Dalla parte delle immagini. Temi di cultura visuale - Capitolo 1

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Capitolo 1

La vita sociale delle immagini: agentività, affetto, potere

1.1 Un giallo che contagia: Tête d’homme: Etude (Paul Cézanne, 1877) Nel 1877 Paul Cézanne partecipa per la seconda e ultima volta a una mostra degli Impressionisti, dopo aver fatto parte, nel 1874, accanto a Edgar Degas, Claude Monet, Pierre Auguste Renoir e molti altri, della prima, “scandalosa” esposizione ospitata presso lo studio parigino di Nadar. Nel frattempo, vi era stata una seconda presentazione collettiva della “nuova arte”, l’anno prima, ma quella del 1877 (4-30 aprile), allestita in un appartamento in rue Le Peletier, a Parigi, rappresenta senza dubbio un momento di svolta nell’accettazione culturale dell’Impressionismo, anche grazie alle sedici opere di Cézanne. Lo testimonia, prima di tutto, la reazione generalmente favorevole, o quantomeno rispettosa, della critica, con la sola vistosa eccezione di “Le Charivari”, un popolarissimo giornale satirico parigino il cui attacco arriva, il 16 aprile, sia in forma di illustrazione, grazie a otto tavole di Cham (pseudonimo di Charles Amédée de Noé), il più importante disegnatore, fumettista e caricaturista della sua epoca, sia in forma di recensione, a firma del critico d’arte (ma anche drammaturgo e pittore) Louis Leroy, lo stesso cui si deve proprio la coniazione del termine “impressionisti”, utilizzato nel titolo della sprezzante cronaca della prima mostra, Exposition des impressionnistes, scritta, sempre per “Le Charivari”, nell’aprile del 1874. Dell’attacco satirico di Cham e Leroy è rimasta celebre, e ampiamente commentata nella storiografia artistica, una vignetta in particolare (Figura 1.1), nella quale un agente di polizia, con il volto percorso da un fremito di terrore, blocca all’ingresso dell’edificio in cui sono esposte le opere degli Impressionisti un’elegante signora incinta; la didascalia recita: Madame! Cela ne serait pas prudent. Retirez-vous! (“Signora! Questo non sarebbe prudente. Meglio che ve ne andiate!”). Il significato non proprio immediato del disegno viene chiarito dalla recensione, là dove Leroy, denunciando l’amore decisamente eccessivo di Cézanne per il giallo, invita a non soffermarsi sul suo “ritratto di un uomo” (Tête d’homme: Etude, che ritrae Victor Cho-

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Figura 1.1 Vignetta satirica di Cham, Madame! Cela ne serait pas prudent. Retirez-vous!, “Le Charivari”, 16 aprile 1877.

quet, amico dell’artista e collezionista delle sue opere e di quelle di altri Impressionisti, Figura 1.2). È un consiglio che il giornalista rivolge, in particolare, alle donne incinte, poiché quella testa dal «colore dell’interno degli stivali» (giallastro, appunto) e dalla forma eccessivamente allungata potrebbe impressionarle (impressionner) così vividamente da contagiare con una fièvre jaune (“febbre gialla”, in questo caso l’ittero, non la malattia tropicale) il bambino che portano in grembo. Il ricorso al verbo impressionner è ovviamente motivato da un riferimento beffardo allo stile pittorico di Cézanne e compagni, come già nella recensione alla prima mostra, in cui Leroy si era preso gioco del celebre dipinto di Claude Monet Impression, soleil levant (1872); questa volta, tuttavia, come osserva Éric Michaud,

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Figura 1.2 Paul Cézanne, Tête d’homme: Etude, 1877.

il termine è utilizzato anche per evocare la credenza popolare nel potere delle “impressioni materne” sul feto; in questo caso specifico, l’idea che i bambini possano assomigliare fisicamente a impressioni visive particolarmente intense alle quali la madre si sia esposta durante la gravidanza (Michaud, 2008: 356; lo studioso, tuttavia, basa le sue riflessioni sul dipinto sbagliato, il Ritratto di Victor Choquet seduto, anch’esso giallo ma in modo molto meno “impressionante” della Tête d’homme). Il “pericolo” rappresentato dalla pittura impressionista va insomma ben al di là della storia dell’arte e dell’estetica: essa ha il potere di incidere sulla forma e il colore

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del feto che un’ignara spettatrice porta in grembo, di “rovinarlo” esattamente come al critico di “Le Charivari” appare rovinata – incompleta, incompiuta, deforme – la testa d’uomo ritratta da Cézanne. Sono qui in gioco due distinti regimi di riproduzione: uno è puramente organico, naturale e regolare; l’altro è invece attinente all’arte, o téchne, si sovrappone al precedente, alterandone in questo modo la regolarità […]. Il quadro, nel trasmettere l’anomalia del pittore, lo promuove al grado di padre spirituale. (Ivi: 357) Il dipinto è dunque caricato del valore simbolico di “seme” capace di contagiare l’essere umano con la sua mostruosa interpretazione visiva della rassomiglianza, mentre al pittore viene implicitamente attribuito un ruolo di padre che s’interpone prima tra la realtà e il dipinto, poi tra questo e il bambino; e come egli ha corrotto il principio della somiglianza tra il mondo e la sua versione rappresentata, così adesso può interferire, con la sua eccessiva “passione per il giallo”, sull’immagine – anzi, sull’ideale di bellezza e perfezione – alla quale dovrà assomigliare il bambino che la donna porta in grembo. La vicenda della recensione di “Le Charivari”, per quanto caricaturale, costituisce una testimonianza preziosa della lunga, articolata relazione – che ha origine in epoca ellenistica – tra procreazione umana e immagini (quadri e sculture), intese anzitutto come modelli di riferimento formale per il nascituro (Freedberg, 1993; Angelini, 2012). È da questo specifico punto di vista, nel quadro di una suggestiva interpretazione della storia (occidentale) della “fabbricazione di immagini” come laboratorio di ridefinizione dell’umano propedeutico alla moderna biotecnologia, che Michaud analizza l’episodio, per nulla sorpreso della persistenza, ancora a fine Ottocento, di un apparato ideologico e culturale fortemente influenzato, in materia di procreazione ed ereditarietà, da credenze popolari che nulla possiedono di scientifico o razionale. Del resto, vale la pena ricordare che la prima, dettagliata descrizione anatomica di un feto arriva soltanto alla fine di quel secolo, e che le prime ecografie datano agli anni Sessanta del successivo: per lunghissimo tempo, l’utero è stato un luogo “oscuro”, misterioso, letteralmente invisibile, e la cultura della separazione tra madre e figlio e dell’individualizzazione (in termini medici ed etici) dell’una e dell’altro, così come il superamento dell’idea della donna quale “ospite del seme dell’uomo”, devono moltissimo proprio ai processi di visualizzazione anatomica, alla “scoperta” visuale della morfologia e dello sviluppo del feto. Al di là di questi aspetti, peraltro esemplari del ruolo del visivo nella (ri)definizione della realtà, ciò che è più importante sottolineare dell’affondo di Leroy (e Cham) nei confronti di Cézanne è l’esistenza, a monte di tutto, di un’altra, più generale convinzione, non meno antica e radicata: quella del potere delle immagini di agire sui propri osservatori, sul loro mondo e sul modo in cui guardano il mondo,

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sul loro pensiero e sui loro comportamenti, sulla loro affettività e sul loro corpo. Così, per una donna incinta contemplare quel volto dipinto doppiamente sfigurato, nel colore e nella forma, equivale a esporsi a una specie di contagio visuale (una “febbre” colorata) e ad attivare il potere di un’immagine (il dipinto di Cézanne) di farsi modello di un’altra immagine, quella, ancora informe, del bambino che porta in grembo. Impressionare, in questo contesto, vale dunque non soltanto nel suo significato percettivo – «l’effetto, l’impronta che la realtà esterna determina, col suo intervento diretto o indiretto, sulla coscienza» –, ma anche, più suggestivamente, nel suo significato pragmatico di produzione visiva: impressionare nel senso di fare pressione su una superficie, «lasciare una traccia, un’impronta in un corpo» (dizionario Treccani), incidere, stampare. Non solo: l’ingiunzione rivolta dal poliziotto alla donna è chiara: “Andatevene!”, che è molto più di “Non guardate!”, come se il solo fatto di trovarsi in prossimità dell’immagine, nello stesso luogo o nella stessa stanza, possa consentire a quest’ultima di manifestare tutto il suo effetto nefasto sull’essere umano. Come se il potere di un’immagine non fosse soltanto il prodotto di una relazione, qualcosa che scaturisce da uno scambio di sguardi tra questa e il suo osservatore, ma anche, più radicalmente, una qualità strutturale che esiste e si manifesta al di là di qualsiasi innesco umano.

1.2 Living picture Il tema del potere delle immagini rappresenta ben più che una linea di riflessione specifica e circoscritta all’interno dei contemporanei studi visuali, che invece nascono e si strutturano proprio a partire dal riconoscimento di questa fondamentale proprietà dell’iconico. William J.T. Mitchell, letterato di formazione e pioniere di questa interdisciplina (o indisciplina, Cometa, 2020: VII), definisce i visual culture studies semplicemente come «studi sull’esperienza e l’espressione visiva umana» (Mitchell, 2005: 6), accontentandosi di evocare due diversi modi di rapportarsi alle immagini: servirsene come strumenti espressivi o farne esperienza. Una definizione lapidaria e apparentemente ingenua, soprattutto a fronte del fiume di parole spese per delimitare questo territorio di studi ambiguo, sfumato, persino minaccioso per gli equilibri accademici; in realtà, descrizione sufficiente a operare un sottile cambio di prospettiva: al sempiterno atto della creazione di immagini non corrisponde più un generico polo della ricezione, della spettatorialità, dell’interpretazione intesa come attribuzione di senso, bensì il più ricco ambito dell’esperienza. Le immagini non si guardano, ma si esperiscono, con tutta l’instabilità che questo concetto introduce in termini non tanto di lettura dell’oggetto iconico, quanto di ridefinizione del soggetto in rapporto a esso o di modificazione di aspetti del mondo. L’esperienza si radica nello

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sguardo (tema assai complesso su cui una gamma di riflessioni filosofiche, culturali e semiotiche si intrecciano), ma non si riduce a esso estendendosi quantomeno al corpo nel suo complesso. I visual culture studies continuano a interrogarsi sulla natura non ingenua e non immediata del vedere – atto solo in parte fisiologico e per lo più costruito, nelle diverse fasi storiche, da tecnologie, media e pratiche sociali (Pinotti, Somaini, 2016: 107-136) – ma assieme affiancano a questo tema una parallela riflessione sull’intricata relazione multisensoriale e multimodale che si instaura tra soggetti e immagini. L’accento cade appunto sul concetto di relazione (e non più di fruizione) e ciò significa che si è disposti a immaginare i due poli dello scambio come dotati di un equivalente grado di soggettività, entrambi sorgente di flussi affettivi e cognitivi che si determinano a vicenda. È il tema della agency, concetto più sfumato rispetto a quello di potere e per questo capace di inaugurare un territorio del tutto nuovo. Nel campo dell’iconico, infatti, il potere, prima delle recenti revisioni teoriche apportate dagli studi di cultura visuale (si veda il Paragrafo 1.3), è stato a lungo confuso con l’effetto (Mondzain, 2017): l’effetto sociale di una rappresentazione, l’induzione di credenze o persino atti nei fruitori di oggetti mediali di vario tipo, per esempio a contenuto violento, pornografico o a pesante orientamento ideologico. Si tratta di un cavallo di battaglia della sociologia dei media risalente agli anni Trenta, via via sfumato dalla riflessione sulle diverse figure di intermediari culturali che agiscono nello spazio sociale che sta fra la comunicazione mediatica e lo spettatore, ma sostanzialmente invariato nei suoi principi di fondo. La teoria della agency, invece, attribuendo una forma di soggettività all’immagine (vedremo a breve di che tipo), rappresenta una critica radicale a questo assunto e, più esattamente, una critica all’idea che nella relazione tra osservatore e immagine le “forze” si distribuiscano in modo unilaterale, anziché relazionale e negoziale, oltre che una critica alla sottovalutazione del ruolo della dimensione sociale nel plasmare, sia dal punto di vista cognitivo sia affettivo, tale relazione; come è insensato credere che in una relazione interpersonale una delle due interlocutrici sia del tutto passiva e l’altra attiva, una eserciti influenza e l’altra la subisca, così risulta ingenuo pensare che un’immagine semplicemente condizioni, determini modi di pensare o plasmi le sensibilità di chi la guarda. Sarebbe ingenuo non perché in questo modo si ingigantisce la capacità di intervento delle immagini, ma piuttosto perché le si mette da parte, si ignora il loro specifico modo di operare per preoccuparsi sostanzialmente di due soggetti umani, uno a monte e l’altro a valle dell’oggetto iconico. Questa prospettiva, adottata soprattutto dagli studi sulla comunicazione, è interessata a ciò che sta intorno all’immagine, che viene prima o dopo di essa, e anche quando riconosce che non è lecito ricondurre l’effetto di una rappresentazione al progetto esplicito del suo autore (come è invece il caso della propaganda, di cui

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tratteremo a breve), riduce le immagini a mero strumento nelle mani dell’uomo. Alcuni studiosi hanno sperimentato modi più sofisticati di intendere il potere delle immagini: per esempio David Freedberg, in riferimento agli artefatti, nel caso dei quali gli effetti in questione sono di tipo affettivo, o Horst Bredekamp, con la sua sofisticata teoria degli atti iconici. Ma nell’insieme il concetto di agency, introdotto dall’antropologo britannico Alfred Gell alla fine degli anni Novanta, permette di ripensare questo territorio e fissare nuove coordinate del discorso (si veda Box 1.1: Effetto/affetto, potere/agency, enattivismo/operatività, p. 18). L’agency di Gell non è l’agire e nemmeno il sentire: è qualcosa di piuttosto vicino al concetto filosofico di intenzionalità, dunque sta nella sfera del volere, deprivata però di una dimensione finalistica e soprattutto psicologica. Non consiste nella mera attribuzione di intenzioni a un corpo diverso da quello umano o a una materia non vivente, il che ricadrebbe in una logica semplicemente animista. Le immagini esercitano forme di agentività secondaria, cioè sono disponibili a farsi agire. Funzionano come i giocattoli, per esempio le bambole, che non parlano veramente (almeno quelle di un tempo), ma si fanno parlare dal bambino e sono disponibili a interpretare il ruolo di soggetto nella relazione con lui in virtù di alcune loro specifiche proprietà materiali (l’antropomorfismo, o la materia di cui sono fatte). Il bambino resta nei panni dell’agente e la bambola in quelli del paziente, ma quest’ultima non è una posizione di inerzia, bensì di agentività passiva o di vulnerabilità (Cappelletto, 2021: XVIII), una disposizione a ricevere e a rilanciare. Anche le immagini classicamente intese cominciano ad agire solo nel momento della relazione con l’essere umano: “si fanno usare” in un certo modo, possiedono una carica potenziale da attivare, essendo peraltro il risultato non tanto della creatività di un singolo o un autore, bensì di un soggetto a sua volta inserito in un sistema di relazioni con altri soggetti, cose, ambienti. In questo senso le immagini, così come altri artefatti e oggetti, sono create dall’uomo ma nello stesso tempo lo determinano. «Facciamo cose che ci fanno», è il motto di questa prospettiva, un motto che rende la vignetta di “Le Charivari” un esempio di lungimiranza anziché di spirito satirico. Peraltro nel fumetto si allude a un contagio (di forme e colori, dalla tela al ventre materno), concetto radicato proprio in quelle antropologie del magico a cui Gell fa riferimento. Nel capitolo più interessante del suo Arte e agency, dal titolo “La persona distribuita” (Gell, 2021: 133-210), l’antropologo chiarisce in che senso la teoria della agency non deve essere presa come una teoria animista tout court. L’animismo primitivo infatti attribuiva forme di vita alla materia inerte indipendentemente dalla relazione con l’umano e persino dalla sua presenza. L’esercizio della magia permetteva di incrementare questa proprietà per trasferimento di vita dai soggetti agli oggetti, che venivano animati con varie tecniche, per poi vivere e agire in piena autonomia. L’animazione degli oggetti segue due logiche – sostiene Gell riprendendo James George

