Capitolo
Introduzione
1
1.1 Importanza dell’innovazione tecnologica In molti settori, l’innovazione tecnologica è diventata il fattore determinante del successo competitivo: per la maggior parte delle imprese, innovare è ormai un imperativo strategico, fondamentale per mantenere e acquisire posizioni di leadership nel mercato così come per recuperare condizioni di svantaggio competitivo. Essinor Luxottica, l’azienda italiana al vertice dell’industria mondiale delle montature per occhiali, ha rafforzato le sue competenze tecnologiche e la sua reputazione di impresa innovativa collaborando con Facebook per il lancio dei Ray-Ban Stories, degli occhiali “intelligenti”, presentati al mercato nel settembre del 2021 e testimoni dello sforzo sempre più intenso dell’impresa statunitense di esplorare la frontiera delle nuove tecnologie anche collaborando con partner che operano in settori complementari. Ne riparleremo nel caso alla fine del Capitolo 3. L’innovazione può svolgere un ruolo decisivo anche nei processi di cambiamento strategico e di turnaround di un’impresa. Il lancio nel 2015 della Jeep Renegade è stato uno dei fattori determinanti per la crescita della casa automobilistica Fiat Chrysler Automobiles (FCA), sia per la novità del prodotto sia per le tecnologie innovative impiegate nel processo di produzione. Le competenze e le conoscenze acquisite nel percorso innovativo sono uno dei contributi essenziali che l’impresa italiana ha portato in dote nell’operazione di fusione con il gruppo francese PSA che nel 2021 ha dato vita a Stellantis (si veda il box Un piccolo SUV per conquistare il mondo, sul sito web dedicato al volume). La crescente importanza dell’innovazione è in parte dovuta alla globalizzazione dei mercati; non poche volte, infatti, è la pressione della concorrenza internazionale a imporre alle imprese di innovare in modo continuo allo scopo di produrre servizi e prodotti ad alto grado di differenziazione. Ferrero, una delle imprese leader mondiali nel segmento di business del chocolate confectionery, dove compete con giganti come Nestlé, Kraft, Mars, Hershey’s, ha fondato il suo successo sull’innovazione, l’immagine di marca, l’ampiezza di gamma. Il suo vantaggio competitivo, alimentato dalla riconoscibilità dei suoi marchi, come Nutella, Rocher, Kinder, Tic Tac, è sostenuto proprio dalla sua capacità di rinnovare i prodotti storici e di svilupparne nuovi. Come mostra la Tabella 1.1, ai long-sellers come Mon Chéri e Nutella, introdotti oltre
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2 Capitolo 1 – Introduzione
Tabella 1.1
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Ferrero e la timeline dell’innovazione di prodotto
Anno
Prodotto
Categoria di prodotto
1956 1961 1964 1964 1968 1968 1969 1972 1974 1975 1976 1981 1982 1985 1987 1987 1990 1990 1990 1992 1994 1995 1999 2001 2002 2003 2004 2004 2005 2005 2005 2005 2006 2006 2007 2008 2008 2008 2009 2013 2014
Mon Chéri Brioss Fiesta Nutella Kinder cioccolato Pocket coffee Tic Tac Estathé Kinder sorpresa Kinder brioss Kinder cereali Kinder colazione più Ferrero Rocher Kinder délice Kinder duplo Tronky Kinder fetta al latte Kinder bueno Raffaello Kinder pinguì Kinder paradiso Yoga brioss Nutella & Go Kinder Merendero Kinder Schoko-Bons Happy Hippo Nutella snack & drink Kinder Pan e Cioc Kinder Softy Kinder Choco Fresh Opera mini Maxi King Grand Soleil Kinder bueno white Kinder Garden Pocket Espresso to Go Nutella Snack & Drink Rondnoir Liberty Kinder Happy Hippo Nutella B-Ready
Praline Merendine Merendine Crema di cacao Barrette di cioccolato Praline Pastiglie Tè in brick Ovetti al cioccolato Merendine Fuori pasto dolce Merendine Praline Merendine Fuori pasto dolce Fuori pasto dolce Freschi Fuori pasto dolce Praline Freschi Freschi Merendine Fuori pasto dolce salato Ovetti al cioccolato Ovetti al cioccolato Fuori pasto dolce Fuori pasto Merendine Ovetti al cioccolato Freschi Praline Fresco Dessert Fuori pasto dolce Praline Fuori pasto drink Fuori pasto combo Praline Pastiglie Fuori pasto dolce Fuori pasto dolce
2016
Kinder Ice Cream
Gelati
2017
Kinder cards
2018 2019 2021
Kinder fetta allo yogurt Nutella Biscuits Ferrero Rocher, Ferrero Raffaello
Fuori pasto dolce Freschi Biscotti Gelati (a stecche)
2021
Estathé Ice
Gelati (ghiaccioli)
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Capitolo 1 – Introduzione 3
sessant’anni fa, si affiancano quasi ogni anno nuovi prodotti o nuove versioni che estendono l’ampiezza di gamma con innovazioni di gusto o di formato. Non sempre le innovazioni, pur quando di rottura, incontrano il favore dei mercato, come è accaduto nel caso di Gran Soleil, un dessert “gelato” allo stato liquido, lanciato da Ferrero nel 2006 e ritirato nel 2014, introdotto con l’obiettivo di “affrancarsi” dalla catena del freddo. Molte innovazioni sono indispensabili per adattare i prodotti alle esigenze e alle caratteristiche dei differenti mercati in cui è presente. Altre sono sviluppate per diversificare le attività e per rispondere alle mosse dei concorrenti, come per esempio è accaduto nel 2019 quando Ferrero ha lanciato i suoi biscotti per reagire alla strategia di ingresso di Barilla con il marchio Pan di Stelle nel segmento delle creme spalmabili dominato da Nutella (si veda il box I nuovi biscotti di Ferrero).
Innovazione in Italia I nuovi biscotti di Ferrero La fase di test per i biscotti alla Nutella era durata oltre dieci anni. Dieci anni di ricerca, di studio sul prodotto, di osservazione del mercato. Per accelerare il processo di diversificazione e rafforzare il suo patrimonio di conoscenze in un business di fatto nuovo per l’azienda, Ferrero già da tempo aveva intrapreso una campagna spinta di acquisizioni. Nel 2018, aveva rilevato le attività dolciarie di Nestlé negli Stati Uniti e nel 2019 alcuni brand di biscotti e snack da Kellogg’s, in entrambi i casi acquisendo anche gli stabilimenti di produzione. Sempre nel 2019, da Campbell Soup aveva acquistato la controllata danese Kelsen Group, detentrice del famoso marchio Royal Dansk. Nel 2020 aveva costituito la Fine Biscuits Company, a cui aveva conferito le partecipazioni in Delacre e Kelsen e, nel 2021, The Fine Lab, un centro di ricerca e sviluppo (R&S) dedicato ai biscotti con sede a Bruxelles. Per i Nutella Biscuits, l’obiettivo era ambizioso: conquistare la leadership del mercato. Ferrero per il progetto aveva investito oltre 120 milioni di euro, una cifra senza precedenti per il lancio di un nuovo prodotto. Alessandro d’Este, presidente e amministratore delegato di Ferrero Italia, al Corriere della Sera aveva ammesso che si trattava di “un’enormità rispetto ai
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15 milioni di euro che di solito un nuovo prodotto, considerato di successo, genera all’ingresso sul mercato”. Intanto, una geniale campagna di marketing aveva trasformato il lancio in un clamoroso fenomeno mediatico. A sole tre settimane dal debutto i Nutella Biscuits avevano raggiunto il 16% della categoria di mercato, registrando un fatturato di 8 milioni di euro in ragione dei 2.6 milioni di confezioni vendute per un totale di 57 milioni di biscotti. Talvolta, per evitare accaparramenti, era stato un posto perfino un limite alle confezioni acquistabili da un singolo cliente. La corsa all’acquisto dei primi mesi si rispecchiava nella velocità di rotazione del prodotto. Una rilevazione IRI, società di ricerche, aveva calcolato che i Nutella Biscuits venivano sostituiti sugli scaffali in un tempo 2.2 volte più veloce rispetto agli altri prodotti Ferrero. Un successo di mercato simile a quello della Francia, dove l’azienda aveva già lanciato da qualche mese i suoi biscotti raggiungendo rapidamente la prima posizione nel segmento di riferimento e surclassando il prodotto di punta della categoria. “Ci aspettiamo che Nutella Biscuits diventi il biscotto più venduto
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4 Capitolo 1 – Introduzione
in Italia – aveva dichiarato al Corriere della Sera Alessandro d’Este – la prima referenza in un mercato che vale circa 1.2 miliardi, con una quota tra il 5 e l’8% e un fatturato tra i 70 e i 90 milioni entro i primi 12 mesi, con oltre 25 milioni di sacchetti venduti che entreranno in 7 milioni di famiglie”.
A dispetto dei commenti di molti consumatori, che sui social si lamentavano delle difficoltà di reperimento nei primi mesi e del prezzo eccessivo, alcuni analisti di mercato ponevano in evidenza i contenuti innovativi del nuovo prodotto Ferrero: il formato della confezione, che con i suoi 22 biscotti per 300 grammi di peso andava a frapporsi fra il sacchetto e il tubo; il packaging scelto, una confezione doypack richiudibile per conservare la freschezza dei biscotti, mai adoperata prima dai concorrenti per questo tipo di prodotto; il peso e la forma di ogni singolo biscotto, entrambi maggiori di quelli dei brand competitor come Ringo, Oreo o Baiocchi. Per la nuova famiglia di prodotti, Ferrero aveva progettato internamente la linea produttiva dello stabilimento di Balvano destinato a produrre i biscotti per tutti i mercati europei: “L’abbiamo assemblata pezzo a pezzo – aveva spiegato d’Este in un’intervista a Il Sole 24 Ore – per essere certi che il nostro processo produttivo fosse unico”. Una linea ad altissima tecnologia, caratterizzata da un sistema di intelligenza artificiale con 18 punti di visione installati, così da garantire un controllo capillare della qualità di prodotto, con l’isola “picker” più grande al mondo, dotata di oltre 40 braccia meccaniche, 7 robot e circa 200 motori. “Pesa quanto un Boeing 747 e ci sono voluti 8 mesi per il montaggio” spiegava d’Este, che aveva descritto Nutella Biscuits come “un prodotto super, che cambierà la storia del biscotto in Italia e che promette di diventare un prodotto icona per il Gruppo”.
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La reazione di Barilla, che con il lancio della versione spalmabile dei biscotti Pan di Stelle era ormai diventata una diretta concorrente di Ferrero, non si era lasciata attendere. A gennaio del 2020, era già arrivato negli scaffali della distribuzione alimentare italiana Biscocrema, il nuovo frollino ripieno di crema Pan di Stelle. In ogni caso, il lancio di Nutella Biscuits era stato un vero successo: Ferrero aveva ipotizzato di raggiungere i 25 milioni di confezioni nel primo anno di vendite, ma erano stati superati invece i 47 milioni. Un analista di mercato, Angelo Massaro, direttore generale di IRI, aveva osservato come “il lancio di Nutella Biscuits sul mercato italiano è da considerarsi il più importante nella storia del largo consumo in Italia da quando abbiamo i dati. A un anno dal lancio sul mercato, Nutella Biscuits ha realizzato oltre 141 milioni di euro a sell out, dal lancio al 25 ottobre 2020, con una quota di circa l’8.5% del mercato dei biscotti. Considerato che il mercato dei biscotti in Italia è cresciuto del 13%, o di 185 milioni di euro in valore assoluto, è evidente come la crescita sia stata trainata per oltre il 75% da Nutella Biscuits”. Forte dei risultati raggiunti, Ferrero aveva presentato un nuovo pack di Nutella Biscuits, il tubo, accompagnando il nuovo lancio con una campagna di digital e social marketing strutturata in tre fasi. Nella prima fase di teasing erano state pubblicate sulle pagine social aziendali dei post che annunciavano l’arrivo della nuova confezione. Per la fase vera e propria del lancio, era stato chiesto alla fan-base Nutella di passare il tubo ad amici o persone care con una dedica, ripostando nelle stories del profilo Instagram di Nutella i migliori contenuti user-generated. In questa fase, erano stati attivati anche sei influencer che passandosi il tubo Nutella Biscuits invitavano i propri follower a replicare quel gesto. Infine, nella terza fase, era partita la campagna social e display attraverso una serie di video.
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Capitolo 1 – Introduzione 5
Ben si comprende allora come l’innovazione sia una leva decisiva anche in settori dove sembra rivestire un ruolo solo in apparenza marginale. L’introduzione di nuovi prodotti consente alle imprese di proteggere i propri margini, mentre gli investimenti nell’innovazione di processo si rivelano quasi sempre indispensabili per ridurre i costi. Anche i progressi dell’information technology hanno contribuito ad accelerare i ritmi dell’innovazione: la diffusione dei software per progettare e produrre con l’assistenza del computer (per esempio, le metodologie CAD, Computer-Aided Design, e CAM, Computer-Aided Manufacturing) ha reso più facile e rapido lo sviluppo dei nuovi prodotti, mentre l’introduzione di sistemi flessibili di produzione (FMS, Flexible-Manufacturing System), con il controllo diretto al computer del processo, ha consentito la sostenibilità economica di cicli di produzione sempre più brevi e attenuato l’importanza delle economie di scala nella produzione. Queste tecnologie aiutano l’azienda a sviluppare e produrre più varianti dello stesso prodotto, garantendo una maggiore aderenza alle esigenze di gruppi di clienti definiti con un sempre maggiore grado di dettaglio, così da riuscire a differenziarsi rispetto alla concorrenza. Mentre in passato produrre molte versioni di un prodotto comportava un serio impegno in termini di investimenti e lunghi tempi di conversione degli impianti, le tecnologie flessibili consentono ora alle imprese di passare dalla produzione di un prodotto a quella di un altro pressoché senza interruzioni, adattando i programmi degli impianti in accordo con le informazioni che in tempo reale provengono dal mercato. Le dimensioni, anche se condizionano in molti casi l’esito dei processi di R&S, non sempre sono determinanti. Innovare è soprattutto una questione di atteggiamento. Una piccola impresa italiana, illycaffé, pur operando all’interno di un settore industriale dominato da grandi player come Nestlé o Kraft, è stata in grado di sviluppare almeno tre delle innovazioni radicali che hanno rivoluzionato nel corso dell’ultimo secolo il mondo del caffè. Nel 1934, con l’invenzione della pressurizzazione – un sistema che prevede la sostituzione dell’aria all’interno della confezione con gas inerte ad alta pressione che “imprigiona” gli aromi, fissandoli e proteggendoli a lungo – ha cambiato per sempre il modo di conservare il caffè. Con l’introduzione dell’illetta, la progenitrice delle macchine professionali per caffè, ha reinventato nel 1935 la formula dell’espresso, definendo uno standard di preparazione ancora in vigore (permettendo la diffusione delle macchine per espresso nei bar). Nel 1974, con l’invenzione della cialda in carta, ha sperimentato con successo per la prima volta la soluzione del sistema porzionato, in seguito industrializzato con l’obiettivo di esportare l’espresso nei mercati esteri. Da allora illy non ha mai smesso di innovare, destinando una quota significativa di investimenti alla R&S, con progetti di ricerca che spaziano dalla biologia molecolare alle tecniche di iperinfusione. Quando imprese come Luxottica, Ferrero o illycaffè adottano nuove tecnologie e accelerano il proprio ritmo di innovazione, in realtà elevano per tutti i concorrenti la soglia competitiva e innalzano le barriere all’ingresso: si determina per l’intero settore un balzo in avanti, sollecitando le imprese ad accorciare i cicli di sviluppo e a introdurre con maggiore velocità nuovi prodotti. L’esito finale di tale processo è costituito da una maggiore segmentazione del
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6 Capitolo 1 – Introduzione
mercato e una più rapida obsolescenza del prodotto, il cui ciclo di vita (ossia l’intervallo di tempo tra l’introduzione sul mercato e il ritiro o la sostituzione con un prodotto di nuova generazione) si è ridotto sino ad arrivare a soli 4-12 mesi per il software, 12-24 mesi per l’hardware e l’elettronica di consumo, 18-36 mesi per gli elettrodomestici “bianchi” (frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie). Questo meccanismo stimola le imprese a concentrarsi sempre più sull’innovazione intesa come imperativo strategico: un’impresa non in grado di sostenere rapidi ritmi di innovazione vedrà i propri margini di profitto ridursi inevitabilmente non appena i propri prodotti diventeranno obsoleti.
