo di soggetti nel vedere un’area e il numero di quelli che si sono soffermati a vederla.
Pupillometria, blinking e attenzione A fianco all’analisi dell’attenzione visiva valutata con gli output qualitativi precedentemente riportati, i dati numerici prodotti dall’eye tracker possono essere impiegati per esaminare anche lo stato cognitivo di una persona ovvero i processi decisionali, gli atteggiamenti e la memorizzazione. Tipicamente le tipologie di informazioni numeriche che possono essere derivate dall’attività oculare sono la pupillometria, ovvero la variazione nel diametro pupillare, il blinking, ovvero la frequenza con cui si chiudono gli occhi, le fissazioni e le saccadi. L’analisi pupillometrica, già molto popolare nel secolo scorso, è recentemente tornata a essere oggetto di studio in particolar modo per indagare indirettamente l’impegno cognitivo di una persona (Seeber & Kerzel, 2011). La pupilla reagisce tipicamente a tre tipologie di stimolazioni: la luminosità, le emozioni e l’impegno cognitivo. Come indicato in un altro nostro lavoro del 2016, nel primo caso, in presenza di forte luminosità la pupilla si restringe per proteggere la retina da eventuali danni (Clarke et al.,
2003); nel secondo caso, la dimensione della pupilla varia in funzione dello stato emotivo in cui si trova una persona, aumentando quando la persona guarda uno stimolo a cui è interessata (Seeber & Kerzel, 2011). Infine la pupilla reagisce in seguito all’impegno cognitivo conseguente alla complessità dello stimolo elaborato da un soggetto (Pieters & Wedel, 2007; Seeber & Kerzel, 2011). Nonostante la comprovata validità scientifica, l’utilizzo di questa misura trova limitate applicazioni nel campo del marketing e della comunicazione. Purtroppo a causa dell’eccessiva sensibilità della pupilla agli stimoli ambientali e alla luminosità per potere avere dati generalizzabili occorre ridurre le variabili intervenienti nelle situazioni sperimentali cercando di controllare ogni aspetto che possa determinare l’attivazione della pupilla. L’eccessiva complessità del suo utilizzo e l’esigenza di contesti sperimentali molto controllati ha fatto in modo che questa metodologia di ricerca fosse utilizzata nella ricerca sperimentale di base. Oltre all’analisi pupillometrica, anche il blinking ovvero l’ammiccamento (eye-blink) relativo alla frequenza con cui si chiudono gli occhi può essere utile per derivare implicitamente lo stato cognitivo di una persona o lo sforzo cognitivo connesso all’esperienza del soggetto in relazione a uno stimolo. In particolare l’uso del blinking serve per comprendere il carico cognitivo. Una progettazione accurata di un packaging o di una pagina web permette di ridurre il carico cognitivo consentendo un’elaborazione più semplice ed immediata dell’informazione. Al contrario, una progettazione che non tiene conto del carico cognitivo rischia di influenzare negativamente l’esperienza dell’utente. Così se da un lato il numero di eyeblink diminuisce all’aumentare del carico cognitivo, la pupilla tende a dilatarsi proporzionalmente all’aumento del carico cognitivo, per poi diminuire quando il carico eccede il limite delle risorse cognitive disponibili. La valutazione del carico cognitivo offre un importante aiuto per guidare in modo più preciso l’analisi di usabilità di siti e per valutare in modo più immediato il grado di coinvolgimento emotivo e di sforzo cognitivo dell’utente rispetto al contenuto analizzato. A integrazione dell’eye tracking è infatti possibile aggiungere anche l’interpretazione del dato psicofisiologico (relativo all’attivazione fisiologica e quindi all’intensità emotiva o l’analisi elettroencefalografica, EEG) permettendo di misurare anche con questi strumenti in sincrono con l’eye tracker lo sforzo cognitivo. L’analisi di questo dato di attivazione permette di stimare l’aumento del carico cognitivo attraverso la rilevazione dell’attività elettrica di alcune aree del cervello, in particolare quelle prefrontali e frontali. A tal proposito Stickel e colleghi, nei primi anni Duemila, hanno messo in relazione il carico cognitivo con diversi pattern di onde cerebrali. Secondo i loro studi le onde alpha erano prevalenti nell’affrontare un compito più facile, viceversa le onde beta si presentavano come dominanti durante l’esecuzione di un compito più complesso, che richiedeva un maggiore carico cognitivo. Da qui la possibilità di utilizzare questi dati in sincronia con l’eye (segue)
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tracker per strutturare un’interfaccia o una comunicazione più funzionale e scorrevole, bilanciata e complessa nello stesso tempo. Il blinking permette anche di valutare la valenza emotiva (espressa in termini di piacevolezza) conseguente alla visione di uno stimolo (Ciceri, 2015). L’ampiezza della
frequenza di blinking diminuisce infatti nel caso di emozioni positive (piacevolezza) e al contrario aumenta in presenza di emozioni spiacevoli). Saccadi e fissazioni possono essere infine usati come indicatori indiretti del gradimento, della memorizzazione e dei processi decisionali di scelta.