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Frazer, esperto di magia primitiva e autore del celebre Il ramo d’oro (1890) –: per contatto e per simpatia (o omeopatia). Nella prima l’oggetto viene contagiato dal soggetto (attraverso la vicinanza al corpo, soprattutto alla pelle), come nella bambola voodoo, mentre nella seconda l’oggetto vene conformato a immagine del soggetto, come l’idolo che è tale per qualche forma di somiglianza con il divino. La strada più facile è il trasferimento di proprietà comuni, procedimento sufficiente per aspettarsi che l’idolo faccia discendere da questa somiglianza un analogo comportamento. Gell riflette sulla magia simpatica e ne condivide lo spirito, ma trasla il tutto a un livello più astratto, pensando a forme di animazione infusa che non prevedono un corrispettivo biologico. Gli artefatti, e più in generale le immagini, possono essere animate senza per questo essere dotate di attività animale, perché l’animazione rituale non c’entra con il possesso della vita in senso biologico. Le immagini sono animate ma non vive, sono quasi-persone, sottolinea Gell, parti dell’ambiente su cui la persona si distribuisce. L’idea di persona distribuita aiuta a capire a fondo l’agency delle immagini: per Gell, la persona, o le sue proprietà, si estendono oltre il confine corporeo; le particelle di soggettività, fra cui l’intenzione, si sparpagliano sugli oggetti che la persona crea, incluse le icone. Ombre, riflessi, visioni e rappresentazioni mentali sono state pensate così fin dai tempi antichi, a partire dalla teoria epicurea dei «simulacri volanti», secondo la quale le immagini delle cose sono emanazioni della cosa stessa, fantasmi che si muovono in tutte le direzioni dello spazio. Lucrezio parlava di «cortecce» simili ai fini involucri abbandonati delle cicale, le cosiddette esuvie (Ivi: 145-146). Reincontreremo una teoria simile in relazione alla fotografia, pensata da Balzac a fine Ottocento proprio come una tecnica di esfoliazione dei corpi. Per Balzac però – che in questo si differenziava dagli antichi – le emanazioni non sono determinate dalla crescita del corpo e viste come perdita di pellicole per spinta interna di rigenerazione, bensì il risultato della deprivazione predatoria del nuovo mezzo tecnico, capace di staccare gli spettri dal corpo degli esseri umani, impoverendoli. In questo senso, Gell è meno balzacchiano e più epicureo perché esprime una concezione frattale della persona, le cui parti non sono tutte fisicamente unite: alcune sono distribuite nell’ambiente, e ciò è alla base della mutua influenza, o agency reciproca, fra l’uomo e le cose. Se dunque confrontandoci con un’immagine ci confrontiamo con un’esuvia, la relazione è piena e bidirezionale. A volte l’immagine esibisce evidenti proprietà omeopatiche, per esempio è dotata di occhi attraverso cui la sua intenzionalità si manifesta. Il contatto visivo è la modalità base della agency secondaria: l’idolo occhiuto guarda il suo spettatore creando in lui la consapevolezza dell’altro come soggetto intenzionale. «L’idolo che mi vede è una componente del mio vedere me che vedo l’idolo», scrive Gell (Ivi: 165). La devozione, per esempio, è un’agency primaria e secondaria, un atto visivo circolare, che si compie occhi negli occhi e fonda sia l’immagine (il totem) sia il soggetto (l’adoratore). Gell si sofferma a descrivere un idolo indù che in alcuni tem-

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pli appare con piccoli specchi negli occhi, in modo che il devoto possa ancor meglio vedere la propria agency riflessa nei bulbi del dio. In un film statunitense della metà degli anni Ottanta, Manhunter di Michael Mann (1986), si ritrova la stessa idea all’interno di un rituale di tutt’altro tipo. Qui, un serial killer spinto dal desiderio di trasformarsi attraverso i suoi efferati omicidi compie un’azione inspiegabile agli occhi dell’investigatore, pur dotato di grandi capacità empatiche e intuitive: mette negli occhi delle vittime frammenti di specchio per accecarle e vedersi nel loro sguardo immaginario. Mann introduce una variante rispetto al romanzo di partenza (Il delitto della terza luna), nel quale il mostro imbracciava una videocamera e registrava i propri massacri per poi riviverli. Questa variante è significativa in un film che è un teorema astratto sul vedere e il desiderare (Bocchi, 2021: 109): da un lato gli specchi completano la trasfigurazione totemica delle vittime, dall’altro permettono al maniaco di mettersi nei loro panni, guardando sé stesso con il loro sguardo, cioè dalla soggettiva, appunto, del loro corpo in trasformazione (Figura 1.3). In questo modo non sono più le vittime a divenire immagine (in quanto filmate) ma il serial killer stesso. Più semplicemente, nel celebre What Do Pictures Want? The Live and Loves of Images (2005), Mitchell analizza le immagini che “ci guardano” come primo esempio del loro volere o della loro forza desiderante, che ancora non definisce come agentività, pur dichiarandosi vicino a Gell. La manifestazione di questa forma di soggettività dell’iconico viene ricondotta alla rappresentazione di occhi, non assorti o con lo sguardo nel vuoto, ma rivolti verso lo spettatore; per esempio quelli severi dello zio Sam, che nel manifesto disegnato da James Montgomery Flagg nel 1917 guarda in camera e punta il dito verso i giovani da reclutare, richiedendo il loro servizio alla nazione – o, in termini iconici, richiedendo che diano all’immagi-

Figura 1.3 Fotogramma da Manhunter (Michael Mann, 1986).

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ne quel corpo che così evidentemente le manca (perché nella figurazione il corpo risulta cancellato, sfuma nel suo contorno). In un’altra analisi, Mitchell distingue il volere espresso dai personaggi rappresentati dal desiderio dell’immagine stessa; quest’ultimo sorge nella tensione delle forme, che generano qualcosa di non progettato ma nemmeno totalmente immaginario, un effetto che si produce nella materialità del tessuto iconico. Nella locandina del primo film sonoro della storia del cinema, Il cantante di jazz (The Jazz Singer, Alan Crosland, 1927), l’istrione Al Jolson con la faccia dipinta di nero, in giacca scura su sfondo nero si sporge verso di noi con le mani guantate di bianco. Interpreta un ragazzo ebreo che non vuole cantare nelle sinagoghe perché preferisce il jazz, e per questo è costretto a fingersi un afroamericano e annerire la propria pelle – una tecnica tipica dei ministrel show, gli spettacoli razzisti in voga a metà Ottocento in cui attori di pelle bianca iscuriti dal trucco facevano la caricatura della gente di colore. Le mani protese di Jolson invitano a entrare e godere dello spettacolo, ma non è questo il volere espresso dall’immagine, che piuttosto vibra fra il nero e il bianco, cercando di venire alla luce. Sotto il nostro sguardo, il corpo di Jolson scompare e ricompare, spinge con il proprio interno bianco per distinguersi dallo sfondo, ma non può riuscirci a causa degli stereotipi razziali; la vernice lo mescola con l’ambiente, crea una mancanza – la mancanza di individuazione – che diventa una corrente di desiderio dell’icona stessa. Mitchell, come Gell, parla dunque di animazione in astratto e in questa pagina descrive le richieste delle immagini come semplici forme di interpellazione dello spettatore, provocazioni che derivano da qualcosa che manca: tensioni o incongruenze formali, casualità o lapsus; tratti in fondo non così lontani da quelli che per Roland Barthes determinano il punctum di una fotografia, elementi minimi che causano una puntura, una ferita, che ghermiscono lo spettatore. Barthes descrive infatti il punctum anche attraverso il termine “animazione”: «In questo deprimente deserto, tutt’a un tratto tale fotografia mi avviene; essa mi anima, e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: un’animazione» (Barthes, 1980: 21, corsivo nostro). Per questa capacità di animare e animarsi, l’immagine ha diritto di essere trattata come un personaggio, una quasi-persona, e senza dubbio un attante storico, come si legge, non troppi anni dopo Barthes, nel primo Mitchell della svolta visualista: Le immagini non sono solo un particolare tipo di segno, ma qualcosa di simile a un attore sul palcoscenico della storia, una presenza o un personaggio dotato di uno statuto leggendario, una Storia che scorre parallela e partecipa alle storie che raccontiamo a noi stessi sulla nostra stessa evoluzione da creature “forgiate a immagine” del creatore, a creature che forgiano sé stesse e il mondo a loro immagine. (Mitchell, 1986: 9)

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Come il Barthes poststrutturalista, che ha smesso di ragionare sul segno fotografico per vedere la fotografia come la resurrezione di qualcosa e ripensare il medium in termini già magici, secondo quella magia dell’apparizione che sarà negli stessi anni al centro di un volumetto di Vilém Flusser (Flusser, 2006: 15), così Mitchell riconosce che le immagini generano presenza e sono una presenza. Aggiunge però che la loro incompletezza, il possesso solo parziale di una forma di vita, le mette nella stessa condizione dei soggetti subalterni: le immagini sono di genere femminile, sostiene, sono corpi segnati dalla differenza, di pelle nera o di culture non egemoniche (Mitchell, 2005: 46); per questo desiderano, chiedono equivalenza ed eguaglianza, e nel farlo dimostrano il loro essere animate. Rispetto alle immagini agenti delle culture primitive studiate da Gell, l’immagine lacerata da bisogni e desideri che ci presenta Mitchell è molto più vittima dell’inclinazione umana a concepire l’inanimato in termini antropomorfi. Un preciso sfondo di racconti mitici, dall’antichità al presente, ci ha abituati a vedere artefatti, statue, quadri e disegni come creature che sotto l’effetto di qualche sortilegio possono assumere una vita biologica e cominciare a comportarsi da umani. La tradizione è nutrita e si arricchisce in ogni epoca, dal mito di Pigmalione ai dipinti parlanti di Harry Potter, dall’Afrodite cnidia, statua amata carnalmente, alle bambole assassine del genere horror, ma nella modernità, soprattutto sotto la spinta del cinema, questo immaginario assume una specifica piegatura, si declina attraverso figure del corpo che in un certo senso conciliano la prospettiva di Gell e quella di Mitchell. Dal precinema in avanti, l’animarsi dell’artefatto non è più un processo definitivo e irreversibile, ma per lo più indeterminato e di oscillazione fra diversi stati: immobilità e movimento, minerale e animale, immagine e vita. La visione antropocentrica permane, tuttavia risulta possibile immaginare trasformazioni a doppio senso, animazioni sospese, decisamente più in linea con la prospettiva agentiva. Gell era stato chiaro su questo punto, cioè sulla possibilità di attivare e disattivare l’agentività indipendentemente da ciò che un agente sociale è in sé, se materia inerte o persona: quel che conta è capire dove esso si posiziona all’interno di una rete di relazioni e come le condiziona; perciò è tanto possibile che una cosa si comporti da persona quanto che una persona agisca come cosa. Ci sono stati cosali della persona, come l’essere addormentati, anestetizzati, immobili o, naturalmente, morti, e performatività a essi collegate, come il posare o essere ipnotizzati. Si pensi a una performance come quella del mimo: essa consiste in una facoltà acrobatica mirante a sperimentare uno stato di esistenza vicino a quello minerale. Il training del mimo si basa su tecniche zen che puntano alla soppressione di tutti i movimenti involontari del corpo, come il battito di ciglia, il respiro e lo stesso battito cardiaco, rallentato ad arte. Il mimo è cosa, corpo deanimato, e solo secon-

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dariamente statua, cioè immagine. Tuttavia fa parte delle molte performance, praticate da secoli, incentrate sul procedimento opposto a quello della statua che si risveglia, ovvero il mineralizzarsi e divenire immagine dell’umano. Divenire innanzitutto dipinto, come nella tradizione delle pitture viventi, nelle quali gli attori, da soli o in gruppo, riproducono i gesti rappresentati in celebri quadri, richiamati anche dalle scenografie. Si tratta di una pratica che ha assunto diverse funzioni nei secoli e che non è estranea alla contemporaneità (Gualdoni, 2017). Nel Medioevo, i tableaux vivants avevano per lo più scopi pedagogici e soggetto religioso, mentre nel Rinascimento costituivano una forma di autorappresentazione delle famiglie illustri, infine nel XVIII secolo cominciavano a essere una performance a metà fra arte ed erotismo, nella quale una modella semivestita assumeva la posa di Venere, Diana o Atena. Questa variante femminile singolare è stata ricondotta alla figura dell’avventuriera Lady Emma Hamilton, moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli. A fine Settecento, Emma posava alle pendici del Vesuvio interpretando i vasi greci e le monete romane studiati dal marito, incantando i suoi colti ammiratori, fra cui il giovane Goethe (Preston, 2011: 33-34). Ma solo fra Otto e Novecento, in concomitanza con gli esperimenti cronofotografici e la nascita del cinema, la performance della statua diventa più chiaramente sinonimo di incertezza e reversibilità fra immagine e vita. Si affermano minime unità spettacolari basate sulla pura esibizione del corpo sospeso fra immobilità e movimento, carne e pietra, animato e inanimato. Questi numeri diventano centrali in numerosi ambiti, come il teatro, la danza moderna, il circo, ma anche la medicina, che in uno dei suoi capitoli più oscuri e discussi si accanisce su alcune malattie femminili della paralisi, come l’isteria, nelle quali il corpo della paziente assume forme plastiche e scultoree anche per diverse ore (Didi-Huberman, 2008: 182-194). All’ospedale parigino della Salpêtrière, sotto lo sguardo medico e “registico” del neurologo Jean-Martin Charcot, i monodrammi di Lady Hamilton diventano spettacolo della nevrosi femminile. In quel «museo patologico vivente», come lo definì lo stesso Charcot, il corpo malato non era solo convulsivo, cioè contratto in smorfie e tic, ma anche statico ed estatico, dunque immobile in pose plastiche che riproducevano chiaramente quelle contenute in celebri opere d’arte. Augustine, la popolare isterica che secondo Charcot ripete con più regolarità le pose, viene mitizzata da Louis Aragon e André Breton, che nel 1928 pubblicano le fotografie delle sue performance sulla rivista “La révolution surréaliste”, proponendo la ragazza non più come malata, ma come «bellezza che posa e che recita» (André, 2011: 64), come diva della scena francese ottocentesca, che si esibisce sotto le direttive del maestro Charcot in un particolare teatro della memoria. Le isteriche, come sostengono Freud e Breuer nei loro preliminari Studi sull’isteria (1895), «soffrono di remi-

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niscenza». Ma già nel caso di questa malattia immaginaria, a tramutare il corpo in pietra è una tecnologia precinematografica, la cronofotografia di Albert Londe. La fotografia a scopi diagnostici è all’avanguardia alla Salpêtrière: Londe installa qui un laboratorio all’altezza della Station phisiologique di Étienne-Jules Marey quanto a esperimenti sulla scomposizione del movimento umano in istanti. Ideando un dispositivo rotante di nove (e in seguito dodici) lenti, Londe riesce a cronofotografare le crisi isteriche, estraendone un catalogo di pose chiave che corrispondono a quelle eternate dalla scultura. Infine, la deanimazione del Sé è già correlata all’esperienza, soprattutto ottocentesca, del farsi fotografare. Nel caso dei ritratti fotografici, la modella doveva sostenere una lunga immobilità, durante la quale cercava l’immagine che voleva diventare. Scrive Didi-Huberman: Posareéè l’attesa di un momento, lo scatto appunto, di cui non si sa nulla, eccetto che deve avvenire al momento giusto. È comeéun’urgenza, molto semplice e molto oscura, l’urgenza diédover somigliareéa sé stessi […]. Il dover somigliare a sé stessi diventa inevitabilmente la presa di possesso di un corpo già predisposto e pronto per essere offerto all’immagine. Posare è come inventarsi, anche controvoglia,éun corpo di ricambio, il luogo propizio a unérestoéfuturo della somiglianza: posare è in tal senso “una microesperienza della morte”. (Didi-Huberman, 2008: 123) Mantenere la posa per assomigliarsi significa già fare un’esperienza di recitazione, imparare a tradurre sé stesse in immagine, indipendentemente dal fatto che l’immagine a cui si tenta di adeguarsi sia interiore e non pubblica. È il principio alla base di una delle maggiori scuole di recitazione del tempo, che insegnava alle attrici in modo più strutturato ciò che le isteriche imparavano sul campo. La più famosa trainer di attori e attrici statunitensi dell’epoca, Genevieve Stebbins, divulgava un metodo di recitazione basato sul controllo della fissità e sull’interpretazione delle statue, insegnando sostanzialmente come eseguire e mantenere pose scultoree, congelando e riattivando il movimento corporeo. Stebbins consigliava di evitare un’interpretazione “fotografica” delle sculture, mirando piuttosto a saperle formare e dissolvere nella continuità, a saperle appunto integrare in quella che era, o stava per essere, l’immagine in movimento. In versione maschile accadeva qualcosa di simile nelle interpretazioni di un ballerino come Ted Shawn, pioniere della danza moderna e interprete del risveglio di vari dei, fra cui Adone o Shiva, ma anche di un performer come Eugen Sandow, padre del culturismo e celebrity del proprio tempo (menzionato persino nell’Ulisse di Joyce). Sandow si cospargeva il corpo di gesso e con il suo fisico erculeo interpretava muscolosi dèi greci, passando dall’uno all’altro in una continuità scattosa tipica dei corpi meccanici, o persino robotici ante litteram.

