Storia del cinema. Un’introduzione, 6e - Capitolo 17

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

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In questo periodo alcuni registi europei cercarono di imitare le produzioni hollywoodiane per far fronte alla concorrenza statunitense, ma la loro strategia si rivelò costosa e poco efficace; altri, invece, scelsero di differenziare il prodotto locale dall’offerta di Hollywood, come è evidente considerando la presenza dei nuovi fermenti cinematografici in Germania, URSS e altrove. In Europa occidentale si puntò sulle coproduzioni che, spesso sfruttando sussidi statali, erano realizzate da artisti di provenienza diversa per una distribuzione internazionale. In seguito i progetti di questo tipo poterono contare sul sostegno dei governi locali, dell’Unione Europea e dei grandi gruppi del settore delle comunicazioni. In Europa orientale e in Unione Sovietica la maggior parte dei registi lavorò nel rispetto delle linee politiche imposte dall’alto; nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, le nazioni che si liberarono dal dominio sovietico tentarono l’ingresso nel mercato cinematografico mondiale.

17.1 L’Europa occidentale: la situazione economico-produttiva La crisi dell’industria cinematografica In Europa, a metà degli anni Settanta, il boom economico del dopoguerra si era ormai arrestato e a risentirne fu anche l’industria cinematografica: il numero degli spettatori continuò infatti a calare e molte sale furono costrette a chiudere. Tuttavia, la causa principale di questo fenomeno fu la televisione, ormai a colori e con una buona qualità dell’immagine, mentre, a partire dal decennio successivo, ebbe un ruolo decisivo la diffusione delle videocassette. Come accadeva negli Stati Uniti, sempre meno film riuscivano a registrare incassi consistenti e molti di essi erano destinati a un pubblico giovane, fra i quindici e i venticinque anni. In ogni caso, una porzione significativa dei guadagni finiva nelle casse di Hollywood. Dalla fine degli anni Quaranta le grandi compagnie americane possedevano le più potenti società di distribuzione in Europa, assicurando ai film statunitensi le sale migliori e scoraggiando le importazioni da altri Paesi, nonostante quote, tasse e altre misure protezionistiche. Per un certo periodo si pensò che i finanziamenti americani avrebbero potuto favorire gli autori più affermati. Ma, con la significativa eccezione del film-scan-

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dalo Ultimo tango a Parigi (di Bernardo Bertolucci, 1972), nella maggior parte dei casi i film con ambizioni artistiche finanziati da Hollywood si rivelarono degli insuccessi. Grazie alle strategie adottate dopo la seconda guerra mondiale, i sussidi statali aiutarono i vari cinema nazionali a superare le difficoltà: i governi sostennero i produttori con prestiti, concessioni e premi. Diversi Paesi si ispirarono alla soluzione francese dei finanziamenti calcolati sulla previsione di quanto il film avrebbe guadagnato, poi recuperati grazie a una percentuale sugli incassi. I registi europei potevano fare affidamento anche sui sistemi di coproduzione inaugurati nel dopoguerra. In alcuni casi le risorse derivavano da società indipendenti che univano le proprie forze, ma nella maggior parte erano di provenienza governativa. Il sostegno statale è rimasto determinante nel corso dei decenni, anche durante la recessione del 2008. Nel 2013, i governi europei hanno messo a disposizione più di 4 miliardi di dollari per i film e i progetti televisivi. Nel 2016 la Spagna ha istituito un fondo di 35 milioni di dollari per la produzione di lungometraggi, mentre la Germania, una delle principali industrie cinematografiche dell’UE, ha aumentato il totale dei sussidi a 160 milioni di dollari. Poiché il budget medio di un film euro-

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Il sostegno della televisione Fino alla prima metà degli anni Settanta la televisione europea fu dominata da enti pubblici statali come la British Broadcasting Corporation (BBC), l’Office de Radiodiffusion Française (ORTF) e la Radiotelevisione Italiana (RAI), che erano riuscite a limitare la pubblicità presentandosi come forme di espressione della cultura nazionale. Negli anni Sessanta e Settanta il cinema d’autore ebbe spesso il sostegno degli enti televisivi, innanzitutto nella Germania occidentale: il giovane cinema tedesco, lanciato al Festival di Oberhausen del 1962, aveva subito tagli nei finanziamenti statali, ma dal 1974 un nuovo accordo fra cinema e televisione offrì condizioni favorevoli per le coproduzioni, affidando all’Autorenfilm (il film d’autore) il compito di elevare il livello medio della programmazione televisiva con riferimenti all’arte e alla cultura nazionale. L’accordo del 1974 regalò al cinema nuova linfa e molti registi tedeschi ottennero fama e finanziamenti internazionali. Grazie a esso anche le registe donne videro finalmente aumentare le possibilità di girare film. Altre televisioni nazionali cominciarono a sostenere il cinema seguendo il modello tedesco; presto, tuttavia, la crisi della metà degli anni Settanta e la diminuzione delle entrate della televisione pubblica costrinsero molti governi a dare il via libera alle reti commerciali. L’espansione più sregolata delle reti televisive avvenne in Italia, dove sorse un gran numero di piccole emittenti locali, alcune delle quali con una programmazione estesa a ventiquattro ore al giorno. Inoltre, grazie allo sviluppo della televisione via cavo e satellitare, in alcuni Paesi fu possibile ricevere i programmi da tutta l’Europa. Con il proliferare dei canali commerciali, la frequenza nei cinema precipitò. In Italia, dove i quattrocento canali televisivi locali arrivarono a programmare duemila film alla settimana, le sale persero circa cinquanta milioni di presenze all’anno. Nella Germania occidentale il governo continuò a finanziare film d’arte a basso costo, gran parte dei quali non venne mai distribuita nelle sale. Alcuni registi risposero con opere ibride che potevano diventare veri e propri “eventi” per entrambi i mezzi di comunicazione, come gli interminabili filmserie Berlin Alexanderplatz (di Rainer Werner Fassbinder, 1980) e Heimat (Heimat - Eine Chronik in elf Teilen di Edgar Reitz, 1984).

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La risposta più decisa alla crisi venne, di nuovo, dalla televisione. Coinvolte in un sistema di forte competizione, le nuove reti commerciali avevano bisogno di film recenti da trasmettere. Finanziando opere in grado di recuperare i costi con la programmazione nelle sale prima del passaggio televisivo, esse si garantivano un buon investimento. Così, negli anni Ottanta, le società televisive private cominciarono a sostenere l’industria cinematografica; in Italia Silvio Berlusconi, proprietario di diverse reti, nel 1985 iniziò a investire nei film, arrivando a coprire il quaranta per cento dei finanziamenti alla produzione italiana. Nel Regno Unito le nuove politiche statali spinsero i produttori verso la televisione: nel 1982 il governo conservatore di Margaret Thatcher sospese di fatto i finanziamenti governativi. Channel 4 si trovò a svolgere un ruolo centrale producendo circa dodici film all’anno, compresi successi internazionali come I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, di Peter Greenaway, 1982) e My Beautiful Laundrette (di Stephen Frears, 1985; Figura 17.1). La BBC ha trasmesso drammi di Ken Loach, Alan Clarke e di altri registi che avrebbero poi continuato la loro carriera nel cinema, apportandovi un grezzo realismo (Figura 17.2).

Fonte: My Beautiful Laundrette, di Stephen Frears, 1985.

peo era inferiore ai 3 milioni di dollari, questi fondi hanno sostenuto diversi progetti. Anche le società di distribuzione hanno goduto di sostegni statali. Il prototipo dell’“eurofilm” comprendeva nel cast grandi attori italiani, francesi e tedeschi; di origine diversa erano anche il regista e la troupe, così come le riprese, che potevano essere effettuate in vari Paesi. Con l’aumento delle coproduzioni fra Oriente e Occidente, l’URSS e l’Europa orientale presero parte a progetti di successo. Tra il 1975 e il primo decennio del Duemila si affermarono nuove strategie a supporto del cinema europeo.

Figura 17.1 My Beautiful Laundrette era originariamente destinato alla televisione, ma la sua descrizione del razzismo, dell’omosessualità e della lotta di classe lo portò nelle sale, dove ottenne un grande successo. In questo fotogramma il giovane pachistano e il suo amante inglese si scontrano con una banda ostile.

Fonte: Scum, di Alan Clarke, 1979.

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Figura 17.2 Alan Clarke realizzò Scum (1979), uno studio violento sulle condizioni carcerarie come film dopo che la BBC rifiutò di trasmettere la versione televisiva realizzata due anni prima.

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In Francia fu chiesto alla rete via cavo Canal Plus di impiegare fondi per la produzione: nel 1987, tramite StudioCanal, era ormai diventata una delle principali fonti di finanziamento per il cinema francese. Grazie a successi del calibro di Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, di Jean-Pierre Jeunet, 2001) e L’alba dei morti dementi (Shaun of the Dead, di Edgar Wright, 2004), StudioCanal diventò una delle case di produzione europee più ricche. Il progressivo affermarsi della televisione commerciale non eclissò del tutto il ruolo di quella pubblica. Nel 1992 da un accordo tra lo stato francese e i Länder tedeschi nacque ARTE, un canale culturale visibile in tutta Europa. ARTE iniziò ad acquistare i diritti di trasmissione televisiva dei film dopo l’uscita nelle sale, finanziando nuove produzioni e il restauro di classici. La sua programmazione si concentrò sui documentari, ma contribuì anche a sovvenzionare film quali il danese Dancer in the Dark (di Lars von Trier, 2000), il tedesco Le vite degli altri (Das Leben der Anderen, di Florian Henckel von Donnersmarck, 2006) e il romeno 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 sǎptǎmâni şi 2 zile, di Cristian Mungiu, 2007).

I capitali privati e la Comunità Europea I gruppi del settore delle comunicazioni, i consorzi privati di investimento e le banche assunsero un ruolo sempre più attivo nell’industria del cinema. In risposta al calo di frequenza degli anni Ottanta, i governi cercarono di attrarre capitali privati a sostegno del cinema. In Italia, la RAI stipulò un accordo con il gruppo Cecchi Gori per la produzione di quindici film all’anno, con un investimento maggiore da parte della RAI, in cambio dei diritti televisivi. Il calo degli spettatori che si verificò negli anni Ottanta spinse la stessa Comunità Europea a intervenire in favore del cinema. Nel 1991 i dodici Paesi membri diedero vita a MEDIA, un programma per lo sviluppo delle industrie audiovisive del continente che offriva prestiti ai progetti di produzione e, tramite lo European Film Distribution Office, incentivi finanziari ai distributori di film importati. MEDIA fondò inoltre l’agenzia European Film Promotion con lo scopo di organizzare festival del cinema e favorire gli spostamenti di registi, attori e agenti. Il fondo Eurimages, creato nel 1988, ha sostenuto centinaia di film, compresi quelli di registi dell’Europa orientale e della Turchia. Fin dagli anni Cinquanta le coproduzioni e i progetti finanziati da più Paesi erano stati considerati insipidi eurofilm, privi di qualsiasi elemento di identità nazionale – una critica, questa, che rifletteva il timore di veder scomparire le differenze fra le varie culture. La diffidenza nei confronti degli eurofilm si era intensificata con il crescere degli investimenti internazionali e delle partecipazioni televisive. L’opera cinematografica di grande richiamo, nella tradizione dei film epici degli anni Cinquanta e Sessanta di Sam