Functional Magnetic Resonance Imaging (fMRI) o risonanza magnetica funzionale (RMF)
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La risonanza magnetica funzionale, come già visto, è una tecnica di imaging biomedico che consiste nell’uso dell’imaging a risonanza magnetica per valutare la funzionalità di un organo o di un apparato, in maniera complementare all’imaging morfologico. Si tratta di tecniche che da una parte hanno permesso di avere una più chiara conoscenza del sistema cerebrale e dall’altra di avere interessanti applicazioni dirette nel campo della ricerca sul consumatore già dagli anni Novanta. Infatti sono state applicate per l’analisi della preferenza di prodotto, per la misurazione dell’efficacia pubblicitaria e della brand loyalty (Carmichael, 2004; Helliker, 2006), nel processo di decision making (McClure et al., 2004; Montague & Berns, 2002) e considerata come più accurata rispetto alle tecniche di indagine con focus group e interviste nella descrizione dell’esperienza e dei sentimenti del consumatore (Kelly, 2002). È grazie anche al lavoro di McClure et al. (2004) che è stato possibile individuare nell’area dorsolaterale della corteccia prefrontale e nell’ippocampo i centri deputati alla scelta delle preferenze di prodotto e di brand. Rolls e McCabe (2007) hanno dimostrato come l’assaggio di barrette di cioccolato attivi maggiormente una parte del cervello (corteccia orbitofrontale, lo striato e la corteccia cingolata) rispetto a coloro che hanno meno desiderio di assaggiare quella barretta. Tra gli storici esperimenti non poteva che esserci quello relativo alla nota competitività tra Coca-Cola e Pepsi. McClure e colleghi (2004) hanno aggiunto al tradizionale esperimento in blind la misurazione neuroscientifica con fMRI. Come sappiamo in blind non si polarizzano le differenze e coloro che amano una bibita non riescono a distinguerla dall’altra fino a quando non viene utilizzata la fase di indagine non in blind. In questo caso la conoscenza della marca permette di polarizzare i pareri dei due gruppi di fan. In una terza fase prima di fare assaggiare la bibita viene fatta vedere la marca mentre i soggetti sono sotto osservazione con fMRI. La consapevolezza che a breve avrebbero assaggiato Coca-Cola ha prodotto una forte reazione in alcune aree del cervello. Risposta che invece non è stata rilevata quando veniva mostrata la marca Pepsi. L’importanza dell’esperimento risiede nella possibilità di misurare l’effetto (brain picture) che la dimensione culturale e comunicativa ha nel cervello dei soggetti in attesa di assaggiare un certo tipo di prodotto e come questa attivazione sia diversa dalla semplice attivazione di una zona deputata alla valutazione dell’assaggio di un prodotto gradito (l’assenza di reazione alla vista della Pepsi da parte dei fan Coca-Cola indica questa diversa attivazione cerebrale) (Zurawicki, 2010). Sebbene “risonanza magnetica funzionale” sia una terminologia generica, ovvero applicabile a qualsiasi tecnica di imaging a risonanza magnetica che dia informazioni aggiuntive rispetto alla semplice morfologia (per esempio imaging metabolico, quantificazione del flusso sanguigno, imaging dei movimenti cardiaci ecc.), essa è spesso usata come sinonimo di risonanza magnetica funzionale neuronale, una delle tecniche di neuroimaging funzionale di sviluppo più recente.