1.2 Impatto dell’innovazione tecnologica sulla società La spinta all’innovazione, determinando un innalzamento degli standard competitivi in molti settori, ha reso più difficile per le imprese raggiungere il successo di mercato; tuttavia, ha garantito al contempo effetti quasi sempre positivi per la società nel suo complesso. Il progresso tecnologico ha consentito a consumatori di tutto il mondo l’accesso a un’ampia gamma di prodotti e servizi; ha accresciuto l’efficienza della produzione di generi alimentari e altri beni di prima necessità; ha favorito la diffusione di nuove cure mediche in grado di migliorare le condizioni di salute; ha offerto l’opportunità di viaggiare e comunicare con quasi ogni parte del mondo. Per dare un significato reale all’importanza degli effetti dell’innovazione tecnologica sulla società, si veda la Tabella 1.2 che mostra una timeline con alcune delle più significative innovazioni tecnologiche sviluppate negli ultimi dueTabella 1.2 1800
1820
1840
Duecento anni di innovazione tecnologica 1800
Batteria elettrica (pila di Volta)
1804
Locomotiva a vapore
1807
Motore a combustione interna
1809
Telegrafo
1817
Bicicletta
1821
Dinamo
1824
Sistema di scrittura Braille
1828
Altoforno ad aria calda
1831
Generatore elettrico
1836
Revolver a cinque colpi
1841
Pila di Bunsen
1842
Anestesia inalatoria con etere solforico
1846
Gru idraulica
1850
Raffinazione di petrolio
1856
Coloranti artificiali (anilina) (Segue)
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Capitolo 1 – Introduzione 7 (Continua)
1860
1880
1900
1920
1940
1960
1980
2000
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1862
Mitragliatrice
1867
Macchina da scrivere
1876
Telefono
1877
Fonografo
1878
Lampadina a incandescenza
1885
Grattacielo
1886
Automobile con motore a combustione interna
1887
Pneumatico in gomma
1892
Forno elettrico
1895
Macchina a raggi X
1902
Condizionatore d’aria elettrico
1903
Biplano dei fratelli Wright
1906
Aspirapolvere elettrico
1910
Lavatrice elettrica
1914
Razzo
1921
Insulina
1927
Televisore
1928
Penicillina
1936
Computer programmabile
1939
Fissione dell’atomo
1942
Aqua-lung (respiratore subacqueo)
1943
Reattore nucleare
1947
Transistor
1957
Satellite
1958
Circuito integrato
1967
Calcolatrice portatile
1969
ARPANET (precursore di internet)
1971
Microprocessore
1973
Telefono cellulare
1976
Supercomputer
1981
Space Shuttle
1987
Lenti a contatto usa e getta
1989
Televisore ad alta definizione
1990
Protocollo World Wide Web (WWW)
1996
Internet senza fili
2003
Mappa del genoma umano
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8 Capitolo 1 – Introduzione
cento anni. Il lettore provi ora a immaginare quanto differente sarebbe la vita senza queste innovazioni. Un indicatore dell’impatto complessivo dell’innovazione tecnologica è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Il Prodotto Interno Lordo di un’economia è il valore complessivo dei beni e servizi prodotti sul territorio nazionale nell’arco di un anno, misurato al prezzo d’acquisto per il consumatore finale. In una serie di studi condotti negli Stati Uniti presso il National Bureau of Economic Research, è stato dimostrato che il tasso storico di crescita del PIL non poteva essere spiegato esclusivamente con la crescita nell’impiego dei fattori in termini di lavoro e di capitale. Nel 1957, l’economista Robert Merton Solow, in una sua ricerca costruita in base all’analisi del PIL pro capite negli Stati Uniti fra il 1909 e il 1949, ha ipotizzato che il “residuo” statistico, ovvero la componente della crescita non spiegata, era da scrivere al progresso tecnico: era l’innovazione tecnologica ad aumentare la produzione ottenibile da una determinata quantità di lavoro e di capitale. La tesi di Solow non fu accettata subito; molti ricercatori tentarono di spiegare il “residuo” attribuendolo a un errore di misurazione, a una deflazione dei prezzi mal calcolata o a una crescita nella produttività del lavoro. Tuttavia, in nessuna delle nuove ipotesi le variabili aggiuntive introdotte riuscivano a eliminare la componente di crescita residua. A poco a poco, gli esperti dovettero quindi riconoscere che il fattore residuo si spiegava proprio con il cambiamento tecnologico. Nel 1981, Solow ha ricevuto il premio Nobel per l’economia e il fattore residuo ha preso la denominazione di “residuo di Solow”. In realtà, anche se il PIL non sempre è da ritenere un indicatore attendibile del tenore di vita, esso segnala ancora la quantità di beni acquistabili dai consumatori. Pertanto, nella misura in cui i beni migliorano la qualità della vita, possiamo attribuire all’innovazione tecnologica un certo impatto positivo. A volte, l’innovazione tecnologica produce delle esternalità negative. Le tecnologie di produzione possono essere fonte di inquinamento dannoso per le comunità di cittadini che vivono in prossimità delle fabbriche; le tecnologie impiegate nell’agricoltura e nella pesca possono causare fenomeni di erosione, la distruzione di habitat naturali o il depauperamento della fauna oceanica; nella medicina, le tecnologie possono provocare conseguenze impreviste, quali la comparsa di nuove forme batteriche resistenti agli antibiotici, o scatenare dilemmi etici su temi come le applicazioni dell’ingegneria genetica. Tuttavia, nella sua essenza più pura, la tecnologia è conoscenza: una conoscenza che consente di risolvere problemi e di perseguire scopi sempre più ambiziosi. L’innovazione tecnologica può essere definita, pertanto, come la creazione di nuova conoscenza, applicata a problemi di ordine pratico. Talvolta, l’applicazione di queste conoscenze avviene però in modo troppo rapido e impulsivo, senza prestare la dovuta attenzione alle possibili conseguenze o considerare le soluzioni alternative. Sebbene il governo rivesta un ruolo importante negli investimenti per l’innovazione tecnologica, tra i Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), la maggior parte dei fondi per la R&S deriva dalle imprese e, a differenza dei fondi statali, tale quota di investimenti ha registrato negli ultimi anni un rapido aumento.
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Capitolo 1 – Introduzione 9
Il quadro dell’innovazione in Italia, invece, si presenta capovolto: le imprese investono poco e la maggior parte delle risorse finanziarie per la ricerca è di fonte pubblica, come mostra sul sito web il box La tartaruga e le lepri.
1.3 Economia dell’innovazione. Una breve introduzione Molto tempo prima di Solow, la consapevolezza dell’innovazione come fattore chiave dei processi economici e, in particolare, come determinante della “ricchezza di una nazione”, era già presente nell’opera di economisti classici, come Adam Smith. Nell’introduzione alla sua opera più celebre, l’economista e filosofo scozzese distingueva due differenti concetti di innovazione. Il primo richiamava una modalità di innovazione basata sull’esperienza, il secondo si riferiva invece ai processi di innovazione basati sul progresso scientifico. Due secoli più tardi, un economista dell’innovazione svedese, Gunnar Lundvall, ha ribattezzato i due modelli guardando ai processi di apprendimento generati dalle due differenti forme di innovazione: il primo come DUImode of learning (DUI = learning by doing, using and interacting) e il secondo come STI-mode of learning (STI = science, [new] technology, innovation). Scriveva Smith: [Modello DUI] A great part of the machines made use of in those manufactures in which labour is most subdivided, were originally the inventions of common workmen, who, being each of them employed in some very simple operation, naturally turned their thoughts towards finding out easier and readier methods of performing it. Whoever has been much accustomed to visit such manufactures, must frequently have been shown very pretty machines, which were the inventions of such workmen, in order to facilitate and quicken their own particular part of the work. In the first fire-engines, a boy was constantly employed to open and shut alternately the communication between the boiler and the cylinder, according as the piston either ascended or descended. One of those boys, who loved to play with his companions, observed that, by tying a string from the handle of the valve which opened this communication, to another part of the machine, the valve would open and shut without his assistance, and leave him at liberty to divert himself with his play-fellows. One of the greatest improvements that has been made upon this machine, since it was first invented, was in this manner the discovery of a boy who wanted to save his own labour. (Smith, 1776, p. 8) [Modello STI] All the improvements in machinery, however, have by no means been the inventions of those who had occasion to use the machines. Many improvements have been made by the ingenuity of the makers of the machines, when to make them became the business of a peculiar trade; and some by that of those who are called philosophers or men of speculation, whose trade it is not to do anything, but to observe everything; and who, upon that account, are often capable of combining together the powers of the most distant and dissimilar objects. In the progress of society, philosophy or speculation becomes, like every other employment, the principal or sole trade and occupation of a particular class of citizens. Like every other employment too, it is subdivided into a great number of different branches, each of which affords occupation to a peculiar tribe or class of philosophers; and this subdivision of employment in philosophy, as well as in every other business, improves dexterity, and saves time. Each individual becomes more expert in his own peculiar branch, more work is done upon the whole, and the quantity of science is considerably increased by it. (Smith, 1776, p. 9)
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10 Capitolo 1 – Introduzione
Anni dopo, Friedrich List, un economista tedesco che non condivideva l’approccio teorico di Smith e la sua visione liberale dell’economia (definita non senza disprezzo come “cosmopolita”) fu il primo in un celebre saggio del 1841 a ipotizzare per i Paesi con un gap tecnologico e impegnati a rincorrere i Paesi first mover – List aveva in mente il confronto fra la Germania e la Gran Bretagna – un intervento del governo per la creazione di infrastrutture tali da favorire il progresso tecnologico. List, inoltre, richiamando l’importanza “delle forze personali, sociali e materiali attraverso cui le ricchezze vengono prodotte”, identificava nel “capitale mentale” la risorsa chiave da impiegare in tale processo di rincorsa. La teoria neoclassica ha considerato il cambiamento e l’innovazione tecnologica in termini statici: la conoscenza scientifica è esogena e immediatamente accessibile a tutte le imprese in coerenza con la struttura trasparente di un mercato di concorrenza perfetta. Assumendo che in un equilibrio di lungo periodo tutte le imprese sono uguali, si rinuncia al concetto di apprendimento organizzativo: gli attori del mercato hanno una conoscenza perfetta delle informazioni e agiscono con razionalità assoluta. Per i neoclassici la tecnologia è informazione e, di conseguenza, l’apprendimento è acquisizione di informazioni o, al limite, di esperienza. In un mercato dove “le imprese non hanno storia e sono spesso svincolate dal contesto istituzionale o settoriale in cui operano” (Malerba, 2003), l’intervento pubblico rimedia ai market failure attraverso i brevetti e i sussidi alla ricerca. È solo con l’economista austriaco Joseph Schumpeter che la ricerca sui temi dell’economia dell’innovazione si separa dai paradigmi neoclassici per inaugurare una nuova stagione di studi. Schumpeter adotta un approccio dinamico e guarda con particolare attenzione all’innovazione tecnica e ai sistemi tecnologici innovativi. La sua ambizione è collegare le “onde” del cambiamento tecnologico ai cicli di lungo periodo dello sviluppo economico. Nella sua opera principale, Teoria dello sviluppo economico, pubblicata la prima volta nel 1912, l’innovazione viene considerata come il meccanismo principale delle dinamiche capitalistiche: “senza innovazione non c’è capitalismo”, scrive. Nella realtà del sistema capitalista non è la concorrenza di prezzo che conta, ma la concorrenza da parte di nuovi beni, nuove tecnologie, nuove fonti di offerta, nuovi tipi di organizzazione. Si tratta di una concorrenza che comporta vantaggi di costo o di qualità decisivi, che non colpiscono al margine dei profitti e degli output delle imprese esistenti, ma alle fondamenta delle loro possibilità di vita.