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Spiegel e David Lean, riprese vita con L’ultimo imperatore (The Last Emperor, di Bernardo Bertolucci, 1987). Anche un esordio poteva diventare un prodotto internazionale. Toto le héros - Un eroe di fine millennio (Toto le héros, di Jaco Van Dormaël, 1991) venne finanziato dal governo belga, dalla ZDF tedesca, dalla televisione pubblica francese e da quella belga, da Canal Plus, MEDIA, Eurimages e dal fondo europeo per le sceneggiature dell’Unione Europea. Van Dormaël impiegò tre anni per decidere in quale lingua e in quale luogo il film doveva essere girato. Dopo aver vinto la Caméra d’or al Festival di Cannes, il film attirò il pubblico europeo, giapponese e persino statunitense. Fu criticato da alcuni osservatori, che lo cosideravano un “europudding”, ma per altri rappresentò l’emblema di come un’opera prima potesse avere successo grazie all’impiego delle risorse pubbliche e private di tutta Europa. Verso la fine degli anni Ottanta si consolidò la cooperazione fra gli apparati pubblici, le reti televisive, le società di investimento e gli organismi dell’Unione Europea. Nel contempo furono creati la European Film Academy, che ogni anno assegnava premi sul modello degli Oscar americani, e un ente con sede a Lisbona – chiamato Lumière – con il compito di coordinare l’attività delle cineteche europee. Ma, nonostante tutto, non si riuscì a dar vita a un’industria forte e coesa, in grado di competere con Hollywood. Verso la fine del primo decennio del Duemila i film americani continuavano a raccogliere il cinquanta per cento e oltre degli incassi al botteghino; rispetto agli anni Ottanta, in alcuni Paesi gli introiti erano addirittura raddoppiati. In Europa, inoltre, si distribuivano molti più film di quanti il mercato fosse in grado di assorbire. Dei mille film distribuiti nel 2007, solo la metà recuperò gli investimenti, e ottocento non vennero mai proiettati al di fuori del Paese d’origine. Persino i segnali positivi, come la crescita degli spettatori e l’espansione delle multisale, in genere avvantaggiavano i film americani più che i prodotti locali. I film europei avevano maggiori possibilità di successo se venivano girati in lingua inglese e se vantavano la presenza nel cast di star hollywoodiane, come Il quinto elemento (Le Cinquième élément, The Fifth Element, di Luc Besson, 1997), Dogville (di Lars von Trier, 2003) e Profumo - Storia di un assassino (Perfume: The Story of a Murderer, di Tom Tykwer, 2006). Aggiungendo al danno la beffa, alcuni successi europei furono finanziati dagli studio statunitensi. Per ironia della sorte, una delle società di produzione e distribuzione europee di maggior successo si rifiutò di avvalersi di queste facilitazioni. Luc Besson, il regista di Nikita (1990), Léon (1994) e Il quinto elemento (Figura 17.3), inaugurò con Taxxi (Taxi, di Gérard Pirès, 1998) una serie redditizia di film d’azione brillanti e realizzò diversi prodotti di genere molto popolari. Nel 2000 fondò la EuropaCorp grazie a un prestito bancario, rifiutando di avvalersi dei sussidi statali, e dichiarò di voler realizzare film che fossero supportati direttamente dal pubblico. Besson criticò l’approccio autoriale che domi-

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Fonte: Il quinto elemento (The Fifth Element), di Luc Besson, 1997.

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Figura 17.3 Ne Il quinto elemento (The Fifth Element, 1997), il film più costoso girato in Europa, Besson ricorre a scenografie e riprese spettacolari, tipiche del cinema hollywoodiano, riscuotendo ampio successo presso il pubblico.

nava il cinema francese; si scelse il ruolo di produttore creativo e si riservò il compito di trovare l’idea giusta per il film e di supervisionare la sceneggiatura, affidando la regia ad altri. La EuropaCorp produsse commedie, film drammatici e persino opere di prestigio dirette dallo stesso Besson (Angel-A, 2005), ma mostrò di prediligere i film d’azione a basso costo. Nel 2008 Besson si dedicò alla creazione di una “cittadella del cinema” da centonovanta milioni di dollari, dotata di nove set insonorizzati e servizi di post-produzione, che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto competere con Cinecittà e Babelsberg. Populista convinto, contrario a mostrare i propri film in anteprima

alla critica, Besson fu accusato di limitarsi a copiare Hollywood. Eppure la maggior parte dei suoi film reca le tracce della cultura locale nel linguaggio, nella comicità e nella mescolanza etnica; i set per Il quinto elemento rispecchiavano lo stile caratteristico dei fumettisti francesi e Taxxi trasformò in una star l’attore di origine algerina Samy Naceri. L’esperienza di Besson racchiude il dilemma tipico del regista europeo di fronte a due strade possibili: rifiutare il modello americano e perdere spettatori, o cercare di imitare Hollywood, conservando però nei film un sapore locale. Nonostante i finanziamenti e le diverse iniziative, la produzione europea non è mai riuscita ad attuare una vera e propria unificazione, e non ha mai seriamente minacciato il dominio di Hollywood (vedi la scheda su Le identità ibride del cinema europeo contemporaneo a pag. 357). Alla fine degli anni 2010, i film americani costituivano ancora i due terzi degli incassi nei Paesi dell’UE. Le industrie europee si sono caratterizzate per la sovrapproduzione: dai 900 film negli anni Settanta, a 1100-1300 pellicole realizzate negli anni 2010. Pochissimi di questi film vengono distribuiti al di fuori del loro Paese di origine, e pochi sono in grado di assicurare dei profitti. Come i musei, l’opera, il teatro e altre istituzioni culturali, il cinema dipende dalle sovvenzioni pubbliche. Nello stesso tempo, costituisce un settore che offre centinaia di migliaia di posti di lavoro e che ha mantenuto tratti europei distintivi sia come intrattenimento che come prodotto artistico.

17.2 L’Europa occidentale e il cinema d’arte di massa Come indica il successo di Luc Besson, i generi popolari europei mantennero una certa stabilità. La maggior parte dei registi si rivolgeva agli spettatori locali, ma alcuni generi riuscivano ad attrarre il pubblico internazionale. Tra questi c’era sicuramente la commedia italiana, da Pane e cioccolata (di Franco Brusati, 1973) a Ladri di saponette (di Maurizio Nichetti, 1989), a La vita è bella (di Roberto Benigni, 1997) e La grande bellezza (di Paolo Sorrentino, 2013). Anche le commedie sexy francesi e l’eccentrico umorismo britannico (i film dei Monty Python, per esempio) mantennero una buona posizione sia nel mercato nazionale sia in quello straniero. I polizieschi francesi, intrisi di malinconia, continuavano ad avere successo. I gialli inglesi restavano fedeli alle atmosfere cupe della tradizione, come Mona Lisa (di Neil Jordan, 1986; Tavola a colori 17.1). In genere le commedie tedesche non venivano esportate, ma Der Schuh des Manitu (La scarpa di Manitu, di Michael Herbig, 2001), Good Bye Lenin! (di Wolfgang Becker, 2003) e Vi presento Toni Erdmann (Toni Erdmann, di Maren Ade, 2016) ebbero successo in tutto il mondo.

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Nel campo del cinema con ambizioni artistiche, si sono manifestate soprattutto negli anni Duemila due tendenze opposte ed estreme. Da un lato si è verificato un rallentamento del ritmo narrativo; dall’altro si è imposto uno stile nervoso volto a coinvolgere visceralmente gli spettatori. In realtà quello che alcuni critici hanno chiamato “slow cinema” potrebbe meglio essere definito come “cinema più lento”. Infatti, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi i registi avevano inserito tempi morti e rallentamenti nella narrazione, ad esempio nel neorealismo, ma anche i film d’autore e quelli degli anni Settanta – da Dreyer a Antonioni, Bresson, Tarkovsky e Straub Huillet – avevano allungato i tempi narrativi. Ora i registi più giovani hanno ulteriormente spinto questa tendenza creando film statici e severi, con lunghe inquadrature dove i paesaggi e gli interni vuoti prevalgono sul dramma, e i personaggi, impassibili, raramente rivelano aspetti della loro vita interiore. Per esempio Juventude em marcha (di Pedro Costa, 2006) presenta una camera immobile che registra le vite semi-romanzate del sottoproletariato

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LE IDENTITÀ IBRIDE DEL CINEMA EUROPEO CONTEMPORANEO Il cinema europeo è un oggetto sfuggente, sempre indicato come un obiettivo da raggiungere nel quadro delle politiche culturali dell’Unione europea, ma all’atto pratico risultato di dinamiche creative in continua evoluzione. Il cinema europeo contemporaneo come entità esiste eccome – e la grande mole di studi che gli sono stati dedicati ne è piena testimonianza –, tuttavia appare sempre più problematico definirne i contorni in maniera precisa. Man mano che ci si avvicina al nuovo millennio, quelli che sembravano essere tratti costitutivi del cinema europeo ereditati dal Novecento appaiono oramai anacronistici. Si veda ad esempio la storica opposizione rispetto a Hollywood, basata anche sul cinema d’autore e sull’idea di cinema come forma d’arte nel vecchio continente. Il decentramento dell’Europa determinato dalla globalizzazione ha fatto sì che Paesi cinematograficamente forti come la Francia, l’Italia o la Germania, nonostante continuino a promuovere festival internazionali di primo livello, occupino oramai un ruolo spesso marginale sia negli incassi su scala mondiale, sia nei premi vinti. Osservato dall’esterno (e non solo dagli Stati Uniti) il cinema europeo ha perso una vera e propria identità ed è finito per essere assimilato alla categoria generica di “world cinema”, entro la quale ritroviamo cinematografie in forte espansione, come quelle provenienti dalla Corea del Sud o Hong Kong, o il cinema africano. Questi che appaiono come elementi di debolezza, soprattutto se paragonati al prestigio culturale del passato, paradossalmente hanno finito per rivelarsi altrettanti vantaggi. La marginalità culturale ed economica del cinema europeo gli consente di superare in autonomia le logiche imperanti nel sistema produttivo hollywoodiano che, in seguito alla caduta del muro di Berlino, ha smesso di guardare con interesse al valore strategico del vecchio continente, per rivolgere le sue attenzioni economiche soprattutto al mercato asiatico, con la Cina ormai al primo posto. Per il cinema europeo sono secondarie sia la stretta divisione in generi tipica del cinema americano, sia la narrazione del post-11 settembre. Altrettanto secondaria è la prospettiva nazionale, un tempo determinante nel caratterizzare le varie scuole cinematografiche. Ciò non è solo dovuto al ricorso massiccio

(Figura 17.4). In Il canto degli uccelli (El cant dels ocells, di Albert Serra, 2008) la storia della nascita di Gesù avviene in un clima austero e quasi immobile, con alcune inquadrature che accentuano il lato umoristico e altre che sottolineano la devozione spirituale (Figura 17.5).