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Infine, ciò che in questi numeri pop veniva esplicitato o narrativizzato, cioè il parallelismo fra corpo e statua, si trasforma in una sottile logica visiva quando le celebrità in questione sono le dive del cinema. La diva ha spesso un segreto alter ego statuario: le cosiddette divine italiane degli anni Dieci si abbigliavano e atteggiavano a dee pagane (per esempio Francesca Bertini, spesso ritratta nelle vesti di Flora), ma anche star più moderne sfruttano questo parallelismo, tanto che Federico Fellini fa di Anita Ekberg una Venere in pietra che nasce fra conchiglie e tritoni dalle acque della Fontana di Trevi (La dolce vita, 1960). La dea chiude gli occhi sotto la cascata d’acqua (che ha magicamente smesso di scrosciare nell’immobilità di tutto) e porge il volto a Marcello, il quale fa cenno di accarezzarlo, ma senza contatto, perché le sculture non si toccano. In Jules e Jim (François Truffaut, 1962), Catherine, la donna amata da entrambi i protagonisti (interpretata da Jeanne Moreau), è l’incarnazione di una statua greca che li aveva affascinati per il suo misterioso sorriso; in realtà si tratta di un monumento alla diva, perché il regista aveva fatto costruire quell’oggetto di scena sulla base di una fotografia dell’attrice. Ma di nuovo, filmando Jeanne Moreau, Truffaut la tramuta in statua, prima con una serie di zoom sul suo profilo immobile, poi congelando le sue smorfie in un celebre freeze frame fotografico. In The Dreamers di Bernardo Bertolucci (2003), Eva Green diventa la Venere di Milo indossando lunghi guanti neri che sullo sfondo buio sembrano mutilarle le braccia. L’idea della diva come corpo-immagine è messa a tema anche da un noir contemporaneo come L.A. Confidential (Curtis Hanson, 1997). Qui Kim Basinger, nei panni di Lynn, è diva al quadrato, cioè è sé stessa ma truccata e acconciata in modo da assomigliare a Veronica Lake, nel fantasma della quale rischia di scomparire. Fiore all’occhiello dell’eccentrica casa di appuntamenti Fleur-de-Lis, Lynn reincarna Veronica con pochi tocchi di maquillage, mentre le altre prostitute d’alto bordo intorno a lei hanno dovuto sottoporsi al bisturi per trasformarsi in effigi delle grandi star di Hollywood. Il Fleur-de-Lis si presenta così come un museo di statue viventi scolpite da un chirurgo plastico, che con il suo gesto rivela una delle più nascoste logiche visive del divismo. Nel suo pionieristico saggio femminista sul cinema Laura Mulvey ha descritto la costruzione filmica del corpo della diva come un momento di puro spettacolo ottico nel quale la narrazione si blocca, come nella sequenza dell’entrata in scena di Marilyn Monroe nel film Niagara (Henry Hathaway, 1953). Espedienti di regia o una specifica gestione del corpo attoriale causano questi istanti di immobilità in cui il femminile viene esposto come un’opera o un’immagine da ammirare e desiderare. Per Mulvey è una dimostrazione di come il cinema classico abbia inscritto la differenza sessuale nelle proprie strategie retoriche, riservando lo sguardo al soggetto maschile e collocando la donna nel ruolo dell’oggetto (Mulvey, 2013; Pravadelli, 2014: 26-31). Tuttavia la dimensione oggettuale del femminile potrebbe essere ripensata nei termini non tanto di una piena passività allo sguardo, quanto di una agency secondaria, non priva di quel

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potenziale di riscatto a cui allude W.J.T. Mitchell nel suo parallelismo fra immagine e donna. Quest’ultima anche forza creativa, come l’esempio in apertura dimostra: non mera spettatrice, ma corpo che genera, e se diventa immagine, resta viva e agente. Si è qui insistito sul cinema perché intorno a esso nel Novecento rinasce una forma di «pensiero selvaggio» neoanimista (Moore, 2000: 73-83) e perché la sua tecnica ispira l’idea che stasi e movimento, animato e inanimato siano due facce della stessa medaglia o rappresentino solo un diverso modo di guardare lo stesso fenomeno. Il cinema infonde vita e anima alle cose, come scrivevano già i primi teorici della settima arte, per esempio l’ungherese Béla Balázs, o più semplicemente resuscita i corpi o li richiama in un luogo, creando un effetto di presenza, come avevano intuito i suoi inventori più stravaganti e ingiustamente dimenticati, i fratelli Max ed Emil Skladanowsky. Il 1° novembre 1895, un paio di mesi prima del debutto pubblico del cinématographe Lumiére nei caffè parigini, i fratelli Skladanowsky, vetrai, fotografi ed esperti di lanterne magiche, presentavano al pubblico berlinese il bioscopio, macchina delle immagini in movimento basata sullo scorrimento parallelo di due bobine che venivano introdotte in un grande proiettore a fotogrammi alterni. L’uso del prefisso bio- fa pensare che i fratelli si prefiggessero proprio l’obiettivo di ricreare la vita attraverso le immagini, e non tanto di riprodurre il movimento del mondo, a cui miravano macchine dal prefisso ciné- o kine-. Un breve ma delizioso documentario (I fratelli Skladanowsky, Wim Wenders, 1995), mette in scena il movente che accelerò le sperimentazioni dei due pionieri, romanzando sulle testimonianze dell’erede sopravvissuta. In origine, i fratelli al lavoro erano tre, Max, Emil e il giovane Eugen, che si esibiva come giocoliere e attore nei loro spettacoli, ed era amatissimo dalla nipotina Gertrud di cinque anni, figlia di Max. Eugen a un certo punto decide di andarsene a cercare fortuna da solo e la piccola Gertrud si dispera. Per consolarla, Max le propone di riguardare nello zootropio un numero dello zio, ma Gertrud è insoddisfatta, perché l’Eugen che si muove in quelle fessure rotanti non sembra essere ancora lì. Il padre per accontentarla cerca di ovviare all’effetto miniatura con ogni mezzo, lavorando per tentativi giorno e notte, finché arriva al bioscopio: su una parete bianca riesce a proiettare le fotografie del fratello, in movimento e a grandezza naturale; finalmente la bambina si abbandona all’ebbrezza del cinema che le ha restituito lo zio (Figure 1.4 e 1.5). Il vissuto istintivo della bambina trova una più fine elaborazione nelle pagine dei primi teorici del cinema, convinti che le proprietà animiste del medium si estendessero oltre la presentificazione e la capacità di colmare un’assenza: il cinema creava un nuovo sguardo sul mondo. Jean Epstein, regista e saggista francese degli anni Venti, interpreta il cinema come una macchina in grado di ricreare una sorta di incanto primitivo, animando le materie inerti, o che sono tali agli occhi dell’uomo, e viceversa deanimando ciò che appare pieno di vita. La chiave di questo andirivieni fra gli stati è ancora la manipolazione di fissità e movimento, su cui il cinema può intervenire attra-

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verso alcune sue tecniche (per esempio il ralenti e la velocizzazione). Epstein aveva studiato medicina ed era pertanto vicino allo sguardo della scienza, attenta in vari ambiti a quello stato di indefinitezza fra immobilità e movimento tipica di diversi corpi naturali; per esempio il fossile, che sopravvive per millenni in uno stato di trasformazione così lento da non darsi a vedere, o l’animale mimetico, che esercita forme di apparente e sempre reversibile immobilità, ma anche il pianeta Terra, corpo astrale in orbita e corpo geologico soggetto a eruzioni e terremoti, dunque in un paradossale stato di stasi in movimento. Il cinema rende visibile la relatività di queste condizioni, divenendo uno strumento insieme artistico, scientifico e filosofico. Tecnicamente collocato fra Figure 1.4 e 1.5 Fotogrammi da I fratelli Skladal’immobilità del singolo foto- nowsky (Die Gebrüder Skladanowsky, Wim Wengramma e il movimento pro- ders, 1995). dotto dalla velocità di scorrimento della pellicola (dunque, al contrario del fossile, caratterizzato da un movimento puramente ottico, cioè visibile ma non appartenente al “corpo” delle immagini), il film mette pienamente in scena sia la vita delle cose sia l’immagine come forma vivente. In L’immagine-movimento, primo dei suoi due celebri volumi sul cinema, Gilles Deleuze ha distinto l’articolarsi del movimento nell’immagine in tre diverse unità: la posa eterna (pose eternelle), cioè l’immagine che rappresenta il movimento; la sezione immobile (coupe immobile), cioè l’immagine che corrisponde a una sezione immobile del movimento; la sezione mobile (coupe mobile), cioè l’immagine che costituisce un frammento di puro movimento (Deleuze, 2016: 12-15). Se la prima è una modalità pittorica e la seconda fotografica, o almeno di una certa fotografia, la terza è stata inventata dal cinema e rappresenta la cellula dell’immagine viva. Non a caso Giorgio Agamben spiega il film ricorrendo proprio al mito

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della living picture, cioè sostenendo che il cinema rielabora non in forma narrativa ma tecnica il racconto mitico del risveglio della statua. Il cinema crea immagini che non immobilizzano i corpi, ma li liberano, li “disincantano”, ne avviano il fluire a partire dalla rottura di uno stato di inerzia (nel film, scrive, i corpi «si liberano delle catene che li imprigionano e cominciano a muoversi», Agamben, 1996: 50). Un corollario di questa concezione del film come immagine viva è il finto documentario L’hypothèse du tableau volé (Raoúl Ruiz, 1978), storia di una collezione di quadri di Frédéric Tonnerre, pittore accademico francese di metà Ottocento, non particolarmente rinomato ma noto per aver provocato con le sue opere un notevole quanto misterioso scandalo di società. Il film di Ruiz è la parodia di un documentario d’arte nel quale un critico in scena e un altro fuori campo cercano di ricostruire il ruolo dei dipinti nello scenario fin de siècle per svelare un enigma. Un’inquadratura mostra la serie di quadri di Tonnerre riuniti su un pannello e collegati fra loro da motivi, indizi, tratti formali, figure (Figura 1.6), però manca un tassello: un dipinto è stato rubato e ciò rende tutta la serie incomprensibile. Con questo pretesto, Ruiz studia la messa in scena pittorica e letteralmente entra nei quadri reinterpretati da attori in una successione di tableaux vivants. Lo vediamo girare attorno a corpi immobili nelle pose delle figure dipinte mentre tenta di cogliere l’incantesimo che trasforma una sequenza di immagini statiche in un flusso filmico. In un punto del film, gli attori immobili iniziano a compiere lentamente i movimenti necessari ad assumere le pose del tableau successivo (Figura 1.7) cercando di riempire il vuoto di senso generato dal quadro mancante. Ma in questo attimo di riattivazione del movimento, è l’immagine, non i corpi, a Figure 1.6 e 1.7 Fotogrammi da L'hypothèse du tableau volé (Raoúl Ruiz, 1978). prendere vita.

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Box 1.1: Effetto/affetto, potere/agency, enattivismo/operatività Gli studi di cultura visuale hanno inaugurato un nuovo territorio di ricerca nel quale il visibile – cioè ogni risultato di una mediazione del nostro sguardo – viene considerato in tutta la sua pienezza, inclusiva di ogni variante d’uso e destinazione degli oggetti che lo compongono: non solo le immagini artistiche, valorizzate da sempre dalla storia dell’arte e dall’estetica, ma anche le immagini scientifiche, mediche, geografiche, della sfera giudiziaria, mediale e più in generale della cultura popolare di ogni tempo (stampe, francobolli, monete, illustrazioni, fumetti, materiali ludici). Questa estensione degli oggetti di indagine, che raccoglie e sviluppa l’eredità di alcuni approcci pionieristici (fra tutti quello di Aby Warburg e László Moholy-Nagy, per cui si veda Pinotti, Somaini, 2016: 67 segg.), ha prodotto non solo la messa a fuoco di temi nuovi e rivelatori (la riflessione sugli schermi, la materialità delle immagini, l’ambiente tecno-estetico), ma anche un generale ripensamento dell’approccio al visibile, che smette di mirare all’analisi del significato e dello stile (il problema del che cosa dicono o che forme sviluppano le immagini), per riorientarsi sull’analisi della loro presenza nel mondo, del loro modo di esistere e agire, in parte in quanto segni, in parte in quanto entità animate intorno alle quali ruotano azioni e comportamenti umani. Questa nuova sensibilità è sia una conseguenza dell’allargamento di campo alle immagini non artistiche (Elkins, 2009), la cui concreta finalità impone da sempre di essere considerata, sia un corollario della digitalizzazione, che fa delle immagini un intermediario ubiquo, pervasivo e invadente delle nostre relazioni, azioni, emozioni, sia, infine, il compimento di un ciclo storico nel pensiero del visibile, che torna a congiungersi con quello sviluppato dalle culture primitive, totemiche e animiste. Le immagini non indifferenti (per parafrasare il titolo di un saggio di Eisenstein su natura e cinema, medium che contribuisce assai alla risorgenza di idee neoanimiste) vengono concettualizzate in vari modi e utilizzando alcune parole chiave che meglio identificano il cambio di prospettiva, anche rispetto ad approcci precedenti apparentemente simili. Innanzitutto, si registra uno slittamento dalla nozione di effetto a quella di affetto. Il primo è termine sociologico che indica la capacità delle immagini, soprattutto mediali, di diffondere credenze, modificare modi di pensare, suggerire comportamenti, innescare forme imitative che riguardano stile di vita, mode, apparenze e, naturalmente, consumi. L’effetto è un dato verificabile, tangibile, misurabile nel sociale (con metodi sperimentali o di marketing) e resta tale all’interno di un quadro teorico enormemente sofisticato rispetto all’ipotesi degli “effetti forti” elaborata negli anni Trenta e Cinquanta; oggi si parla di effetti selettivi e ci si sofferma sulle mediazioni socio-culturali che li condizionano e sulla specificità dell’atto di ricezione, inteso come intreccio di attenzione, ritenzione e ricordo (Livingston, 1997). La questione affettiva è invece molto diversa, per due ragioni: l’affetto è causato non solo dalle rappresentazioni contenute nelle immagini, ma anche dalla loro matericità (un materiale come la cera, per esempio, qualunque cosa rappresenti, è in sé perturbante). Inoltre, l’affettività non si traduce in comportamenti imitativi, di cui l’immagine è modello, ma piuttosto in reazioni irrazionali che si sviluppano secondo modi e tempi imprevedibili. Tuttavia, il concetto di affetto, originariamente attribuito allo psicologo Silvan Tomkins (Affetc Imagery Consciousness, 1962), non coincide

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con lo stato d’animo o l’emozione, ma è piuttosto «una porzione biologica di emozione», dunque una risposta nervosa codificata geneticamente (l’esempio più semplice è la pelle d’oca quando si prova paura), una reazione psicofisiologica non modulata, presente fin dalla nascita e differenziata in un ristretto spettro di varianti (9 sul modello darwiniano; si veda il Capitolo 3). L’emozione è invece la combinazione di un affetto con la memoria della sua previa esperienza, dunque un sentire che entra in relazione con formazioni culturalizzate dell’affettività, anche attraverso le espressioni con cui essa si è storicamente manifestata (il modo in cui la paura si è resa visibile sui volti ed è stata rappresentata dall’arte). In questa chiave psicologica, pertanto, l’affetto non è qualcosa che possa appartenere alle immagini, se non in senso del tutto metaforico o riferito, di nuovo, al rappresentato. La conseguente proprietà delle immagini viene perciò definita potere, potere di scatenare reazioni psicosomatiche, appunto irrazionali, quasi patologiche (Freedberg, 1993), una gamma di risposte che variano dall’eccitazione al terrore, dalla commozione all’estasi. Il potere delle immagini è qualcosa che si manifesta, più che misurarsi, e spesso già nell’istante dell’incontro fra corpo e picture, palesandosi inequivocabilmente come affettività performata dalla spettatrice o dallo spettatore. Tuttavia le neuroscienze hanno in parte incorporato la affect theory all’interno del paradigma enattivista (D’Aloia, Eugeni, 2014), secondo il quale l’affettività, e con essa i sensi e la cognizione, devono essere intesi come forme estese, che non restano confinate dentro l’umano ma si sviluppano e si espandono fra soggetto e ambiente. In questo paradigma non ha senso affermare che le immagini esercitano un potere su spettatori e spettatrici, mentre si sostiene che abbiano un potenziale enattivo perché nel loro stesso tessuto tengono conto delle reazioni emotive dei soggetti, che usano come un materiale attraverso cui configurarsi (una scena di suspense tiene conto dei tempi di reazione tensiva di chi guarda, inscrivendola nelle sue forme). L’enattivismo (che ha come riferimento la microfenomenologia) è l’altra faccia della teoria della agency di matrice antropologica. A fine anni Novanta, Gell aveva sviluppato l’idea dell’artefatto come soggetto agentivo, cioè dotato di alcune proprietà umane, anche se non nervi e cellule. In questo caso la agency delle immagini è da intendersi come una forma di intenzionalità che dà loro lo statuto di quasi-persone, non perché capaci di suscitare negli esseri umani vere e proprie passioni – più o meno forti e coscienti –, ma perché capaci di stringere con loro relazioni in tutto simili a quelle interpersonali. Nel campo della cultura visuale c’è chi ha spinto verso una psicologizzazione della agency parlando di desideri delle immagini (Mitchell, 2005); nel contempo c’è anche chi ha inquadrato il potenziale dirompente dell’agentività di cui le nuove immagini algoritmiche sono dotate: esse sono generate da macchine non allo scopo di rappresentare qualcosa per noi umani, ma di assisterci, o sostituirci in alcune operazioni di cruciale importanza, per esempio azioni militari o di sorveglianza, addestramento, guida dei veicoli, identificazione (Farocki, 2004). Le immagini operative esibiscono una forma di intenzionalità che non sfida la nostra per rifondarla e rigenerarla, ma la supera, rendendola secondaria. Operatività finisce dunque per significare agency sottratta all’umano: non una conquista ma una perdita, non una più stretta relazione fra immagini e persone, ma un’autosufficienza quasi totale della macchina e delle sue “percezioni”.