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Questa tecnica è in grado di visualizzare la risposta emodinamica (cambiamenti nel contenuto di ossigeno del parenchima, dei vasi e dei capillari) correlata all’attività neuronale del cervello o del midollo spinale, nell’uomo o in animali. Da più di cento anni, è noto che le variazioni del flusso sanguigno e dell’ossigenazione sanguigna nel cervello (emodinamica) sono strettamente correlate all’attività neurale. Quando le cellule nervose sono attive, consumano l’ossigeno trasportato dall’emoglobina degli eritrociti (globuli rossi) che attraversano i capillari sanguigni locali. Effetto di questo consumo di ossigeno è un aumento del flusso sanguigno nelle regioni ove si verifica maggiore attività neurale, che avviene con un ritardo da 1 a 5 secondi circa (in pratica l’effetto dell’aumento del consumo di ossigeno si manifesta attraverso la modificazione del flusso sanguigno dopo 1/5 secondi). Mediante analisi con scanner per imaging a risonanza magnetica, usando parametri sensibili alla variazione della suscettività magnetica, è possibile stimare le variazioni del contrasto, che possono risultare di segno positivo o negativo in funzione delle variazioni relative del flusso sanguigno cerebrale e del consumo d’ossigeno: maggiore intensità del segnale viene rappresentata da colori più accesi, brillanti, mentre minore intensità è rappresentata con colori più cupi e scuri. La RMF ha contribuito in maniera significativa nel dare alla neuropsicologia la possibilità di analizzare differenti aspetti del ruolo di ciascuna regione cerebrale attraverso lo studio delle aree attivate in funzione di un particolare atto o pensiero. Se la RMF misura l’attività sanguigna, che ha tempi di risposta molto più lunghi, la magnetoencefalografia (MEG) è invece una tecnica di immagine più veloce usata per misurare i campi magnetici attraverso l’impiego di apparecchiature elettroniche molto sensibili, in inglese SQUIDs, Superconduting Quantum Interference Devices. La migliore velocità di risposta è dovuta al fatto che la misurazione avviene sulla base dei campi elettrici generati direttamente dai neuroni, quindi la sua precisione temporale è simile a quella degli elettrodi impiantati direttamente nel cervello. Il segnale MEG (ma anche quello dell’EEG) deriva dall’effetto della corrente degli ioni che scorrono attraverso la membrana dei dendriti durante le trasmissioni sinaptiche. Poiché l’EEG è una tecnologia molto adatta a captare i campi elettrici (non quelli magnetici) dei neuroni in superficie, la combinazione di EEG e MEG risulta essere un binomio ottimale per rilevare i segnali prodotti dalla attività elettrica dei neuroni della corteccia cerebrale. Un ultimo importante vantaggio è che la MEG non è assolutamente invasiva e non richiede l’iniezione di sostanze nel flusso sanguigno del soggetto come nel caso della PET.
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Misura dei tempi di latenza e IAT (Implicit Association Test) Un altro interessante strumento di matrice psicofisiologica legato alla capacità di misurare i tempi di reazione e il tempo di latenza è il Test di Associazione Implicita (IAT). Esso è stato originariamente sviluppato come strumento per esplorare le radici inconsce del pensiero e del sentimento ed è una tecnica per misurare le associazioni automatiche di immagini e/o aggettivi (Greenwald & Nosek, 2008; Greenwald et al., 1998; Schmidt & Nosek, 2010). Un esempio classico di utilizzo dello IAT è quello di chiedere ai consumatori di categorizzare due coppie di concetti o un concetto e un’immagine (per esempio l’immagine di un prodotto e brand e aggettivi positivi e/o negativi) (Bar-Anan et al., 2009). Più associato è il legame tra immagine e aggettivi positivi più veloce sarà la loro associazione. Il compito dello IAT in genere viene svolto al computer e si compone di cinque blocchi, somministrati in maniera sequenziale, nei quali il soggetto utilizza due tasti di risposta per categorizzare gli stimoli