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a co-produzioni, ma deve essere letto alla luce dei nuovi equilibri geo-politici e culturali all’interno della comunità europea. I marcatori identitari più tradizionali come quelli della lingua e della storia nazionale hanno perso peso sotto la spinta dei flussi migratori e di società multilinguistiche, multireligiose e multietniche. Ciò non toglie che all’interno dell’Europa si possano scorgere elementi d’interesse legati anche a singoli Paesi; da questo punto di vista la recente ascesa del cinema rumeno è un caso paradigmatico, che ben testimonia come gli equilibri tra i vari Stati membri e le rispettive cinematografie siano mutati. Inoltre, sempre più spesso si assiste all’emergere di registi di seconda o terza generazione provenienti da retroterra etnici minoritari che esprimono attraverso la loro opera la necessità di rappresentare identità complesse e costruite intorno alla differenza. Non è un caso che all’interno di realtà storicamente multiculturali come Francia e Germania siano emerse voci significative come quelle di Abdellatif Kechiche o di Faith Akin, premiati rispettivamente al Festival di Cannes e a quello di Berlino. In questa prospettiva Thomas Elsaesser (2005) ha individuato un principio forte di unità del cinema europeo contemporaneo nella cosiddetta double occupancy, ovvero nell’intrinseca molteplicità culturale dei soggetti europei e nella conseguente tendenza a rappresentazioni stratificate (qualunque sia la loro origine e appartenenza). Se nei casi appena citati i conflitti e le contraddizioni dell’Europa trovano un punto di osservazione privilegiato nello sguardo periferico proveniente dall’esterno, ossia dai nuovi cittadini del vecchio continente, nella produzione degli ultimi anni si rintraccia anche la tendenza a tematizzare e rappresentare alcuni traumi “interni”, che diventano a loro volta modelli per interpretare la crisi del presente. In quest’ottica è possibile comprendere l’insistenza su alcune questioni come quelle legate al corpo, alla crisi demografica e al tema del finevita; ma anche al processo di secolarizzazione e alle nuove sfide lanciate dal confronto con l’Islam; infine, alla difficile elaborazione del trauma europeo per eccellenza, ovvero la Shoah, non più vista come risultato dei processi interni a singole nazioni, ma in quanto catastrofe umana e morale che coinvolge l’intero continente.

L’inquadratura prolungata induce lo spettatore a cogliere aspetti dell’ambiente e della recitazione che normalmente passano inosservati. Piccoli gesti balzano ai nostri occhi quando tutto il resto rimane immutabile (Figura 17.6).

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Fonte: Juventude em marcha (di Pedro Costa, 2006).

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soggette a un cambiamento. Come uno spettatore voyeur, la camera sonda costantemente la situazione (Figure 17.717.10). Questo approccio (conosciuto come “free-camera”) è diventato comune in film a basso budget degli anni Novanta, in quelli di Dogma 95 (vedi Capitolo 20, Paragrafo 20.2) e in alcune serie TV. La free-camera ha favorito la velocità e l’efficienza nella ripresa, e il pubblico l’ha accettata, anche se può essere fonte di distrazione.

Fonte: Il canto degli uccelli (El cant dels ocells, di Albert Serra, 2008).

Figura 17.4 In Juventude em marcha, mentre la tv è accesa, Vanda racconta a Ventura della sua tossicodipendenza e della nascita traumatica di sua figlia. Nessun piano ravvicinato interrompe l’inquadratura e la composizione distante e squilibrata minimizza ulteriormente il dramma.

Figura 17.5 In Il canto degli uccelli, i tre magi giacciono prostrati in un’in-

Figura 17.6 In Il cavallo di Torino la macchina da presa immobile costringe lo spettatore a notare i diversi modi in cui padre e figlia mangiano il loro magro pasto di patate bollite.

Un’opzione creativa molto diversa stava prendendo forza negli stessi anni, mutuata dall’uso mobile della camera e dalle tecniche del Direct Cinema. L’inquadratura sembra seguire continuamente gli attori, cambiando posizione man mano che la scena si sviluppa. Invece di composizioni precise, le immagini sono abbozzate, un po’ traballanti, sempre

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Fonte: Gomorra (di Matteo Garrone, 2008).

Fonte: Il cavallo di Torino (A torinói ló, di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, 2011).

quadratura statica di quattro minuti, in modo che l’unico movimento che vediamo sia quello di Gesù bambino sul grembo di Maria.

Figure 17.7-17.10 (dall’alto in basso) In Gomorra la camera a mano segue i trafficanti di droga che incontrano dei ragazzi a cui offrono un lavoro. (17.8) La camera si affretta a intromettersi nella loro conversazione, inquadrando il giovane che sta parlando, come in un documentario di Wiseman. (17.9) Invece di tagliare sul controcampo, la camera si sposta a inquadrare la risposta dello spacciatore, cambiando poi leggermente per rivelare il suo collega che osserva la scena. (17.10) Lo spacciatore e i giovani concludono l’affare, con la camera a distanza, come se fosse uno spettatore che si affretta a seguirli.

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Fonte: Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam), di autori vari, 1967.

Agli inizi degli anni Sessanta era evidente nei film di JeanLuc Godard l’influenza dell’opera e del pensiero di Bertolt Brecht, in particolare in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962). Godard aveva scelto infatti di distruggere l’illusione di realtà creata dai film classici attraverso collage, montaggio discontinuo, scritte, inquadrature e stili di recitazione stilizzati: tutti elementi, questi, che impedivano l’identificazione passiva da parte del pubblico, stimolandone al contrario la riflessione. Nel 1967 Godard, insieme a tredici registi di sinistra, collaborò alla realizzazione di Lontano (Loin du Vietnam): il film, che cercava di dal Vietnam mobilitare gli intellettuali contro la guerra, era costituito da diversi episodi, alcuni di finzione (per esempio, quello di Resnais), altri realizzati con materiale di repertorio (quello di Marker) e uno saggistico (quello di Godard, appunto; Figura 17.11). Prima degli eventi del maggio 1968, Godard già fondeva la critica politica con la sperimentazione formale; nei suoi film erano presenti un’analisi quasi sociologica della vita francese e violenti attacchi alla politica estera americana – si pensi, per esempio, a Il maschio e la femmina (Masculin féminin, 1966) e a Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle, 1967). In La cinese (La chinoise, 1967) un gruppo di studio maoista imbocca la via del terrorismo. Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Week-end, 1967) mostra una borghesia in cui regnano l’avidità, l’omicidio e la perversione che viene sopraffatta da un’assurda banda di guerriglieri, mentre emigranti del Terzo Mondo attendono la loro occasione per ribellarsi. In seguito, dopo i sollevamenti del 1968, Godard indirizzò le sue energie verso un modernismo politico più severo e cerebrale. Durante gli avvenimenti di maggio, Godard realizzò molti ciné-tracts (cine-volantini), cortometraggi fatti di immagini a tesi e di fotografie, su cui generalmente era sca-

Figura 17.11 Lontano dal Vietnam: il regista Jean-Luc Godard nel ruolo di commentatore laconico e distaccato.

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rabocchiata qualche breve frase (Figura 17.12). I film da lui diretti nel 1968 alternano questo materiale a dialoghi di riflessione politica tra i personaggi: un ragazzo e una donna su un fondale nero in La gaia scienza (Le gai savoir, 1968), un gruppo di operai e studenti (tutti appena visibili nell’erba alta) in Un film comme les autres (Un film come gli altri, 1968). Dopo One plus one (Uno più uno, 1968), che contrappone immagini dei Rolling Stones durante le prove a scene girate in studio che descrivono la repressione politica e la rivoluzione dei neri, Godard si unì al giovane comunista Jean-Pierre Gorin per formare il gruppo Dziga Vertov: rinnegando i suoi film precedenti, egli si convertì al maoismo e si schierò a favore della rivoluzione del Terzo Mondo. Dato che con il suo nome riusciva a ottenere finanziamenti, soprattutto dalla televisione europea, il gruppo Dziga Vertov poté girare in poco tempo diversi film, in particolare British Sounds (Suoni britannici, 1969), Vento dell’est (Vent d’est, 1969), Lotte in Italia (1971) e Vladimir et Rosa (1970). Il gruppo si sciolse in seguito a un grave incidente motociclistico in cui Godard fu coinvolto, anche se dopo la guarigione lui e Gorin realizzarono Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972) e Letter to Jane - An Investigation About a Still (Lettera a Jane - Analisi di una fotografia, 1972), film ancora legati alle opere precedenti. Ogni film del gruppo Dziga Vertov è il risultato della combinazione di materiali eterogenei, in cui lo stile del Cinema Diretto (scene girate in strada e sui posti di lavoro, conversazioni) si combina con inquadrature e titoli altamente stilizzati (Figura 17.13), e in cui spesso i personaggi si rivolgono direttamente allo spettatore guardando in macchina. A differenza delle precedenti opere di Godard, nelle quali questi materiali interrompono una narrazione più o meno coerente, nei film del gruppo Dziga Vertov la trama è praticamente assente. Montaggi serrati di fotografie e di fotogrammi vuoti si alternano a lunghe riprese che sono completamente statiche o presentano un leggero movimen-

Fonte: Un film comme les autres (Un film come gli altri), di Jean-Luc Godard, 1968.

Francia: da Godard al Cinéma du Regard

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Figura 17.12 Un film comme les autres: Godard utilizza l’immaginario pubblicitario per ironizzare con i suoi tipici commenti scritti simili a un graffito.

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Fonte: Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien), di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, 1972.

Capitolo 17

Fonte: Lotte in Italia, di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, 1969.

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Figura 17.14 Una fabbrica in sciopero, resa con una scenografia a forma di “casa di bambole”, in Crepa padrone, tutto va bene.

to. Nella colonna sonora alcune voci leggono brani di Marx o di Mao Tse-tung, oppure esortano lo spettatore a criticare l’immagine. Anche i rumori sembrano voler “aggredire” il pubblico, come accade nella lunga carrellata della catena di montaggio di una fabbrica automobilistica in British Sounds. In Crepa padrone, tutto va bene una giornalista radiofonica (Jane Fonda) e il suo amante (Yves Montand), regista di spot pubblicitari, rimangono accidentalmente chiusi in una fabbrica occupata. Questa esperienza dà ai personaggi la possibilità di ripensare alla loro relazione, al loro rapporto con gli avvenimenti del maggio 1968 e con la società francese del 1972. Tuttavia questa storia subisce un processo di straniamento attraverso il ricorso a espedienti brechtiani: voci femminili e maschili fuori campo che parlano di come dovrebbe essere realizzato il film, immagini di mani mentre firmano assegni alle star, interviste ai personaggi che parlano rivolti alla macchina da presa, inserti del set (Figura 17.14), virtuosistiche riprese in movimento delle casse di un supermercato e versioni alternative della stessa scena. Crepa padrone, tutto va bene rimane un prototipo di film brechtiano; la sua autoriflessività invita il pubblico a considerare le implicazioni politiche della forma e dello stile cinematografici. Nel 1975 Godard, insieme alla fotografa e regista AnneMarie Miéville, creò a Grenoble la Sonimage, un centro di produzione dedicato alle nuove tecnologie. Il dialogo uomo-donna, a partire da Crepa padrone, tutto va bene divenne un elemento centrale nelle loro opere della metà degli anni Settanta. Ici et ailleurs (Qui e altrove, 1976), per esempio, ritorna alla tecnica dell’assemblaggio mentre le voci fuori campo di Godard e di Anne-Marie Miéville riflettono sul movimento di liberazione palestinese, discutendone la rappresentazione audiovisiva (Figura 17.15). Per molti critici del decennio 1967-1977 Godard incarnava il regista politico capace di creare un cinema formalmente e ideologicamente sperimentale. Godard annunciò il suo

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Fonte: Ici et ailleurs (Qui e altrove), di Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin e Anne-Marie Miéville, 1976.

Figura 17.13 Lotte in Italia: l’appiattimento dello spazio posto al servizio della critica politica.