È l’innovazione l’unica reale fonte in grado di sostenere la crescita dell’impresa e garantirne il profitto. A muovere tale meccanismo è la figura dell’imprenditore individuale, impegnato sia a “rompere” le regole dell’equilibrio competitivo (come rule-breaker) sia a introdurre innovazioni – nuove “combinazioni” nel linguaggio di Schumpeter – come precursore e anticipatore ( fore runner). È l’innovazione a generare profitti per i “pionieri”. Tuttavia, l’attesa di ritorni superiori attira imitatori, fino a quando la condizione di vantaggio determinata dall’innovazione originale tende a erodersi. Schumpeter, guardando ai processi innovativi, enfatizza la natura di incertezza negli esiti (l’innovazione si può comprendere solo ex post); pone in evi-
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denza come i comportamenti imprenditoriali si discostano dalla nozione di razionalità assoluta delle teorie neoclassiche; osserva che le innovazioni non sono isolate ma si concentrano in determinati settori e in particolari momenti; distingue fra imprese “giovani”, di regola piccole e innovative, e imprese “vecchie”, maggiori per dimensioni che proveranno a sopravvivere attraverso l’imitazione o le innovazioni incrementali. Nel primo Schumpeter, infine, l’innovazione appare come il risultato di una lotta senza tregua fra imprenditori e forme di inerzia sociale, che si oppongono e resistono al cambiamento. Nel 1942, in Capitalismo, socialismo e democrazia, il meccanismo dell’innovazione nel pensiero di Schumpeter cambia di segno. La fonte principale dell’innovazione non è più l’imprenditore eroico ma la grande impresa, dove sono i team di ricercatori e tecnici specializzati raggruppati in dipartimenti di R&S a impegnarsi per lo sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie innovative. E se nel caso dell’imprenditore-innovatore era indispensabile la presenza di banche e istituzioni finanziarie per sostenere i processi di sviluppo, stavolta la grande corporation possiede al suo interno le risorse necessarie. L’evoluzione temporale del pensiero schumpeteriano ha suggerito agli studiosi di distinguere fra una prima fase (Schumpeter Mark I), con l’imprenditore e la piccola impresa protagonisti dello sviluppo innovativo, e una seconda fase (Schumpeter Mark II), dove è invece la grande impresa monopolistica il motore dei processi di innovazione. Il salto di prospettiva, come vedremo anche nei Capitoli 10 e 14, si comprende considerando i differenti scenari storici e geografici che fanno da sfondo alle riflessioni dell’economista. Quando Schumpeter cominciò a studiare i processi innovativi all’inizio del Novecento, era quasi naturale concentrarsi sull’azione dinamica del singolo imprenditore, sulla sua opera di “distruzione creatrice” (“un processo di mutamento industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, incessantemente distruggendo quella vecchia e creandone una nuova. Il processo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo”). Solo più tardi, come racconta Alfred Chandler nelle magnifiche pagine dedicate alla storia dell’impresa moderna, negli anni Venti e Trenta, andarono a diffondersi, con la crescita delle dimensioni aziendali, i dipartimenti di R&S nelle strutture funzionali della grande impresa industriale. E, come inevitabile conseguenza, anche il focus di indagine di Schumpeter, che intanto con l’avvento del nazismo si era trasferito negli Stati Uniti per insegnare a Harvard, si modificò, concentrandosi sul ruolo delle grandi corporation nell’alimentare il cambiamento tecnologico e l’innovazione. La lezione di Schumpeter non solo ha lasciato aperta la questione della relazione fra dimensione di impresa e capacità di innovazione, ma ha suscitato molti altri temi di ricerca, guidando di fatto la prima stagione di studi di economia dell’innovazione. Fra i temi, per esempio, che in qualche modo derivano dal suo pensiero, vi è la questione sui fattori di origine dell’innovazione. Per Schumpeter il ruolo-chiave risiedeva nell’offerta, poiché i consumatori e gli utilizzatori avrebbero assorbito le innovazioni proposte da imprenditori e imprese innovative. Molti studi successivi, però, a partire da quelli di Schmookler (1966) ribaltarono la prospettiva ipotizzando che, al contrario, lo stimolo maggiore ai
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processi innovativi provenisse dalla domanda dei consumatori e che fossero proprio le condizioni della domanda a influire sugli investimenti in R&S. In particolare, Schmookler fu tra i primi a osservare le differenze concettuali fra la tecnologia di prodotto, intesa come conoscenza sulle modalità di creare o migliorare un prodotto, e la tecnologia di produzione, come conoscenza sui modi di produrlo, aprendo il campo alla distinzione fra innovazione di prodotto e innovazione di processo che avrebbe segnato la ricerca in anni futuri. Studi empirici successivi hanno ridimensionato i risultati di Schmookler, dimostrando sia l’influenza del progresso tecnologico e scientifico sul grado di innovatività delle imprese sia l’esistenza di una relazione fra struttura del mercato e innovazione. Ormai da tempo la letteratura converge sull’ipotesi di un interplay, una relazione di reciprocità fra la pressione della domanda (demand pull) e la spinta della tecnologia (technology push) nel determinare e guidare – con effetti variabili a seconda del settore, della fase evolutiva della traiettoria tecnologica, della natura della conoscenza – i processi innovativi. Coerenti con tale visione appaiono, in tempi successivi, sia il modello a catena sviluppato da Kline e Rosenberg (1986), dove agiscono tanto le forze della domanda quanto fattori di offerta nella diffusione della conoscenza scientifica, in una prospettiva macro, sia i processi di innovazione collaborativa fra impresa e utilizzatori, in una prospettiva micro. Il modello Chain-Link di Kline e Rosenberg, in particolare, ha messo in discussione per i suoi limiti concettuali l’approccio lineare basato sull’assunzione che l’innovazione equivalesse alla ricerca applicata. Secondo il modello lineare, a lungo adoperato come modello di innovazione tecnologica, il processo comincia con una fase di ricerca di base e prosegue con la ricerca applicata e lo sviluppo, prima di avviare la fase di produzione e, infine, di commercializzazione. In tale rappresentazione del processo innovativo, come ben si comprende, la sequenza in fasi è determinata con chiarezza, i confini fra i differenti stadi del percorso sono evidenti, la direzione è unica. Kline e Rosenberg osservarono però che quel modello raffigurava una catena di causalità che si rintracciava raramente: solo pochi casi di innovazione potevano dirsi davvero generati da un breakthrough scientifico. Di norma, le imprese intraprendevano un processo innovativo perché coglievano un’opportunità di mercato e, quasi sempre, procedevano ricombinando tecnologie esistenti e conoscenze già disponibili. Solo allora, e soltanto in alcuni casi, le imprese non soddisfatte delle tecnologie presenti erano disposte a valutare l’ipotesi di un investimento in ricerca scientifica. In non poche circostanze, come avrebbero dimostrato le ricerche di von Hippel (1988) e Lundvall (1988), le imprese giudicavano non la scienza ma piuttosto le esperienze degli utilizzatori quale fonte più preziosa per alimentare il processo di innovazione. In secondo luogo, il modello lineare tendeva inevitabilmente a trascurare i feedback di cui poteva beneficiare il processo innovativo. Criticità, limiti, errori che emergevano in una fase potevano utilmente suggerire cambiamenti nelle fasi precedenti, fino a determinare talvolta la realizzazione di un prodotto assolutamente nuovo e differente dall’idea originaria. Nel modello Chain-Link, la sequenza del processo è innescata dalla percezione di un mercato potenziale che dà il via allo
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sviluppo dell’innovazione, attraverso una fase di design analitico e una fase di testing, prima di concludersi con il fine tuning del design, la produzione e la distribuzione nel mercato. Accanto a questa sequenza, però, assumono un ruolo fondamentale i feedback che dalle fasi a valle risalgono a monte lungo il processo di innovazione fornendo indicazioni e correzioni di rotta; le relazioni fra il sistema della ricerca, ovvero i progressi della conoscenza scientifica e tecnologica, e lo sviluppo innovativo dell’impresa; i benefici in termini di nuova conoscenza e di avanzamento tecnologico che le innovazioni di prodotto possono generare per il campo della ricerca scientifica. Senza dubbio, però, la prospettiva più stimolante nell’economia dell’innovazione contemporanea è stata suggerita dalla teoria evolutiva (Nelson e Winter, 1977, 1982). Con tale approccio teorico, l’innovazione e la sua diffusione vengono interpretati più correttamente come fenomeni dinamici. Per gli evoluzionisti è indispensabile analizzare tre fondamentali processi: l’ereditarietà, poiché le specie trasferiscono parte del patrimonio genetico; tale patrimonio però non si replica completamente, lasciando spazio a variazioni, “innumerevoli, lievi modificazioni” come scriveva Darwin, che determinano l’eterogeneità fra gli individui; infine, nella lotta per la sopravvivenza si opera una selezione fra le specie, che premia quelle con maggiore capacità di adattamento all’ambiente. Hodgson, un economista evoluzionista, applicando all’economia per analogia i principi di Darwin, assimila ai geni abitudini e routine delle imprese; entrambe, però, non si replicano in modo diretto. Le abitudini, che riguardano gli individui, si riproducono attraverso incentivi o obblighi (per il raggiungimento di un fine) oppure processi di imitazione, non sempre consapevole. Mentre le routine, che riguardano le organizzazioni, si replicano e si diffondono attraverso meccanismi di trasferimento di conoscenze. Le routine, dalla teoria evoluzionista, sono assimilate al patrimonio genetico: conservano (almeno in larga misura) il sapere accumulato nel passato e apprendono nuovi comportamenti quando il mutamento delle condizioni del mercato lo impone, affinché l’impresa possa sopravvivere in un ambiente in incessante cambiamento. In altre parole, le routine sono il risultato cumulativo di un processo di apprendimento e l’esito di un’evoluzione darwiniana attraverso cui le imprese identificano i comportamenti e le soluzioni innovative (le nuove routine) più adatte a garantire la sopravvivenza futura. Le imprese competono nel mercato in modo dinamico e attraverso l’innovazione per conquistare i consumatori. E il mercato agisce come meccanismo di selezione delle imprese migliori (le imprese “innovative”), distribuendo premi (profitti superiori o aumento di quote di mercato) e infliggendo punizioni (perdite o fallimenti). Nell’economia evoluzionista, la capacità di innovare (l’efficienza dinamica) acquista un ruolo predominante rispetto all’efficienza statica e allocativa delle teorie neoclassiche. Non esiste la concorrenza perfetta; anzi, come aveva già osservato Schumpeter, non è neppure una condizione auspicabile o socialmente desiderabile, anche perché non è concepibile un mercato in cui tutte le imprese sono uguali: ogni impresa è l’esito della sua storia e ciascuna incorpora conoscenze specifiche. A differenza delle teorie neoclassiche, dove la tecnologia agisce come variabile esogena e accessibile a tutte le imprese, rendendo di fatto uguale la combinazione verso cui tendere, per Nelson e Winter,
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invece, è proprio l’incertezza tecnologica a rendere impossibile la definizione di una combinazione ottima, di un obiettivo unico per tutte le imprese. E, in una condizione di incertezza, non è definibile ex ante neppure un comportamento razionale: le imprese reagiscono agli stimoli ambientali e la razionalità del management, guidato dalla ricerca di un profitto soddisfacente, è vincolata a limiti interni (le attività dell’impresa) ed esterni (l’incertezza tecnologica). La scelta della tecnologia adottata dall’impresa è fortemente condizionata dalla sua storia e dalle condizioni di partenza (concetto di path dependence). Quando il profitto è superiore alla soglia minima soddisfacente (ovvero un profitto almeno pari a quello dei concorrenti), il comportamento del management si limita all’adozione di routine stabili; se invece dovesse scendere sotto tale soglia, l’impresa intraprenderà una fase di ricerca di nuove routine. In tale processo dinamico di cambiamento ambientale che implica una ricombinazione delle routine organizzative, si modificano le tecnologie, i pattern di sviluppo, le competenze. L’impresa è chiamata a generare “varietà” per rispondere all’incertezza; i meccanismi di mercato selezioneranno le routine più adatte che poi si diffonderanno e si rinnoveranno, generando le risorse da investire in un nuovo processo di creazione di varietà. In questo processo di distruzione creatrice à la Schumpeter, al nascere di nuove idee e al diffondersi dell’innovazione tecnologica, le imprese non adatte sono destinate a fallire e le tecnologie “vecchie” a scomparire. Nel prossimo paragrafo, dedicato all’analisi della relazione fra innovazione e vantaggio competitivo, si comprenderà come la teoria evolutiva sia stata determinante nell’approccio delle strategie di impresa alla gestione dei processi innovativi. Come vedremo nel corso del libro, l’economia dell’innovazione ha proseguito lungo il suo percorso di crescita. Ha dimostrato, per esempio, quanto conti per un’impresa la dipendenza dalle scelte compiute nel passato e quali effetti tali scelte, a volte prese in modo assolutamente casuale, determinino per gli standard tecnologici. Ha spiegato i vantaggi e i rischi di agire come first mover in un mercato; l’importanza per un’impresa di disporre di una varietà di fonti di innovazione, così come di essere dotata di una capacità di assorbimento tale da poter beneficiare della conoscenza generata al di fuori dei confini organizzativi. Ha mostrato i rischi per le imprese di successo di rimanere intrappolate nei meccanismi innovativi già sperimentati (lock-in) senza accorgersi delle nuove traiettorie tecnologiche o restando spiazzate dalle innovazioni disruptive o dalle innovazioni competence-destroying che proprio per tali imprese tendono a esercitare gli effetti più dirompenti. Ha osservato anche la natura sistemica dell’innovazione, ponendo enfasi sul ruolo delle istituzioni e delle interazioni fra i differenti componenti di un sistema nazionale (Lundvall, 1992; Nelson, 1993) o regionale (Braczyk, 1998) di innovazione. Ancora, ha messo in luce la relazione fra i flussi di tecnologia, le fonti di innovazione e la struttura dei settori come nella tassonomia di Pavitt (1984). Ha spiegato come la forma dell’innovazione dipende dalla posizione competitiva dell’impresa nel settore e dal ciclo di vita del prodotto (Abernathy e Utterback) e che il successo dell’impresa innovativa dipende anche dalla sua capacità di muoversi lungo una determinata traiettoria tecnologica (Dosi, 1982). E la teoria ha dimostrato come la capacità di trarre vantaggio da un’innovazione introdotta nel mercato dipenda, e