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1.3 Il potere delle immagini Accanto all’idea delle immagini come agenti secondari o quasi-persone, incontriamo la più classica questione della loro “forza trasformatrice”. Si tratta di un tema che occupa ancora uno spazio centrale all’interno degli studi di cultura visuale, e che anzi è stato largamente ripensato proprio grazie alla diffusione del concetto di agentività. Esso, infatti, si lega direttamente alla riflessione in merito alla presenza, alla circolazione e al ruolo sociale e simbolico delle immagini, al punto che la sua analisi si rivela imprescindibile quando si voglia comprendere, da una prospettiva culturologica, che cos’è un’immagine e come funziona. Il potere qualifica sia la vita sia la vitalità delle immagini, e cioè il loro essere e il loro fare, intercettando inevitabilmente un’altra questione fondamentale all’interno degli studi visuali, quella della natura del rapporto tra immagini e individui, sia in termini fenomenologici sia culturali. Il potere delle rappresentazioni iconiche, infatti, non esiste o non assume senso e significato se non in relazione agli esseri umani, che ne sono alternativamente i destinatari, gli utilizzatori, le vittime, i testimoni, gli adoratori, i nemici ecc. E, forse, anche i produttori, ma non necessariamente i proprietari. Come vedremo, una delle principali questioni poste dalla riflessione sul potere delle immagini riguarda proprio la sua origine: è un’elaborazione culturale o un bisogno psicologico individuale e collettivo, un atteggiamento estetico o un principio costitutivo del visibile e del linguaggio delle immagini o, ancora, un attributo consustanziale al semplice “esserci” dell’immagine, alla sua presenza materiale? In altre, più semplici parole: esso dipende oppure no, e se sì in che misura e in che termini, dall’essere umano? E, di conseguenza, quanto e fino a che punto può essere ricondotto alla sfera dell’umano e, quindi, afferrato, compreso e spiegato? Fenomeni dalle origini antiche ma che sono giunti fino ai giorni nostri come l’iconofobia, l’iconoclastia, l’iconodulia, l’idolatria, il feticismo, il totemismo ecc. – vale a dire, più in generale, atteggiamenti d’amore, vicinanza, rispetto (filia) nei confronti delle immagini oppure, al contrario, di paura, odio e scetticismo (fobia) – sono lì a testimoniare che per quanto le immagini siano sempre, anche se non necessariamente in modo diretto e immediato, un prodotto dell’essere umano, il loro potere sembra esercitarsi come se esse appartenessero a un’altra dimensione e, in particolare, a una dimensione che il linguaggio verbale non può cogliere e tradurre (e quindi disciplinare) fino in fondo – come se le immagini parlassero, appunto, un’altra lingua e possedessero una «corporeità aliena» (Bredekamp, 2015: 9). Si pensi, per esempio, alla relazione, sempre in qualche modo problematica, tra immagine e divinità al centro sia delle religioni pagane sia di quelle monoteiste e confessionali. La storia della Chiesa cattolica è attraversata da un dibattito lungo e articolato – le cui risoluzioni fonda-

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no di fatto la cultura visuale della società occidentale – relativamente alla liceità della rappresentazione figurativa del divino e, più in generale, del sacro o, comunque, di ciò che è oggetto di venerazione. Un dibattito che ha assunto in alcuni momenti la forma di una vera e propria “guerra di immagini” e all’interno del quale le posizioni in merito alla libertà (o al divieto) di rappresentare in termini mimetici, e non solo simbolici, il divino hanno condotto a una più ampia e preziosa riflessione sulla natura delle immagini, sul loro rapporto con l’invisibile e, appunto, sul significato e il valore della forza con cui esse possono influenzare pensieri e comportamenti dell’osservatore, una forza alternativamente considerata benigna o maligna, utile o controproducente, governabile o incontrollabile. Il cattolicesimo teorizza con molta chiarezza, fin dalle origini, che trovarsi di fronte a un’immagine, guardarla ed entrare in relazione con essa non è mai un gesto puramente percettivo; porsi di fronte a un’immagine e contemplarla significa piuttosto esporsi alla sua presenza e alla sua azione. Accanto a quello religioso, un altro territorio di analisi esemplare è rappresentato dalla politica: si pensi, per fare un solo esempio, alla celebre definizione fascista del cinema come “arma più forte” (Figura 1.8), la quale sintetizza in termini paradigmatici un atteggiamento piuttosto comune nei confronti delle immagini e del loro potere. Certo, si tratta di una definizione che implica un’idea elementare,

Figura 1.8 Apparato scenografico allestito in occasione della cerimonia di fondazione della nuova sede dell’Istituto Luce, 1937.

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“non specifica”, di immagine, equiparata all’ingiunzione, all’ordine o alla minaccia, ossia a pratiche verbali e a enunciazioni con le quali un film e il suo linguaggio hanno poco a che spartire; al tempo stesso, tuttavia, questo celebre slogan (che il fascismo trae dal nazismo) predica un’interpretazione assai diffusa delle rappresentazioni visuali come strumenti bellici, dotati di un potere offensivo di conquista e, insieme, di un potere difensivo di esaltazione ideologica. Al di là delle dittatura mussoliniana – che, come tutte le dittature, mira a intensificare il valore propagandistico e celebrativo delle immagini, a farne, appunto, oggetti che, come il proiettile di una pistola, conducono linearmente da un’intenzione a un effetto –, le rappresentazioni visuali hanno spesso servito il potere politico in quanto elementi di configurazione ideologica, luoghi di convergenza e identificazione di una comunità, mezzi di alienazione e dominio politico e spazi di negoziazione del visibile, vale a dire ciò che una determinata società considera legittimo “mettere in immagine” (si veda il Paragrafo 1.6). Intimamente legata alla questione dell’origine e della natura del potere delle rappresentazioni visive vi è poi una seconda e altrettanto fondamentale questione, relativa alla natura delle immagini stesse. Riconoscere a una statua o a un dipinto qualche tipo di potere significa infatti, fatalmente, modificarne lo statuto esistenziale, ossia trasformare quella statua o quel dipinto da semplici raffigurazioni, oggetti e artefatti, definiti dalla loro materialità, in qualcos’altro. A un grado minimo, in qualcosa di attivo, se non propriamente di vivo, animato, libero; a un grado massimo, qualcosa di umano, o quasi-umano. Per superare certe secche teoriche di stampo sociologico, il tema del potere deve essere affiancato a un’interpretazione dell’immagine come ente – più che semplice oggetto – potenzialmente assimilabile, a gradi assai variabili, all’essere umano, o che dell’umano riproduce e rielabora alcune caratteristiche, prima tra tutte proprio quella della vitalità; del resto, amare o odiare un’immagine, adorarla oppure distruggerla significa sempre, in qualche modo, personificarla, spostandola dal piano della rappresentazione per farla letteralmente vivere in quello della realtà di cui è (o dovrebbe essere) una “semplice” rappresentazione più o meno fedele. E vale la pena segnalare fin d’ora come l’interpretazione insieme psicologica, cognitiva e culturale – che risponde in fondo a un bisogno di addomesticamento, avvicinamento e comprensione – dell’immagine quale entità viva e sotto certi aspetti antropomorfa non appartiene soltanto a epoche remote, in cui l’uomo era certamente più suscettibile nei confronti delle rappresentazioni visive, non foss’altro per una minore consuetudine del rapporto con esse. Tale interpretazione, al contrario, arriva fino al contemporaneo, in cui le idee di un’autonomia e di una vitalità antropomorfa delle immagini appaiono sempre meno una costruzione culturale irriflessa per trasformarsi in caratteristiche esistenziali e operative del visivo, come testimoniano, per esempio, gli ologrammi e

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la realtà virtuale e, più in generale, l’affermazione di una cultura della riproduzione artificiale “profonda” dell’umano (della sua struttura e del suo codice genetico), dalla robotica all’intelligenza artificiale, e i progressi nell’ambito della creazione algoritmica dell’immagine (Eugeni, 2021). Di qui, la definizione di biopicture proposta da J.W.T. Mitchell, che mira a cogliere, dell’immagine digitale contemporanea, la natura di vero e proprio processo produttivo – e non semplicemente riproduttivo e rappresentazionale – in cui è all’opera una logica assimilabile a quella della clonazione. Ne scaturisce una definitiva crisi della distanza tra forme di vita ma, anche, un pieno compimento del desiderio dell’immagine: che è quello di essere amata e, soprattutto, di essere reale, viva (Mitchell, 2005: 309-335). È anche per questo che i coefficienti valoriali e passionali legati alle immagini non si sono affatto indeboliti nel contemporaneo. Come ricorda sempre Mitchell, essi appaiono al contrario intensificati e, insieme, estremizzati: «Le immagini sono forze onnipotenti, responsabili di tutto, dalla violenza alla decadenza morale, ma vengono anche mostrate come puro nulla, prive di valore, vuote, vane» (Mitchell, 2017: 140). Mai come oggi, in presenza di un governo senza precedenti del visivo e di una “crisi della rappresentazione” di cui proprio la biopicture, nel contaminare arditamente bìos e téchne, costituisce un esempio emblematico, schieramenti e atteggiamenti “filiaci” e “fobici” sembrano sempre connotare, a gradi molto diversi, il consumo delle immagini, quasi ne fossero un’ineliminabile piega autoriflessiva. Così, per esempio, se da un lato l’iconoclastia (figlia, in molti casi, di un sentimento iconofobo) continua a riprodursi nella forma spesso violenta di un’opposizione (proibizione, distruzione, cancellazione ecc.) nei confronti delle rappresentazioni visive – si pensi, per citare un episodio su cui torneremo, ai Buddha di Bāmiyān, in Afghanistan, fatti radere al suolo dai talebani nel 2001 (Figura 1.9) –, dall’altro lato essa sembra emergere oggi, in forma “leggera”, quale attributo esistenziale delle immagini stesse. Come osserva Maria Bettetini: il secolo passato [il Novecento] ci ha abituati a raffinate teorie: l’immagine sostituisce, rappresenta, simula. È vera in quanto immagine, è più vera di ciò che richiama, è fonte di verità. Ha una vita propria, anche perché non si limita più a imitare, l’immagine crea e si autocrea, e per questo distrugge volentieri tutto ciò che non appartiene al suo nuovo mondo, e diventa così, paradossalmente, iconoclasta, di un’iconoclastia cannibale che non lascia scampo. (Bettetini, 2006: V-VI) Una condizione alla quale, per altro verso, tutti noi partecipiamo quotidianamente – «un click, un mouse, un del» (Ivi: 148) e l’immagine e la realtà che rappresenta sono andate, rimosse quando non proprio distrutte –, e la cui teorizzazione ricorre nelle pagine di molti studiosi della contemporaneità, da Jacques Rancière, il quale

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A sinistra: ©Sonia Halliday Photo Library/Alamy Stock Photo A destra: ©Marion Kaplan/Alamy Stock Photo

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Figura 1.9 Uno dei due Buddha di Bāmiyān prima e dopo la distruzione a opera dei talebani nel 2001.

osserva che se oggi «non ci sono più che le immagini, non c’è nulla oltre l’immagine», allora «la nozione stessa di immagine perde il suo contenuto, vale a dire non c’è più l’immagine» (Rancière, 2007: 28), a Gottfried Boehm, che in un saggio del 1994, Il ritorno delle immagini, scrive: l’ostilità dell’industria mediatica verso l’immagine resta, non perché essa proibisca o impedisca le immagini, ma al contrario proprio perché mette in moto un flusso di immagini che mira fondamentalmente alla suggestione, alla simulazione figurativa della realtà, tra i cui scopi c’è pur sempre quello di dissimulare i limiti della propria figuratività. La nuova epoca dell’immagine, tante volte evocata dopo quella di Gutenberg, è iconoclasta, sebbene i suoi adepti non se ne siano neppure accorti. (Boehm, 2009: 62) Si modificando dunque, in epoca contemporanea, alcune coordinate del “problema delle immagini”, che resta però collocato primariamente nello scarto misterioso per cui un oggetto visivo – meglio, il suo presentarsi agli occhi di un osservatore – può essere investito del potere di «agire sui corpi e sulle menti» (Mondzain, 2017: 11). Misterioso non soltanto perché, come detto, il potere delle immagini

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sembra alternativamente (ma anche contemporaneamente) realizzarsi nei termini di una progettualità umana (un “plusvalore” figlio della produzione e del consumo di immagini) oppure di un’emanazione dell’immagine stessa, ma anche in virtù dell’onnipresenza di quella dialettica tra tutto e niente, pienezza e vacuità, che dice di una potenza insieme assoluta e fragilissima, e sostanzialmente incontrollabile. Misterioso, insomma, perché l’idea stessa che le immagini abbiano o possano guadagnare ed esercitare un potere è tutt’altro che pacifica e perché le determinazioni in gioco sono moltissime: qualsiasi discorso in merito all’azione sociale delle immagini non può infatti compiersi se non alla luce di una puntuale ricostruzione e di un’approfondita comprensione della dimensione storico-sociale. La vicenda del potere dell’immagine, così come quella dei regimi iconocratici che ne possono derivare o che lo possono alimentare, si estende per millenni e, vale la pena sottolineare, viaggia del tutto svincolata dalla “capacità artistica” che a lungo è stata considerata, per effetto di una priorità attribuita a un approccio storico-artistico nello studio dell’immagine (e a una priorità dell’immagine artistica), l’unica fonte di reale potere delle rappresentazioni visive. Di certo, comunque le si guardi, «le immagini non sono solo fatti ma anche atti» (Boehm, 2009: 90), “oggetti sociali” in grado di esercitare una certa forza e di cambiare la realtà (non semplicemente di riprodurla) o, per riprendere il termine introdotto da Gell, oggetti dotati di una certa agency. L’agentività propria delle produzioni visive – e Gell fa rientrare nel visivo sostanzialmente tutto ciò che non è verbale, che si vede e che si tocca, che possiede una consistenza materiale e un aspetto, poco importa se mimetico o astratto – costituisce un sistema di azioni orientato a cambiare, in modo effettivo, il mondo, non soltanto a codificarlo in termini simbolici (Gell, 2021). Ciò significa, in altre parole, pensare l’immagine anzitutto come qualcosa che appare, che agisce prima ancora di guadagnare senso, prima di essere l’immagine di qualcosa; significa spostare l’attenzione verso aspetti “modali” come quelli del potere e del volere – del poter fare e del voler fare – e, più in generale, accogliere una prospettiva d’analisi del rapporto tra oggetti visivi e osservatore interessata a comprendere non soltanto che cosa sono e rappresentano o significano i primi, ma anche che cosa fanno e, contemporaneamente, che cosa fanno gli esseri umani grazie a essi e con essi. Nelle pagine che seguono (in particolare nei successivi tre paragrafi) porremo il problema dell’azione e del potere delle immagini in termini di condizioni: non cercheremo, cioè, di rispondere in modo esaustivo alla domanda: “Che cosa fanno le immagini?”, perché sarebbe impossibile dare conto, anche solo sinteticamente, della pluralità di investimenti ideologici, culturali, politici e affettivi che hanno interessato e contraddistinto nel tempo le produzioni visive, e della ricchezza degli usi che ne hanno definito il ruolo sociale. Isoleremo piuttosto alcuni aspetti che

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fondano, identificano e determinano la presenza e l’azione delle immagini, muovendo dal piano della materialità a quello delle condizioni socio-culturali, per poi soffermarci sull’aspetto forse più essenziale, quello della possibilità stessa che le immagini si rendano effettivamente visibili.

1.4 L’immagine come picture: materialità, trasmissibilità, circolazione Il primo aspetto che occorre prendere in considerazione nell’analisi della presenza e dell’azione degli oggetti visuali rimanda a un orizzonte di questioni che proprio gli studi di cultura visuale hanno contribuito a precisare e approfondire: nel caso delle immagini la “partita sociale” si gioca sempre, come minimo, su un piano duplice, quello della rappresentazione e quello della materialità, vale a dire dell’immagine come contenuto e dell’immagine come mezzo, del “cosa” e del “come” (Belting, 2011) o, per impiegare una celebre distinzione proposta da Mitchell – impossibile da rendere con termini italiani –, sul piano dell’image e della picture. Picture rimanda all’immagine materiale (un quadro, una statua, una fotografia ecc.), image a ciò che appare nella picture e che può anche sopravviverle nella memoria, in una riproduzione, in un racconto ecc. In questo senso, le immagini (image) «sono tipi di picture, classificazioni di picture. Le immagini sarebbero, allora, come le specie, e le picture come gli organismi le cui tipologie sono determinate dalle specie» (Mitchell, 2017: 151); per ricorrere a un’altra similitudine offerta dallo stesso autore, le «picture sono le case in cui le immagini prendono residenza, i corpi in cui i loro spiriti si incarnano» (Mitchell, 2015: 16-18, 67; per un’introduzione generale al pensiero dello studioso, si veda Purgar, 2020). Per comprendere appieno il ruolo e l’efficacia delle immagini occorre insomma volgere l’attenzione anche ai supporti in cui esse si inscrivono, si mostrano, si diffondono – alla loro natura di “organismi viventi”, tanto nello spazio quanto nel tempo. Per certi versi, si tratta di un aspetto quasi ovvio: un’immagine esiste solo nella misura in cui s’incarna almeno una volta o, più esattamente, a patto di rendersi visibile in quanto oggetto esterno al soggetto, suscettibile di essere contemplato (altra cosa, infatti, è la “famiglia” delle immagini mentali; Wunenburger, 1999). Al tempo stesso, tuttavia, la reale comprensione del ruolo svolto dalla dimensione materiale delle immagini nel “farle funzionare”, nel definirne il significato, il valore e gli effetti sociali, è un fenomeno piuttosto recente, trasversale alle discipline umanistiche e certamente alimentato, negli ultimi decenni, dalla progressiva dissoluzione della materialità dei media condotta dalla digitalizzazione. Quanto più la nostra esperienza quotidiana delle immagini (ma, di fatto, la nostra

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esperienza quotidiana tout court) si disincarna, tanto più sembra importante sottoporre ad analisi il significato, il ruolo e il valore della materialità nella costruzione della relazione tra rappresentazioni visuali e osservatore. Lo studio di questi aspetti poggia essenzialmente su due tradizioni, quella storico-artistica e quella culturologica. Dalla prima arrivano strumenti e metodologie rivolte all’analisi della dimensione fisica, culturale ed estetica dell’oggettualità degli artefatti visivi. Nel determinare l’apparizione dell’immagine, infatti, questa influisce anche, inevitabilmente, sul suo aspetto, sulla sua apparenza: la incarna proprio nel senso che le consegna un corpo che la contiene e una pelle che la espone. Non sorprende, dunque, riprendendo il discorso fatto poco più sopra in merito alla smaterializzazione contemporanea di media e testi, che il valore e il significato dell’incarnazione delle immagini vengano oggi esplicitamente additati non soltanto dalla teoria ma anche dalla produzione culturale e artistica, come testimonia benissimo, per fare un solo esempio, il cinema di Quentin Tarantino. In controtendenza (non priva di un esplicito coefficiente polemico) rispetto alla generalizzata conversione al digitale delle procedure produttive contemporanee, Tarantino – che ha debuttato nel lungometraggio nel 1992 con Le Iene (Reservoir Dogs) – non ha mai abbandonato la pellicola, il 35mm ma anche, in più di un’occasione, il 70mm e, in un caso, The Hateful Eight (2015), un formato “antico”, ormai in disuso, come lo spettacolare (e costoso) Ultra Panavision. Una simile scelta, che si prolunga nella decisione di proiettare solo film in pellicola nella sala cinematografica di cui il regista è proprietario, il New Beverly di Los Angeles, non si fonda su un generico conservatorismo né, tantomeno, su una sterile difesa filologica di modi di produzione appartenenti al passato. Essa nasce piuttosto da una motivazione artistica: il desiderio di confrontarsi con le peculiarità e le potenzialità della pellicola, un supporto che Tarantino considera, proprio in virtù della sua fisicità, più ricco, duttile, “sensuale” del digitale – e variabile, sia perché le pellicole cinematografiche sono di molti tipi diversi sia perché ogni porzione di pellicola è in qualche modo un corpo unico, irripetibile. Tarantino è insomma chiaramente affascinato anche dalla materialità in sé e, più esattamente, dalle conseguenze estetiche e visuali prodotte dal fatto che le immagini possiedono un corpo. Lo rivela in modo esemplare Grindhouse – A prova di morte (Death Proof, 2007): in questo film l’omaggio all’exploitation degli anni Settanta non passa soltanto attraverso la ripresa dei generi caratteristici di quel tipo di produzione di serie B ad alto tasso spettacolare – un curioso incontro tra horror, slasher e car movie –, ma si risolve anche, più sottilmente, in un’operazione visuale che mira a inscrivere sulla pelle del film i segni del tempo (graffi, macchie, tagli, decadimento dei colori ecc.) e del suo contesto di consumo popolare, economico e, in modo diverso, di serie B (le giunte frettolose tra le bobine, qualche inquadratura tagliata, i salti e le pause prodotte da un pro-

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iettore vetusto ecc.) (Figure 1.10 e 1.11). Una soluzione vagamente pittorica che valorizza, del film, la sua natura di oggetto, il suo vivere nel tempo e nello spazio, il suo invecchiare e trasformarsi, mentre esemplifica con grande chiarezza teorica la relazione tra apparizione e apparenza: guardare Grindhouse – A prova di morte significa guardare anche delle immagini impresse su una serie di bobine di pellicola 35mm giuntate insieme che scorrono in un proiettore. Il caso di Tarantino ci consente di evidenziare un ulteriore aspetto legato alla dimensione oggettuale, quello della relazione intercorporale e prossemica tra immagini e osservatore. Proprio perché dotate di un volume, di un peso, di una forma, di una texture, di una tattilità ecc. le immagini, anzi le picture, sono qualcosa che si rivolge all’osservatore occupando un certo spazio o “campo visivo”, fatalmente tra-

Figure 1.10 e 1.11 Fotogrammi da Grindhouse - A prova di morte (Death Proof, Quentin Tarantino, 2007).