Figura 17.15 «Ogni volta un’immagine viene a rimpiazzarne un’altra... mantenendone naturalmente il ricordo»: immagini della lotta palestinese presentate attraverso un montaggio “personificato” in Ici et ailleurs.

ritorno a una forma narrativa più accessibile in Si salvi chi può (la vita) (Sauve qui peut (la vie), 1979). Dopo aver lavorato con le nuove tecnologie elettroniche ed essersi concentrato sui rapporti fra immagini, dialoghi e testi scritti, tornando al cinema egli si definì un pittore al quale è capitato di fare film. Passion (1982), una delle sue opere più ricche dal punto di vista pittorico, ha come protagonista un regista dell’Europa orientale che riproduce su video dipinti famosi riprendendo tableaux vivants; mentre la macchina da presa di Godard scivola intorno a questi gruppi, l’immagine bidimensionale acquista volume, come se il cinema avesse il potere di restituire la vita a capolavori ormai scontati (Tavola a colori 17.2). I film degli anni successivi, Prénom Carmen (1983), Je vous salue, Marie (1985), Détective (1985), Re Lear (King Lear, 1987), Cura la tua destra (Soigne ta droite, 1987), Nouvelle Vague (1990), pretendono ancora molto dallo spettatore, ma suggeriscono una nuova serenità. In essi è presente un trattamento lirico del fogliame, dell’acqua e della luce del sole; al posto delle inquadrature piatte e frontali, simili a poster, Godard introduce inquadrature oblique, vicine al corpo umano e a ciò che gli sta intorno;

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Figura 17.16 Distorsioni date dal grandangolo in La città perduta.

L’eredità della Nouvelle Vague, da una parte, e del cinema di impegno politico, dall’altra, si manifestò in molteplici direzioni. Il regista svizzero Alain Tanner dichiarò di essere stato scosso dagli eventi del maggio e i suoi film del decennio successivo furono una riflessione sulle conseguenze del 1968. Insieme a Michel Soutter, Claude Goretta e altri, Tanner fondò nel 1968 il Groupe 5 per la realizzazione di film destinati alla televisione svizzera. Le sue prime opere furono influenzate dal Free Cinema inglese e dalla Nouvelle Vague; successivamente egli si specializzò in analisi piene di amarezza sulla paralisi dei rapporti interpersonali prodotta dall’assenza di cambiamenti autentici. Il suo film più famoso è Jonas che avrà vent’anni nel 2000 (Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000, 1976), in cui otto “figli del maggio” fondano una comune nell’epoca delle speranze frantumate e della “normalizzazione” politica. Tanner usa il bianco e nero per rappresentare i loro desideri utopistici e conclude il film con un’immagine incerta del futuro (Figura 17.17). Negli anni Settanta anche altri generi erano divenuti veicoli di un discorso politico; per esempio, il film drammatico Cognome e nome: Lacombe Lucien (Lacombe Lucien, di Louis Malle, 1974) ha come protagonista un giovane contadino sedotto dalla politica fascista. Tuttavia il calo degli spettatori, il declino delle esportazioni, la prudenza degli investitori e la competizione con Hollywood spinsero molti produttori e registi verso un cinema più accessibile. I film europei si rivolgevano soprattutto al pubblico locale e persino i registi internazionali si allontanarono dallo sperimentalismo. Il periodo che va dagli anni Settanta al primo decennio del Duemila è stato nel complesso molto meno provocatorio e dirompente rispetto all’epoca precedente. I cineasti affermati continuarono a produrre film “moderati” per il mercato internazionale. François Truffaut, per esempio, ebbe grande successo con Effetto notte (La nuit américaine, 1973) e con le sue ultime opere, quali L’ultimo metro (Le dernier métro, 1980), ma la forte malinconia di La camera verde (La chambre vert, 1978) non suscitò lo stesso consenso da parte del pubblico. Alain Resnais mostrò un interesse sempre più spiccato per il disvelamento degli artifici della narrazione con un tocco leggero che di rado aveva adottato nei suoi capolavori riconoFonte: Jonas, che avrà vent’anni nel 2000 (Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000), di Alain Tanner, 1976.

Fonte: La città perduta (La cité des enfants perdus), di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, 1995.

per creare ampie zone d’ombra si serve della luce naturale; le sue angolazioni spaccano l’inquadratura in piani con dettagli marcati e azioni sfuocate (Tavola a colori 17.3). Godard cerca persino di trovare la bellezza nella devastazione. In Éloge de l’amour (2001) fa rivivere i ricordi dell’Olocausto, mentre Notre Musique (2004) esamina ex dilaniati dalla guerra Jugoslavia. Attraverso filmati di repertorio o le immagini polverizzate del video, Godard trova momenti di penetrante bellezza, pittorica, anche in opere complesse come Histoire(s) du cinéma (1988-1998, costituito da otto parti) e Le livre d’image (2018). I film del Godard “pittore” hanno una quieta radiosità che addolcisce l’asprezza del soggetto e la complessità della storia. Nella sua maniera caratteristica e radicale, Godard mostra i vantaggi del ritorno a un’estetica dell’immagine. Questa tendenza si riscontra anche nelle opere di altri registi, per esempio nella visione ipnotica di un oltretomba spaventoso che Lars von Trier offre in L’elemento del crimine (Forbrydelsens element, 1984; Tavola a colori 17.4) o nelle immagini assolate dei soldati della Legione Straniera intenti a stirarsi l’uniforme in Beau Travail (Bel lavoro, di Claire Denis; Tavola a colori 17.5). In Delicatessen (1991) e La città perduta (La cité des enfants perdus, 1995) JeanPierre Jeunet e Marc Caro crearono immagini grottesche, da fumetto, a metà tra Terry Gilliam e Tim Burton (Figura 17.16). Jeunet raggiunse il successo solo grazie a Il favoloso mondo di Amélie, commedia bizzarra che ricorda René Clair, con immagini luminose in cui l’effetto del grandangolo è ammorbidito (Tavola a colori 17.6). In una sorta di reazione ai tentativi di idealizzare l’immagine, alcuni registi travolsero gli spettatori con visioni scioccanti. I registi francesi iniziarono a proporre immagini di sesso esplicito, come Catherine Breillat in Romance (1999), Bruno Dumont in L’età inquieta (La vie de Jésus, 1997) e Patrice Chéreau in Intimacy - Nell’intimità (Intimacy, 2001). A volte il nuovo erotismo portava con sé una violenza brutale: Baise-moi - Scopami (Baise-moi, di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, 2000) mostra due donne che intraprendono un viaggio on the road a base di sesso e omicidi.

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Figura 17.17 Nella scena finale di Jonas, che avrà vent’anni nel 2000, ambientata nel futuro, Jonas fa degli scarabocchi sul muro della comune.

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Capitolo 17

Fonte: Mon oncle d’Amérique, di Alain Resnais, 1980.

Figura 17.18 Nel film Mon oncle d’Amérique la corsa al successo è rappresentata come una lotta fra topi vestiti da dirigenti.

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Altri registi contribuirono a rinnovare la tradizione del cinema di qualità con l’analisi acuta della sfera privata. L’infaticabile Éric Rohmer, scomparso nel 2010, alternava eleganti commedie sentimentali come Racconto d’autunno (Conte d’automne, 1998), che fa parte del ciclo I racconti delle quattro stagioni, realizzati negli anni Novanta), a coproduzioni europee come Triple Agent - Agente speciale (Triple Agent, 2004) e film storici (La nobildonna e il duca, L’Anglaise et le Duc, 2001). Philippe Garrel, regista abile nella rappresentazione dei rapporti di coppia, come in La nascita dell’amore (La naissance de l’amour, 1993), tornò alla ribalta con Les amants réguliers (2005), in cui i giovani protagonisti sperimentano il sesso, l’oppio e prendono parte alla rivolta del maggio 1968 (Figura 17.19). Un nuovo talento, Arnaud Desplechin, operò in modo simile in I re e la regina (Rois et reine, 2004), mentre Francois Ozon attirò l’attenzione con la commedia noir 8 donne e un mistero (8 Femmes, 2002), avventurandosi anni dopo (2016) nella fiction storica con Frantz. La maman et la putain (La mamma e la puttana, di Jean Eustache, 1973; Figura 17.20) offrì un ritratto raggelante del maschio egoista che mente e si fa strada a suo modo nella vita Fonte: Les amants réguliers (Gli amanti regolari), di Philippe Garrel, 2005.

sciuti, Hiroshima mon amour (1959) e Muriel, il tempo di un ritorno (1963). In Mon oncle d’Amérique (1980) la lotta per la carriera fra esseri umani è una dimostrazione delle teorie sul comportamento animale (Figura 17.18). Providence (1976), con le sue scene interrotte e corrette durante il loro svolgimento, svela l’arbitrarietà dell’intreccio. La vita è un romanzo (La vie est un roman, 1983) unisce in sofisticati piani narrativi e temporali generi cinematografici differenti, mentre Smoking/ No Smoking (1993) propone alternative nella narrazione; Mélo (1986) esplicita il tema della passione amorosa in rapporto all’indagine storica, e Parole, parole, parole… (On connaît la chanson, 1997) si affida a canzoni che sostituiscono i dialoghi. Molti registi europei tornarono alle produzioni di prestigio, agli adattamenti di classici letterari e al cinema moderno degli anni Cinquanta e Sessanta, in una forma più moderata. I critici vedevano nell’eleganza dello stile e nei valori letterari di queste opere i segnali di una nuova “tradizione della qualità” francese. Il successo di Bertrand Blier come romanziere lo portò a realizzare I santissimi (Les Valseuses, 1974), adattamento di un suo romanzo; Preparate i fazzoletti (Préparez vos mouchoirs, 1978) si aggiudicò un Oscar e anche Troppo bella per te! (Trop belle pour toi, 1989) vinse diversi premi. Bertrand Tavernier, critico diventato regista, rievocò gli anni d’oro del cinema francese del dopoguerra ingaggiando come sceneggiatore Jean Aurenche (Paragrafo 13.2) e girando film come Una domenica in campagna (Un dimanche à la campagne, 1984), omaggio a Jean Renoir, e Laissez-passer (2000), che rievoca il cinema francese degli anni Quaranta. In Tutte le mattine del mondo (Tous les matins du monde, 1991) Alain Corneau rappresentò la vita di corte del diciassettesimo secolo, con una raffinata colonna sonora a base di musica barocca. Olivier Assayas, redattore dei «Cahiers du cinéma» e figlio di un famoso sceneggiatore, diede impulso al realismo romantico in film come Fin août, début septembre (Fine agosto, inizio settembre, 1998). Persino Raúl Ruiz abbandonò le stravaganze dello sperimentalismo per un film in costume di ispirazione proustiana montato splendidamente, Il tempo ritrovato (Le temps retrouvé, 1999).

Figura 17.19 Les amants réguliers: gli studenti si ammassano dietro alle barricate durante gli scontri con la polizia nel maggio del 1968.

Fonte: La maman et la putain (La mamma e la puttana), di Jean Eustache, 1973.

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Figura 17.20 Jean-Pierre Léaud (Antoine Doinel di I quattrocento colpi) nella parte del protagonista scaltro ed egoista di La maman et la putain.

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Figura 17.21 Sandrine Bonnaire nel ruolo della giovane benestante in cerca

Fonte: Perceval (Perceval le gallois), di Éric Rohmer, 1978.

di nuove emozioni in Ai nostri amori.