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a volte sia condizionata, dalla presenza di beni e servizi complementari (come vedremo nel Capitolo 4) e soprattutto dalla capacità dell’impresa di appropriarsi delle rendite generate da quell’innovazione, come si dirà nel prossimo paragrafo (Teece, 1986). In anni più recenti, la ricerca ha dimostrato quanto siano rilevanti le strategie collaborative e le reti per l’innovazione, in particolare quando l’impresa riesce a esplorare, attraverso legami deboli, nuove fonti di innovazione. Ha rivelato il ruolo dei modelli di innovazione aperta nel valorizzare i risultati di ricerca e alimentare i mercati delle tecnologie. L’impresa non è sempre l’attore centrale dei processi innovativi, che diventano sempre più distribuiti. Il processo innovativo si scompone. Ha spiegato che conviene combinare strutture fluide, informali e tolleranti verso l’errore con meccanismi formali che orientino l’impegno per l’innovazione verso obiettivi condivisi (organizzazione ambidestra). Ha reso evidente come i confini fra conoscenza pubblica e conoscenza privata siano ormai sfumati e permeabili: le università brevettano; valorizzano i risultati della ricerca incoraggiando la nascita di imprese (spin-off); promuovono il trasferimento tecnologico; agiscono esse stesse come imprenditori (entrepreneurial university). Al contrario, le imprese si impegnano in progetti di public knowledge, aprono il portafoglio brevetti, finanziano la ricerca di base. Anche su questi temi torneremo nel corso della trattazione. Senza dubbio sappiamo che l’innovazione è un processo che presenta determinate caratteristiche fondamentali a prescindere dall’approccio teorico adoperato. In primo luogo, ha un esito incerto. È impossibile per il management di un’impresa valutare differenti progetti alternativi e definire ex ante i risultati e gli effetti della decisione che è chiamato a prendere. E solo ex post si potrà (in parte) comprendere quali risorse di conoscenza siano state combinate per generare un’innovazione. L’incertezza riguarda sia la dimensione tecnologica (quali tecniche adottare?, quali risorse impiegare?, quale processo sviluppare?) sia la dimensione di mercato (quale sarà la reazione dei clienti verso il nuovo prodotto?). Esiti e implicazioni ben difficilmente prevedibili quando si intraprende un processo innovativo. In secondo luogo, è un processo cumulativo e combinatorio. La storia di molte invenzioni mostra quanto lungo a volte sia stato il processo di incubazione e quale sia il tributo da riconoscere a intuizioni del passato. È vero però che in questo percorso evolutivo esistono discontinuità, accelerazioni, strappi. Ogni passo in avanti è in larga misura l’effetto del cammino percorso fino a quel punto, della conoscenza e dell’esperienza acquisite. La sfida per la maggior parte degli innovatori o delle imprese che innovano non è tanto pensare o scoprire qualcosa di assolutamente inedito o mai apparso, quanto piuttosto trovare una combinazione innovativa di cose esistenti. Naturalmente, ciò non significa che lo sviluppo di nuove tecnologie o di processi innovativi o di nuovi modelli di business o di modalità organizzative originali non possa avvenire, ma che l’innovazione è soprattutto e in larga misura un processo che ricombina elementi, fattori, tecnologie che già esistono. Ogni innovazione, anche la più radicale, nasce da idee, tentativi, sperimentazioni, fallimenti che l’hanno preceduta. Un’innovazione non è mai un evento isolato. A volte, il cambiamento di un singolo modulo
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o di un componente elementare in un’architettura ampia può determinare un forte miglioramento della performance tecnologica semplicemente modificando le relazioni fra gli elementi di quel sistema. Il ritmo dell’innovazione tende a rallentare quando il processo ricombinatorio rallenta. Tuttavia, è proprio qui che si apre uno spazio “bianco” per l’introduzione di nuove scoperte, di nuovi “grappoli” di innovazione, di nuove ricombinazioni. In terzo luogo, l’innovazione è pervasiva e ha un’evoluzione ciclica. L’innovazione, come mostreranno molti casi in questo libro, non riguarda solo l’industria high-tech. Anche se in alcuni settori l’intensità dell’investimento in R&S o la presenza di competenze specializzate, il numero di brevetti o il tasso di natalità imprenditoriale – tutte misure adoperate per misurare il grado di innovatività di un settore industriale – tendono a essere maggiori, l’innovazione è dovunque. Anche settori più tradizionali possono essere teatro di processi innovativi, protagonisti nello sviluppo di nuovi prodotti o di modelli differenti di produzione. A volte è la diffusione inaspettata di una tecnologia a generare nuove opportunità, come dimostra il caso dei telefoni cellulari utilizzati in molti Paesi in via di sviluppo per consentire a milioni di persone senza un conto bancario di accedere comunque a servizi finanziari (si veda il caso di apertura del Capitolo 4). L’innovazione è evolutiva per natura. La tecnologia percorre un sentiero ciclico: ai piccoli cambiamenti incrementali di prodotti e processi esistenti, fanno seguito discontinuità tecnologiche e innovazioni radicali. Rare, difficili da prevedere, a volte inattese, in molti casi spiazzanti per le imprese incumbent, quelle che già operano all’interno del settore e tendono ad affidarsi alle tecnologie e ai prodotti esistenti. E sebbene la gran parte delle innovazioni radicali sia da attribuire alle grandi imprese, che possiedono risorse finanziarie e set di competenze in grado di sostenere il rischio e l’incertezza associati di norma ai progetti più ambiziosi, spesso sono proprio le organizzazioni di successo e di maggiore dimensione a opporre le più forti resistenze al cambiamento, non riuscendo a rispondere o ad adattarsi all’evoluzione rapida del mercato e delle tecnologie o preferendo rimanere fedeli ai propri clienti, non mostrandosi disposte né a “cannibalizzare” i propri prodotti e gli asset proprietari né a a modificare modelli di business e routine che nel passato hanno garantito il successo, restando bloccate da una condizione di inerzia organizzativa (Tripsas e Gavetti, 2000). Infine, nonostante i processi innovativi, in particolare nelle grandi imprese transnazionali, siano sempre più organizzati su base globale, attraverso meccanismi di coordinamento e la creazione di team virtuali che agiscono a distanza pur se coinvolti in medesimi progetti di sviluppo, l’innovazione rimane “ancorata” a determinati luoghi: geography matters. Gli investimenti in innovazione, così come i risultati dei processi innovativi, tendono a concentrarsi in aree geografiche ben definite. Inoltre, in molti casi la co-location è considerata un fattore fondamentale per favorire la creatività e i processi di innovazione (si veda il caso di apertura del Capitolo 11 dedicato ai team di sviluppo in Disney). Come è stato dimostrato, la conoscenza tende ancora a essere una risorsa sticky, radicata e dipendente dal contesto, tacita e quindi difficile da trasferire o da condividere (von Hippel, 1994). Gli spill-over di conoscenza hanno un raggio d’azione limitato
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e gli effetti tendono ad attenuarsi al crescere della distanza geografica dalla fonte di innovazione. Le strategie di collaborazione beneficiano della prossimità fisica fra i partner perché le interazioni personali face-to-face favoriscono lo scambio di informazioni e la condivisione di conoscenze (Storper e Venables, 2004). A volte, tale conoscenza è incorporata in particolari categorie di clienti, che si rivelano determinanti e irrinunciabili fonti di innovazione (lead user), così da suggerire all’impresa di operare in condizione di prossimità. Ma anche i flussi di investimento, in particolare quelli ad alto rischio tipici per esempio del venture capital, tendono a concentrarsi in determinati luoghi. Le ricerche di Richard Florida (2016), condotte attraverso un’analisi dei codici postali, hanno per esempio mostrato come negli Stati Uniti una quota dominante degli investimenti di venture capital sia destinata a poche aree urbane, privilegiando in particolare la città di San Francisco.
1.4 Innovazione e vantaggio competitivo Perché un’impresa innova? E perché in un’economia di mercato la capacità di innovare è quasi sempre la fonte decisiva di un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo? Perché le risorse di conoscenza e le competenze tecnologiche sono spesso alla base di una strategia di successo? Già da tempo, al crescere della complessità e della mutabilità dell’ambiente competitivo, della varietà della domanda di mercato e della volatilità delle preferenze dei consumatori, e naturalmente a causa del cambiamento tecnologico, gli studi di strategia hanno cominciato a considerare le risorse e le competenze come fondamento del vantaggio competitivo, come “base più efficace e stabilire su cui definire l’identità di impresa” (Grant, 2006). A ispirare tale prospettiva teorica, conosciuta come resource-based view e di cui torneremo a parlare nel Capitolo 6, vi era anche l’evidenza, a partire dai primi anni Novanta, del successo di imprese dovuto non soltanto al modo in cui si ponevano nei confronti del mercato e dei concorrenti, ma anche alla disponibilità di competenze specifiche che le altre imprese non avevano e che difficilmente avrebbero potuto acquisire. L’espressione utilizzata nella letteratura strategica è competenze distintive, o competenze centrali, che traduce l’espressione inglese core competence, a indicare le abilità chiave di cui un’impresa si serve per realizzare i suoi obiettivi e difficili da replicare da parte dei concorrenti in tempi brevi e a costi accettabili (si veda il box La strategia basata sulle risorse e competenze).
Eterogeneità delle risorse e capacità innovative
La prospettiva fondata sulle risorse considera ogni impresa differente dalle altre, poiché ciascuna possiede un set non riproducibile di attività materiali e immateriali e di capacità organizzative (Collis, Montgomery, 1999). Poiché il profitto deriva dalle risorse che l’impresa possiede e riesce a controllare, la fonte di una redditività superiore è da ricercare non nell’imitazione dei concorrenti ma piuttosto nello sfruttamento delle differenze. La disponibilità di risorse, insieme con
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I risultati della ricerca La strategia basata sulle risorse e competenze Una definizione dell’impresa attraverso ciò che è capace di fare può offrire una base più duratura per la formulazione di una strategia rispetto a una definizione basata sui bisogni che l’impresa cerca di soddisfare. Molte imprese che hanno fondato le proprie strategie sullo sviluppo e sfruttamento di competenze interne chiaramente definite hanno saputo adeguarsi, utilizzandoli a proprio vantaggio, ai mutamenti del contesto ambientale. In generale, quanto più è elevato il tasso di cambiamento nell’ambiente esterno, tanto più è probabile che le risorse e le competenze interne possano rappresentare una solida base per la strategia a lungo termine. Nei settori a elevato tasso di cambiamento legati alle tecnologie, le nuove imprese nascono intorno a specifiche competenze tecnologiche. Gli aspetti relativi ai mercati in cui applicare tali competenze sono di rilevanza non prioritaria. Quando un’impresa deve fronteggiare l’obsolescenza imminente di un prodotto importante, la sua strategia dovrebbe concentrarsi nel continuare a soddisfare fondamentali bisogni dei clienti oppure nell’impiegare le sue risorse e competenze in altri mercati? Quando, negli anni Ottanta, Olivetti, azienda italiana produttrice di macchine da scrivere, si trovò a dover far fronte al processo di sostituzione delle macchine da scrivere con i personal computer, cercò di mantenere la sua focalizzazione sui bisogni di elaborazione dei testi delle imprese, attraverso l’espansione nel settore dei pc. L’iniziativa si risolse in un costoso fallimento. Le difficoltà sperimentate da aziende affermate nel tentativo di adeguarsi al cambiamento tecnologico all’interno dei mercati in cui operano sono ben documentate: in molti settori le ondate di cambiamento tecnologico hanno visto i leader di mercato in difficoltà e i nuovi entranti prosperare. Fonte: adattato da R. Grant, L’analisi strategica per le decisioni aziendali, Il Mulino, Bologna 2006.
l’abilità e la rapidità con cui il management sarà in grado di acquisire o accedere a nuove risorse, condizionano inevitabilmente la scelta di una strategia. “Se non esistessero asimmetrie nella disponibilità di risorse e non vi fossero limiti alla variazione delle stesse, ogni azienda avrebbe piena libertà nella scelta del tipo di strategia da adottare. In questo caso sarebbe molto facile riprodurre le strategie vincenti, con la conseguenza che i profitti tenderebbero in breve tempo a sparire. È evidente, quindi, che le risorse sono l’essenza stessa sia della strategia sia del vantaggio competitivo sostenibile” (Collis, Montgomery, 1999, p. 35). Se infatti per avere successo nella competizione di mercato fosse sufficiente disporre di determinate risorse, basterebbe a un’impresa acquisire quelle di cui non dispone per determinare un vantaggio rispetto ai concorrenti che le posseggono. Ma in realtà così non è. Le risorse non godono di una capacità autonoma di generare competenze distintive, quelle capacità fondamentali per le performance e le strategie di un’impresa. Le risorse in sé di norma non conferiscono un vantaggio competitivo. Le risorse sono soltanto il presupposto necessario a determinare, quando il management si mostra in grado di integrarle e combinarle, le competenze organizzative, da intendere quali capacità di utilizzare le risorse per conseguire un determinato risultato.
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La relazione che lega l’unicità e l’irripetibilità di un’impresa alla capacità di beneficiare di un profitto si comprende bene introducendo il concetto di eterogeneità delle risorse. L’eterogeneità è una condizione necessaria ma non sufficiente per il conseguimento del vantaggio competitivo. Essa si fonda sull’idea secondo cui le imprese hanno un “pacchetto” o una dotazione di risorse e competenze differenziato, che le rende diverse tra loro nel senso che alcune sono superiori ad altre per la capacità di creare valore. In altre parole, le imprese concorrenti non dispongono della medesima dotazione di fattori per svolgere le loro attività. Sviluppando la capacità di produrre a costi inferiori e/o di soddisfare con la loro offerta meglio di altri le necessità e i bisogni espressi dal mercato, le imprese acquisiscono delle “rendite”. La rendita conseguita da un’impresa può essere di tipo ricardiano oppure di tipo monopolistico. La rendita ricardiana è riconducibile alla scarsità delle risorse ed è il frutto di fattori della produzione che, per la loro natura, hanno una disponibilità limitata poiché difficili o impossibili da riprodurre (una dislocazione geografica, una reputazione consolidata nel tempo, una tecnologia esclusiva). Le rendite ricardiane si formano sui mercati in cui operano imprese che assumono il prezzo come dato dal mercato stesso ( price takers) e derivano dall’ipotesi che l’impresa disponga di risorse produttive migliori di quelle della concorrenza, la cui offerta è costante o può essere aumentata solo gradualmente. Perciò, le imprese in possesso di risorse più efficienti possono operare con una curva dei costi marginali e dei costi medi inferiore a quelle della concorrenza. In condizioni di equilibrio di lungo periodo del mercato ciascun produttore opera con un livello di prezzo uguale al costo marginale, senza realizzare alcun profitto. Fanno eccezione solamente le imprese dotate di risorse superiori, le quali godono appunto della rendita ricardiana, dovuta ai minori costi medi sostenuti. Le risorse determinano il vantaggio competitivo perché sono disponibili solo in quantità fissa o quasi fissa, cioè con un’offerta che si adatta lentamente alla domanda delle stesse. Perciò, la limitata disponibilità dell’offerta di queste risorse diventa la condizione del vantaggio dell’impresa, che si annulla se tali risorse sono liberamente ottenibili. A differenza del caso di rendita ricardiana, la rendita monopolistica è il risultato prodotto dalla capacità di innovazione di un’impresa e la sua durata è limitata, misurata dal tempo che corre dalla sua introduzione al momento in cui i concorrenti riusciranno a imitarla. Le rendite di cui gode il monopolista “temporaneo” possono scaturire da diverse situazioni nelle quali l’impresa comunque detiene ed esercita un elevato potere di mercato, che le permette di manovrare la leva del prezzo e di mantenere la produzione a un livello inferiore a quello di un mercato concorrenziale, in modo da massimizzare il profitto. Tale strategia è perciò resa efficace dall’andamento decrescente della domanda rispetto al prezzo, ed è tanto più conveniente quanto più essa è anelastica rispetto al prezzo. Esempi di rendita monopolistica sono rappresentati dalla differenziazione di prodotto, per esempio percepito dal mercato come molto innovativo, o dal vantaggio di agire per primi nel mercato ( first mover). Tuttavia, la condizione di eterogeneità delle risorse non è da sola sufficiente ad assicurare la sostenibilità del vantaggio competitivo, in quanto i concor-
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renti possono avere successo nell’imitare le risorse e le competenze dell’impresa in posizione di superiorità. Perciò, alla eterogeneità delle risorse si devono aggiungere, come vedremo fra poco, altre condizioni necessarie per conseguire e mantenere un vantaggio competitivo e garantirsi le rendite che tale vantaggio genera.