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che appaiono sul monitor sotto forma di immagini o parole, presentati uno dopo l’altro in ordine casuale. Tre compiti sono preparatori per le due fasi fondamentali di rilevazione, che consistono in un doppio compito di categorizzazione. Inizialmente i partecipanti devono classificare gli stimoli riguardanti i due concetti da confrontare, poi viene ripetuto lo stesso compito per gli stimoli rappresentanti la dimensione di attributo. Il primo compito critico (terzo blocco) richiede di utilizzare il medesimo tasto per gli item di una delle due categorie e i concetti dalla valenza positiva e un altro tasto per gli stimoli appartenenti alla categoria opposta e quelli con una valenza negativa. Nel quarto blocco viene riproposta la categorizzazione degli stimoli positivi e negativi invertendo i tasti di risposta rispetto al secondo blocco. Infine, i soggetti completano il secondo compito critico, nel quale l’associazione tra categorie e valenze è invertita rispetto al compito di doppia categorizzazione svolto precedentemente. Per ogni blocco, l’etichetta della categoria rimane scritta negli angoli superiori desto e sinistro del monitor, per ricordare ai partecipanti le regole sulle chiavi di classificazione degli stimoli. La differenza nei tempi di risposta e nel numero di errori nei due compiti critici è un indice della forza relativa dell’associazione tra gli elementi delle coppie di concetto e attributo. La facilitazione nella risposta con il medesimo tasto a una categoria e agli stimoli positivi, rispetto alla categoria alternativa associata alla stessa valenza, riflette una preferenza implicita per tale concetto. L’ipotesi di funzionamento dello IAT risiede, infatti, nel principio che se vi è un atteggiamento positivo radicato nei confronti del brand o prodotto più basso sarà il tempo di latenza nell’associare l’immagine del prodotto o brand con concetti positivi. La piacevolezza di un prodotto è per esempio associato a una maggiore rapidità di azione nel premere un pulsante per indicare il grado di piacevolezza e a una attivazione (arousal) che anticipa uno stato di piacevolezza di gusto (O’Doherty et al., 2006)
Applicazioni nel campo del consumo Le tecniche neuroscientifiche in realtà non sono una novità nel campo della ricerca sul consumo. Da tempo si è cercato di misurare uno degli elementi più caratterizzanti l’atto del consumo, ovvero l’emozione. Prima ancora dello sviluppo del marketing esperienziale fondato proprio sulla capacità di coinvolgimento emotivo e affettivo, il marketing ha sempre cercato di misurare l’emozione che stava dietro la relazione con il brand e con il prodotto. L’uso del Differenziale Semantico di Osgood è stato uno degli strumenti che più ha cercato di avvicinarsi alla misurazione dell’affettività riducendo quanto più possibile l’intermediazione cognitiva. Fin dagli anni Sessanta (Wang & Minor, 2008) è stato possibile trovare le prime applicazioni sui consumatori e si sono avute ricerche finalizzate ad analizzare le emozioni, l’attenzione, la memorizzazione (Lee et al., 2007; Weinstein et al., 1984). Oltre alla misurazione dei comportamenti di acquisto e alla valutazione delle descrizioni verbali, le tecniche psicofisiologiche che più si sono usate nel campo dei consumi sono la dilatazione pupillare, il movimento oculare e il battito (Green & Tull, 1978; Poels & Dewitte, 2006; Stewart & Furse, 1982; Wang & Minor, 2008; Wiles & Cornwell, 1991). Negli anni abbiamo assistito all’utilizzo di specifiche tecniche: negli anni Sessanta e Settanta la dilatazione pupillare e la conduttanza elettrodermica, negli anni Ottanta la misurazione cardiovascolare e le espressioni facciali. Dopo una riduzione di studi e di attenzione negli anni Novanta dell’utilizzo delle tecniche psicofisiologiche, ancora troppo deboli in termini di attendibilità, dal 2000 in poi si è assistito a un incremento dell’utilizzo di tutti gli indicatori anche grazie allo sviluppo delle conoscenze sul funzionamento cerebrale e al miglioramento delle tecnologie sempre più sofisticate e sensibili (Wang & Minor, 2008).
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Se l’obiettivo della ricerca sul consumatore è cogliere l’engagement emotivo, la capacità di attrarre l’attenzione e la memorizzazione, queste nuove tecniche permettono di incrementare e di integrare le informazioni tratte dalle metodologie classiche grazie alla possibilità di misurare indicatori psicofisiologici e neurologici strettamente correlati con queste funzioni cognitive. La misurazione della dimensione affettiva che si svilupperebbe spontaneamente, senza alcuno sforzo cognitivo, permetterebbe di valutare oggettivamente ciò che Mehrabian e Russell (1974) avevano definito reazione emotiva nelle sue principali dimensioni, quella di piacere (pleasant vs unpleasant), di attivazione e/o arousal (excited vs calm) e di dominanza (dominant vs submissive) (Eroglu et al., 2001). Il grado di piacere e di attivazione legata alla dimensione affettiva è stato già studiato attraverso l’analisi delle onde alpha e delle onde beta dell’elettroencefalogramma (EEG), utilizzate anche per misurare l’attività cerebrale, l’impegno cognitivo che una scelta può