Figura 17.22 L’immagine artificiale in Perceval le Gallois. Fonte: L’Enfant, di Luc e Jean-Pierre Dardenne, 2005.

delle donne. L’amante giovane (Nous ne vieillirons pas ensemble, 1972) e Passe ton bac d’abord (Prima di tutto diplomati, 1978), entrambi di Maurice Pialat, affrontano con durezza problemi come il divorzio, i bambini indesiderati e il cancro. Il realismo tipico di Pialat ebbe successo in tutto il mondo con film come Loulou (1980) e Ai nostri amori (À nos amours, 1983), storia di una ragazza che diventa adulta in un’epoca di liberazione sessuale (Figura 17.21). Qualcosa dell’elegante compostezza tipica del cinema francese di qualità degli anni Cinquanta si ritrova nei suoi Sotto il sole di Satana (Sous le soleil de Satan, 1987) e Van Gogh (1991), con scene di violenza scioccante trattate senza alcuna forma di sensazionalismo. Parallelamente emerse un nuovo pittoricismo con un film atipico di Éric Rohmer, Perceval (Perceval le gallois, 1978; Figura 17.22), per poi manifestarsi in maniera ancora più evidente in Barocco (di André Téchiné, 1976), un pastiche noir. Nella “tragedia musicale” Una camera in città (Une chambre en ville,1982) Jacques Demy utilizza colori saturi e una carta da parati dal motivo complesso come sfondo di una storia di tradimenti e scioperi (Tavola a colori 17.7). La tradizione europea legata all’osservazione naturalistica tornò in La vita sognata degli angeli (La vie rêvée des anges, di Érick Zonca, 1998) e L’umanità (L’humanité, di Bruno Dumont, 1999). Tra i “nuovi naturalisti” degli anni Novanta, tuttavia, furono i fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne a riscuotere il maggiore successo. I Dardenne si concentrarono sugli strati più bassi della società, conducendo un’analisi risoluta su come la povertà, il crimine e la violenza possano corrompere i valori della gente. In Rosetta (1999) una ragazza è spinta alla truffa dalla disoccupazione e da una madre alcolizzata. Il figlio (Le fils, 2002) mostra un falegname solo che accoglie un giovane assassino, mentre L’enfant - Una storia d’amore (L’enfant, 2005) è incentrato su un giovane ladro che non vuole assumersi la responsabilità di un figlio. L’indagine sulla difficile integrazione dei più giovani continua ne Il ragazzo con la bicicletta (Le Gamin au vélo, 2011) e L’età giovane (Le jeune Ahmed, 2019) che indaga le conseguenze estreme del fondamentalismo religioso. I Dardenne prediligevano la spontaneità della macchina da presa a mano, sottolineando con inquadrature sciolte ed estemporanee la veridicità di ciò che viene mostrato (Figura 17.23). Tra le altre voci di autori “realisti” è emersa quella di Abdellatif Kechiche con La vita di Adele (La Vie d’Adèle - Chapitres 1 & 2, 2013) in cui le giovani protagoniste che esplorano la loro identità lesbica mantengono vivo il precetto degli anni Sessanta per cui “il personale è politico.” Il georgiano Otar Iosseliani, che in URSS aveva diretto, tra gli altri, Pastorali (Pastorale, 1976), giunse in Francia dove realizzò film ironici e surreali, come I favoriti della luna (Les favoris de la lune, 1984), con emigrati russi che vagano per Parigi, coinvolti in guerre fra bande e relazioni amorose (Figura 17.24). Caccia alle farfalle (La chasse aux papillons, 1992) satireggia gli sforzi per modernizzare la cam-

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Fonte: Ai nostri amori (À nos amours), di Maurice Pialat, 1983.

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Figura 17.23 La macchina da presa fluttuante cattura un giovane ladro che ha appena detto alla sua ragazza ciò che è accaduto al loro bambino.

pagna. Addio terraferma (Adieu, plancher des vaches!, 1999) è la storia intricata di una famiglia aristocratica e dei suoi rapporti con i vicini, in una cittadina della provincia francese. Lunedì mattina (Lundi matin, 2002) racconta l’evasione del protagonista da una quotidianità asfissiante. Iosseliani ha subito l’influenza di Jacques Tati non solo nell’umorismo asciutto e fisico, ma anche nell’uso dei campi lunghi, densi di personaggi, e nella pluralità di trame che si intersecano nel racconto. Negli anni Settanta l’esule cileno Raúl Ruiz diede vita a labirintiche costruzioni moderne: La vocation suspen-

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Capitolo 17

Fonte: I favoriti della luna (Les favoris de la lune), di Otar Iosseliani, 1984.

due (La vocazione sospesa, 1977) si presenta come l’unione di due film incompleti, montati in parallelo, sugli intrighi che hanno luogo all’interno di un ordine religioso; Mémoire des apparences - La vie est un songe (Memoria delle apparenze - La vita è un sogno, 1986) mostra una dittatura in cui gli interrogatori della polizia avvengono dietro lo schermo di un cinema (Figura 17.25). Ruiz continuò a realizzare sontuosi adattamenti di classici letterari, come I misteri di Lisbona (Mistérios de Lisboa, 2010), accanto a progetti più enigmatici (La notte di fronte, La noche de enfrente, 2012). All’inizio degli anni Ottanta una generazione di giovani registi francesi inventò un nuovo stile visivo, allontanandosi dal cinema politico del periodo post-sessantottino e dal realismo scabro di Eustache e Pialat. Questi registi perseguivano un cinema veloce, artificiale, e si ispiravano alla nuova Hollywood (soprattutto ai film di Coppola: Un sogno lungo un giorno, 1982; e Rusty il selvaggio, 1983), all’ultimo Fassbinder, agli spot televisivi, ai video musicali e alla fotografia di moda. Esempi rappresentativi della nuova tendenza francese sono i film di Jean-Jacques Beineix Diva (1981), Lo specchio del desiderio (La lune dans le caniveau, 1983), Betty Blue

Fonte: Mémoire des apparences - La vie est un songe (Memoria delle apparenze - La vita è un sogno), di Raúl Ruiz, 1986.

Figura 17.24 In una tipica inquadratura a distanza, Iosseliani mostra una transazione misteriosa, con una donna di società che si reca in un negozio dove si fabbricano bombe.

Figura 17.25 Ruiz accentua la narrazione criptica di Mémoire des apparences - La vie est un songe con un uso esasperato del grandangolo.

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(37°2 le matin, 1986) e IP5 - L’isola dei pachidermi (IP5 L’île aux pachydermes, 1992); quelli di Luc Besson Subway (1985), Le grand bleu (Il grande blu, 1988) e Nikita (1990); e quelli di Leos Carax Boy Meets Girl (1984), Rosso sangue (Mauvais sang, 1986) e Gli amanti del Pont-Neuf (Les amants du Pont-Neuf, 1991). I critici parigini definirono questa tendenza Cinéma du Regard. I film citati infarciscono storie piuttosto convenzionali con oggetti high-tech e con uno stile mutuato dalla fotografia pubblicitaria e dagli spot televisivi: le inquadrature sono caratterizzate da tagli netti e blocchi di colore; gli specchi e il metallo lucido creano riflessi abbaglianti (Figura 17.26). Le immagini patinate di Beineix e Besson evocano lo stile della pubblicità e dei video musicali, di Blade Runner (di Ridley Scott, 1982) e Flashdance (di Adrian Lyne, 1983). Carax, il più dotato del gruppo, crea immagini sensuali mediante chiaroscuri, inquadrature inusuali e scelte focali imprevedibili (Tavola a colori 17.8). Molti critici hanno considerato questa tendenza un’espressione dello stile post-moderno, che prende spunto dalla cultura di massa per creare un’“estetica delle superfici”. Visto da una prospettiva più ampia, il Cinéma du Regard era una versione manieristica, rivolta ai giovani, di quella tensione verso la bellezza astratta successiva al 1968, evidente, sia pure in forma più enigmatica, nel cinema di Herzog e Wenders.

Italia: impegno politico ed evasione Anche in Italia, alcune delle premesse poste negli anni Sessanta giunsero a una piena espressione nel decennio successivo. L’albero degli zoccoli (di Ermanno Olmi, 1978) segnò un apparente ritorno al neorealismo ricostruendo la vita dei contadini bergamaschi alla fine del diciannovesimo secolo, facendoli parlare con il loro dialetto originale, ma al contempo conferì ai suoi personaggi una dimensione quasi mitica.

Fonte: Boy Meets Girl, di Leos Carax, 1984.

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Figura 17.26 Un negozio di fotocopie diventa un gioco vertiginoso di ombre, luci in movimento e riflessi.

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NANNI MORETTI E IL RACCONTO DEL PRESENTE Negli ultimi quarant’anni Nanni Moretti ha ricoperto un ruolo di primo piano all’interno della cinematografia italiana: regista, innanzitutto, ma anche attore, sceneggiatore, produttore, organizzatore di festival, distributore ed esercente del cinema Nuovo Sacher. La passione per il cinema nasce frequentando i cineclub romani e le sale d’essai. Dopo diversi tentativi falliti come aiuto regista – tra gli altri, di Paolo e Vittorio Taviani, per cui reciterà in Padre padrone (1977) – Moretti decide di acquistare una super 8 e iniziare a girare in autonomia i suoi primi cortometraggi: La sconfitta (1973), Paté de burgeois (1973), e il mediometraggio Come parli frate? (1974). Nel 1976 si segnala all’attenzione della critica con l’uscita del primo lungometraggio, Io sono un autarchico, satira al vetriolo sulle delusioni seguite al fallimento dei movimenti “rivoluzionari” del sessantotto. Nonostante una distribuzione iniziale di sole due settimane, attorno al film cresce ben presto un interesse e un consenso tra il pubblico e la stampa nazionale. La consacrazione internazionale arriverà definitivamente con Ecce Bombo (1978), in concorso al Festival di Cannes, che anticipa alcuni tratti caratteristici del suo cinema, più espliciti nei film degli esordi, ma comunque presenti in tutta la sua produzione: autobiografismo, impegno politico, struttura narrativa episodica e una spiccata propensione per il racconto del presente. L’analisi dell’Italia operata da Moretti può essere tanto rivolta al mondo politico – come, ad esempio, in Palombella rossa (1989) e Aprile (1998) –, quanto a una dimensione esistenziale dell’italiano colto tra idiosincrasie e opportunismi, basti pensare al professor Michele Apicella di Bianca (1984), uno dei film diventati di culto presso il pubblico, o al prete intransigente de La messa è finita (1985) – orso d’argento al Festival di Berlino del 1986 –, incapaci di accettare l’ipocrisia imperante nella società. Intorno alla stretta connessione di questi due poli ruota in fondo anche Il Caimano (2006) che, attraverso la figura di Silvio Berlusconi, offre un quadro inquietante del Paese, muovendosi ben oltre i confini del film di denuncia civile o di quello militante. Tale inquietudine non è solo generata dal racconto dei misfatti del berlusconismo, ma anche da una messa in scena basata su una sceneggiatura apparentemente sconclusionata, ricca di ellissi

I fratelli Paolo e Vittorio Taviani – che nei loro film precedenti avevano lasciato spazio alle aspirazioni rivoluzionarie de I sovversivi (1967), Sotto il segno dello scorpione (1968), San Michele aveva un gallo (1972) e Allonsanfan (1974) – ac-