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sformandolo e riorganizzandolo (Didi-Huberman, 1992: 20) e offrendosi tanto allo sguardo quanto a una dialettica e a un’interazione sensibile e corporea. Le immagini, del resto, non sono fatte soltanto per essere guardate ma anche usate, manipolate, tastate ecc.: ciò che balza in primo piano, in questo caso, non è dunque il loro contenuto ma il loro esserci, il loro stare in un rapporto di continuità fisica con chi le possiede. Proponiamo due rapidi esempi, molto diversi tra loro, ricordando che si tratta di una dimensione del rapporto con le immagini che tutti noi sperimentiamo quotidianamente. Durante la Rivoluzione culturale, avviata in Cina nel 1966, la repressione della minoranza tibetana e della sua religione, il buddhismo, passò attraverso una “guerra di immagini”. In particolare, le autorità proibirono ai fedeli di esporre, e quindi pregare, ritratti fotografici del Dalai Lama (Figura 1.12): ciò condusse rapidamente a una loro riconfigurazione simbolica e materiale, fino a farne una specie di «scudo fotografico che avrebbe protetto i corpi dei tibetani contro l’assalto sia delle armi sia di immagini aliene» (Harris, 2004: 146). Da allora, le fotografie del Dalai Lama, il “leader assente”, hanno continuato a possedere e manifestare questo valore intrinsecamente legato allo loro materialità e portabilità: «Infilata all’interno delle vesti monastiche o nelle pieghe di un chuba (un abito secolare tibetano), la foto-icona del Dalai Lama si attacca al corpo come una seconda pelle […]. Posizionata vicino al cuore, può essere letteralmente abbracciata» (Ibid.). Ma il rapporto di dialogo e interazione fisica tra osservatore e immagini si è tradotto, nel medesimo contesto di repressione politica, anche in un’altra direzione. Costretti dall’Esercito popolare di liberazione ad appendere all’interno di case e luoghi di lavoro poster inneg- Figura 1.12 Ritratto del Dalai Lama nel monastero gianti alla politica e alla figura buddhista di Thiksey, in India.

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di Mao (Figura 1.13), la cui rimozione o danneggiamento erano vietati e puniti per legge, i tibetani svilupparono una tattica corporea intimamente connessa ai presupposti della loro cultura, all’interno della quale i piedi rappresentano l’elemento inferiore del corpo perché più vicini all’impurità della terra. Così, per manifestare silenziosamente il loro disprezzo nei confronti degli occupanti e reagire all’invasione capillare di quelle immagini propagandistiche, presero l’abitudine di dormire con i piedi rivolti verso i manifesti raffiguranti il leader cinese: senza neppure dover toccare quelle immagini, essi trasformarono una relazione corporea con l’immagine in una strategia di profanazione e degrado, tanto più significativa se si considera che all’interno della cultura tibetana le rappresentazioni religiose vengono generalmente toccate con la testa, un gesto di rispetto che favorisce la trasmissione della benevolenza tra oggetto sacro e devoto. La dimensione simbolica e affettiva legata alla fisicità degli artefatti visivi costituisce un aspetto essenziale del nostro rapporto con le immagini ed è oggi al centro – per tornare un’ultima volta alla questione della digitalizzazione della produzione e del consumo culturale – di un deciso rilancio. Se «la coseità (thingness), la materialità (materiality) e l’oggettualità (objecthood)» dei contenuti mediali (Mitchell, 2015: 76) tornano in primo piano è proprio perché essi rappresentano i veicoli di una relazione “appassionata” tra osservatore e immagini: qualcosa di simile a un “nuovo materialismo” che ha non poco a che fare con il ripensamento teorico del significato e del ruolo della materialità di cose e oggetti inaugurato nel 2011 dal

Figura 1.13 Manifesto propagandistico della Rivoluzione culturale cinese.

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saggio Thing Theory di Bill Brown. Si pensi, per esempio, alla recente, straordinaria proliferazione di gadget associati alle produzioni cinematografiche (edizioni limitate blu-ray o DVD, box collection, action figure, pupazzi, giocattoli, giochi di società ecc.), che intensifica un fenomeno, quello del merchandising, esploso alla fine degli anni Settanta in parallelo alla nascita del blockbuster contemporaneo, ma anche al ritorno, da leggersi non soltanto in chiave nostalgica ma, appunto, anche passionale, di supporti ormai desueti come le musicassette o le VHS o, ancora, al rilancio del settore delle incisioni musicali su Lp. Senza appiattire le differenze tra questi fenomeni, possiamo tuttavia riconoscere un desiderio comune e trasversale di (ri)oggettificare e, in questo modo, risemantizzare l’esperienza del consumatore, sia essa la visione di un film o l’ascolto di un album musicale, esperienze oggi sempre più prive, come detto, di una dimensione materiale e rituale – un film o un album musicale corrispondono spesso a un file immagazzinato in uno smartphone, in un computer o in una chiavetta USB. Oggettificare il rapporto con i contenuti mediali per renderli vicini, fisicamente presenti, a contatto con chi ne fruisce, e, insieme, per mantenere vivo e prolungare il contatto con essi: la complessa relazione tra materialità, affettività e memoria è uno dei principali aspetti problematizzati dalla digitalizzazione, cui questa rinnovata attenzione verso i processi di “incarnazione” chiaramente reagisce. Gli studi visuali, tuttavia, non limitano l’analisi della dimensione materiale a questi aspetti che, in vario modo, enfatizzano il valore, il significato personale e collettivo e la ricaduta estetica dell’inscriversi delle rappresentazioni visive in un supporto non transitorio. La contaminazione di temi e metodologie provenienti dalla tradizione storico-artistica con le prospettive di studio e gli strumenti offerti dall’antropologia e dalla pragmatica ha anche contribuito a orientare l’analisi verso il rapporto tra inscrizione e circolazione. La parola chiave, in questo caso, non è oggettualità ma trasmissibilità, e l’orizzonte di ricerca si allarga allo studio della vita delle immagini, ai modi e alle forme della loro presenza sociale e del loro movimento “corporeo”. Un versante della questione che si fa particolarmente suggestivo quando la trasmissibilità materiale s’impone quale principio costitutivo e identificativo, di funzionamento ed efficacia sociale dell’immagine, o quando la circolazione stessa delle immagini – la loro “libertà di movimento” – si rivela, in qualche modo e per le più diverse ragioni, problematica. Il primo aspetto è stato approfonditamente indagato da Hans Belting nel suo fondamentale Antropologia delle immagini (2011), in cui la questione del mezzo, nel suo rapporto con il corpo e l’immagine, assume un’importanza decisiva. Tra i tanti esempi che egli offre, possiamo ricordare quello, particolarmente emblematico, degli scudi araldici, soprattutto a partire dal momento in cui, nel tardo Medioevo, la loro storia culturale s’intreccia a quella della nascita del ritratto moderno e, più esattamente,

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del “ritratto autonomo”, in cui è protagonista il volto raffigurato in primo piano (si veda il Capitolo 5). Privilegio di nobili e feudatari, gli scudi – generalmente delle tavole di legno – servivano a trasmettere la “catena genealogica” del proprietario attraverso gli stemmi, un complesso visuale di figure e scritte (Belting, 2011; sul rapporto tra ritratto e stemma si veda anche Macho, 2013). Le persone che li portavano venivano dunque identificati attraverso la loro appartenenza familiare e, a volte, territoriale, ma in alcuni casi gli scudi potevano specificare anche rango e nome. A ogni modo, essi non si limitavano a fornire informazioni in merito al proprietario; la natura mobile del supporto e il tipo di immagine che trasmetteva (lo stemma) favorirono, soprattutto a partire dal Trecento, quando gli scudi scomparvero progressivamente dai campi di battaglia, un’accentuazione della loro facoltà di valere come “mezzo del corpo”, o “secondo corpo”, di un individuo: «Il trasmittente araldico-figurativo non riproduce soltanto un corpo, ma possiede come oggetto addirittura un corpo fisico: un corpo funzionale alla norma di rappresentazione» (Belting, 2011: 147). Così, per esempio, nell’ambito dei tornei (Figura 1.14) lo scudo era impiegato per esibire l’importanza del proprietario dello stemma in caso di sua assenza, mettendo in mostra «l’immagine come rappresentante della persona», oppure, durante lo scontro, esso agiva al pari di un “volto mediale” (il combattimento avveniva con la visiera dell’elmo abbassata). E ancora: «nel corso delle assemblee ufficiali, i cavalieri si posizionavano davanti al proprio scudo, che valeva come raddoppiamento della presenza del corpo naturale o, nel caso di cavalieri defunti, di rimpiazzo» (Ivi: 148149). Ma gli stemmi, grazie allo strumento dello scudo, poteva- Figura 1.14 Scontro tra due cavalieri in un torneo no anche far viaggiare il loro (Codex Manesse, XIV sec., Biblioteca dell’Universiproprietario, portati in giro da tà di Heidelberg).

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servitori o sottoposti, o esercitare i suoi diritti giuridici se opportunamente collocati in spazi pubblici. E va da sé che il tributo pagato agli stemmi nobiliari in termini di rispetto e deferenza da parte delle persone comuni era equivalente a quello che sarebbe stato tributato alla persona fisica. L’araldica, dunque, non si limita ad accrescere la presenza del proprietario dello scudo a livello sia temporale sia spaziale, ma produce anche «persone giuridiche nel senso che spostava persone fisiche con un secondo corpo» (Ivi: 149). Un diverso approccio alla questione della mobilità delle pictures in quanto corpi e “case” delle images è stato suggestivamente proposto da Mitchell nel suo Image Science (2015) a partire da un’ipotesi certo provocatoria ma assai stimolante, soprattutto in rapporto al contemporaneo: quella di guardare alle rappresentazioni visive anche come a soggetti migranti. Tale similitudine serve anzitutto ad attirare l’attenzione su un aspetto della vita sociale delle immagini che oggi, complice il già evocato “alleggerimento corporeo” condotto dal digitale, sembra perdere rilievo. Come scrive Mitchell, è «importante distinguere saldamente tra la nozione neutra di immagini in circolazione, che si muovono liberamente, che circolano sostanzialmente senza conseguenze, e il concetto di immagini migranti, che suggerisce qualcosa di molto più carico di contraddizioni, difficoltà, attriti e opposizioni» (Mitchell, 2015: 65). L’idea di immagine migrante rimanderebbe dunque, al tempo stesso, a una specie di immagini – quelle che affrontano un viaggio, che partono e arrivano sempre da qualche parte – e, all’interno della società digitale, a una loro dimensione specifica e tutt’altro che scontata, vale a dire quella, per l’appunto, della loro incarnazione, del loro farsi ed essere pictures. L’idea di guardare alla mobilità sociale delle immagini anche in termini di movimenti migratori (emigrazione, immigrazione) e anzi, più esattamente, l’idea di dare conto della natura di migranti delle immagini contribuisce inoltre sia a problematizzare ulteriormente la dimensione della circolazione degli artefatti visivi sia a prestare maggiore attenzione alla questione del movimento in sé, al come e al perché le immagini compaiono, scompaiono, circolano, si diffondono, si fermano, si spostano ecc., «come se possedessero una collocazione natia, originaria o indigena, o come se fossero straniere ed esotiche, provenienti da un altrove, invitate oppure no a entrare» (Ivi: 67). Come in altri punti della ricerca di Mitchell, e in particolare in What Do Pictures Want? (2006), l’elemento concettualmente e metodologicamente strategico è rappresentato dalla personificazione dell’immagine, trattata alla stregua di un organismo vivente o di una persona o di una living thing, e quindi guidata da desideri, appetiti, bisogni, mancanze ecc. (si veda il Paragrafo 1.2). È così che la questione della corporeità dell’immagine si declina più chiaramente come problema di possedere un corpo, del suo essere visibile al di là di ciò che mostra, del suo inaggirabile manifestarsi; insieme, questo specifico gesto di

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Capitolo 1

personificazione non può non dirottare l’analisi – in linea con attitudini e preoccupazioni tipiche degli studi culturali – verso le forme di resistenza, impedimento, respingimento ecc., vale a dire verso ciò che blocca o complica la libera circolazione dell’immagine: dobbiamo tracciare i suoi [dell’immagine] movimenti, specialmente là dove questi movimenti sono ostruiti, e considerare la nozione di immagine come qualcosa la cui circolazione è bloccata, che deve essere tenuta fuori, che coinvolge guardie di frontiera che regolano la circolazione di immagini considerate pericolose o aliene. E forse ancora più fondamentale dell'idea che le immagini siano “là fuori” alla ricerca di un ingresso illegale è la nozione di espulsione o di distruzione delle immagini sul proprio territorio di residenza, e cioè la prevenzione della possibilità che esse possano migrare, la purificazione delle immagini come “alieni indigeni”. (Ivi: 69) Il resto dell’argomentazione di Mitchell è dedicato a tre forme particolari di immagini-oggetto o, meglio, a tre classi di immagini migranti, gli idoli, i feticci e i totem, all’analisi delle caratterizzazioni valoriali che, di volta in volta, le hanno interessate (oggetti buoni, cattivi, minacciosi, inquietanti, propiziatori ecc.) e del diverso modo in cui esse si sono mosse e sono state fatte muovere nel quadro delle strategie politiche e territoriali dell’imperialismo europeo (su quest’ultimo tema si veda anche il fondamentale La guerra delle immagini di Serge Gruzinski, del 1991). Sullo sfondo, costantemente rilanciata, permane la questione della relazione tra image e picture, che un “pensiero migrante” può efficacemente illuminare tanto più con riferimento all’epoca contemporanea, in cui il visivo sembra contraddittoriamente attraversato da «una mobilità, una migrazione libera e una circolazione illimitata delle immagini (image)» e da «un’ostinata immobilità e recalcitranza di corpi e cose materiali» (Ivi: 76).

1.5 Di fronte alle immagini: forze e credenze, azioni e reazioni Torniamo per un istante alla Tête d’homme di Cézanne e alla “febbre gialla”. Come abbiamo sottolineato analizzando l’episodio della prima esposizione pubblica del dipinto, alla base della vignetta di Cham e della recensione di Leroy agisce un’opinione popolare, ampiamente infiltrata di superstizioni, nei confronti dell’ereditarietà e della procreazione quasi o per nulla sfiorata dai progressi compiuti nel frattempo dalla scienza medica. È, in estrema sintesi, l’idea, che prende forma nella tarda classicità per poi andare incontro a un’ampia diffusione a partire dal XVI secolo, secondo la quale tanto le impressioni visuali esterne quanto le fantasie prodotte

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dalla madre possono influenzare l’aspetto e la forma del feto. Più esattamente, come puntualizza Giambattista della Porta nella sua opera Magiae naturalis libri IV del 1558 – in un paragrafo significativamente dedicato a come «far che le donne faccino bei figliuoli» –, l’idea che le immagini dalle quali la futura madre è stata particolarmente impressionata possano venir riprodotte dalla sua fantasia e in questo modo incidere sulla “rappresentazione” del nascituro. La donna è qui equiparata a una specie di complesso e ipersensibile dispositivo visuale: per metà pellicola in cui le immagini esterne si fissano e rivelano, per metà schermo sul quale esse vengono proiettate, riviste e rivissute. Ma anche, come suggerisce un dibattito ospitato alla fine dell’Ottocento sul Journal of the American Medical Association, la madre e, più esattamente, il suo ventre come camera oscura e il bambino come stampa fotografica (Michaud, 2008 e 2015). Al di là di questi ultimi, suggestivi rilievi, sui quali certo pesano sia la perdurante incertezza medica e la “cecità” del processo di formazione del feto sia una certa cultura della donna (del suo sentire e della sua immaginazione), ciò che è importante rilevare è che se simili credenze sulla procreazione possono esistere e funzionare è solo in virtù di una più generale, diffusa e radicata concezione in merito alle immagini. Detto altrimenti, l’idea, per quanto volutamente caricaturale, che la rappresentazione di una testa d’uomo giallastra e allungata, dipinta su una tela e appesa a una parete possa determinare l’aspetto di un bambino qualora la madre che lo porta in grembo vi si soffermi con lo sguardo non pertiene semplicemente a una storia della “magia naturale”, né in essa ha il suo unico o principale fondamento; una simile concezione costituisce piuttosto la rielaborazione particolare del significato, del valore e del potere che una determinata società, in un determinato momento, attribuisce alle rappresentazioni visive (e, in particolare, a quelle figurative e mimetiche) e alla loro presenza, ossia, per riprendere quanto già messo in evidenza, alle immagini in quanto raffigurazioni del mondo sensibile e alle immagini in quanto oggetti che, attraverso la propria oggettualità, perimetrano un determinato “campo d’azione”. Così, a ben vedere, per tornare un’ultima volta all’episodio del dipinto di Cézanne, il critico di “Le Charivari” accusa implicitamente il pittore non soltanto di aver dipinto un brutto quadro, ma anche di aver rovesciato nella realtà una specie di mostro in grado di funzionare alla stregua di un modello figurativo per un bambino non ancora formato: anche per un uomo di cultura come Louis Leroy le immagini sembrano possedere il potere di ridisegnare la realtà perché diffondono modelli di cui la realtà rischia di diventare linearmente l’immagine. Che vi creda davvero oppure no – anzi, possiamo supporre che non vi creda fino in fondo –, poco importa: ciò che importa è che attraverso la sua recensione Leroy contribuisce una volta di più a mantenere in vita e anzi a diffondere una simile opinione.