generare nel consumatore e lo stato di attivazione cognitiva (attenzione e memorizzazione) (Klebba, 1985). Posizionando gli elettrodi di un EEG in corrispondenza di specifiche aree del cervello è possibile misurare il grado di interesse verso ciò che si osserva, il ricordo inteso come attivazione della memoria a lungo termine e l’attrazione/repulsione (Lindstrom, 2008), con il vantaggio del numero di soggetti che si possono coinvolgere. Infatti le tecniche di indagine del funzionamento cognitivo si basano su un numero contenuto di soggetti (18-22 soggetti), molto più basso rispetto alle tecniche classiche, grazie al fatto che la variabilità del funzionamento cerebrale è più bassa pur tenendo conto delle differenze tra uomini e donne, anziani e giovani. Le applicazioni in campo pubblicitario dell’uso dell’EEG sono state numerose fin dagli anni Settanta (Alwitt, 1989; Krugman, 1971; Young, 2002). Alcuni studi hanno cercato di individuare eventuali differenze di attivazione delle due parti cerebrali (emisfero destro e sinistro) ipotizzando una diversa attivazione in base alle stimolazioni: il piacere e l’arousal (Weinstein et al., 1984), il piacere (Cacioppo & Petty, 1982), la memoria (Appel et al., 1979; Rothschild & Hyun, 1990), l’elaborazione delle informazioni (Rothschild et al., 1988). Si tratta di un ampio ambito di studio che cerca di dimostrare l’effetto della lateralizzazione del cervello ovvero dell’eventuale differenza di funzionamento che specifiche aree dei due emisferi cerebrali hanno di fronte alle stimolazioni ambientali. A tal proposito l’approccio definito Teoria della Valenza ha ipotizzato l’esistenza di un centro per le emozioni positive localizzato nell’emisfero sinistro e di un centro per le emozioni negative localizzato nell’emisfero destro. Questa differenza di attivazione emisferica è anche alla base della cosiddetta Teoria Motivazionale, secondo la quale l’emisfero sinistro prevale per le risposte appetitive/di avvicinamento, mentre l’emisfero destro prevale nelle risposte di fuga/evitamento. Se si analizzano i dati asimmetrici registrati dall’EEG nella zona prefrontale del cervello in un soggetto a riposo, questi dati risultano essere i migliori predittori delle reazioni agli stimoli emotivamente rilevanti rispetto agli stati dell’umore a riposo. In linea con questo studio, Sutton e Davidson nel 1997 scoprirono che le asimmetrie EEG (sempre della zona prefrontale del cervello) erano in grado di prevedere le differenze individuali riguardanti la tendenza a evitare o ad avvicinarsi a uno stimolo emotivo. Diverse ricerche, inoltre, hanno dimostrato che le asimmetrie EEG verso sinistra causano livelli più alti di rabbia di stato e di tratto e la tendenza ad agire comportamenti di tipo aggressivo. Nei laboratori di neuromarketing, l’asimmetria prefrontale analizzata con le onde alpha e beta è molto utilizzata per misurare il grado di attrazione o di repulsione di uno stimolo. In questo caso possiamo parlare di un indicatore di interesse misurato con EEG (Russo, 2015).
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Esempio di cuffia per elettroencefalogramma per le ricerche di neuromarketing. ©Min Jing/Alamy Stock Photo
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I risultati delle ricerche sulla lateralizzazione emisferica non sono concordemente accettati dall’intera comunità scientifica. Alcuni autori sostengono, infatti, che i due emisferi cerebrali giochino ruoli differenti, e complementari, in termini di controllo emozionale. Secondo la Teoria del Controllo l’emisfero destro potrebbe essere implicato soprattutto nelle funzioni di elaborazione spontanea delle emozioni, il vissuto soggettivo e le componenti vegetative della risposta emozionale, mentre l’emisfero sinistro potrebbe giocare un ruolo critico nel controllo intenzionale delle strutture implicate nell’espressione emozionale. In alcuni pazienti con lesione emisferica sinistra, infatti, la diminuzione dei controlli corticali si manifesta non solo con un’accentuazione della risposta espressiva comportamentale, ma anche con un aumento della risposta vegetativa agli stimoli emotigeni (Russo, 2015). È così possibile usare l’EEG per la misurazione dell’asimmetria alfa frontale (FAA), considerata un indice attendibile per valutare emozioni di approach (avvicinamento) o di avoidance (evitamento) che correlano con emozioni positive e negative. Questo indicatore viene anche chiamato indice di approccio-evitamento (ApproachWithdrawal Index, AW). La letteratura riporta numerose evidenze dell’inibizione delle onde alfa del tracciato elettroencefalografico in presenza