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e di evasioni poetiche. Si veda la sequenza, di evidente matrice felliniana, in cui una caravella caricata sul rimorchio di un grande camion viene trasportata per le strade notturne di Roma. La struttura onirica de Il Caimano, in cui i sogni del produttore cinematografico Bruno Bonomo (Silvio Orlando) consentono di sospendere il flusso narrativo o di inserire materiali di repertorio, testimonia l’attenzione per la messa in scena che Moretti presta ai suoi lavori. Come ha dichiarato in più di un’occasione: «un film è la sua forma, è il modo in cui viene fatto». Da ciò consegue la predilezione per una ricerca metalinguistica. In Sogni d’oro (1981) l’alter ego dei primi film di Moretti, Michele Apicella, interpreta un regista in crisi al suo terzo film; Il Caimano ripercorre le vicissitudini del film su Berlusconi scritto da una giovane regista (Jasmine Trinca); e il recente Mia madre (2015) ha come protagonista Margherita (Margherita Buy), alle prese con un film sull’occupazione di una fabbrica da parte degli operai. Quest’ultimo è anche un racconto sull’elaborazione del lutto, il tema che aveva segnato, all’inizio del nuovo millennio, un momento chiave della sua carriera con La stanza del figlio (2001), premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes. Qui Moretti affronta la tragedia senza retorica, ma con soluzioni visive, per quanto semplici, di grande impatto, come la soggettiva nel parco di divertimenti del padre, che offre una rappresentazione del suo smarrimento dopo la morte del figlio. Già nel 1993 in Caro diario aveva mostrato la sua capacità di fare cinema con pochi mezzi o movimenti di macchina: le soggettive sui tetti Roma, sulla statua dedicata a Pier Paolo Pasolini, ma soprattutto il celebre piano sequenza delle sue peregrinazioni in vespa. Non c’è dubbio che le sue maschere e il suo corpo attoriale costituiscano un punto di forza e di riconoscibilità, ma Moretti è innanzitutto un autore in grado di ritagliarsi uno spazio originale, indipendente, rispetto al sistema italiano. La stessa onnipresenza morettiana nell’universo dei personaggi dei suoi film non deve quindi essere letta come un atto narcisistico, quanto piuttosto come la continua esplorazione di un io caleidoscopico, costantemente sospeso tra zone liminali, ereditate dal cinema della modernità: realtà e finzione, realtà e sogno, passato e presente, sé e mondo.

quistarono prestigio internazionale con il successo di Padre padrone (1977; vedi la scheda Padre padrone e i suoni del popolo a pag. 368). I due registi consolidarono la loro fama con La notte di San Lorenzo (1982; Tavola a colori 17.9) e

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Capitolo 17

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vati, mettendo in primo piano l’amicizia e gli affetti familiari. In Aprile (1998) celebra la nascita di suo figlio mentre medita di realizzare un nuovo film. Il caimano (2006), in cui un mite produttore tenta di fare un film su un magnate dei media, contiene un attacco sarcastico contro Berlusconi mentre Habemus Papam (2011) si interroga sulla fragile psicologia di un cardinale eletto al soglio pontificio. Rivelatosi al pubblico grazie al festival Sacher Festival promosso da Nanni Moretti, Matteo Garrone ha esordito nel lungometraggio con Terra di mezzo (1996), su storie ambientate a Roma; successivamente, con L’imbalsamatore (2002) ha intrapreso la strada di un noir con forti connotazioni cupe e pittoriche. Il suo realismo si manifesta nell’uso della camera a mano e nel suono in presa diretta, anche se nutrito di una forte attenzione alla fotografia, come nel ricorso ad attori non professionisti e in racconti tratti dalla cronaca. Gomorra (2008) è tratto dal romanzo di Roberto Saviano che denuncia i soprusi della camorra. Girato in quartieri degradati con attori in gran parte sconosciuti, ripercorre il mondo delle relazioni tra bande criminali. Dogman (2018) offre uno studio su un mite e cupo personaggio, il cui dramma è inscindibile dal tetro contesto di vita, mentre Pinocchio (2019) riprende fedelmente il romanzo di Collodi, facendone uno spettacolo ricco di effetti visivi.

Fonte: Dillinger è morto, di Marco Ferreri, 1969.

con gli adattamenti delle novelle di Pirandello (Kaos, 1984), mentre Good Morning Babilonia (1987) recupera, dal punto di vista dello stile e della struttura, la semplicità del cinema muto americano. Di recente Cesare deve morire (2012) ha proposto una messa in scena teatrale del Giulio Cesare di Shakespeare da parte di detenuti. I Taviani, insieme a molti altri, diedero vita a una nuova “tradizione della qualità”, che caratterizzò il cinema internazionale negli anni Settanta e Ottanta. Le commedie grottesche di Marco Ferreri riflettono un atteggiamento più impassibile ed enigmatico: Dillinger è morto (1969) riesce a suscitare una notevole suspense mostrando un ingegnere che torna a casa, prepara la cena, guarda dei filmini in Super8 e alla fine uccide la moglie. In questo film la descrizione minuziosa delle abitudini dell’uomo rivela la meschinità della sua etica alienata (Figura 17.27). In La grande abbuffata (La grande bouffe, 1973), sempre di Ferreri, quattro amici arrivano letteralmente e volontariamente a morire in un’orgia di cibo e sesso. Ma, a livello più generale, la critica sociale e gli esperimenti formali delle commedie sembravano più orientati a conquistare il favore del pubblico. Con C’eravamo tanto amati (1974), Ettore Scola si distinse come acuto commentatore delle delusioni politiche dell’Italia del dopoguerra; questo film, insieme a Una giornata particolare (1977) e Ballando ballando (Le Bal, 1983), assicurò al regista una fama internazionale. I film di Scola fondono con intelligenza la modernità del cinema d’arte con la commedia gradita al grande pubblico. Ballando ballando è ambientato interamente in una sala da ballo francese durante epoche diverse ed è privo di dialoghi. I primi piani di Scola conferiscono intensità allo stile recitativo caricaturale degli attori; il regista, inoltre, manipola con astuzia l’uso del colore: per esempio, nella sequenza del Fronte popolare, l’unica tinta che resta è quella della bandiera comunista. Un altro regista italiano di talento, Nanni Moretti, iniziò la sua carriera dirigendo commedie anarchiche e pseudo-underground (Ecce Bombo, 1978), per poi sviluppare un umorismo caratteristico che dà voce a una generazione delusa dal fallimento degli ideali progressisti. Moretti interpreta sempre personaggi un po’ nevrotici, che fanno i conti con le frustrazioni della società moderna (vedi la scheda Nanni Moretti e il racconto del presente pag. 365). In Palombella rossa (1989), ambientato per la maggior parte in una piscina durante una partita di pallanuoto, un giovane funzionario comunista colto da amnesia si interroga ingenuamente sulla dottrina del proprio partito, mettendone in luce le contraddizioni. In due degli episodi di Caro diario (1993), film intenso e pungente, Moretti interpreta se stesso in vespa per le strade di Roma e poi alle prese con una malattia misteriosa (Figura 17.28). Come molti registi che hanno iniziato negli anni Settanta, dalla politica è passato a rappresentare anche la sfera più intima dei sentimenti pri-

Figura 17.27 Il protagonista di Dillinger è morto fa una nuotata immaginaria “dentro un film”. Il grottesco di Ferreri si esprime in una modalità che mette in crisi il comportamento razionale dei personaggi.

Fonte: Caro diario, di Nanni Moretti, 1993.

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Figura 17.28 Facendosi beffe dei suoi problemi di salute, in Caro diario Moretti interpreta se stesso mentre due medici lo visitano.

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PAOLO SORRENTINO, MATTEO GARRONE E L’INTERPRETAZIONE DEL REALE «Sia io che Paolo [Sorrentino] lavoriamo su una rappresentazione della realtà che non sia la sua imitazione, bensì una interpretazione. Per noi conta più l’idea visiva legata al racconto che l’informazione». Con queste parole, Matteo Garrone presentava il suo film Gomorra (2008), tratto dall’omonimo best seller di Roberto Saviano, al 61° Festival di Cannes, dove Il divo (2008) di Paolo Sorrentino si sarebbe aggiudicato il premio per la miglior regia. Garrone (1968) e Sorrentino (1970) sono due tra le voci più singolari del cinema italiano degli anni Duemila, in grado sia di raccontare le ombre e le inquietudini della società italiana contemporanea, sia di ritagliarsi, mediante un originale stile visionario e immaginifico, un posto di rilievo nel panorama produttivo internazionale. Entrambi profondamente romani, anche se Sorrentino lo è d’adozione – alla sua Napoli è dedicato l’ultimo lavoro È stata la mano di Dio (2021) –, hanno omaggiato la capitale con alcuni dei loro film più significativi. Alla città di Roma sono dedicati i primi tre lungometraggi di Garrone, che fanno del racconto della marginalità, indagata dall’interno attraverso una scrupolosa ricerca sul campo quasi etnografica e con sguardo a tratti documentaristico, il proprio punto di forza. Che si tratti del mondo lavorativo della comunità di immigrati nel film in tre episodi Terra di mezzo (1996) e nel successivo Ospiti (1998), o delle peregrinazioni di un’attrice di teatro d’avanguardia per una Roma alle soglie del Giubileo, irriconoscibile e piena di impalcature di Estate romana (2000), Garrone mette in scena rapporti umani falliti o comunque di segno negativo. L’obiettivo in lunga focale, tratto distintivo del suo cinema insieme alla camera a mano, aiuta a fissare dettagli dei personaggi, facendo perdere di vista il contesto, che diventa un paesaggio sfocato, irriconoscibile, espressione del loro disadattamento. L’imbalsamatore (2002) segna un passaggio fondamentale nella sua carriera. Dopo le piccole produzioni degli esordi, grazie alla Fandango di Domenico Procacci, Garrone ha finalmente a disposizione una solidità di mezzi che gli garantisce possibilità tecniche impensate nei primi lavori, come carrelli e dolly, ma lo porta anche a confrontarsi con storie maggiormente sviluppate in sede

Paolo Sorrentino esordisce con L’uomo in più (2001), interpretato da Toni Servillo, protagonista anche del successivo Le conseguenze dell’amore (2004), nonché del Divo (2008), basato sulla vita del politico Giulio Andreotti, e di La grande bellezza (2013), un viaggio attraverso un’inedita città di Roma, nei suoi aspetti più antichi e più

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di sceneggiatura e a destrutturare i generi cinematografici. Con L’imbalsamatore vira verso il versante melodrammatico noir, per poi passare alle tinte horror di Primo amore (2004), il gangster-movie di Gomorra, fino alle contaminazioni western di Dogman (2018), spesso partendo da fatti di cronaca. E proprio quest’ultimo titolo conferma la tendenza di Garrone a collocare i suoi personaggi in una zona sospesa, in una terra di mezzo, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche da quello identitario, tra umanità e animalità, con tinte perturbanti nel segno del grottesco. Anche i personaggi del cinema di Sorrentino si muovono in un regime di sospensione, in non-luoghi, entro cui si aggirano senza meta, con un vuoto impossibile da colmare, che li condanna a una irrequietezza, a una malinconia irrisolta. Fin dal lungometraggio di esordio, L’uomo in più (2001), Sorrentino racconta il senso di solitudine che attanaglia Tony Pisapia, un “sentirsi fuori posto” che unisce i protagonisti dei film successivi e li condanna a errare senza una meta o un destino. Sono tutti ruoli interpretati dall’attore feticcio Toni Servillo: l’ex broker finanziario in esilio a Lugano de Le conseguenze dell’amore (2004), il Giulio Andreotti de Il divo (2008), il viveur Jep Gambardella de La grande bellezza (2013) – che si aggiudica l’Oscar come miglior film straniero –, fino al Silvio Berlusconi di Loro (2018). Così come i suoi personaggi cercano qualcosa, anche l’opera del regista romano sembra improntata a una ricerca incessante verso il senso delle cose – una sorta di verità estetica – ottenuta per accumulazione di immagini insolite, apparentemente slegate dal contesto narrativo, o per apparizioni insignificanti, come accade in This Must Be the Place (2011), secondo una logica dell’accostamento. Il racconto del reale nel suo cinema spesso lo porta a giocare con il falso, facendone emergere i lati oscuri, attraverso mistificazioni, teatralizzazioni debordanti, che immortalano una società senza più una gerarchia di valori. Ed è alla luce di questa assenza che il potere rilevatore dell’immagine si sostanzia nella ricerca di una bellezza dappertutto, come osserva lo stesso Sorrentino, anche «nei luoghi scarnificati dai più elementari principi estetici e morali».

contemporanei. In uno stile elegante, e a tratti ipnotico, l’autore esplora figure di personaggi caratterizzati da un vuoto relazionale, divisi tra il desiderio di essere popolari e una insanabile inquietudine interiore (vedi la scheda Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e l’interpretazione del reale pag. 367).