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Capitolo 1

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La responsabilità dell’uomo nei confronti del visivo è del resto profonda, se non totale: è lui a creare le immagini o, nel caso di dispositivi di registrazione automatica (per esempio, le telecamere di videosorveglianza), a stabilire le condizioni perché le immagini vengano prodotte e si rendano visibili, ed è sempre lui, in forme dirette e indirette, a stabilire che cosa esse significano, a che cosa servono, dove e come possono presentarsi e circolare. L’eccezione delle raffigurazioni acherotipiche, cioè “non fatte da mano umana” ma per volontà divina, costituisce una vistosa conferma indiretta: se non l’uomo, soltanto Dio. Questi “oggetti autogeni”, come il celebre Velo della Veronica o il Mandilio di Edessa (raffiguranti entrambi il volto di Cristo, Figure 1.15 e 1.16), rimuovono infatti dall’immagine proprio la qualità di artificio, ossia di prodotto di una tecnica di natura umana, e per questo si pongono senza alcuna ambiguità come rappresentazioni non problematiche in ottica religiosa e fideistica e canali di comunicazione con un mondo superiore.

Figura 1.15 Hans Memling, Santa Veronica, 1470 ca. (National Galley of Art, Washington DC).

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©Art Collection 2/Alamy Stock Photo

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Figura 1.16 Nel 944 gli abitanti di Edessa consegnano ai Bizantini il sacro Mandilio (manoscritto anonimo del XIII secolo).

Ma, appunto, fatte salve queste eccezioni che si ritrovano in numerose e diverse culture e che travalicano talora l’ambito religioso (Monaci Castagno, 2011), le rappresentazioni iconiche sono un affare essenzialmente umano, anche nel senso in cui costituiscono un indispensabile strumento “umanizzante”, di rivelazione, affermazione e conoscenza lungo la strada dell’evoluzione. Come nota suggestivamente Marie-José Mondzain, le prime immagini disegnate dall’uomo sulla superficie delle caverne (in particolare quelle delle sue mani, Figura 1.17) gli consentirono «di emergere dall’oscurità e dare vita all’umanità», ossia di costituirsi in quanto soggetto di sguardo su di sé e sul mondo (sul tema della necessità dell’immagine in riferimento ai processi di configurazione soggettiva torneremo nel Capitolo 5). I primi uomini inventarono l’immagine fatta da mano umana, l’immagine di un uomo che era spettatore del lavoro delle sue mani, lo spettacolo di mani umane che conducono alla nascita dello sguardo umano. Qui non c’è nessun volto, nessun occhio, buono o cattivo che sia, nessun idolo […]. Guardare significa diventare spettatori delle immagini che le nostre mani producono per significare le tracce del nostro passaggio. L’immagine del mondo dà dunque vita alla parola. (Mondzain, 2010 e 2013)

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Figura 1.17 Impronta “in negativo” di una mano conservata nella grotta di Chauvet (Francia).

Al tempo stesso, tuttavia, occorre notare che in nessun caso, e da nessun punto di vista, né materiale né culturale, il ruolo poietico e demiurgico dell’uomo nei confronti del visivo si dispiega come un processo trasparente, una consegna o un passaggio lineari di significati, valori, funzioni. La cultura visuale di una società è una configurazione che può essere senz’altro “fotografata”, ma descrivere in modo non generico o astratto, cioè da una prospettiva socio-culturale e antropologica, la presenza e l’azione delle immagini equivale a sbrogliare una matassa assai intricata: a un grado minimo occorre infatti prendere in considerazione un intreccio di fattori che toccano tutti gli ambiti del sapere e dell’agire umano, dalla politica alla religione, dalla filosofia alla scienza, dalla psicologia alla tecnologia ecc., nonché una complessa stratificazione storica di valorizzazioni e interpretazioni del visivo. Anche per questo, il rapporto tra l’attribuzione di significato ed, eventualmente, di potere alle immagini e la risposta culturale, psicologica, emotiva e comportamentale a esse è un processo tutt’altro che causale e trasparente. In altre parole, ciò che accade tra un osservatore e una rappresentazione visiva nel momento in cui gli sguardi s’incrociano è solo all’apparenza un dialogo lineare, idealmente garantito dalla diversa materialità degli attori coinvolti. «Comprendere che il potere delle immagini è culturalmente, socialmente e forse politicamente

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dato a esse» (Wolff, 2012: 7) non significa insomma poterlo interamente capire, amministrare, contenere né, tantomeno, poterselo riprendere. E non significa neppure poterlo completamente o pacificamente circoscrivere a uno o all’altro dei due “interlocutori” coinvolti nell’esperienza visiva. È in questo senso, per rilevare cioè di una dialettica ben più sfumata e complessa, che Bredekamp, nel suo fondamentale Immagini che ci guardano (2015), introduce il concetto di «autonomia iconica». Prodotto dell’intenzione, della mano e del pensiero dell’uomo, nondimeno le immagini gli vengono incontro sotto il segno di una corporeità aliena: esse non possono venire ricondotte pienamente a quella dimensione umana cui devono la propria realizzazione, né sul piano emotivo né mediante azzardi linguistici. E qui risiede il fascino delle immagini. Una volta prodotte, diventano autonome e incutono ammirazione e paura, sono cioè oggetti capaci di suscitare sensazioni fortissime. (Bredekamp, 2015: 9-10) In questo senso, le immagini possiedono sempre qualcosa di perturbante, sono al tempo stesso familiari e diverse, sfuggenti e aliene, “altre”, “diverse”, non corrispondendo mai fino in fondo a ciò che l’uomo sa e pensa di esse, non essendo mai semplicemente l’«eco della loro stessa visione». Ma proprio una simile forma di autonomia è ciò che ne qualifica l’azione, il potere e, in fondo, il significato estetico e sociale: è indubbio che [dalla visione delle immagini] l’osservatore riceva ben più di un semplice riverbero delle proprie idee o fantasie. Così facendo, egli s’indirizza a una latenza insita nell’artefatto, che riesce a spiccare il balzo, in maniera pressoché incontrollabile, dalla sfera delle mere possibilità a quella dell’azione, ponendo lo spettatore, il fruitore, dinanzi a una controparte che lui non controlla. (Ivi: 12) Sullo sfondo, un’idea di immagine culturalmente negoziata tra inorganicità e vitalità, un’idea di immagine come qualcosa che non sta semplicemente di fronte a colui che la contempla ma, piuttosto, gli “balza” incontro, si “porta davanti ai suoi occhi” (rappresentare significa anche “rendere presente”), dispiegando un potere d’azione sul piano percettivo, del pensiero e del comportamento umani solo in parte controllabili e prevedibili. Un’«efficacia latente», la definisce Bredekamp, insistendo sul fatto che essa «scaturisce sia dalla forza dell’immagine stessa sia dalla reazione interattiva di colui che guarda, tocca, ascolta» (Ivi: 36), e che ha il potere di «strappare l’occhio dal resto del corpo mediante l’energia risucchiante delle cosa da vedere e da toccare» (Ivi: 270). Non sorprende che il volume di Bredekamp si apra e chiuda con un riferimento a un mottetto di Leonardo da Vinci in cui

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un’opera velata si rivolge così al suo potenziale osservatore: «Non iscoprire se libertà / t’è cara ché ’l volto mio / è charciere d’amore». Come a dire che il potere vitale delle immagini non è soltanto un’energia che scorre da queste verso il loro osservatore, ma si dispiega anche come rovesciamento dei rapporti di forza tra rappresentazioni ed esseri umani, fino all’estremo limite di consegnare questi ultimi a una condizione di “prigionia”. La prospettiva di Bredekamp echeggia, da alcuni punti di vista, quella di Gottfried Boehm, il principale rappresentante della ricerca visuale tedesca, la Bildwissenschaft (“scienza dell’immagine”), affermatasi a partire dagli anni Novanta in parallelo allo sviluppo dei visual culture studies angloamericani (per una sintesi delle due correnti si vedano Pinotti, 2014; Pinotti, Somaini, 2016). Boehm, in particolare, pensa il potere e l’efficacia delle immagini (concentrandosi su quelle artistiche) come una specie di surplus, qualcosa che non può essere interamente ricondotto alla dimensione storica e contestuale e che dipende intimamente dalla natura linguistica dell’immagine in quanto tale, dal suo funzionamento. Boehm la definisce «differenza iconica»» (anziché autonomia) e la descrive come una potenza insieme visiva e logica, che caratterizza la peculiarità dell’immagine, la quale appartiene insopprimibilmente alla cultura materiale, è inscritta irriducibilmente nella materia, eppure vi lascia apparire un senso che allo stesso tempo supera ogni fatticità. (Boehm, 2009: 57) Il “superamento della fatticità”, che proietta il rapporto dell’osservatore con l’immagine in un territorio cognitivo e sensibile non interamente riconducibile al linguaggio e all’esperienza quotidiana, interessa tanto la dimensione oggettuale quanto quella rappresentazionale. Le immagini, osserva Boehm, non sono semplicemente qualcosa che possiamo guardare o toccare, avvicinare e ricondurre a noi; la presenza dell’immagine è “più che fisica”, è spirituale oltre che materiale, e supera le sue funzioni storiche, referenziali o documentarie: l’osservatore di fronte alla presenza di un’opera sperimenta una compresenza, un esserci [Dabeisein] nel senso enfatico del termine. […] È la presenza a dischiudersi, e non la mera decisione di un soggetto che vuole semplicemente vedere. (Ivi: 90) Se ciò accade, è anche perché l’immagine realizza un altro tipo di “superamento della fatticità”, che tocca questa volta il piano della rappresentazione: l’idea portante di differenza iconica – che si fa anche criterio estetico discriminante – coincide infatti con la capacità di “ristilizzare”, cioè rappresentare secondo i codici e i mezzi specifici dell’immagine stessa, la realtà. Per Boehm un’immagine è dunque davvero un’immagine nella misura in cui “fa la differenza”, ossia elabora e

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rende esplicito un contrasto visivo rispetto al mondo sensibile, un’opposizione tra factum e fictum. Di conseguenza, quanto più un’immagine copia la realtà e la sua “fatticità” in forma perfetta – come sembra oggi chiedere, quando non imporre, l’industria dei media, sempre più guidata da un’estetica della simulazione fotorealistica potenziata dalla computer grafica (Prince, 2012) – tanto più essa si comporta da non-immagine. Per dirlo con Louis Marin, che alla questione della rappresentazione mimetica (a partire dalla tradizione del trompe-l’oeil) ha dedicato pagine fondamentali, si genera in questo caso una specie di «sottomissione servile alla cosa stessa quale appare davanti agli occhi», così che l’immagine «non è più la rappresentazione della cosa “reale”, bensì la sua presentazione nella forma di un doppio» (Marin, 1994: 132). E in quanto doppio o «mimesi in eccesso», l’immagine finisce per dissolversi nella realtà, arrivando così a esercitare, come abbiamo già osservato nel Paragrafo 1.3, una paradossale, quasi cannibalica azione iconoclasta, in cui essa sembra agire contro sé stessa. Una posizione, questa, che ricorre anche nella riflessione di Marie-José Mondzain, quando osserva che oggi «ci sono sempre meno immagini» e che per la prima volta nella storia «l’immagine corre un grave pericolo e minaccia di sparire sotto l’impero della visibilità» (Mondzain, 2011: 13). Ancora una volta l’immagine tecnica (fotografia, cinema, televisione, internet ecc.) o, meglio, l’industria della comunicazione, dell’informazione e della produzione visiva governata dal paradigma della biopicture è considerata come la principale responsabile di un’estetica del simulacro – nozione dalla lunga e complessa tradizione teorica, rilanciata nel dibattito contemporaneo da Jean Baudrillard –, di un aumento esponenziale della portata del flusso iconico e di un costante abuso di visibilità che finirebbero per indebolire la vitalità dello sguardo e per sottrarre alle immagini qualsiasi valore o potere. Ciò al punto che la possibilità che le immagini esercitino effettivamente qualche forma di azione efficace sembra oggi dipendere, in larga parte, da una paradossale, esplicita dichiarazione (auto)riflessiva di appartenenza al territorio stesso del visivo, contro la logica di un insensibile rispecchiamento sostitutivo della realtà. Al di là di questi ultimi aspetti, che puntualizzano come l’immagine, per poter funzionare, deve essere anzitutto rilevata e riconosciuta in quanto tale, la prospettiva di Boehm, più ancora di quella di Bredekamp, nel rimarcare la dialettica costitutiva tra la materialità dell’opera, i principi della rappresentazione e il senso che, pur emergendo da essi, li trascende, contiene una critica neppure troppo velata a quelli che egli definisce gli «strateghi della dipendenza», dei quali lo storico dell’arte David Freedberg può essere considerato a buon diritto il capofila. La loro “colpa”, in estrema sintesi, consisterebbe nell’interpretare il potere delle immagini (che è anche il titolo di un fondamentale volume pubblicato proprio da Freedberg

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nel 1989), la loro forza e agentività non, appunto, come una qualità latente che, per quanto risvegliata dal contatto con l’osservatore, appartiene alle immagini in quanto tali, è legata alla loro natura, al loro funzionamento e al loro stagliarsi differenziale (e irriducibile al lògos, e dunque sempre in qualche modo misterioso), ma esclusivamente come un attributo che giunge dall’esterno, ossia dal contesto storico, sociale, culturale, psicologico. Il potere delle immagini dipenderebbe insomma interamente (e poco importa la consapevolezza storica di tale dipendenza) da ciò che una società, in un determinato momento, pensa e crede in merito alla loro essenza (che cosa sono) e alla loro potenza (che cosa fanno): una realtà cognitiva ed emotiva, ossia una serie di affetti e convinzioni, cui si associano gesti, comportamenti, ritualità ecc., ossia una serie di convenzioni, così che tanto i discorsi sulle immagini quanto le azioni e le reazioni umane alle immagini – quello che gli individui sentono e fanno a causa di esse – si costituiscono sia come testimonianza diretta e osservabile (un “sintomo”) sia come strumento di indagine e classificazione, una specie di “archeologia” dell’esperienza visiva. La ricerca assume dunque la forma di una “antropologia della risposta” in senso ampio, che guarda cioè a tutti i tipi di risposta, compresi quelli apparentemente più “bassi” e lontani dall’esperienza estetica, come la paura e l’eccitazione erotica; l’analisi delle reazioni umane alle immagini è accompagnata e sostenuta, di conseguenza, dalla ricostruzione di usi, credenze, opinioni, saperi ecc. che circondano, informano e legittimano quelle reazioni e, al tempo stesso, cementano una certa idea, quando non una vera e propria teoria, in merito alle produzioni visive. L’altra metà di un simile progetto non può che essere una ricerca «sulle modalità del guardare» (Freedberg, 1993: 7) o, per usare una formula ricorrente negli studi di cultura visuale, sui regimi scopici. Freedberg non impiega questa espressione, originariamente coniata nell’ambito della semiologia e della psicoanalisi del cinema da Christian Metz e successivamente ripreso e sviluppato da Martin Jay, ma sembra alludervi o comunque implicarla nel momento in cui ravvisa nelle reazioni alle immagini il prodotto di un’esperienza visiva sempre storicamente e culturalmente determinata e situata, uno “sguardo condiviso” forgiato dall’intersezione di discorsi e pratiche, ma anche dal riprodursi di determinati contesti e dispositivi di fruizione. Il punto di parziale rottura con la prospettiva più “autonomista” di Boehm – certo influenzata dal privilegio accordato alle opere d’arte, là dove Freedberg, in polemica con gli storici dell’arte, guarda invece a tutti gli artefatti che compongono la cultura visiva di una società – risiede dunque nel fatto che il potere, l’efficacia e l’efficienza delle immagini sono accertate di volta in volta, alla stregua di regole (non scritte) di ingaggio per l’osservatore, e mai postulate come una condizione a priori e latente della loro esistenza, del loro presentarsi, del loro esserci. Il termine

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heideggeriano, già comparso poco sopra nella citazione da Boehm, è oggi impiegato per aggregare un vasto insieme di posizioni teoriche, interne all’iconic turn contemporaneo, che insistono maggiormente proprio sull’incontro tra opera e osservatore e sulla dimensione incarnata e insieme trascendente, materiale e spirituale, di questa esperienza, là dove posizioni come quelle di Freedberg o Ernst Gombrich insistono maggiormente sul ruolo costruttivo del significato sociale, dell’interpretazione e della teoria culturale, della predisposizione cognitiva degli osservatori, dei contesti di apparizione (Wolff, 2012). In estrema sintesi: da un lato, un’attenzione specifica nei confronti di «ciò che non si può leggere, di ciò che eccede le possibilità di una semiotica dell’interpretazione, di ciò che sfida la comprensione sulla base delle convenzioni, di ciò che non potremo mai definire»; dall’altro lato, al contrario, «una valorizzazione della storia sociale e delle condizioni culturali, intese anzitutto come fattori determinanti per la storia dell’arte e i visual studies» (Moxey, 2008: 132). Approfondire ulteriormente questo dibattito esula dagli obiettivi del capitolo. Del resto, le differenze tra i due orientamenti possono apparire, in alcuni casi, sfumature argomentative più che intransigenti posizioni teoriche, sulle quali pesa, tra le altre cose, una diversa agenda politico-culturale e una diversa prospettiva disciplinare, mentre il ruolo determinante assegnato in tutti i casi all’agency secondaria dell’essere umano (Ivi: 142), cioè alla sua funzione di attivatore dell’esperienza visiva, s’impone come un possibile territorio di conciliazione. Ciò che appare utile puntualizzare al termine di questa sintetica presentazione di un dibattito chiave all’interno degli studi di cultura visuale è lo sforzo, oggi largamente condiviso, degli studiosi citati (ai quali vanno aggiunti almeno i nomi di Caroline van Eck, per la sua ricerca sulle immagini come living presence, e di Georges Didi-Huberman, per la sua riflessione sull’anacronismo), di sottrarre le immagini (qualsiasi tipo di immagine) alla condizione tutto sommato indifferente di oggetti inerti e passivi, interamente “alle dipendenze” dell’essere umano, della sua intenzionalità e del suo sguardo, nella quale sono state confinate troppo a lungo. Il fatto che una prospettiva d’analisi possa insistere ora sull’“atto iconico”, ora su una “antropologia della risposta” non modifica, nella sostanza, la volontà comune di guardare alle produzioni visive come a entità dotate, anche se in forme diverse, di un potere e di un’agency che non si esercitano in astratto o idiosincraticamente o soltanto a determinate condizioni (per esempio, quelle della relazione estetica), ma che sono parte integrante dell’esperienza visiva, di ciò che, più esattamente, rende tale esperienza una trasformazione di stato, un intreccio complesso di azioni e reazioni, movimenti e passioni.