La strategia fondata sulle risorse
Una strategia fondata sulle risorse richiede che il management abbia una profonda comprensione delle risorse e delle competenze di cui l’impresa dispone. La consapevolezza della validità di tale approccio si consolida attraverso tre tipi di verifica: (1) la scelta della strategia dovrà fondarsi effettivamente sulle principali risorse (visibili e invisibili) e competenze dell’impresa; (2) le risorse dovranno essere pienamente utilizzabili; (3) la base di risorse disponibili dell’impresa dovrà essere integrata con altre opportunamente scelte. L’obiettivo principale della strategia consiste nel far corrispondere le competenze dell’impresa alle opportunità offerte dall’ambiente esterno. Se si intendono esaminare le modalità di realizzazione di un vantaggio competitivo da parte dell’impresa, occorre valutare i modi in cui le risorse concorrono alla creazione di competenze distintive. Le risorse di cui dispone un’impresa sono i beni, le capacità di base e ogni altro fattore “produttivo” necessario per agire nel mercato. La competizione contemporanea si caratterizza per il contributo decisivo, e in molti casi la prevalenza, di risorse immateriali o intangibili. Si tratta di risorse che si identificano, per esempio, con le conoscenze tecnologiche accumulate nel tempo all’interno dell’impresa o il patrimonio di proprietà intellettuale (brevetti, copyright, segreti industriali). Nella distinzione operata da Amit e Schoemaker (1993), le risorse sono definite come stock di fattori disponibili posseduti o controllati dall’impresa, quali per esempio il know-how (brevetti, licenze), gli asset tecnologici, il capitale umano, mentre le capacità come impiego di risorse, di solito in combinazione e attraverso processi organizzativi, per raggiungere un fine desiderato. Questi processi di combinazione si fondano su informazioni; sono specifici di una determinata impresa; si sviluppano nel tempo attraverso interazioni complesse fra le risorse aziendali. Alcuni studiosi, come Mahoney e Pandian, interpretano le risorse come stock e le capacità come flussi. Tale classificazione è utile per una migliore comprensione dell’impresa e pone le prime basi per una distinzione tra rendite economiche, basate sul presidio di risorse scarse, e rendite organizzative, basate sull’utilizzo di queste risorse, vale a dire sulla capacità di combinarle in modo originale rispetto ai concorrenti e di ottenere in questo modo risultati superiori. E ancora, si potrebbe aggiungere che mentre quasi sempre le risorse sono misurabili e valutabili, associabili a una proprietà e quindi trasferibili attraverso i meccanismi di mercato, le capacità e le competenze organizzative, caratteristiche specificamente di un’impresa e accumulate nel tempo, risultano ben più difficili da trasferire. Le capacità organizzative sono quasi sempre ad alta intensità di conoscenza; sono asset d’intelligenza; tendono a essere trasversali o a emergere quali combinazioni integrate di abilità e conoscenze elementari.
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Sono capacità organizzative, da intendere come combinazioni di processi e di attività, per esempio, le routine e i meccanismi di gestione applicati alle tecnologie di produzione nelle imprese automobilistiche, in grado non solo di determinare l’efficienza produttiva, ma di contribuire in modo essenziale alla creazione e alla sostenibilità di un vantaggio competitivo. Tali capacità, introdotte dalla Toyota negli anni Settanta e diffuse poi nel mondo sotto il nome di lean production o lean manufacturing, permettono a un’azienda di realizzare, a partire dai medesimi fattori produttivi (risorse), prodotti di maggiore qualità, a minor costo rispetto ai concorrenti e con una forte riduzione dei tempi di sviluppo. Come detto, non tutte le risorse né tutte le capacità diventano competenze distintive e in grado di sostenere il processo di creazione di vantaggio competitivo. Alcune risorse sono “preziose”; altre, invece, non si distinguono da quelle possedute dai concorrenti. Alcune capacità sono indispensabili per reagire all’evoluzione dello scenario competitivo; altre, come accade talvolta, sono risorse accumulate nel tempo e vincolate a una determinata strategia e rendono difficile adottare processi di cambiamento, condizionando l’impresa quando è chiamata a prendere decisioni innovative e, soprattutto, agendo come barriere di resistenza quando l’organizzazione tenta di applicarle. Sono risorse, processi, meccanismi operativi che se pure in passato si sono rivelati fonte di vantaggio, rischiano di trasformare le competenze-chiave in rigidità-chiave, ovvero, come ha scritto Dorothy Leonard, “il lato oscuro delle competenze organizzative”. Le competenze di base in grado di assicurare al cliente un maggior valore sono state definite da Hamel e Prahalad come core competence, a indicare le capacità essenziali per la strategia dell’impresa e le sue performance. Queste competenze, di cui torneremo a discutere nel Capitolo 6, contribuiscono in modo decisivo alla creazione di valore per il cliente o all’efficienza con cui tale valore viene trasferito, oltre a rappresentare le basi di partenza per una strategia di entrata in nuovi mercati. La capacità di ricerca in aziende come Roche o Apple, così come la capacità di introduzione rapida di nuovi prodotti in Zara o in Ferrero o di sviluppo tecnologico in Tesla o Sony, sono esempi di competenze di base. Dalla seconda metà degli anni Novanta, gli studi di management hanno approfondito il ruolo delle risorse cognitive quali asset di maggior valore strategico, giungendo a definire l’impresa come un insieme di conoscenze il cui scopo è l’impiego di tali risorse per creare valore. La conoscenza come fonte di vantaggio competitivo ha ispirato altresì un nuovo approccio teorico, definito come knowledge-based view (si veda il box La knowledge-base view).
Risorse e vantaggio competitivo
La condizione di vantaggio competitivo, nella prospettiva basata sulle risorse e sulle competenze organizzative, risiede nella capacità di creare un valore superiore attraverso il suo patrimonio di risorse. L’impresa dovrebbe elaborare o far emergere le proprie strategie facendo leva sul proprio patrimonio di risorse e competenze. Dovrà ricercare in primo luogo quei mercati che in modo opportuno si adattino alle risorse e competenze disponibili. Non ciascuna risorsa, però,
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I risultati della ricerca La knowledge-based view La teoria dell’impresa knowledge-based, ispirata alla nozione di razionalità vincolata (Simon, 1947), è costruita attorno al ruolo della conoscenza come fondamentale “risorsa” strategica. In tale prospettiva, le imprese sono raffigurabili come “comunità sociali” (Kogut e Zander, 1993), specializzate nella creazione e nel trasferimento di conoscenza. Come ha scritto Polanyi (1966), accanto a una conoscenza esplicita si muove una conoscenza tacita. La prima è “codificabile”, ovvero comprimibile in un codice e quindi trasferibile attraverso un linguaggio formale; la seconda, invece, è personale, associata all’esperienza, radicata nel contesto di riferimento e, in quanto tale, non sempre trasferibile, poiché codificabile solo con difficoltà. La conoscenza tacita è non tanto un concetto, quanto una categoria ampia, in cui ricadono esperienze, intuizioni, ideali, valori, emozioni. La conoscenza tacita è processuale, come dimostra il suo collegarsi a regole di ricerca, quei meccanismi “euristici” in grado di definire i confini di un “problema” e identificare gli elementi necessari alla sua risoluzione, ben prima dell’espressione formale di una soluzione. In accordo con la tassonomia di Winter (1987), la conoscenza “visibile” tende a essere esplicita (codificabile), insegnabile, osservabile in uso, semplice, indipendente; mentre la conoscenza “intangibile” tende a essere tacita, non insegnabile, non osservabile in uso, complessa, dipendente dal sistema in cui agisce o è radicata. Ponendo le dimensioni della conoscenza lungo un continuum, è evidente riconoscere alle risorse di conoscenza tacite non solo una maggiore difficoltà di trasferimento se confrontate con le risorse di conoscenza esplicite e codificabili, quanto un maggior costo e una minore velocità di trasmissione delle informazioni. In mercati competitivi, è in particolare la capacità di proteggere le competenze chiave dai rischi di imitabilità a determinare la sostenibilità del vantaggio competitivo dell’impresa: sostenibile nel tempo solo se l’impresa dispone di risorse (eterogenee) che non possono essere né trasferite né replicate. A maggiore facilità d’imitazione corrispondono rischi superiori di una più rapida dissipazione delle rendite competitive; quanto più “tacite” sono le risorse di conoscenza, tanto più difficile è per l’impresa (o per i suoi concorrenti) poterle replicare (imitarle) in differenti contesti. Talvolta, il tentativo di imitazione è difficile da realizzare, se non attraverso l’acquisizione di competenze “incorporate” nell’impresa da imitare.
è in grado di conferire un vantaggio competitivo all’impresa. Per garantirne la reale sostenibilità, le risorse e le capacità di un’impresa dovranno soddisfare una rigorosa serie di condizioni, che dipendono dalla capacità di conseguire un vantaggio competitivo (criticità e scarsità delle risorse), di mantenerlo nel tempo (durata, trasferibilità e replicabilità) e soprattutto di acquisire e trattenere i rendimenti generati (appropriabilità). La prima condizione prevede che la risorsa sia critica, ovvero sia determinante per sfruttare un’opportunità o attenuare i rischi presenti nell’ambiente competitivo ove opera l’impresa. Le risorse sono “critiche” quando mettono in grado l’impresa di concepire o realizzare strategie che ne aumentino il grado di efficacia e/o di efficienza, sempre che, come è ovvio, siano “incorporate” in prodotti o soluzioni capaci di creare valore per il cliente, soddisfacendo la domanda di mercato, e di garantire la sopravvivenza dell’impresa nell’arena competitiva. In
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altre parole, dovranno essere rilevanti in relazione ai fattori critici di successo del mercato. In secondo luogo, le risorse devono possedere una condizione di rarità. Qualora talune risorse critiche siano nella disponibilità di un grande numero di concorrenti attuali o potenziali, esse non possono più rappresentare una fonte di vantaggio competitivo. Solo l’impresa che possiede un fascio unico di risorse, capacità, abilità è in grado di raggiungere un vantaggio competitivo sostenibile. Nel caso in cui vi fosse ampia disponibilità di una tecnologia, non sarebbe difficile per la concorrenza utilizzarla a sua volta, riproducendo, così, lo stesso vantaggio competitivo. Quella risorsa sarebbe necessaria per competere, ma non sufficiente per “vincere”. Conseguire un vantaggio competitivo, però, non determina di per sé una condizione di profitto. Occorre valutare altresì la capacità dell’impresa di mantenerlo nel tempo. Per esempio, verificare la durata, l’attitudine di una risorsa o di una competenza a durare, a conservare valore nel tempo. Poiché il vantaggio competitivo ha tanto più valore strategico quanto più è durevole, il perdurare delle risorse distintive di cui può disporre un’impresa diventa spesso un fattore chiave di successo. Se la risorsa disponibile è, per esempio, costituita da un brevetto su cui si detiene il diritto di utilizzo in esclusiva per un periodo ventennale, è possibile costruire un vantaggio competitivo destinato a durare. Tuttavia, la rapidità del cambiamento tecnologico tende ad accorciare la vita utile di molte risorse. Alcune ricerche empiriche hanno dimostrato che fra le competenze distintive che superano la prova della durevolezza vi sono proprio le capacità di innovare. Anche le competenze relazionali sviluppate attraverso reti di collaborazione con i propri fornitori, con i clienti o talvolta con i concorrenti per lo sviluppo dell’innovazione hanno una lunga durata, così come la reputazione di impresa innovativa, intesa come la considerazione del mercato relativa al grado di innovazione percepito riguardo ai prodotti e ai servizi offerti. Naturalmente, la durata del vantaggio non dipende soltanto da quella delle risorse, ma anche dalle risposte del mercato e dai comportamenti dei concorrenti. I rivali possono provare a imitare il vantaggio competitivo che le risorse determinano: tale processo è favorito in caso di trasferibilità o replicabilità delle risorse. Nessun vantaggio competitivo difatti può essere mantenuto se le risorse sono facilmente trasferibili o sostituibili da risorse (strategicamente) equivalenti. Tale condizione viene definita come imperfetta mobilità delle risorse. Spesso, a differenza di altri asset, le competenze tecnologiche e le conoscenze proprietarie sono fra le risorse più difficili da trasferire, sia perché “ancorate” a una determinata area geografica, sia perché idiosincratiche, ovvero del tutto specifiche di una determinata impresa. Le risorse sono di difficile o impossibile trasferibilità quando non possono essere scambiate o vendute ad altre imprese, perché non sono ben definibili i contorni delle loro proprietà o è altrettanto difficile registrarle con le ordinarie scritture contabili (Dierickx e Cool, 1989). Queste risorse, pertanto, non hanno alcun valore al di fuori del contesto dell’impresa a cui appartengono e manifestano perciò il massimo grado di specificità (Williamson, 1979).