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Capitolo 17

PADRE PADRONE Titolo E I SUONI DEL POPOLO

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sicale costruita per contrapposizioni, in cui il suono – sia esso timbro strumentale o anche solo rumore della natura – ha il compito di dar luogo a un montaggio dialettico, l’integrazione con il piano visivo permette di suggerire diversi livelli di senso, come squarci nell’arido paesaggio isolano. Emblematica da questo punto di vista è la nota sequenza della processione: mentre i padri marciano intonando un brano simbolo della tradizione locale, i figli, sotto la portantina della statua del santo, sognano di emigrare in Germania e, uniti dal desiderio di andare all’estero per sfuggire definitivamente alle maglie paterne, iniziano a intonare un canto d’osteria tedesco. Lo scontro tra i due mondi musicali viene drammatizzato dai Taviani con un unico campo lunghissimo del corteo, in cui affidano la rappresentazione del conflitto alla sovrapposizione delle due identità mediate dalla musica, attribuendo a una voce (cantata) la prima manifestazione di rivolta comune della nuova generazione. È una ribellione che trova la sua piena realizzazione nel finale in cui Gavino, ascoltando alla radio il Concerto per clarinetto di Wolfgang Amadeus Mozart, affronta per l’ultima volta, fisicamente e culturalmente, il padre-padrone. Anche di fronte all’“affogamento” della radio, che Efisio immerge nel lavello pieno d’acqua, il ragazzo continua la sua lotta fischiettando in modo ostentato il tema dell’opera mozartiana e rivendica, attraverso il suo corpo, l’affermazione di una nuova identità non più subordinata alla volontà paterna, ma integrata in un nuovo orizzonte culturale. Possiamo concludere, pertanto, affermando che Padre padrone propone con forza un aspetto centrale nella poetica utopica dei Taviani: la loro capacità di immaginare trasformazioni politiche e sociali evidenziando la portata liberatoria e rivoluzionaria del fare e del capire la musica in maniera compartecipata e condivisa. Fonte: Padre padrone, di Paolo e Vittorio Taviani, 1977.

Nel 1977 Padre padrone, tratto dall’omonimo libro autobiografico di Gavino Ledda e scritto e diretto dai fratelli Taviani, vince inaspettatamente la Palma d’oro al Festival di Cannes. Nel film gli autori si addentrano in una dimensione da apologo, che oscilla costantemente tra mito e mondo fantastico, per raccontare il percorso di affrancamento ed emancipazione di un pastore sardo. Inoltre, il legame di filiazione diretta con il romanzo offre loro la possibilità di innescare modalità narrative stranianti, a conferma di una vicinanza a Brecht: lo scrittore Ledda introduce in prima persona lo spettatore alle vicende del protagonista Gavino (Saverio Marconi) che, privato dell’infanzia da un padre violento e autoritario (Efisio, Omero Antonutti) e raggiunta la maggiore età, riesce a percorrere, sia pure con difficoltà, una strada autonoma, abbandona la realtà rurale sarda e consegue una laurea in glottologia (Figura 17.29). Se il testo letterario metteva in risalto il passaggio dal silenzio alla comunicazione verbale, il film acquista una potenza totalmente nuova non solo sotto l’aspetto visivo, ma anche sotto quello sonoro. I due fratelli di San Miniato (Pisa), forti della loro cultura musicale, soprattutto nell’ambito dell’opera italiana, decidono di attribuire alla musica il ruolo fondamentale di strumento di riscatto. È infatti grazie a una fisarmonica che emette le note di un valzer tratto da Il pipistrello di Johann Strauss che Gavino riesce a individuare un canale linguistico tutto suo: il giovane inizia così un personale percorso di conoscenza e graduale acquisizione di un patrimonio culturale e, al contempo, imparando a suonare, opera una forma di ribellione nei confronti dell’autorità paterna. Insieme al compositore d’avanguardia Egisto Macchi, i registi mettono a punto una ricchissima colonna sonora attingendo a una moltitudine di repertori differenti che spaziano dalla tradizione colta ai canti polivocali sardi, dalle incursioni nel mondo popular alle sperimentazioni elettroacustiche contemporanee. Ognuno di questi tasselli musicali diventa essenziale nella definizione identitaria dei diversi personaggi che popolano Sìligo, un paese della provincia di Sassari. La continua mutazione sonora è indice di una trasformazione incessante, alla ricerca di un’identità culturale priva di qualsiasi forma di costrizione e controllo. La musica non è una risorsa a disposizione solo del giovane protagonista, poiché infatti tutti possono accedervi: è il medium attraverso cui la generazione dei patriarchi, per esempio, afferma le tradizioni ancestrali del luogo, così come quello con cui i figli sperano di potersi costruire un avvenire migliore nel continente. In questa economia mu-

Figura 17.29 Padre padrone: il passaggio del bastone di Gavino Ledda, autore del romanzo da cui è tratto il film, all’attore che interpreta il padre apre il film con tecniche che rinviano allo straniamento brechtiano.

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Fonte: Katzelmacher (Terrone), di Rainer Werner Fassbinder, 1969.

Figura 17.30 Katzelmacher: coppie che oziano, riprese in maniera frontale e piatta.

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Fonte: Germania in autunno (Deutschland im Herbst), di autori vari, 1978.

Rainer Werner Fassbinder fu il regista più famoso del nuovo cinema tedesco, anche per la sua veemente personalità e il suo stile di vita autodistruttivo. Cominciò la carriera come attore, commediografo e regista teatrale, e rivelò un gusto particolare per la commedia grottesca, la violenza esasperata e il forte realismo, anche linguistico, dei personaggi. Dopo il cortometraggio Das Kleine Chaos (Il piccolo caos, 1966), in cui si avverte l’influenza di Godard, Fassbinder dapprima entrò a far parte dell’ActionTheater, un gruppo di avanguardia di Monaco; poi, nel 1968, insieme ad amici attori e tecnici, fondò l’Antiteater, con il quale girò undici film. Successivamente assunse come punto di riferimento i melodrammi hollywoodiani di Douglas Sirk per un cinema di critica sociale che fosse anche emotivamente coinvolgente. Con Il mercante delle quattro stagioni (Der Händler der vier Jahreszeiten, 1971) Fassbinder sembrò inaugurare una seconda fase della sua carriera, quella dei melodrammi domestici. Ancora una volta si dimostrò molto prolifico, con piani di lavoro che prevedevano tempi rapidi di riprese e costi limitati. Fra le opere di questo periodo: Le lacrime amare di Petra von Kant (Die bitteren Tränen der Petra von Kant, 1972), La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf, 1974), Effi Briest (Fontane Effi Briest, 1974) e Il diritto del più forte (Faustrecht der Freiheit, 1975). All’inizio della sua carriera Fassbinder spesso inquadrava i personaggi in maniera neutra, con uno stile quasi da foto segnaletica (Figura 17.30). Nella sua fase di “revisione hollywoodiana” accettò le convenzioni del continuity system; il fascino di questi film, tuttavia, deriva soprattutto dalla scelta di indugiare su sguardi fissi o dall’uso di elementi decorativi per mascherare lo stato emotivo dei personaggi. I primi film dell’Antiteater sono sperimentali dal punto di vista narrativo, mentre i successivi melodrammi politici

sono storie avvincenti, cariche di emozione e rivolte a un pubblico più vasto. La maggior parte della sua opera ruota attorno a un’analisi dei meccanismi che fondano il potere. Egli concentra spesso la sua attenzione sulla vittimizzazione e il conformismo, mostrando come i membri di un gruppo sfruttino e puniscano i non integrati. Fassbinder insiste sul fatto che la vittima finisce spesso per accettare le regole del gruppo, arrivando a credere che la punizione sia meritata. In La paura mangia l’anima, Alì interiorizza a tal punto il pregiudizio razziale che contrae una malattia comune fra gli operai immigrati, un collasso per ulcera. Nel 1978 Fassbinder fu uno dei quattordici registi tedeschi che, coordinati da Alexander Kluge, realizzarono Germania in autunno (Deutschland im Herbst), un tentativo di capire la vita di una nazione in preda a terrorismo e repressione di destra. Alcuni episodi, in particolare l’incontro allucinato di Fassbinder con il suo amante, entrambi sotto l’effetto della droga, mostrano fino a che punto la dimensione politica incida sulle vicende personali (Figura 17.31). Dopo il successo de Il matrimonio di Maria Braun (Die Ehe der Maria Braun, 1979; Figura 17.32), si dedicò a coproduzioni di ampia portata come Lili Marleen (1981), Lola (1981) e Querelle de Brest (Querelle, 1982; Figura 17.33). In questi film il colore, i costumi, il ricorso all’effetto sfocato e

Figura 17.31 Germania in autunno: il regista secondo Rainer Werner Fassbinder come personaggio confuso e senza spirito.

Fonte: Il matrimonio di Maria Braun (Die Ehe der Maria Braun), di Rainer Werner Fassbinder, 1979.

Germania: Storia e fiction

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Figura 17.32 Un pacchetto di sigarette evoca la povertà della Germania post-bellica ne Il matrimonio di Maria Braun.

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Capitolo 17

antinaturalistica ricordano il clima del cinema francesce degli anni Trenta.

la ricerca di una dimensione spettacolare concorrono a rendere stilizzato il mondo dei personaggi. Nelle ultime opere la malinconia e la critica sociale si stemperano in una forma attenuata, più accessibile al grande pubblico. Il regista cercò di ricordare agli spettatori tedeschi che il loro Paese aveva ancora forti legami con il passato, presentando una storia epica della Germania, dagli anni Venti (Bolwieser, 1977; Despair, Despair - Eine Reise ins Licht, 1978), attraverso l’epoca nazista (Lili Marleen), fino alla Germania del dopoguerra (Il matrimonio di Maria Braun; Veronika Voss, Die Sehnsucht der Veronika Voss, 1982; Lola). Ma Fassbinder non abbandonò completamente la sperimentazione. A differenza di Straub e Huillet, preferiva il doppiaggio in post-produzione, che gli permetteva di rendere la colonna sonora dei suoi film barocca tanto quanto erano i set. Un anno con 13 lune (In einem Jahr mit 13 Monden, 1978) e La terza generazione (Die dritte Generation, 1979) sovrappongono trasmissioni radiofoniche, telecronache e conversazioni per creare atmosfere acustiche assai complesse. Un cinema politico più sperimentale e di rottura, tuttavia, non svanì completamente dalla scena europea. Dopo aver utilizzato uno stile narrativo quasi tradizionale in Ferdinando il duro (Der starke Ferdinand, 1976), Alexander Kluge ritornò alle frammentarie allegorie storiche che indagavano sulle conseguenze durature del nazismo e della guerra (Figura 17.34). Jean-Marie Straub e Danièle Huillet continuarono a realizzare film statici (Troppo presto, troppo tardi, Trop tôt, trop tard, 1981) e adattamenti letterari più orientati verso la narrazione tradizionale (Figura 17.35). L’approccio di Straub e Huillet fu in seguito riproposto da Pedro Costa, che documentò la vita dei portoghesi più poveri nei solenni piani-sequenza di Ossos (Ossa, 1997) e Juventude Em Marcha (Gioventù in marcia, 2006). Due registi di Monaco manifestarono invece una maggiore vicinanza al pittoricismo diffuso all’inizio degli anni Settanta: Werner Herzog e Wim Wenders. Affidandosi alla bellezza dell’immagine e alla sensibilità dello spettatore, si

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Fonte: Die Patriotin (La patriota), di Alexander Kluge, 1979.