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1.6 I confini del visibile Come vedremo meglio nel Capitolo 2, l’attentato dell’11 settembre non ha scatenato soltanto uno scontro tra religioni e culture (islam e cristianesimo, Oriente e Occidente) ma anche una guerra di immagini: il visivo vi ha infatti giocato un ruolo strategico sia in quanto sfondo concettuale e riferimento interpretativo (l’11 settembre come “spettacolo”) sia in quanto dimensione comunicativa, linguistica ed esperienziale. Ciò che ancora oggi, dal punto di vista visuale, sorprende maggiormente dell’attacco e del crollo delle Torri Gemelle – il momento più iconico di quel giorno di attentati – è proprio lo svolgimento narrativamente perfetto degli eventi, un’ora e quaranta minuti circa scanditi da una successione regolare di “colpi di scena” inframezzati da una serie di “pause riflessive”. Il primo di questi innesca, ex abrupto, il “racconto”, e coincide con lo schianto del volo American Airlines 11 contro la Torre Nord del World Trade Center, nel cuore di Manhattan: sono le 8.46 del mattino e non c’è televisione statunitense che non apra immediatamente un collegamento in diretta per seguire gli effetti di quello che viene dapprincipio interpretato come un incidente gravissimo ma tutto sommato non impossibile (nei pressi di New York si trovano ben tre aeroporti). Così, se di quel primo schianto non esistono immagini chiare, del secondo, una ventina di minuti dopo, alle 9.03, esistono al contrario innumerevoli testimonianze. Non solo: l’urto del volo United Airlines 175 contro la Torre Sud accade in diretta, così che quelle testimonianze finiscono per essere del tutto inseparabili dalle reazioni sconvolte e incredule dei giornalisti che stanno aggiornando gli spettatori sul primo schianto. A quel punto, la narrazione cambia direzione, la pista dell’incidente o dell’errore umano viene rapidamente esclusa e comincia a farsi strada l’ipotesi dell’attentato terroristico, corroborata, alle 9.37, dal dirottamento del volo American Airlines 77 sul Pentagono e dallo schianto, alle 10.03, del volo United Airlines 93 nei pressi di Pittsburgh (dirottato dai passeggeri, quel volo era probabilmente destinato al Campidoglio o alla Casa Bianca). Poco prima, alle 9.59, cinquantasei minuti dopo l’impatto dell’aereo, la Torre Sud collassa su sé stessa (sempre in diretta televisiva), generando un’impressionante nuvola di fumo e detriti, seguita alle 10.28 – a quel punto inaspettatamente, visto che l’impatto è di un’ora e quarantadue minuti prima – dalla Torre Nord. Uno sbriciolamento identico, un replay e, insieme, un remake, centodieci piani di vetro e acciaio che implodono e s’accartocciano, polverizzandosi. Da un punto di vista puramente narrativo, il timing degli eventi, come detto, appare perfettamente orchestrato, come perfetta è la loro modulazione per il visivo: due obiettivi che, dai primi anni Settanta, rappresentano l’emblema dell’immagine di New York e del suo skyline, una serie di azioni che mirano a essere il più possi-

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bile visibili (colpire la sommità delle Torri) e a produrre effetti di persistenza visiva (fuoco, fumo, la “nuvola” di cenere ecc.), una “programmazione” che tiene conto della risposta mediale che il primo schianto avrebbe immediatamente innescato. Affermare che l’11 settembre è stata una tragedia visiva, compiuta e vissuta nel visivo è dunque incontestabile. Ma una simile conclusione rischia in parte di sottostimare o marginalizzare un aspetto cruciale: questa tragedia così potentemente iconica e mediale è stata pianificata e “messa in scena” da un’organizzazione terroristica, al-Qaida, appartenente – poco importa, in questo contesto, se in una versione particolarmente ortodossa – alla cultura islamica, ossia una cultura tradizionalmente e rigorosamente aniconica, “senza immagini” (più esattamente, come vedremo, senza un certo tipo di immagini). Detto altrimenti: ciò che fino a quel momento l’Occidente ipervisuale aveva saputo soltanto immaginare all’interno di qualche blockbuster ad alto tasso di effetti speciali, veniva adesso tradotto in realtà da un manipolo di terroristi “ispirati” da una religione che ha sempre guardato alle immagini e, in particolare, alle rappresentazioni figurative e mimetiche, in modo problematico, circondandole di tutta una serie di divieti e limitazioni (per una sintesi, di veda Bettetini, 2006: 42-57). Anche negli anni successivi, durante quella che prese il nome di Guerra al terrore, il movimento guidato da Osama bin Laden (come pure l’Isis, lo Stato Islamico), avrebbe dimostrato una notevole perizia nella mediatizzazione delle proprie azioni e del proprio messaggio. Lo rivela, per esempio, la costruzione dell’immagine dello stesso bin Laden, vera e propria icona prodotta attraverso un’attentissima progettualità e una delega strategica all’immagine video e fotografica: «Egli è stato anzitutto quel che di lui abbiamo potuto vedere, ovvero le sue immagini» (Donghi, 2017: 136). Ma lo rivela anche il caso, assai problematico (vi torneremo tra poco), dei videotestamenti degli shahid, i martiri o “uomini bomba” della jihad, che con la loro rappresentazione frontale e “fotografica” svolgono un ruolo mediaticamente determinante sia come arma offensiva sia come strumento di proselitismo all’interno del mondo arabo (Ivi: 157-177). Aniconismo, in effetti, non significa incapacità di usare le immagini, i media e le tecnologie visive in senso di volta in volta attuale né, tantomeno, il divieto che lo genera (dalle motivazioni e dalla natura assai variabili) può essere interpretato come un indice del grado di modernità di una società. Nondimeno, nella tradizione occidentale, fortemente iconica, l’idea di aniconismo ha finito molto presto per significare proprio questo, in un movimento di restringimento della semantica del termine e di colpevolizzazione dell’atteggiamento cui esso rimanda. Come chiarisce David Freedberg, infatti, «l’uso del termine “aniconismo” – e quindi il concetto stesso – è variegato: va dall’implicazione di un’assenza tout court delle immagini, a quella delle immagini figurative, e poi, con un passaggio apparentemente arbitrario, all’astensione dalla raffigurazione di ciò che si considera spirituale» (Freedberg,

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1993: 87). In effetti, il termine anikonisch è utilizzato originariamente da Johannes Adolph Overbeck, alla metà dell’Ottocento, per dare conto dell’assenza di rappresentazioni figurative nell’arte greca delle origini dovuta all’impossibilità, non al divieto, di rappresentare il divino in quanto non dotato di forma umana (Gaifman, 2017). In ogni caso, il momento finale rimarcato da Freedberg, in cui si sottolinea come una qualità neutra, la non rappresentabilità, si trasforma in una posizione dogmatica, è all’origine dell’ipoteca culturale e morale che ancora oggi pesa sull’aniconismo e, nel quadro più ampio e non meno antico dello scontro tra cristianesimo e islamismo, della trasformazione dell’astensione dalle immagini – più precisamente, dalla loro fabbricazione – in un sintomo del grado di sviluppo della spiritualità di una cultura e, più in generale, dell’esercizio della libertà tout court. L’interdizione dalla raffigurazione visiva, indipendentemente dai contenuti o dai soggetti cui si applica, evoca infatti, su un piano non soltanto metaforicamente affine, oscurantismo, e poco importa che in realtà le società aniconiche siano sempre parzialmente aniconiche e che l’aniconismo, come nel caso dell’islamismo e dell’ebraismo, non sia soltanto la conseguenza diretta di una posizione nei confronti delle immagini ma dipenda anche dalla dialettica tra queste e altre forme di rappresentazione, prima tra tutte la parola scritta (islamismo ed ebraismo sono “religioni del Verbo”). Senza entrare ulteriormente nel merito di una questione assai complessa, quanto fin qui detto consente di puntualizzare un terzo aspetto che occorre portare in primo piano nella riflessione sull’agency: il potere delle immagini e le loro condizioni di possibilità. Nel paragrafo precedente abbiamo insistito sul fatto che tale potere dipende o è legittimato anche da ciò che in un dato momento una società pensa e crede, in forma esplicita o irriflessa, in merito alle produzioni visive, e dal ruolo che, di conseguenza, attribuisce loro, dando in qualche modo per scontato che a cambiare, nel tempo e nello spazio, siano essenzialmente la natura e lo statuto delle immagini stesse, la cui esistenza parrebbe invece, in tutti i casi, assicurata, o data per scontata o, al limite, negata in forma cannibale dall’immagine stessa. Un’evidenza per certi versi implicita nell’idea di visual turn che, ricorda Nicholas Mirzoeff, coincide non soltanto con la «tendenza moderna a raffigurare o a visualizzare l’esistenza», ma dà conto di una più radicata e antica volontà di «visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive» (Mirzoeff, 2002: 33, 37). L’idea di aniconismo, assunta nella sua accezione neutra e letterale di non iconico, ci ricorda al contrario che l’immagine può essere non soltanto “debole” (Mitchell) o “indifferente” (Mondzain) o “cannibale” (Bohem), ma anche, più radicalmente, assente o non del tutto formata. Per articolare meglio la questione dal punto di vista teorico, generalizzandola rispetto ai contesti storici, culturali, religiosi ecc., potremmo dire che un determinato sistema sociale, tanto in sede di riflessione teorica quanto attraverso l’esperienza

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diretta, non stabilisce soltanto che cosa sono le immagini e che cosa possono fare, reagendo a esse e alla loro “differenza”, ma definisce anche, in forma esplicita o implicita, dei confini di visibilità, ossia la possibilità stessa che il visibile e, a monte, il pensabile, si facciano immagine, si inscrivano cioè materialmente su qualche tipo di supporto. Come ricorda Belting ne I canoni dello sguardo (2010) – un’esemplare ricerca sulla prospettiva e sui rapporti tra mondo musulmano, Rinascimento italiano, storia della scienza e storia dell’arte –, l’aniconismo del primo è, più esattamente, una forma particolare di articolazione della dialettica tra materialità e immaterialità: nella cultura araba, infatti, sulla base di una connotazione del concetto di immagine del tutto diversa da quella occidentale, «le immagini erano circoscritte entro l’ambito della mente e pertanto non potevano prendere forma o essere duplicate in rappresentazioni fisiche» (Belting, 2010: 14). Aniconismo, dunque, non significa semplicemente “assenza di immagini” o, peggio ancora, indifferenza nei loro confronti. Esso traduce, al contrario, un orientamento ben preciso fondato essenzialmente su due aspetti: da un lato, la volontà di mantenere delle porzioni di esistenza e pensiero nell’invisibilità e nell’immaterialità; dall’altro lato, la diffidenza – per impiegare un termine volutamente generico che, nel corso della storia, si è precisato in direzioni molteplici – nei confronti della rappresentazione e, in particolare, della rappresentazione figurativa, basata cioè su un principio di somiglianza. Due aspetti profondamente intrecciati ma non del tutto sovrapponibili, poiché il ricorso a un regime di visibilità diverso da quello mimetico non è comunque sufficiente a revocare un’eventuale interdizione alla visibilità tout court. Come si vede, inoltre, e non diversamente da altri atteggiamenti “negativi”, primi tra tutti l’iconofobia e l’iconoclastia, l’aniconismo, anche nella sua versione più neutra e laica, porta sempre con sé, in misura variabile, una “preoccupazione” proprio nei confronti del potere delle immagini, rispetto al quale si gioca non soltanto la strategia (dall’estensione variabile) del divieto, ma anche quella della sottrazione: sottrarre alla raffigurazione certi campi di traduzione e realizzazione, ossia certi privilegi di “governo” del visivo. In questo senso, l’aniconismo non si oppone frontalmente all’iconismo, ma ne rappresenta un componente integrante: una condizione sempre pronta a emergere nella gestione sociale del visibile e dell’invisibile, nell’articolazione delle condizioni di esistenza e possibilità dell’immagine e, di conseguenza, del suo potere di far vedere e di far fare, prima ancora di qualsiasi processo sociale. L’esempio già evocato degli shahid costituisce un significativo spostamento all’interno di questa dialettica: «Quello del suicidio non è l’unico tabù che lo shahid sfata con la sua testimonianza: la cultura visuale dell’Islam – che, vale la pena ricordarlo, poggia su presupposti fondamentalmente aniconici – concepisce, infatti, la produzione di soli codici espressivi che non abbiano attinenza con i modelli della realtà,

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stigmatizzando come empio il gesto che mira a creare un’immagine ispirata a una forma vivente […]. Si ha allora il sospetto che lo shahid infranga un altro precetto islamico quando si adopera per registrare il suo videotestamento» (Donghi, 2017: 92). Ma si pensi, sempre in rapporto all’11 settembre, anche alla quarantena imposta dagli Stati Uniti a certi tipi di immagine e, in particolare, ad alcune rappresentazioni cinematografiche evocatrici, in modo diretto o indiretto, degli attacchi alle Torri Gemelle. Interi film messi in stand by – per esempio, Danni collaterali (Collateral Damages, Andrew Davis, 2002) o Bad Company – Protocollo Praga (Bad Company, Joel Schumacher, 2002) – a causa delle loro trame centrate su un attacco terroristico, altri cancellati (un remake di True Lies), altri ancora ritoccati per rimuovere o sostituire alcuni elementi visivi (senza contare, ovviamente, i cambiamenti apportati alle produzioni in corso): le Torri Gemelle, prevedibilmente, scomparvero da un gran numero di film, così come si cercò di correggere o minimizzare, intervenendo su dialoghi e immagini, i riferimenti a bombe, crolli di grattacieli, attentati terroristici ecc. Questa operazione, che interessò retrospettivamente anche film “insospettabili”, toccò, più in generale, la rappresentazione della violenza, compresa quella ordinaria: celebre, in questo senso, il caso di E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, Steven Spielberg, 1982), tornato nelle sale nel 2002 per il quarantennale, in cui le armi degli agenti furono sostituite da più innocui walkie-talkie e il commento della madre di Elliot al costume di Halloween del figlio venne corretto da “You’re not going as a terrorist” in “You are not going as a hippie”. Complessivamente, un esempio di (temporanea) proibizione della fabbricazione di certi tipi di immagini e di contrazione dei limiti del visibile allo scopo di proteggersi dalla rappresentazione di contenuti comunque socialmente presenti, anzi onnipresenti. L’immagine, con la sua esplicitezza referenziale e il suo “potere di impressione”, costituisce una traduzione avvertita, in quel momento, come intollerabile, irrispettosa, dannosa, in breve, troppo simile alla realtà: l’aniconismo si precisa così ulteriormente nei termini di un programmatico non far (ri)vedere e di una consapevole tutela dallo “spettacolo” del visivo. E se all’apparenza un simile atteggiamento sembra rimandare a una classica reazione iconofoba, di “paura per le immagini”, esso in realtà si spiega piuttosto sulla base di un atteggiamento opposto, quello di un eccesso di “attrazione” nei confronti delle immagini. Tuttavia, al di là degli aspetti “passionali”, che tendono storicamente a intrecciarsi e a confondersi, ciò che appare importante osservare con riferimento alla nostra riflessione è quel che essi implicano, ossia una costante mobilità dei confini del visibile, del darsi a vedere, in quanto picture, delle immagini (nel senso, già ampiamente discusso, di images). Oggi, al vaglio di un’analisi meno umorale, appare evidente come una simile operazione di ripulitura è stata una decisione confusionale, che testimonia, tra le altre cose, del disagio cui il rapporto con le immagini può condurre quando viene