di stimoli emotivi. In particolare, un’inibizione in tale banda di frequenza a livello prefrontale destro (che riflette una maggiore attivazione della specifica regione cerebrale) indica una tendenza a evitare lo stimolo. Al contrario, se l’inibizione delle onde alfa si verifica a livello prefrontale sinistro (indice di maggiore attivazione prefrontale sinistra), questo riflette una tendenza ad approcciare lo stimolo, percepito come positivo. L’indice di approccio-evitamento è secondo Rettie e Brewer (2000) un potente indice di interesse verso uno stimolo. Così, grazie alle tecniche neuroscientifiche possiamo riscontrare una certa preferenza da parte dei consumatori di una diversa disposizione spaziale dei prodotti servendoci dell’analisi di quale parte del cervello verrebbe maggiormente attivata dalla stimolazione ambientale. In considerazione del fatto che i due emisferi sono anatomicamente simili ma funzionalmente diversi (a questo si riferisce il termine lateralizzazione) risulterebbe più opportuno posizionare gli stimoli spaziali non verbali nell’emicampo visivo sinistro perché elaborati dalla parte destra del cervello più predisposta a valutare le stimolazioni non verbali. In questo caso i prodotti esposti nella corsia di sinistra verrebbero rilevati con una maggiore rapidità, mentre i messaggi verbali sarebbero più velocemente percepiti se vengono posizionati nell’emicampo destro e valutati dall’emisfero cerebrale sinistro. «La diversa visibilità dei prodotti esposti sulla corsia di sinistra rispetto alla corsia di destra dipende dall’asimmetria percettiva degli stimoli verbali e non verbali» (Lugli, 2010, p. 5). Sebbene le neuroscienze confermino che l’attivazione selettiva di ciascun emisfero può variare a secondo dell’età (Gerhardestein et al., 1998), del sesso (Studer & Hübner, 2008), del tipo di stimolo (Phillips & Bradshaw, 1993), gli studi sulla possibilità di distinguere le attivazioni differenziate per area cerebrale non hanno ancora portato a dati indiscutibilmente attendibili e validi. Alcune applicazioni sono di grande interesse ma necessitano ancora di ulteriori analisi anche grazie alla sofisticatezza delle strumentazioni attuali. Le ricerche sul funzionamento del cervello, effettuate grazie alle tecniche encefalografiche oltre che a quelle offerte da attrezzature più sofisticate come la risonanza magnetica, hanno permesso anche di analizzare eventuali differenze funzionali e anatomiche tra uomo e donna, tra giovani e anziani, permettendo di giungere a soluzioni applicative nel campo dei consumi e della comunicazione pubblicitaria coerenti con queste eventuali differenziazioni.
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Sappiamo per esempio che il cervello dell’uomo e quello della donna si differenziano molto anche per motivi di ordine adattivo. Nella donna il corpo calloso che permette la congiunzione tra i due emisferi è molto più sviluppato che nell’uomo. Ciò si tradurrebbe in una maggiore predisposizione delle donne alla gestione di più compiti contemporaneamente e in una capacità di elaborazione delle informazioni maggiore (Lugli, 2010). Anche una più significativa predisposizione all’empatia da parte delle donne si può, in parte, attribuire a questa differenziazione anatomica, che diventa anche una differenziazione funzionale. Una diversità che sembra giustificare alcuni luoghi comuni e stereotipi. Oltre alla differenza del corpo calloso sappiamo infatti che (Pradeep, 2010): • il cervello delle donne ha circa l’11% in più di neuroni nell’area del linguaggio; • l’ippocampo deputato ai processi di memorizzazione è più sviluppato e più attivo nella donna; • l’amigdala, ghiandola necessaria per la gestione dell’aggressività e della sessualità (la belva dentro di noi, il nostro nucleo istintivo, tenuto a bada solo dalla corteccia prefrontale) è più sviluppata negli uomini; • l’insula, che presiede all’elaborazione delle sensazioni viscerali, è più sviluppata e più attiva nella donna; • la corteccia prefrontale, regina che governa le emozioni e che impedisce loro di diventare esplosive, tiene a freno l’amigdala ed è più sviluppata nella donna, in cui matura uno o due anni prima che nell’uomo; • la corteccia cingolata anteriore, che contribuisce a ponderare le opzioni e a prendere le decisioni (centro cerebrale della preoccupazione e valutazione), è più sviluppata nella donna. Forse è per questi motivi che le donne, sempre secondo Pradeep (2010), sono: • molto più attente alla narrazione di storie che di immagini attrattive e sensuali; hanno maggiori capacità di ritenzione e memorizzazione di eventi emotivi; • prestano