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Talvolta, tuttavia, risorse di questo tipo possono anche essere trasferibili e acquisibili sul mercato, ma con un differenziale di valore negativo per l’impresa acquirente per le difficoltà che deve superare per averle. Separare la risorsa dal suo contesto potrebbe determinarne una perdita di produttività e di qualità per le imprese potenziali acquirenti in presenza di incompletezza di informazioni. Si tratta di risorse fortemente legate all’impresa che le ha generate, nella quale hanno un valore di gran lunga maggiore rispetto a quello che hanno per chi le acquista. Si pensi ancora a un team di ricercatori impegnati da tempo nell’unità dedicata allo sviluppo di nuovi prodotti all’interno di un’azienda. Esiste una condizione di “complessità sociale” che rende meno mobili rispetto a risorse singole le capacità organizzative alimentate da persone che lavorano in team. Come ha osservato Grant (2006, p. 180), “anche se è l’intero team a essere trasferito, la dipendenza del team dallo specifico contesto relazionale e culturale dell’impresa di origine può implicare che tali capacità organizzative non siano facilmente trasferibili nella nuova organizzazione”. In modo analogo, se le risorse e le competenze dell’impresa fossero di facile e perfetta sostituibilità, allora i concorrenti non impiegheranno molto tempo a predisporre soluzioni alternative in grado di raggiungere il medesimo risultato, erodendo così le rendite detenute dall’impresa. Se quindi le risorse sono di impossibile o difficile trasferibilità o sostituibilità, allora esse possono ben dar luogo a un vantaggio sostenibile, assicurato appunto dalla difficoltà di acquisire le risorse chiave dell’impresa. E se un rivale non è in grado di acquisire le risorse né di sostituirle con quelle già possedute, dovrà cercare di replicarle. La difficile replicabilità o imitabilità è un’altra condizione necessaria per conservare un vantaggio competitivo. Perché un impresa possa beneficiare di una posizione di vantaggio e delle rendite economiche associate dovranno esistere delle “forze”, degli ostacoli che rallentino la concorrenza o rendano difficile l’accesso al patrimonio di risorse critiche, scarse e a limitata sostituibilità, predisponendo barriere di protezione contro strategie imitative, come i brevetti. I limiti posti dalla difficile imitabilità sono stati definiti meccanismi di isolamento (Rumelt, 1984), poiché proteggono le rendite di cui gode l’impresa, impedendo ai concorrenti di riprodurre una strategia “vincente” o di neutralizzarne i vantaggi. Tali meccanismi sono rappresentati non solo dalla proprietà di risorse scarse o dalle asimmetrie informative, ma anche dal vantaggio temporale rispetto agli imitatori e dalla condizione di “ambiguità causale” (Lippman e Rumelt, 1982), che rende difficile alla concorrenza la comprensione delle risorse che generano i maggiori livelli di efficacia ed efficienza dell’impresa concorrente. L’ambiguità causale è in particolare una caratteristica delle capacità organizzative strettamente legata alla complessità sociale e, talvolta, all’abilità personale di un gruppo limitato di individui. Inoltre, si possono aggiungere gli effetti dell’apprendimento collegato alla curva di esperienza, la reputazione dell’impresa, gli switching cost degli acquirenti (Rumelt, 1987). In particolare, la resource-based theory ha prestato grande attenzione a quelle attività e risorse che si sviluppano e si accumulano nell’impresa nel corso della sua stessa storia, come frutto dell’apprendimento e delle capacità e abilità consolidate nel tempo. Per esempio, le capacità di sviluppo di un nuovo prodotto da parte di un team di ricercatori dell’impresa sono difficili da riprodurre. Tali risorse, così come le rou-
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tine organizzative, sono praticamente impossibili da imitare da parte della concorrenza. Inoltre, le risorse accumulate nell’arco di un lungo periodo di tempo, come hanno dimostrato Dierickx e Cool (1989), sono più produttive delle stesse risorse e competenze accumulate rapidamente dalle imprese imitatrici, costrette a sostenere costi addizionali: un programma accelerato di R&S tende a essere meno produttivo di investimenti analoghi effettuati in tempi lunghi (time compression diseconomy). E ancora, una posizione iniziale forte nello stock di risorse e di competenze, per esempio nella tecnologia, tende a favorire il processo di accumulazione di risorse nel futuro (asset mass efficiency). Come hanno scritto Collis e Montgomery (1999), “non bisogna pensare alla non imitabilità come una caratteristica che una risorsa possiede o non possiede; nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta piuttosto di valutare il grado di difficoltà o il tempo necessario all’imitazione. Naturalmente, maggiori sono gli impedimenti all’imitazione, maggiore è il valore di una risorsa. Per esempio, il riconoscimento indiscusso della capacità di un’azienda di offrire prodotti innovativi implica tanto un percorso obbligato, quanto l’ambiguità causale”. Infine, si dovrà verificare la capacità dell’impresa di mantenere il controllo sulle rendite generate dalle risorse e competenze di cui dispone (appropriabilità). È un concetto che ben si comprende se si riflette sulle risorse di conoscenza dell’impresa, sul know-how tecnologico, sulle capacità innovative. In questo caso, l’appropriabilità è funzione sia della facilità di riproduzione delle conoscenze dell’impresa sia dell’efficacia dei diritti di proprietà intellettuale posti a protezione dei rischi di imitazione. Il grado di appropriabilità è maggiore, quindi, quando la tecnologia impiegata o i nuovi prodotti lanciati nel mercato sono per loro natura difficili da replicare e i sistemi di protezione della proprietà intellettuale forniscono solide barriere legali all’imitazione. Per contro, l’appropriabilità è debole nei casi di facile replicazione della tecnologia o dei nuovi prodotti, nonché di indisponibilità (o inefficacia) dei meccanismi di protezione. Solo attraverso un regime di forte appropriabilità – dove brevetti, copyright, segreti industriali sono meccanismi di isolamento efficaci – le imprese innovatrici riescono a mantenere a distanza gli imitatori, almeno per un certo tempo, e a “catturare” il valore creato con i nuovi prodotti o le tecnologie innovative. Se le competenze distintive fossero legate esclusivamente alle conoscenze di cui dispongono i singoli individui che operano all’interno di una determinata struttura organizzativa, l’appropriabilità da parte di un’impresa sarebbe abbastanza difficile. Disporre di detentori della conoscenza non è sufficiente. Le competenze distintive di un’impresa non sono isolabili e riconducibili a singole e specifiche risorse, né sono riconducibili a uno dei fattori chiave per il successo; esse sono stratificate nella struttura entro cui si sono formate. Questo spiega, tra l’altro, perché l’acquisizione di competenze che di solito ha più successo è quella che avviene attraverso l’acquisizione di imprese, perché in quei casi l’appropriabilità, come prima intesa, si presenta decisamente più agevole. Mentre è difficile acquisire competenze di cui non si dispone attraverso la sola acquisizione di determinate risorse, è ben più facile acquisire risorse, pur rischiando di non acquisire le relative competenze. Torneremo nel Capitolo 9 ad approfondire le questioni collegate all’appropriabilità delle rendite generate dalla capacità di innovare dell’impresa.
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Dynamic capabilities
Le strategie di innovazione premiano in particolare le imprese che dimostrano di disporre delle capacità di migliorare, estendere e riconfigurare in modo costante le proprie competenze organizzative. Come abbiamo provato a spiegare nelle pagine precedenti, l’impresa è una combinazione di risorse, relativamente statiche e difficilmente trasferibili, trasformate in capacità attraverso processi dinamici operati dall’impresa (Amit e Schoemaker, 1993), dove abilità individuali, competenze organizzative, conoscenze tecnologiche “circondano” le risorse, conferendo a esse le condizioni per sostenere processi di creazione di valore. In tali processi, fondamentali si rivelano soprattutto le competenze organizzative dimostrate dall’impresa nella gestione della conoscenza. La base di conoscenza è alimentata dall’abilità dell’organizzazione ad acquisire, valutare, assimilare, integrare, impiegare, diffondere e trarre vantaggio dalle risorse di conoscenza. Nuove combinazioni di risorse incrementano la base di conoscenza, integrate e sorrette dalle routine impiegate nei processi aziendali. L’impresa impiega tale base per la costruzione del proprio vantaggio competitivo. Nella prospettiva teorica delle dynamic capability of the firm (Teece et al., 1997; Eisenhardt, Martin 2000; Teece, 2007), l’approccio delineato dalla resource-based theory – ispirato a una visione della strategia come processo dell’impresa orientato ad accumulare risorse e asset tecnologici, in grado di creare valore, e ad appropriarsi le rendite a tali risorse associate – tende a espandersi, assumendo in sé una dimensione “dinamica”. Mentre la prospettiva teorica fondata sulle risorse si è focalizzata soprattutto sulle modalità di sfruttamento (exploitation) degli asset proprietari dell’impresa, nel caso delle dynamic organizational capability il focus di ricerca si orienta piuttosto a indagare le ragioni in grado di spiegare perché determinate organizzazioni per prime riescano a sviluppare particolari competenze aziendali ( firm-specific) e a comprendere le modalità attraverso cui esse rinnovino tali competenze per rispondere alle mutevoli pressioni esercitate da un ambiente dinamico. Secondo questo approccio, il vantaggio competitivo dell’impresa risiede nelle capacità del management di adattare, integrare e riconfigurare abilità organizzative, risorse e competenze funzionali – collocate tanto all’interno quanto all’esterno dell’impresa – allo scopo di ristabilire condizioni di equilibrio dinamico con le pressioni esercitate da un ambiente in cambiamento. Le scelte e le le azioni dell’impresa saranno inevitabilmente condizionate dalla razionalità vincolata degli attori, guidate dalle regole e dalle routine organizzative, poiché le informazioni e i messaggi dall’ambiente competitivo saranno interpretati e valutati secondo le conoscenze e le esperienze degli individui e dell’organizzazione (Weick, 1995; Teece, 1998). Le capacità del management di intuire e quindi cogliere nuove opportunità di mercato, nonché di riconfigurare e proteggere risorse di conoscenza e risorse complementari, alimentano il processo di generazione di “competenze dinamiche”. Se una strategia resource-based pura tende a essere orientata verso un’accumulazione di stock di risorse, nonché a proteggere le risorse di conoscenza e le rendite economiche attraverso meccanismi di difesa, talvolta perfino aggres-
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sivi, nella prospettiva delle competenze dinamiche l’obiettivo fondamentale del management è invece creare le condizioni per sostenere nel tempo un maggior vantaggio competitivo. In particolare, tale vantaggio discende dalle competenze dinamiche (1) radicate nelle routine di “successo”, quei modelli di comportamento che identificano regole euristiche e soluzioni efficaci a determinati problemi; (2) fissate nei processi di gestione; (3) condizionate dalla storia delle strategie dell’impresa e dalla posizione geografica delle risorse. Alle competenze dinamiche è da attribuire la proprietà di differenziazione dell’impresa, rappresentando modi di combinazione delle risorse e di realizzazione delle attività non trasferibili attraverso meccanismi di mercato. Come scrivono con efficacia Teece e Pisano, la reale essenza delle competenze organizzative e delle capacità dinamiche risiede nel non poter essere acquisite né “assemblate” con rapidità nel mercato. A causa dell’imperfezione del mercato dei fattori, in particolare per la non-trasferibilità di risorse intangibili quali i valori, la cultura, l’esperienza organizzativa, tali capacità superiori sono da costruire e quindi “innestare” nei motori di sviluppo dell’impresa. Una volta consolidate, tali competenze si radicano nell’impresa (intriguing asset: Teece e Pisano, 1998, p. 197), alimentando i processi di innovazione. È un processo che si svolge nel tempo, con inevitabili rischi di imitazione. Tali competenze condizionano, limitandone l’ampiezza, il ventaglio delle opzioni a disposizione dell’impresa. La prospettiva delle competenze organizzative esprime la sua validità soprattutto nell’interpretazione dei processi di creazione e accrescimento di valore. La capacità dell’impresa di sviluppare nuove competenze, così come di mantenere un equilibrio dinamico tra sfruttamento di capacità esistenti e generazione di nuove capacità, determina la sostenibilità nel futuro di un vantaggio competitivo. In un ciclo di generazione-impiego di capacità, la fase di sviluppo “genera” le risorse e le competenze in grado di “creare” valore attraverso il proprio impiego; la fase di impiego “realizza” quel valore potenziale e “rigenera” le risorse per lo sviluppo futuro (Madhok, 1997). Se, da un lato, un’enfasi esclusiva su processi di impiego senza sviluppo potrebbe provocare un esaurimento del vantaggio esistente, dall’altro processi di sviluppo senza impiego di risorse potrebbero comportare per l’impresa una combinazione vana di quegli asset senza essere in grado di coglierne i benefici potenziali. Lo studio della gestione dell’innovazione rimane in ogni caso un campo applicativo, guidato dalla pratica. Non esiste una teoria unica ed è interessante notare come negli anni si sia aperto a prospettive multidisciplinari: sono le teorie psicologiche a spiegare i processi creativi e la motivazione dei singoli individui verso l’innovazione; è la sociologia ad approfondire le relazioni collaborative fra organizzazioni; sono le scienze politiche a cogliere e a interpretare le influenze che le istituzioni possono esercitare sui processi innovativi delle imprese. Nell’approccio teorico di questo libro, la gestione strategica dell’innovazione si fonda sulla capacità dell’impresa di impegnare risorse e competenze nella costruzione di una strategia innovation-based e di appropriarsi del valore economico generato attraverso l’innovazione (tecnologica), come suggerisce il prossimo box.
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The term “innovation” is used widely and promiscuously. As a result there is an unhelpfully extensive range of activities included under the rubric of innovation management. If innovation management is said to include breakthroughs at the cutting edge of science, or revolutionary new business models, on the one hand, and providing new colours options for products, or forms for reporting, on the other, then its scope is too broad to develop coherent and meaningful analysis. Innovation is both an outcome and a process, a fact and an act. An innovative outcome involves the successful application of new ideas, which results from organizational processes that combine various resources for that end. Its objectives are to produce positive results for organizations and their employees, customers, clients, and partners – such as growth, profit, sustainability, and job security – with better and cheaper products and services for consumers, and personal satisfaction for its contributors. Achieving these requires a process that creates, delivers, and cap-
tures innovative outcomes by combining and coordinating resources – including people and knowledge, finance, technology, physical spaces, and networks – and their capabilities – that is, their bundles of skills. The innovative outcomes that have received the most attention by management researchers in the past have been in new and improved products, followed by operational processes, with services lagging a long way behind. These all remain important, even as the boundaries between them become blurred (smartphones, for example, can represent all three), but innovation is also found in new markets, ways of organizing, and constructing means of producing value in business models. Innovation management addresses all these types of innovation.
Dalla teoria alla pratica
Il concetto di innovazione negli studi di management
Fonte: M. Dodgson, D. Gann e N. Phillips, 2015, “Perspectives on innovation management”, in M. Dodgson, D. Gann e N. Phillips, The Oxford H andbook of Innovation Management, Oxford University Press.
1.5 Innovazione e impresa: importanza di una strategia Nella frenetica corsa all’innovazione, molte imprese si buttano a capofitto nello sviluppo di nuovi prodotti senza definire strategie chiare o predisporre processi ben articolati per la scelta e la gestione dei progetti. Così facendo, spesso avviano più progetti di quanti effettivamente possano sostenerne, oppure ne scelgono alcuni che non sono adatti per le risorse dell’impresa e coerenti con i suoi obiettivi: ne consegue perciò un allungamento dei cicli di sviluppo e un alto tasso di fallimento (si veda il box Quanto dura lo sviluppo di un nuovo prodotto?). Anche se l’innovazione viene comunemente descritta come un processo spontaneo e non strutturato, non governato da regole e sciolto dai vincoli della pianificazione, in realtà questa convinzione si è rivelata fallace e, nel tempo, la maggioranza degli studi empirici converge nel dimostrare che gli innovatori di successo si avvalgono invece di strategie di innovazione e processi di management ben delineati. In altre parole, come viene spiegato nel box di approfondimento, una strategia di innovazione è sempre necessaria.
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I risultati della ricerca Quanto dura lo sviluppo di un nuovo prodotto? In uno studio condotto su 116 imprese impegnate nello sviluppo di innovazioni businessto-business (ossia nuovi prodotti destinati al mercato formato da altre imprese invece che al mercato di consumo finale), Abbie Griffin ha preso in esame i tempi necessari allo sviluppo di un nuovo prodotto, dalla definizione del concetto di base fino all’introduzione nel mercato. Dallo studio è emerso che la durata del ciclo di sviluppo è correlata al grado di innovatività del progetto: al crescere del contenuto innovativo di un progetto, si allunga il percorso di sviluppo. In media, i miglioramenti incrementali di un prodotto già esistente richiedevano solo 8.6 mesi, mentre i miglioramenti di nuova generazione (ossia miglioramenti significativi del prodotto già esistente) comportavano tempi molto più lunghi, attestati a 22 mesi. Lo sviluppo di linee di prodotto nuove per l’impresa esigeva in media 36 mesi, mentre lo sviluppo di prodotti nuovi in assoluto o di nuove tecnologie prevedeva infine tempi ancora più lunghi, con una media di 53 mesi. Griffin ha riscontrato, inoltre, che negli ultimi cinque anni circa la metà delle imprese indagate aveva ridotto la durata del ciclo in media del 33%. Fonte: adattato da A. Griffin, “Product Development Cycle Time for Business-to-Business Products”, Industrial Marketing Management, n. 31, 2002, pp. 291-304.