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perfettamente compresa l’intensità della loro azione ma fraintese, del tutto o in parte, le modalità di questa stessa azione, e quindi le dinamiche dello scambio e delle responsabilità, tra rappresentazioni visive, esseri umani e contesto culturale. Vale dire, proprio come rivela la società statunitense non certo per la prima volta in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle, quando alle immagini si attribuisce, in modo del tutto lineare, troppo: troppa capacità di offendere, danneggiare, pervertire la realtà e gli individui (si pensi, per esempio, all’onnipresente dibattito in merito a un possibile rapporto di causalità tra violenza rappresentata, in film e videogiochi, e violenza reale) o, viceversa, troppa capacità di curare, riparare, migliorare la realtà e gli individui (si pensi al valore sacrale che circonda la bandiera americana, e all’uso che ne è stato fatto proprio in rapporto all’11 settembre e di cui si discuterà nel Capitolo 2). Simili atteggiamenti pro o contro il visivo sono dunque accomunati dal riconoscimento di un’efficacia dell’immagine tale da poter modificare l’ordine della realtà e dalla piena consapevolezza della “seduzione” che le immagini possono esercitare. In tale contesto, il tema del potere – sia esso quello di accrescere la conoscenza del mondo sensibile, di erigere dei simboli collettivi, di ingannare circa la realtà o di instillare comportamenti insani – assume un ruolo cruciale nell’interpretazione dell’immagine. L’aniconismo, come detto, non solo non cade al di fuori di questa lettura passionale (Mondzain 2017), ma in quanto negazione ab origine della produzione di certi tipi di immagine intercetta due aspetti fondamentali e, appunto, originari, come quelli dei confini del visibile – della sua estensione in rapporto al dicibile e al pensabile –, e del ruolo attribuito all’immagine figurativa, ossia alla riproduzione mimetica della realtà (e quindi, più in generale, alla mimesi in quanto regime rappresentazionale). Per la società occidentale, che ha fatto non dell’immagine ma, più radicalmente, della visualizzazione il suo paradigma interpretativo, espressivo e comunicativo, sembra quasi impensabile ragionare in termini di confini, confinamento e quarantene in rapporto al visibile. Nondimeno, l’atteggiamento aniconico, come abbiamo visto, è sempre pronto a (ri)emergere, anche se solo localmente e temporaneamente, e pur nel mutare delle condizioni storiche e ideologiche, rilancia un tema essenziale come quello dell’incapacità di riconosce che cos’è l’immagine nella realtà in quanto immagine, o, da un altro punto di vista, il tema della negazione dell’immagine in quanto dispositivo. Una «negazione della rappresentazione», per usare la definizione di Dominque Chateau, studioso francese che ha indagato questa specie di impasse a partire dall’episodio dell’attentato terroristico, del gennaio del 2015, contro la sede parigina della rivista satirica “Charlie Hebdo” rivendicato da al-Qaida: un episodio drammatico che rivela, tra le altre cose, come l’immagine, per quanto potente e, anzi, proprio a causa della sua potenza, sia sempre suscettibile di perdersi nella realtà. In rapporto alla questione generale dell’iconi-

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smo/aniconismo, poi, tanto la questione del potere quanto questa specie di fragilità – per cui le immagini sono state a lungo e di frequente fraintese o, appunto, negate nella loro essenza – ci ricordano un ultimo aspetto di primaria importanza. L’apparire dell’immagine e, più a monte, la sua stessa possibilità di esistenza sono sempre, anche all’interno delle società più visuali e iconiche, il risultato di una duplice legittimazione culturale e cognitiva: di ciò che, della realtà, può farsi immagine, e di ciò che l’immagine, in quanto immagine, può fare alla realtà.

1.7 Operational images Fin qui abbiamo discusso di immagini che rappresentano – in forme iconiche oppure no – aspetti del mondo, e che nel farlo stringono una relazione con noi, divenendo nostri interlocutori e modificando temporaneamente alcuni tratti della nostra soggettività (a livello di sensi, cognizione, affetti). La loro funzione artistica, informativa, di intrattenimento si dispiega in forma agentiva, ma sempre all’interno del regno del simbolico, dato che queste immagini non provocano un cambiamento di stati di cose solide, per così dire, ma solo un cambiamento delle idee attraverso cui li si comprende (sono meta-interventi sul reale). È però fondamentale concludere presentando anche un altro genere di pictures, per la quali la agency diventa più chiaramente azione, e la loro relazione con noi si traduce in un concreto assisterci nell’operare sul mondo. Le immagini operative (o operazionali, come spesso le si definisce utilizzando un anglicismo) si distinguono da tutte le altre perché non sono state create «a fini edificanti o istruttivi», scrive il regista e videoartista tedesco Harun Farocki, che ha il merito di averle individuate per primo, ma per svolgere un compito preciso e assai concreto (Farinotti, Grespi, Villa, 2017: 118). L’uso delle immagini come strumenti, come co-operatori in un determinato processo tecnico non è una novità dell’era digitale, tuttavia soltanto la nuova materialità algoritmica delle icone del nostro tempo permette a questo genere di oggetti visivi di apparire pienamente e acquisire una propria “origine” (secondo quel modello anacronistico caro alla cultura visuale per cui l’origine di un fenomeno può essere collocato anche secoli dopo la sua prima occorrenza storica; è la questione genealogica, per cui si veda Didi-Huberman, 2007: 13-15). Così le immagini operative si affacciano sulla scena del mondo durante la Prima guerra del Golfo, anche se esistono da secoli, soprattutto in ambito scientifico, in forma di tracciato o di schema che agevola lo svolgimento di alcuni compiti umani particolarmente complessi (naturalmente, la domanda archeologica rimane aperta: possiamo risalire fino alla preistoria, immaginando che ac-

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canto alle figure di mani sulle pareti delle caverne, altri segni visivi operassero, facilitando la vita a uomini e donne del Paleolitico?). Farocki, che ha sempre lavorato, al pari dei teorici della cultura visuale, sulla non neutralità dell’atto del vedere, riconfigurato di continuo dalle tecnologie, ricava il concetto di immagini operative da un oggetto visivo radicalmente nuovo che appare davanti ai nostri occhi nel 1991, durante la diretta televisiva da Baghdad della guerra appena iniziata: un video del bombardamento di un obiettivo strategico dal punto di vista dell’arma che lo sta eseguendo. L’annuncio dell’offensiva statunitense che stava per essere sferrata si incentrava sull’espressione “armi intelligenti” e sull’“illustrazione” di questo concetto attraverso la ripresa in soggettiva della traiettoria di un missile in procinto di schiantarsi contro il ponte iracheno. L’intelligenza delle armi di nuova generazione si riduceva dunque alla loro capacità di percepire il mondo ed esercitare uno sguardo mirato, entrambe garanzie che esse avrebbero colpito esattamente il bersaglio senza margini di aleatorietà. Nel contempo, la strana inquadratura del bombardamento diceva anche questo: ciò che stavamo vedendo era un’azione, non una rappresentazione, e l’immagine aveva occhi e intenzioni; forse agli occhi potevamo essere già abituati, ma ora a essi si aggiungeva anche un corpo in movimento, quello del missile, sicché l’antropomorfizzazione diveniva completa. Con essa, il concretizzarsi fin troppo letterale di tutto ciò che abbiamo affermato in questo capitolo: da interlocutore degli umani, l’immagine diveniva il suo surrogato, l’attante di una catena di operazioni sempre più automatizzate. Andando più in profondità, notiamo che l’immagine in questione era in realtà doppia, cioè composta da due frame, identici nello schema ma molto diversi nella materia e nello spirito: uno in bianco e nero e a bassa risoluzione, ottenuto da una comune videocamera (Figura 1.18), l’altro, a colori, reso attraverso il software incluso nella bomba (Figura 1.19). Questa coppia di inquadrature apre il film-saggio di Farocki War at a Distance (2003) e introduce l’immagine operativa, un’immagine necessaria per compiere una determinata azione, in questo caso distruttiva. I due frame sono distinti perché provengono da videocamere diverse – la prima posta su un elicottero o un aereo, la seconda sulla testata del missile – però sembrano gemelli perché entrambi, per ragioni diverse, si distruggono al momento dell’impatto (quello della videocamera perché il diaframma non è in grado di ricalibrare, quello generato dal missile perché il suo supporto si schianta sul bersaglio). Il punto è che le due inquadrature associate rappresentano anche il processo duale che avviene all’interno della “bomba intelligente”: infatti il suo software immagazzina dati ottici, come una comune videocamera, ma poi li confronta con i calcoli memorizzati nel proprio database, i quali – per una scelta specifica, ma senza che ce ne sia necessità per la riuscita dell’operazione – vengono visualizzati nell’immagine schematica del ponte a colori; quando lo schema generato dal database e la ripresa video dal vivo coincidono, avviene il riconoscimento,

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Figure 1.18 e 1.19 Fotogrammi da War at a Distance (Erkennen und Verfolgen, Harun Farocki, 2003).

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e di conseguenza viene intrapresa l’azione di guerra (titolo originale del film di Farocki è infatti Erkennen und Verfolgen, “Riconoscere e perseguire”). La recognition (che in inglese significa sia “riconoscimento” sia “ricognizione” in senso militare, ambito d’origine del termine) è l’operazione chiave della macchina, che non sta propriamente a vedere, bensì a immagazzinare dati e a sovrapporre pattern. Dunque, quando nel film vediamo affiancate l’immagine video e quella computer grafica, il nostro occhio compie un processo di confronto analogo a quello che avviene all’interno del processore. Soffermiamoci sull’apparizione della seconda immagine, che abbiamo detto non essere così necessaria per il buon esito dell’azione di guerra. A essere superflua è la sua apparenza iconica, che infatti non le appartiene geneticamente (o sarebbe meglio dire ontologicamente), ma viene soltanto simulata. Volker Pantenburg – acuto commentatore del lavoro di Farocki – scrive che questa immagine è poco più che «un gesto di cortesia fatto dalla macchina all’uomo» (Pantenburg, 2016: 49). Dunque i dati estratti dal mondo attraverso i sensori del missile potrebbero anche prendere un’altra forma, non necessariamente visiva, e di conseguenza queste nuove immagini sono del tutto accessorie, come chiarisce l’artista Trevor Paglen, commentando il saggio epocale di Farocki. Le macchine non hanno bisogno di simpatiche frecce gialle e box verdi in riprese video sgranate per calcolare traiettorie o riconoscere corpi e oggetti in movimento. Quei segni sono a beneficio degli umani, intendono mostrare agli umani come una macchina vede. (Paglen, 2014: 3, traduzione nostra) In realtà, nel caso specifico delle immagini del 1991, la resa iconica a vantaggio degli umani si spiega con le strategie di comunicazione della guerra, che vuole presentarsi come un’impresa chirurgica, capace di evitare inutili spargimenti di sangue: l’immagine in computer grafica agisce anche nel senso più classico del termine, perché cerca di convincerci di quanto l’approccio statunitense al conflitto sia rispettoso dell’umano e ridotto al minimo della distruttività. Qui la resa visiva è una strategia retorica con un’efficacia specifica, che tuttavia resta disgiunta dalla finalità dell’operazione militare, per nulla dipendente dalla versione iconica dei calcoli attraverso cui si compie. Ciò è vero per moltissime azioni oggi svolte dalle macchine attraverso dati ottici quasi mai resi in forma visiva: per questa ragione l’apparenza delle immagini è diventata una questione specifica (ribattezzata per esempio «fanerologia»; Casetti, Pinotti, 2020: 194), mentre i visual culture studies si riconfigurano sempre più come studi sui processi di visualizzazione. Queste visualizzazioni algoritmiche (Eugeni, 2021: 209) sono a malapena definibili immagini: derivano da un insieme di dati ricavati da misurazioni in parte ottiche, in parte termiche, acustiche, magnetiche (si veda il concetto di postimmagine nel Capitolo 2). Se destinate solo al funzionamento di altre macchine, e dunque

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non in prima istanza agli umani, la loro traduzione in forme visibili è inutile e il processo dell’image making resta in sospeso. La novità del digitale consiste proprio nella possibilità di questa sospensione, diretta conseguenza del processo tecnico, in sé meno nuovo di quanto si possa pensare. Infatti, secondo il teorico dei media Flusser – uno dei maggiori riferimenti di Farocki – tutte le immagini tecniche sono prodotte in due fasi (o attraverso due gesti), ma soltanto il digitale rende il secondo gesto un semplice «atto di cortesia» rivolto agli umani. In L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica (1935), il filosofo Walter Benjamin pensava l’immagine tecnica in termini di riproducibilità meccanica e crisi dell’originale auratico, mentre Flusser la descrive come il risultato di un processo di uniformazione iniziato con la fotografia. Quest’ultima nasce come gesto di assemblaggio di microframmenti del mondo, particelle luminose che stanno nel regno del possibile e dell’astratto: esse vengono riunite, addensate, collegate le une alle altre e trasformate in una superficie apparentemente compatta. È più facile per noi riferire questa descrizione ai pixel o alle sgranature delle immagini elettroniche piuttosto che alla pienezza e alla matericità della fotografia su pellicola, ma ciò che interessa Flusser non è la qualità della visualizzazione, bensì il momento in cui essa è divenuta una tappa ben precisa del processo dell’image making. Anche la fotografia su pellicola, infatti, si basava su due momenti separati: la raccolta-archiviazione di tracce e la loro stampa. Il negativo non veniva esposto e contemplato (al di là di alcune scelte avanguardiste) e serviva un’uniformazione, un trattamento, una resa delle tracce raccolte perché il nostro occhio potesse riconoscere l’immagine fotografica e usarla come tale. Questo gesto di recupero del concreto dall’astratto, dell’attuale dal virtuale, che Flusser definisce come «uni-formazione», caratterizza tutte le immagini tecniche. Uni-formare significa capacità di ritornare verso il concreto a partire dall’universo disgregato in elementi puntuali a causa dell’astrazione. Perciò sostengo che la capacità di uni-formare prende corpo a partire dal momento in cui sono state inventate le immagini tecniche. Solo da quando abbiamo le foto, i film, i televisori, i video e gli schermi del computer noi sappiamo che cosa significa uni-formare. (Flusser, 2009: 47) Le immagini tecniche sono superfici uniformate, costruite a completamento del gesto moderno di scomposizione del mondo in particelle, non importa di che tipo (se fotoni o altro; si veda il Capitolo 2). La novità introdotta dalle immagini algoritmiche tipiche della machine vision (Somaini, 2020), invece, consiste nella totale indipendenza delle due fasi che compongono il processo della loro produzione. La loro esistenza e funzionamento in forma di mero dato, o agglomerato di dati, è perfettamente sufficiente in sempre più numerosi contesti della società tardocapitalistica (dalle tecniche di tracciamento dei corpi ai metodi di cura e fisioterapia, dal marketing globale

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al warfare), e il loro manifestarsi in forma di oggetto visibile è sempre più raro. È questa totale autonomia delle due fasi a essere nuova e radicalmente diversa rispetto al rapporto negativo-positivo fotografico. L’archiviazione di tracce sul film di celluloide (cioè entro un oggetto pienamente percepibile con i sensi, soprattutto vista e tatto) è diversa dall’archiviazione di dati in stringhe di numeri (affronteremo questo tema in dettaglio nel Capitolo 2). Tuttavia, ciò che Flusser sembra voler indicare è che questo movimento di distacco dell’immagine dai sensi o, se si vuole, di disgiunzione fra l’immagine percepita dal vivo, cioè con gli occhi, e la sua memorizzazione finalizzata a farla riapparire, è cominciato con la fotografia, quasi due secoli fa. In conclusione, le immagini algoritmiche sono attrezzi “paradossali” che parlano alla materia del mondo ma non ai sensi umani, diversamente da tutti gli altri utensili di cui la nostra specie si è servita nei secoli, incluse le altre tipologie di immagini operative. Farocki lo sostiene chiaramente citando Roland Barthes che, in Miti d’oggi (Mythologies, 1957), si poneva problemi analoghi a proposito delle funzioni del linguaggio: «Se sono un boscaiolo e mi trovo a nominare l’albero che abbatto», scrive Farocki, «qualunque sia la forma della mia frase io parlo l’albero, e non su di esso. […] Ma se non sono un boscaiolo non posso parlare l’albero, posso solo parlare di esso, su di esso» (Farinotti, Grespi, Villa, 2017: 101). Seguendo Barthes, “albero” è una parola che nel primo caso serve per agire sulla cosa che indica, e trasformarla, mentre nel secondo serve soltanto per descriverla. Come sostiene Pantenburg, in Farocki queste immagini “rozze” e che svolgono un lavoro concreto sono a tratti presentate come un antidoto alle icone retoriche e simulacrali dei media, essendo portatrici di una novità simile a quella introdotta nel secolo scorso dalle immagini filmiche, secondo la nota teoria del cineocchio che dobbiamo a Dziga Vertov. Negli anni Venti, il regista russo esaltava la percezione artificiale del cinema, il cui occhio (kinoglatz) era così penetrante da saper cogliere il ritmo delle cose, e molto altro che sfuggiva ai nostri sensi. Farocki è vicino a Vertov (Foster, 2004), ma non arriva a questa euforia del tecnologico; tuttavia è alla ricerca di una possibile estetica dell’operazionalità, per questo nelle sue opere d’arte utilizza numerose immagini algoritmiche (si pensi anche all’ultima installazione dedicata al videogioco: Parallel I-IV, 2012); egli prova persino a definirne la qualità numerica come espressione di un visibile incosciente (unbewusst Sichtbaren), forse immaginando un possibile aggiornamento, tutto da esplorare, del concetto benjaminiano (e vertoviano) di inconscio ottico. Ma tornando a ciò che ci riguarda più direttamente, le immagini operative non devono essere confuse con quelle più tradizionalmente documentarie, testimoni di situazioni o azioni che avvengono indipendentemente da tutto ciò che si usa per registrarle. Anche se in apparenza documentano la guerra in corso, le soggettive dei missili su Baghdad piuttosto la agiscono, distinguendosi da tutte le forme di attestazione dell’immagine sperimentate nel corso del Novecento.

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La vita sociale delle immagini: agentività, affetto, potere

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