attenzione alle espressioni facciali e al non verbale; • sono sensibili alle situazioni in cui l’empatia gioca un ruolo prevalente; • mantengono le connessioni sociali che per loro sono cruciali, così come la condivisione di “storie”; • prestano attenzione alle sfumature... la tecnica “Non aspettare” o “Chiama ora” non funziona! Lo stesso vale per il cervello delle mamme che muta in relazione sia ai cambiamenti ormonali sia alle abitudini quotidiane. Sappiamo che nulla è più attrattivo per le mamme della salute, della felicità, del benessere e della sicurezza dei figli. Di fatto il cervello di una mamma cambia rendendola molto più sensibile al suo primario focus: 7300 cambi pannolino entro il secondo anno, 700 ore di sonno in meno, prestare attenzione circa una volta ogni 4 minuti/210 volte al giorno (da moltiplicare per il numero di figli!), dare alimento ogni tre ore sono aspetti che cambiano le abitudini e le sensibilità. Sappiamo inoltre che nel corpo di una mamma il progesterone aumenta da 100 a 1000 volte il suo livello normale (l’effetto sedativo è simile a quello del diazepam), il cortisolo aumenta rendendole sensibili a segnali di sicurezza, nutrizione e potenziali problemi, si sviluppano connessioni neuronali in maniera selettiva nel cervello, aumentando i livello di ossitocina che riduce l’attenzione alla paura personale e ostilità, riducendo anche l’effetto di attivazione dell’amigdala (Pradeep, 2010). Anche in questo caso i cambiamenti biologici e delle abitudini personali rendono le mamme consumatrici più attente ad alcuni messaggi promozionali, infatti: cresce la sensibilità al networking, si manifesta maggiore empatia e sensibilità a immagini di connessione bambino-mamma, si presta più attenzione a certi messaggi legati a salute
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e benessere analizzando con più attenzione i dettagli del messaggio, si offre maggiore attenzione ai profumi vista la sensibilità delle mamme agli odori. Individuare le aree cerebrali coinvolte in un messaggio pubblicitario, unitamente alla misurazione dell’eccitazione neuronale, consente prima di esporsi a grandi spese di valutare l’efficacia del prototipo sulla base del livello di interesse suscitato e del potenziale mnemonico associato all’attivazione di particolari aree deputate alla memorizzazione (Babiloni et al., 2007). Questa valutazione permette di limitare i meccanismi di adattamento delle risposte dei consumatori alle attese del ricercatore o alla ricerca della buona immagine personale (effetto delle desiderabilità sociale che può inficiare le ricerche sul consumatore) e permette di misurare le emozioni senza la modifica che la razionalizzazione a volte impone. Inoltre, poiché spesso i consumatori non sono consapevoli di tutte le emozioni che provano e non riescono a farne una precisa valutazione quantitativa, dobbiamo sempre considerare che il giudizio esplicito e razionale rischia di essere fuorviante (Rizzolatti & Vozza, 2007). Non a caso i primi studi dell’effetto della pubblicità sulle emozioni dei consumatori effettuata con fMRI ha permesso di selezionare i messaggi più efficaci nell’attivazione di una specifica area cerebrale (l’insula anteriore) dedicata alla reazione empatica nell’osservazione delle emozioni altrui (Lugli, 2010). La dilatazione pupillare è sempre stata considerata una misurazione di grande interesse (Hess, 1968; Krugman, 1965; Stafford et al., 1970; Van Bortel, 1968) ed è utilizzabile per la misurazione dell’attenzione, dell’arousal, dello stato di piacere, della memorizzazione e dell’attivazione cognitiva (Stewart & Furse, 1982; Watson & Gatchel, 1979). Da allora le tecniche si sono raffinate e permettono di misurare l’attivazione fisiologica legata all’emozione in maniera molto più efficace e attendibile (Mauri et al., 2012). Il picco vocale è un’altra misurazione che storicamente è stata utilizzata per l’analisi dell’attivazione emotiva. Questo indicatore misura come cambia il tono di voce quando si è coinvolti emotivamente. Sviluppato originariamente da Brickman (1976), è stato anche utilizzato nel campo dell’advertising research e per misurare il cambiamento degli atteggiamenti (Brickman, 1980). Anche l’analisi del battito cardiaco ha una sua storica applicazione per la misurazione dello stato di piacere o non piacere (Bolls et al., 2001), del processo cognitivo e dell’attenzione (Watson & Gatchel, 1979) e per predire il richiamo e la memorizzazione (Bolls et al., 2003; Lang et al., 2002). Inoltre sembra essere particolarmente utile anche nella sua applicazione fuori dal laboratorio (Watson & Gatchel, 1979). Come