Nonostante l’impegno di tempo e di energia dedicato dai manager e i massicci investimenti di risorse finanziarie, l’innovazione rimane non poche volte un’attività frustrante per molte imprese. I progetti di innovazione falliscono spesso e anche gli innovatori di successo incontrano difficoltà a sostenere le proprie performance, come hanno scoperto sulla propria pelle imprese come Polaroid, Nokia, Sun Microsystem, Yahoo! o Hewlett-Packard. Perché è così difficile costruire e conservare nel tempo la capacità di innovare? Le ragioni vanno ben al di là della causa che di solito viene citata: un fallimento di esecuzione. E invece il vero problema con gli sforzi di miglioramento dell’innovazione risiede nella mancanza di una strategia di innovazione. Una strategia non è niente di più di un impegno (commitment) verso un insieme di politiche o di comportamenti coerenti e che si rafforzano l’un l’altro, orientato al raggiungimento di un obiet-
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tivo competitivo ben definito. Le buone strategie promuovono l’allineamento fra le differenti unità o gruppi di persone all’interno di un’organizzazione, rendono chiare e condivise le priorità, favoriscono la convergenza delle energie di ciascuno verso gli obiettivi prefissati. Le imprese elaborano regolarmente le proprie strategie competitive, stabilendo raggio d’azione e posizionamento di mercato e anche in che modo le varie funzioni aziendali – marketing, finanza, produzione o R&S – contribuiranno al raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, è molto più raro che le imprese formulino strategie per allineare alle strategie competitive l’impegno da destinare ai processi innovativi. Senza una strategia per l’innovazione, però, gli sforzi per migliorare i processi innovativi rischiano di trasformarsi in una pesca miracolosa fra le best practice più celebrate negli ultimi anni: scomporre l’unità di R&S in team decentrati dotati di
Dalla teoria alla pratica
Perché è necessaria una strategia per l’innovazione
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forte autonomia; promuovere all’interno dell’impresa la nascita di progetti imprenditoriali; costituire un’unità di corporate venture capital; ricercare alleanze esterne; abbracciare la causa dell’open innovation o del crowdsourcing; collaborare con i clienti; implementare sistemi di prototipazione rapida. Non c’è nulla di sbagliato in queste pratiche di per sé. La questione di fondo è che la capacità di innovare di un’impresa deriva da un sistema di innovazione: un set coerente di processi e strutture interdipendenti che stabilisce come l’impresa si pone alla ricerca di nuovi problemi e nuove soluzioni, sintetizza le idee in un business concept e le converte in un design di prodotto, seleziona i progetti da finanziare. Le best practice prese singolarmente implicano delle scelte, dei trade-off: adottare una pratica specifica richiede molte modifiche collegate e simultanee nel resto del sistema di innovazione dell’impresa. E un’impresa senza una strategia per l’innovazione non sarà in grado di prendere decisioni fra opzioni alternative e di scegliere tutti gli elementi che costituiscono il sistema di innovazione. Scimmiottare il sistema di un’altra impresa non è la risposta. Non c’è alcun sistema che si adatta perfettamente a tutte le imprese o funziona in ogni circostanza. Naturalmente non c’è niente di sbagliato ad apprendere dagli altri, ma è un errore credere che ciò che funziona per Apple, per esempio, giusto per citare l’impresa considerata da molti un campione di innovazione, possa andar bene per un’altra organizzazione. Una strategia esplicita per l’innovazione consente invece di progettare un sistema che soddisfi le specifiche esigenze competitive di un’impresa. Infine, senza una strategia per l’innovazione, le differenti parti di un’organizzazione facilmente possono ritrovarsi a perseguire priorità confliggenti, anche se è stata elaborata una chiara strategia competitiva. I commerciali dell’azienda ascoltano ogni giorno le pressioni dei maggiori clienti e ne raccolgono le esigenze. Il marketing potrebbe scorgere l’opportunità di estendere la
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marca ad altri prodotti complementari o di espandere la quota di mercato attraverso nuovi canali distributivi. I responsabili delle unità di business sono concentrati sui target di mercato e a rispettare il budget. I ricercatori e gli ingegneri impegnati nell’area della R&S vedono interessanti novità nel campo delle tecnologie. Prospettive differenti sono essenziali per un’innovazione che abbia successo. Ma senza una strategia per integrare e allineare tali prospettive attorno a priorità condivise, la potenza della diversità si attenua o, peggio, diventa controproducente. Un buon esempio di come una stretta connessione fra la strategia di business e l’innovazione può condurre alla leadership di lungo termine è fornito dalla storia di Corning, un produttore di componenti adoperati nei display elettronici, nei sistemi di telecomunicazione e negli strumenti biomedicali. Nei suoi 160 anni di storia Corning ha ripetutamente trasformato il suo business e penetrato nuovi mercati attraverso innovazioni di rottura (la Tabella 1.3 indica alcune delle innovazioni breakthrough di Corning nell’arco della sua lunga storia). Quando si confronta l’azienda con le best practice correnti, l’approccio di Corning all’innovazione sembra sempre essere obsoleto, fuori moda. È ancora una delle poche imprese che ha mantenuto un laboratorio di R&S centralizzato, a Sullivan Park, in un’area di campagna nella parte a nord dello stato di New York. E investe molto in ricerca di base, un campo che molte imprese hanno abbandonato molto tempo fa, e in misura significativa anche nelle tecnologie di processo e negli impianti di produzione, continuando a mantenere una presenza manifatturiera negli Stati Uniti e così resistendo alla tendenza diffusa fra i concorrenti di trasferire all’estero le attività produttive. Eppure, quando lo si osserva attraverso le lenti della strategia, l’approccio di Corning all’innovazione ha perfettamente senso. La strategia competitiva dell’impresa si focalizza sulla vendita di keystone components, ovvero componenti-chiave
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Capitolo 1 – Introduzione 31
Tabella 1.3
Le innovazioni di Corning XIX secolo
1879
Involucro in vetro per la lampadina XX secolo
1912
Vetro per le lanterne lungo i binari ferroviari, in grado di resistere a variazioni estreme di temperatura
1915
Vetro pyrex resistente al calore per la cucina e per le attrezzature di laboratorio
1926
Macchina a nastro per la produzione di massa di lampadine
1932
Vetro di silice ad alta purezza (silice fuso), adoperato in seguito per specchi di telescopi e per la fibra ottica
1934
Siliconi, una classe di materiali a metà fra il vetro e la plastica
1947
Processo per la produzione di massa di tubi catodici per televisori
1952
Materiali in vetro-ceramica resistente al calore e agli urti, impiegati nella linea di prodotti per la cucina Corning Ware, ma anche per l’ogiva (la punta a cono) dei missili
1964
Processo di fusione per la produzione di vetro piano
1970
Fibra ottica a bassa perdita utilizzata nelle reti di telecomunicazione
1972
Substrati ceramici cellulari per la produzione di marmitte catalitiche e, in seguito, di motori diesel
1982
Vetro per display a cristalli liquidi (LCD) a matrice attiva per la produzione di schermi piatti ad alta qualità XXI secolo
2007
Gorilla Glass, vetro sottile e leggero con resistenza eccezionale a danni, impiegato nella produzione di smartphone, tablet e altri device nell’elettronica di consumo
2012
Vetro ultrasottile, flessibile e leggero per l’elettronica di consumo e per applicazioni nel design e nell’architettura
che migliorano in modo significativo le performance dei sistemi complessi dei suoi clienti. L’esecuzione di tale strategia impone a Corning di essere posta sempre sulla frontiera tecnologica della produzione di vetro e della scienza dei materiali così da poter risolvere i problemi sfidanti dei suoi clienti e scoprire nuove applicazioni per le sue tecnologie. Ciò richiede ingenti investimenti in ricerca di lungo termine. Centralizzando la R&S, Corning si assicura che ricercatori con differenti background scientifici, sottostanti le sue tecnologie di base, siano in grado di collaborare. Sullivan Park è diventato un repository (un deposito, ma anche una miniera) di competenze e di esperienze maturate nell’applicazioni della scienza dei materiali a problemi industriali. E, poiché i materiali innovativi spesso
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richiedono innovazioni di processo complementari, alti investimenti in produzione e in tecnologia sono un imperativo categorico, un dovere irrinunciabile. Inoltre, mantenendo una presenza produttiva in patria, l’impresa è in grado di spianare la strada al trasferimento delle nuove tecnologie dalla R&S alla produzione. La strategia di Corning, naturalmente, non è per tutti. Gli investimenti di lungo termine in ricerca di base sono rischiosi. La rovina del settore delle telecomunicazioni alla fine degli anni Novanta devastò l’area di business di Corning dedicata alla fibra ottica. Eppure, l’impresa mostra l’importanza di disporre di una strategia per l’innovazione strutturata in modo chiaro, in grado di collegarsi strettamente alla strategia competitiva e alle proposizioni di valore. Senza una
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32 Capitolo 1 – Introduzione
strategia analoga, la maggior parte delle iniziative tese a stimolare la capacità di un’impresa di innovare è destinata a fallire. Come per la creazione di qualsiasi buona strategia, il processo di sviluppo di una strategia per l’innovazione dovrebbe comin ciare con una chiara definizione degli obiettivi specifici che possono consentire a un’impresa di conseguire un vantaggio competitivo sostenibile. Ciò richiede di andare al di là di frasi generiche, come “Dobbiamo innovare per crescere” oppure “Noi innoviamo per creare valore” oppure ancora “Abbiamo bisogno di innovare per stare davanti ai nostri concorrenti”. Queste non sono strategie. Non forniscono alcun senso del tipo di innovazione che potrebbe essere indicato per l’impresa (o, al contrario, che potrebbe non servire). Piuttosto, una robusta strategia per l’innovazione dovrebbe rispondere a queste domande fondamentali: ⦁ in che modo l’innovazione creerà valore per i potenziali clienti? ⦁ in che modo l’impresa catturerà una quota del valore che le sue innovazioni generano? ⦁ quali tipi di innovazione permetteranno all’impresa di creare e catturare
INNOVAZIONE CHE RICHIEDE NUOVI MODELLI DI BUSINESS
INNOVAZIONE CHE FA LEVA SU MODELLI DI BUSINESS ESISTENTI
valore, e quali risorse dovrebbero essere destinate a ciascuna di questi tipi di innovazione? Senza dubbio, l’innovazione tecnologica è una fonte preziosa per la creazione di valore economico ed è anche un indispensabile driver del vantaggio competitivo. Tuttavia, alcune importanti innovazioni hanno poco a che a fare con le nuove tecnologie. Negli ultimi venti anni, una schiera di imprese, come per esempio Netflix, Amazon, LinkedIn e Uber, si sono dimostrate in grado di padroneggiare l’arte dell’innovazione del modello di business. Perciò, quando sono chiamate a riflettere sulle opportunità di innovazione, le imprese hanno a disposizione una scelta su quanto impegno dovrà essere destinato all’innovazione tecnologica e quanto dovrà essere invece investito nell’innovazione di business model. Una mappa, costruita lungo due dimensioni continue, qui per semplicità disegnate come assi di una matrice, può essere utile per raffigurare le differenti opzioni strategiche (Figura 1.1). Una prima dimensione è relativa al grado di cambiamento tecnologico; la seconda si riferisce al grado di cambiamento nel modello di business. Dall’incrocio delle due dimen-
DISRUPTIVE
ARCHITETTURALE
Software open source (per le imprese di software) Video on demand (per i servizi di noleggio DVD) Service di ride-sharing - di taxi tradizionali) (per le compagnie
Medicina personalizzata (per le case farmaceutiche) Fotografia digitale (per Polaroid e Kodak) Ricerca di notizie attraverso internet (per i giornali tradizionali)
DI ROUTINE
RADICALE
Una nuova generazione di serie 3 (per BMW) Un nuovo fondo indicizzato (per una societa di investimento) Un nuovo film animato in 3D (per Pixar)
Biotecnologia (per le case farmaceutiche) Motori jet (per i produttori di aerei) Cavo a fibra ottica (per le imprese di telecomunicazione)
INNOVAZIONE CHE FA LEVA SU COMPETENZE TECNOLOGICHE ESISTENTI
INNOVAZIONE CHE RICHIEDE NUOVE COMPETENZE TECNOLOGICHE
Figura 1.1 La mappa delle innovazioni
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Capitolo 1 – Introduzione 33
sioni, si identificano quattro differenti tipologie di innovazione, una per ciascun quadrante. L’innovazione di routine si basa sulle competenze tecnologiche che l’impresa già possiede e si adatta al modello di business esistente e, di qui, alla sua base di clienti. Un nuovo processore più potente che permetta a Intel di mantenere i suoi margini di profitto o una nuova versione di Microsoft Windows o dell’iPhone di Apple sono tutti esempi di innovazione di routine. L’innovazione disruptive, così battezzata dal suo “inventore” Clay Christensen, impone un nuovo modello di business ma non necessariamente un breakthrough tecnologico. Essa sfida, talvolta “distrugge”, i modelli di business delle imprese presenti che operano con approcci tradizionali al mercato. Il successo di Android, il sistema operativo per smartphone e altri device mobili progettato da Google, si fonda non sulla superiorità tecnologica quanto piuttosto sulla decisione di concederlo a tutti i produttori di handset, a differenza dei sistemi operativi di Apple o Microsoft. L’innovazione radicale è l’opposto un’innovazione disruptive, poiché la sfida è solo tecnologica. L’emergere dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie negli anni Settanta e Ottanta come approccio alternativo alla scoperta di nuovi farmaci ne rappresenta un caso esemplare. Le
case farmaceutiche con decenni di esperienza consolidata nei farmaci di sintesi realizzati attraverso procedimenti chimici hanno dovuto affrontare un duro ostacolo nell’acquisire le competenze (non possedute) nel campo della biologia molecolare. Tuttavia, i farmaci di origine biotecnologica si adattano bene ai modelli di business delle imprese farmaceutiche che hanno potuto finanziare gli elevati investimenti in R&S attraverso pochi prodotti ad altissimo margine. L’innovazione architetturale infine combina la discontinuità tecnologica con la distruzione dei modelli di business. Un esempio perfetto lo offre il caso della fotografia digitale. Per imprese come Polaroid e Kodak l’ingresso nel mondo digitale ha significato essere costrette a impadronirsi di nuove competenze nel campo dell’elettronica dello stato solido, del software, delle tecnologie di visualizzazione. Ha significato altresì cercare nuove soluzioni per trarre profitti dalle fotocamere invece che dai disposable, come pellicole fotografiche, carte per la stampa, reagenti chimici, e così via. Come si può immaginare, l’innovazione architetturale è la più difficile da perseguire per le imprese incumbent. Fonte: adattato da G. Pisano, “You need an innovation strategy”, Harvard Business Review, giugno 2015.
Modello a imbuto dell’innovazione
Gran parte delle idee innovative non si trasforma in nuovi prodotti di successo; molti studi suggeriscono che ciò accade solo a un’idea su qualche migliaio. Tanti progetti non sono in grado di evolvere in prodotti realizzabili sotto il profilo tecnico e, di quelli che ci riescono, solo pochi generano un rendimento di mercato adeguato agli investimenti. Secondo uno studio del 2012, solo uno su nove progetti di sviluppo di un nuovo prodotto intrapresi riesce a giungere al termine e, fra quelli che arrivano a essere lanciati sul mercato, solo una metà consegue un profitto. Inoltre, molte idee vengono vagliate e poi abbandonate prima che un progetto di sviluppo abbia formalmente inizio. In base a una ricerca che si è avvalsa sia dei risultati conseguiti da precedenti studi sul tasso di successo dell’innovazione sia di dati relativi ai brevetti, ai fondi di venture capital e a ricerche di mercato, occorrono circa 3000 idee prima di giungere a un prodotto nuovo e di successo nel mercato. Il caso dell’industria farmaceutica
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34 Capitolo 1 – Introduzione
dimostra bene quanto appena detto, offrendo uno spaccato esemplare del percorso selettivo che attraversa un’idea fino a diventare un prodotto di successo: soltanto uno, fra oltre 5000 composti, riesce a raggiungere gli scaffali di una farmacia e soltanto uno su 15 000 conseguirà un successo tale da consentire all’azienda di recuperare i costi di ricerca e sviluppo. Inoltre, passa almeno una decina di anni dalla scoperta del composto fino al lancio nel mercato del nuovo farmaco, con un costo complessivo stimato in 1.5 miliardi di dollari. Per questi motivi, il p rocesso di innovazione viene spesso raffigurato come un imbuto, nel quale entrano molte idee di potenziali nuovi prodotti, ma di queste solo pochissime riescono a superare tutte le fasi del processo di sviluppo e a raggiungere l’altra estremità (Figura 1.2).