il battito cardiaco, l’attività vascolare rappresenta un ulteriore indicatore di attivazione emotiva. Essa è stata già studiata per misurare lo stato di piacere, di arousal e di memorizzazione (Bagozzi, 1991; Brownley et al., 2000). Come si può evincere da questa breve e incompleta review storica, le applicazioni delle tecniche neuroscientifiche sono veramente numerose, tuttavia occorre segnalare che si tratta di informazioni sempre più attendibili ma utili se integrate alle informazioni provenienti da indagini con tecniche classiche e se attentamente valutate le numerose variabili intervenienti. Come scrive Bagozzi (1991) il framework psicofisiologico è molto più complesso della semplice relazione one-to-one tra antecedente psicologico e singola conseguenza psicofisiologica. Inoltre occorre ricordare che un cambiamento psicofisiologico può essere accompagnato da un numero infinito di processi cognitivi. Questi processi psicologici possono coesistere con l’attivazione di stimoli ambientali (spot o stimoli di marketing). A complicare le analisi vi è la consapevolezza che un particolare antecedente psicologico può portare a una serie differente di conseguenze fisiologiche (Stewart & Furse, 1982) e che il marketing e la ricerca pubblicitaria di solito cercano di valutare non solo l’effetto di un singolo stimolo, ma quello di una serie di stimoli, quali annunci o spot televisivi, costituiti da un numero imprecisato di elementi (Crites & Aikman-Echenrode, 2001), i quali possono attivare il nostro consumatore.
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Se analizziamo la letteratura sulle applicazioni di neuromarketing riscontriamo una grossa crescita dei lavori rispetto a quanto riscontrato all’inizio dello sviluppo dell’approccio di neuromarketing. Molte ricerche sono state svolte nel campo del consumo alimentare anche per la facilità di integrare dati legati alla percezione del gusto e gli indicatori psicofisiologici. Non basta avere macchine e tecnologie avanzate per misurare l’attivazione fisiologica in maniera attendibile e ipotizzare un diretto effetto stimolo-risposta, la complessità dei dati e l’influenza di possibili variabili intervenienti richiedono tecniche di triangolazione del dato e l’uso di saperi interdisciplinari come le conoscenze psicosociali, quelle bioingegneristiche, quelle mediche e quelle di biostatistica. Non a caso a supporto dei più grandi centri di ricerca di neuromarketing vi sono numerosi studiosi e prestigiose università in grado di potere contribuire alla lettura di una grossa mole di dati con consapevolezza e attenzione critica per evitare facili e banalizzanti interpretazioni.
ESERCITAZIONI E AUTOVERIFICA Emozioni e consumo
Applicazioni di neuromarketing
1
Utilizzando il modello bipolare delle emozioni tratto da Barrett e Russell valutate in quale quadrante si posizionano sei spot pubblicitari (due di prodotti alimentari, due di prodotti bancari e due di prodotti tecnologici).
2
Commentate il significato attribuito dagli studi di neuromarketing all’acquisto d’impulso e al “valore dell’inconsapevolezza” nel processo di scelta.
3
Concentratevi nell’analisi del comportamento non verbale di un vostro interlocutore, segnando gli indicatori di eventuali microespressioni del volto secondo il modello di Ekman e cercando di individuare eventuali contraddizioni tra comportamento verbale e non verbale.
4
Descrivete alcuni dei principali esempi di vita quotidiana in cui il modello delle emozioni di LeDoux (1996) si dimostra efficace nel delineare il ruolo delle emozioni nel processo decisionale.
5
6
7
8
Procedete con la misurazione dei tempi di reazione e il tempo di latenza con il Test d’Associazione Implicita (IAT) attraverso il sito ufficiale dello IAT (https://implicit.harvard.edu/implicit/italy/takeatest.html) e descrivi l’efficacia della sua possibile applicazione nel campo della ricerca sul consumatore. Analizzando le pubblicità rivolte a consumatori di genere femminile e quelle rivolte a consumatori di genere maschile descrivete quali differenze narrative sono più evidenti tra i due tipi di spot, provando a giustificarne la presenza facendo riferimento anche alle conoscenze offerte dalle neuroscienze sulle differenziazioni biologiche e culturali tra uomo e donna. Replicate il precedente esercizio distinguendo gli spot rivolti a consumatrici di genere femminile mamme (con bambini 0-36 mesi al massimo) e target di consumatrici di genere femminile non mamme. Ripetete il precedente esercizio distinguendo gli spot rivolti a consumatori giovani e consumatori anziani.
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