Management strategico dell’innovazione tecnologica
Per migliorare il tasso di successo delle innovazioni di un’impresa, occorre elaborare una buona strategia. I progetti di innovazione dovrebbero essere coerenti con le risorse e gli obiettivi dell’impresa, facendo leva sulle sue competenze chiave (core competency) per contribuire al raggiungimento dell’intento strategico. La struttura organizzativa e i sistemi di controllo dell’impresa dovrebbero incoraggiare la generazione di idee innovative, garantendone al contempo un’efficiente realizzazione. Il processo di sviluppo di un nuovo prodotto dovrebbe massimizzare le probabilità di successo dei progetti sotto il profilo sia tecnico sia commerciale. Per conseguire questi obiettivi, è indispensabile che il management dell’impresa (1) abbia una conoscenza approfondita delle dinamiche
5000 composti
125 lead (composti-guida)
SCOPERTA E FASE PRECLINICA (3-6 ANNI)
2-3 farmaci testati
TRIAL CLINICI (6-7 ANNI)
1 farmaco approvato
APPROVAZIONE (0.5-2 ANNI)
Figura 1.2 L’imbuto dell’innovazione nell’industria farmaceutica
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dell’innovazione, (2) concepisca una strategia di innovazione ben strutturata e (3) formuli in modo adeguato i processi di implementazione della strategia di innovazione. In questo volume tratteremo di volta in volta ciascuno di questi aspetti (Figura 1.3). Nella Parte 1 illustreremo i principi di base dell’innovazione tecnologica, osservando in dettaglio il modo in cui si manifesta un’innovazione, i motivi che la determinano e i meccanismi che portano alcune innovazioni a imporsi su altre. Nel Capitolo 2 prenderemo in esame le fonti dell’innovazione, provando a rispondere a domande quali: da dove nascono le grandi idee innovative? In che modo le imprese possono incanalare la formidabile potenza della creatività individuale? Qual è il ruolo esercitato dai clienti, dalle istituzioni pubbliche, dalle università e dalle reti di collaborazione nella creazione e nello sviluppo dell’innovazione? In questo capitolo, per prima cosa, esploreremo il ruolo della creatività nella produzione di idee utili e inedite. In un secondo momento, osserveremo le varie fonti di innovazione, analizzando il ruolo del singolo inventore, delle imprese, della ricerca con finanziamento pubblico e dei collaborative networks. Nel Capitolo 3 passeremo in rassegna modelli e forme dell’innovazione tecnologica (distinguendo, per esempio, fra innovazioni radicali e incrementali, architetturali e modulari) e i percorsi evolutivi dell’innovazione (mostrando le curve a forma di S della diffusione e della performance di una tecnologia, nonché i cicli tecnologici). Nel corso del capitolo, risponderemo a domande quali: perché alcune innovazioni risultano molto più difficili da creare e da realizzare rispetto ad altre? Perché, pur sembrando offrire vantaggi notevoli, alcune innovazioni si diffondono lentamente nel mercato? Quali fattori influenzano il tasso di miglioramento di una tecnologia nel tempo? La familiarità con tali forme e modelli evolutivi dell’innovazione sarà utile a distinguere progetti differenti per natura e a individuare i fattori che determinano le probabilità di successo tecnico e di mercato di ciascun progetto. Nel Capitolo 4 ci dedicheremo alle affascinanti dinamiche dei settori caratterizzati da rendimenti crescenti, nei quali le forti pressioni che spingono per l’adozione di un unico disegno dominante possono innescare un conflitto tra standard alternativi e determinare una condizione di mercato winner-takes-all, nel quale il progetto che si afferma conquista l’intero mercato. Risponderemo a domande quali: perché alcuni settori convergono verso un unico standard dominante invece di consentire a una molteplicità di standard di coesistere? Che cosa determina l’affermazione di un’innovazione tecnologica su tutte le altre, anche quando sono disponibili tecnologie alternative apparentemente superiori? In che modo un’impresa può evitare di essere esclusa dal mercato? E come può agire per accrescere le probabilità che la propria tecnologia si imponga quale disegno dominante? Nel Capitolo 5 analizzeremo l’impatto della scelta del tempo d’ingresso, illustrando vantaggi e svantaggi del first mover, ovvero dell’impresa che compie la prima mossa, e i fattori che determinano la strategia d’entrata ottimale. In questo capitolo risponderemo a domande come: quali sono, per un’impresa, i rischi e i benefici associati a un ingresso sul mercato per prima in assoluto, tra le
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36 Capitolo 1 – Introduzione
Capitolo 1 Introduzione
Parte 1 Dinamiche dell’innovazione tecnologica Capitolo 2 Fonti dell’innovazione
Capitolo 3 Forme e modelli dell’innovazione
Capitolo 4 Conflitti di standard e disegno dominante
Capitolo 5 Scelta del tempo d’ingresso nel mercato
Parte 2 Elaborazione di una strategia di innovazione tecnologica Capitolo 6 Definizione dell’orientamento strategico
Capitolo 7 Scelta dei progetti di innovazione
Capitolo 8 Strategie di collaborazione
Capitolo 9 Meccanismi di protezione dell’innovazione
Parte 3 Implementazione di una strategia di innovazione tecnologica
Capitolo 10 Organizzazione dei processi di innovazione
Capitolo 11 Gestione dei team per lo sviluppo di un nuovo prodotto
Capitolo 12 Gestione del processo di sviluppo di un nuovo prodotto
Capitolo 13 Formulazione di una strategia di marketing per l’innovazione
Capitolo 14 Strategie di innovazione nelle piccole e medie imprese
Feedback
Figura 1.3 Management strategico dell’innovazione tecnologica
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Capitolo 1 – Introduzione 37
prime o tra le ultime? Quali fattori determinano il momento d’entrata ottimale per una nuova innovazione? Questo capitolo presenta una serie di pattern ricorrenti che mostrano l’impatto del timing di entrata sul successo dell’innovazione e identifica quali fattori possano influenzare la scelta del momento migliore per entrare nel mercato. Con questo argomento, entriamo nella Parte 2 del volume, passando dall’analisi delle dinamiche dell’innovazione tecnologica alla formulazione di una strategia tecnologica, che sarà oggetto dei capitoli successivi. Il Capitolo 6 è dedicato ai principi di base della valutazione della posizione attuale di un’impresa e della definizione dell’orientamento strategico per il futuro. In questo capitolo risponderemo a domande come: quali sono le fonti di un vantaggio competitivo sostenibile per l’impresa? Dove risiedono i punti di forza e di debolezza nella catena del valore dell’impresa? Quali sono le competenze chiave dell’impresa e in che modo si dovrebbe fare leva sul patrimonio di risorse per arricchirlo e rinnovarlo nel tempo? Qual è l’intento strategico dell’impresa, come dire quale posizione competitiva intende raggiungere tra dieci anni? Solo dopo aver valutato in modo accurato la propria posizione attuale, l’impresa può formulare una strategia di innovazione tecnologica coerente per il futuro. Nel Capitolo 7 illustreremo i metodi per la scelta dei progetti di innovazione, spaziando dai metodi quantitativi, quali le tecniche basate sui flussi di cassa e sulla valutazione di opzioni, ai metodi qualitativi, quali i modelli di screening e di equilibrio del portafoglio di ricerca e sviluppo, per poi passare ad altri metodi che combinano gli approcci qualitativi e quantitativi, come la conjoint analysis. Poiché ciascuno di questi metodi presenta vantaggi e svantaggi, molte aziende scelgono un approccio misto che si avvale di una pluralità di metodi per la scelta dei progetti di innovazione. Nel Capitolo 8 affronteremo il tema delle strategie di collaborazione finalizzate all’innovazione. In questo capitolo risponderemo a domande quali: le imprese dovrebbero affrontare un determinato progetto di innovazione da sole o con dei partner? In che modo l’impresa decide quali attività svolgere al proprio interno (in-house) e a quali invece accedere mediante accordi di collaborazione? Se un’impresa sceglie di lavorare con un partner, come dovrebbe essere strutturato l’accordo? In che modo l’impresa sceglie e controlla i propri partner? Cominceremo con un’analisi dei motivi che potrebbero spingere un’impresa ad agire da sola o con dei partner; quindi esamineremo i rischi e i benefici associati alle forme di partnership, tra cui le joint-ventures, le alleanze, la concessione di licenza, l’outsourcing e la partecipazione a progetti in collaborazione con organizzazioni di ricerca. Nel corso del capitolo, inoltre, passeremo in rassegna i fattori che dovrebbero influenzare la selezione e il controllo dei partner. Nel Capitolo 9 ci soffermeremo sulle opzioni a disposizione dell’impresa per proteggere e mantenere il controllo delle rendite generate dal proprio impegno nei processi di innovazione e osserveremo i meccanismi che regolano i brevetti, il copyright, i marchi e i segreti industriali. In questo capitolo risponderemo a domande quali: ci sono casi in cui all’impresa converrebbe puntare non tanto sulla protezione quanto piuttosto sulla diffusione della propria innovazione tecnologica? In base a quali criteri un’impresa sceglie tra una strategia di controllo diretto sulle tecnologie proprietarie e una strategia aperta o parzialmente
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38 Capitolo 1 – Introduzione
aperta per proteggere i risultati del processo di innovazione? Quando conviene adottare una strategia aperta? Questo capitolo prende in esame le opzioni di protezione possibili e la complessa serie di trade-off che l’impresa deve considerare elaborando la sua strategia di protezione. Nella Parte 3 tratteremo il tema dell’implementazione di una strategia di innovazione tecnologica. L’analisi si apre, nel Capitolo 10, esaminando l’influenza di variabili quali le dimensioni e la struttura di un’organizzazione sul tasso complessivo di innovatività. Nel corso di questo capitolo risponderemo a domande quali: le grandi imprese hanno maggiore successo delle piccole imprese in termini di innovazione? In che modo la formalizzazione, la standardizzazione e la centralizzazione incidono sulle probabilità di generare idee innovative e sulla capacità di convertire tali idee in prodotti in modo rapido ed efficace? Si riesce a essere al contempo creativi e flessibili, ma anche efficienti e affidabili? In base a quali criteri le imprese con una presenza internazionale decidono dove stabilire le proprie attività di sviluppo e in che modo coordinano tali processi per indirizzarli verso un obiettivo comune anche quando si svolgono in più Paesi? In questo capitolo osserveremo in che modo le organizzazioni possano bilanciare i benefici e i trade-off della flessibilità, delle economie di scala, della standardizzazione, della centralizzazione, da un lato, con il tentativo di attingere dalla conoscenza radicata nei mercati locali, dall’altro. Il Capitolo 11 riprende i temi affrontati nel capitolo precedente, spiegando in che modo la composizione e la struttura dei team per lo sviluppo di un nuovo prodotto possano influenzare gli esiti di un progetto. In questo capitolo risponderemo a domande come: quali sono le dimensioni ideali di un team? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di un team i cui membri hanno competenze molto eterogenee? È indispensabile che i team abbiano una collocazione fisica? Quando converrebbe istituire dei team permanenti? Quale stile di leadership e quali pratiche manageriali conviene adottare? Questo capitolo offre indicazioni dettagliate per la costituzione di un team per lo sviluppo di un nuovo prodotto adatto al tipo di progetto intrapreso. Nel Capitolo 12 illustreremo una serie di best practice che si rinvengono in casi esemplari di gestione del processo di sviluppo dei nuovi prodotti. Risponderemo a domande quali: i processi di sviluppo di nuovi prodotti dovrebbero essere svolti in sequenza o in parallelo? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’utilizzo di un champion di progetto? Quali sono i rischi e i benefici associati al coinvolgimento dei clienti e dei fornitori nel processo di sviluppo? Quali strumenti può utilizzare l’impresa per rendere i propri processi di sviluppo più efficaci ed efficienti? In che modo l’impresa valuta se il processo di sviluppo di un nuovo prodotto avrà successo? Questo capitolo fornisce un’approfondita rassegna dei metodi elaborati per migliorare la gestione di un progetto per lo sviluppo di un nuovo prodotto e per misurarne la performance. Nel Capitolo 13, disponibile sul sito web del volume, rifletteremo sui modi in cui un’impresa può impiegare le sue risorse per affrontare il processo di marketing dell’innovazione. Risponderemo a domande quali: come possiamo accelerare l’adozione di un’innovazione tecnologica? In base a quali criteri possiamo decidere se fare ricorso a licenze o ad accordi con i produttori di apparecchiature originali
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Capitolo 1 – Introduzione 39
(OEM, Original Equipment Manufacturer)? Conviene adottare una politica di prezzo basata sulla penetrazione o sulla scrematura del mercato? Quali strategie dovrebbe preferire l’impresa per incoraggiare i distributori e i fornitori di beni complementari a sostenere l’innovazione? Le tematiche analizzate in questo capitolo costituiscono un’integrazione ai corsi dedicati al marketing, ma sono affrontate qui nella prospettiva dell’elaborazione di una strategia finalizzata a sostenere il processo di introduzione nel mercato di un’innovazione tecnologica. Infine, il Capitolo 14 sarà dedicato ad approfondire il tema delle strategie di innovazione dalla prospettiva di un’impresa di piccole dimensioni. È un tema fondamentale per l’Italia e il modello italiano di capitalismo, fondato proprio sulle piccole e medie imprese. Ricerche condotte negli ultimi anni dimostrano che le medie imprese ad alta tecnologia, in grado di presidiare nicchie sottili del mercato globale, sono l’elemento più dinamico dell’economia italiana. Come innovano le piccole e medie imprese? Quali sono le innovazioni che realizzano pur senza destinare formalmente risorse finanziarie alla R&S? In quale misura le relazioni collaborative con i clienti alimentano i processi innovativi delle piccole imprese? E come i modelli di innovazione aperta potrebbero consentire alle piccole imprese di attenuare il gap dimensionale? Quali strumenti e quali soluzioni organizzative possono adottare per accelerare i processi di sviluppo di nuovi prodotti? Il capitolo cerca di esplorare questi temi, mostrando le sfide decisive che le piccole e medie imprese sono chiamate ad affrontare per competere nel mercato attraverso l’innovazione.
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