Figura 17.33 In Querelle de Brest la scenografia barocca e la recitazione

allontanarono dai temi politici coltivati da altri registi tedeschi contemporanei e si spinsero verso un cinema introspettivo, in sintonia con l’intimismo presente nella letteratura tedesca del periodo. Herzog diventò famoso con una serie di drammi criptici – Lebenszeichen (Segni di vita, 1968), Anche i nani hanno cominciato da piccoli (Auch Zwerge haben klein angefangen, (Aguirre, der Zorn Gottes, 1970), Aguirre, furore di Dio 1972), L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott Gegen alle, 1974) e Cuore di vetro (Herz aus Glas, 1976) – in cui è evidente la sensibilità fortemente romantica dell’autore. Al centro vi è la figura dell’eroe che cerca di ottenere ciò che vuole (il conquistatore Aguirre che giura di impadronirsi del mondo; Figura 17.36), dell’emarginato e dell’innocente (i nani, il selvaggio Kaspar Hauser) e, infine, del mistico (l’intera comunità di Cuore di vetro). Herzog ha cercato di cogliere l’immediatezza dell’esperienza, una purezza di percezione non ostacolata dal linguaggio, spesso celebrando l’incontro dei personaggi con la fisicità del mondo: ne Il paese del silen-

Figura 17.34 In Die Patriotin una ricercatrice ostinata, con una falce in mano, riesuma il passato tedesco. Fonte: Rapporti di classe (Klassenverhältnisse), di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, 1984.

Querelle de Brest (Querelle), di Rainer Werner Fassbinder, 1982.

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Figura 17.35 Tipiche inquadrature statiche e una gamma di stili di recitazione in Rapporti di classe.

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Fonte: Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes), di Werner Herzog, 1972.

L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Figura 17.36 In Aguirre, furore di Dio il conquistatore, tenendo in braccio la figlia morta, continua a giurare che si impadronirà del mondo.

Fonte: Cuore di vetro (Herz aus Glas), di Werner Herzog, 1976.

zio e dell’oscurità (Land des Schweigens und der Dunkelheit, 1971) persone cieche e sorde visitano una coltivazione di cactus e viaggiano per la prima volta in aereo. Herzog evoca immagini bizzarre, spesso sospendendo la narrazione. Le immagini di Herzog si aprono verso l’infinito con visioni di acqua, nebbie e cieli (Figura 17.37). Nella scena iniziale di Cuore di vetro le nuvole scorrono come fiumi tumultuosi attraverso valli montane; Aguirre contempla periodicamente i sussulti ipnotici del turbolento Rio delle Amazzoni; i deserti di Fata Morgana (1971) si dissolvono in un brulicare di puntini nella grana della pellicola e di sfarfallii simili a quelli che interrompono L’enigma di Kaspar Hauser, invitandoci a condividere la visione del protagonista. Herzog si autodefinì l’erede di Murnau; girò Nosferatu il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1978) – nuova versione di Nosferatu il vampiro (di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922) – e si riappropriò dello stile recitativo dell’espressionismo, ipnotizzando il cast di Cuore di vetro. La sua devozione nei confronti del cinema muto era evidente nella convinzione che immagini di ermetica bellez-

Figura 17.37 Le immagini finali di Cuore di vetro illustrano la parabola raccontata dal personaggio principale su uomini che si accingono a partire verso i confini del mondo.

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za potessero esprimere verità mistiche, al di là del linguaggio; il potere evocativo del cinema di Herzog, comunque, deve molto anche alle vibranti colonne sonore del gruppo art rock Popol Vuh. Di recente ha realizzato Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, 2009) e il film biografico Queen of the Desert (2015), anche se le sue prove più significative sono nell’ambito del documentario. L’allentamento dei legami di causaeffetto caratteristico del cinema d’autore gli ha permesso di dedicarsi alla scoperta dell’immagine pura e senza tempo. Anche la carriera di Wim Wenders iniziò con un approccio antinarrativo, che alla fine degli anni Sessanta si tradusse in una serie di cortometraggi sperimentali realizzati all’insegna del minimalismo. Con l’approdo al lungometraggio, la vena contemplativa del regista trovò espressione in racconti di viaggio che si interrompevano per soffermarsi su luoghi e oggetti. Fortemente influenzato dalla cultura americana, Wenders si appassionò al flipper, al rock’n roll e ai film hollywoodiani – la stessa passione che Herzog aveva provato per le montagne e per gli sport a contatto con la natura. In La paura del portiere prima del calcio di rigore (Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, 1972) un uomo vaga, poi va a vivere con una donna, la uccide, vaga ancora per un po’ e aspetta che la polizia lo trovi. La trama, basata su un romanzo dello scrittore Peter Handke, riconducibile al “nuovo intimismo”, si frantuma in una serie di momenti concreti, come quando una sigaretta gettata da un autobus inonda di scintille la strada mentre dalla radio risuona The Lion Sleeps Tonight (Tavola a colori 17.10). Anche nella sua trilogia “on the road”, costituita da Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), Falso movimento (Falsche Bew egung, 1975) e Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit, 1976), il vagare dei personaggi è descritto attraverso campi lunghi di panorami, silenzi e immagini che invitano lo spettatore alla riflessione. Non a caso Wenders nel documentario TokyoGa (1985) indicò Yasujirō Ozu come il suo autore preferito. I film di Wenders mettono in scena una lotta continua fra il bisogno di affidarsi a un impianto narrativo e la ricerca di una rivelazione visiva istantanea. Ne Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) l’angelo Daniel, catturato dalla bellezza transitoria del mondo, decide di far parte della razza umana; come Dorothy che entra a Oz, l’angelo cade in un mondo a colori (Tavola a colori 17.11). Al termine del film Daniel si lega a una trapezista, mentre il suo compagno angelo rimane a guardare dal cielo, in un mondo in bianco e nero. Questa iniziazione al quotidiano, tuttavia, è una caduta nel mondo della narrazione e nella storia, emblematicamente rappresentate da Homer, l’anziano narratore che collega Berlino al suo passato. Il cielo sopra Berlino è dedicato a «tutti i vecchi angeli, soprattutto Yasujirō [Ozu], François [Truffaut] e Andrej [Tarkovskij]», registi che sono riusciti a conciliare il senso della narrazione con la bellezza dell’immagine. Il

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Capitolo 17

Fonte: Der Tod der Maria Malibran (La morte di Maria Malibran), di Werner Schroeter, 1972.

film ha avuto un seguito in Così lontano così vicino (In weiter Ferne, so nah!, 1993), ma l’esplorazione cinematografica dell’Europa da parte di Wenders è continuata con Lisbon Story (1994) e Palermo Shooting (2008). L’amore per il viaggio, la ricerca e per l’immagine sono al centro di Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991), una sorta di film di fantascienza ambientato in un prossimo futuro, ma anche di documentari come Il sale della terra (The Salt of the Earth, 2014, codiretto con il fotografo Juliano Ribeiro Salgado) o Buena Vista Social Club (1998), racconto del mitico locale dell’Avana e dei suoi storici musicisti, quasi sconosciuti al grande pubblico. In Wenders anche la musica e i musicisti rivestono un ruolo imprescindibile nella costruzione di itinerari e racconti personali e generazionali. Altri registi tedeschi, che condividevano la ricerca della bella immagine, si ispirarono al teatro. Werner Schroeter, stimato regista d’opera, realizzò diversi film stilizzati e barocchi (Figura 17.38), mentre Hans-Jürgen Syberberg, che si era fatto conoscere nella seconda metà degli anni Sessanta con una serie di documentari in stile Cinema Diretto, realizzò i suoi film più famosi, la cosiddetta “trilogia tedesca”, verso la metà del successivo decennio: Ludwig II: requiem per un re vergine (Ludwig II: Requiem für einen jungfräulichen König, 1972), Karl May (1974) e Hitler, un film sulla Germania (Hitler: ein Film aus Deutschland, 1977), quest’ultimo della durata di oltre sette ore. Lo spirito di Brecht, che Syberberg ha eletto suo “padre adottivo”, si mischia a un gigantismo wagneriano nella prima e nell’ultima di queste opere. Vortici di fumo, grandi aloni di luci colorate e musica luttuosa abbracciano quadri monumentali che rappresentano il crepuscolo della cultura tedesca (Figura 17.39). L’autoriflessività di Hitler, un film sulla Germania, con riferimenti che vanno da Edison e Riefenstahl a Quarto potere (di Orson Welles, 1941), ne fanno una sorta di storia del cinema, in cui Hitler, trasformando la politica in un dramma mitico, diventa «il più grande regista di tutti i tempi». Successivamente Syberberg girò Parsifal

Figura 17.38 Dive che si pietrificano in pose istrioniche in Der Tod der Maria Malibran.

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Fonte: Hitler, un film sulla Germania (Hitler: ein Film aus Deutschland), di Hans-Jürgen Syberberg, 1977.

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Figura 17.39 L’unione fantasmagorica di cinema, musica e cultura tedesca in Hitler, un film sulla Germania.

(1982) trasformando il dramma musicale di Wagner in una colossale allegoria della storia e dei miti tedeschi (Tavola a colori 17.12). Alcuni registi che hanno iniziato la carriera alla fine degli anni Novanta, con maestri come Harun Farocki, hanno dato luogo alla cosiddetta “scuola di Berlino”. Concentrandosi sul malessere urbano, l’oppressione sociale e le frustrazioni delle classi sociali più emarginate, i film di questi autori hanno rielaborato i generi popolari in maniera originale. Ad esempio, dopo aver girato un film sugli emigranti turchi, Thomas Arslan ha diretto austeri film polizieschi come Im Schatten (Nell’ombra, 2010). Christian Petzold, ammiratore di Hitchcock, Douglas Sirk e dei film horror, infonde forti emozioni nei suoi film che riprendono consolidati generi cinematografici: il suo thriller La scelta di Barbara (Barbara, 2012) suscita l’empatia dello spettatore per una dottoressa dilaniata tra il desiderio di fuggire dalla Germania dell’Est e il dovere di compiere lealmente la sua professione; Il segreto del suo volto (Phoenix, 2014) ricorre agli elementi del classico melodramma che unisce a una recitazione sobria e alla messa in scena lussureggiante, con sfumature dell’horror classico (Figura 17.40). La donna dello scrittore (Transit, 2018) audacemente colloca una storia dell’occupazione nazista nell’odierna Francia, in cui la Gestapo impiega telecamere di sorveglianza a circuito chiuso. Petzold evoca l’atmosfera del noir attraverso la voice over e immagini che ricordano il montaggio hollywoodiano degli anni Quaranta (Tavola a colori 17.13). Angela Schanelec nei suoi sobri e cupi melodrammi scruta diverse protagoniste femminili. Mein langsames Leben (La mia lenta vita, 2001) raccoglie venti personaggi, amici parenti e amanti, dispersi ma uniti dal desiderio di realizzazione personale; Orly (2010) presenta quattro vicende che si intrecciano nell’arco di due ore presso l’aeroporto francese; Der traumhafte Weg (Il cammino sognato, 2016) accenna al viaggio nel tempo, per cui una coppia che viene seguita nella prima parte del racconto riappare in un’altra storia di trent’anni posteriore con la stessa età.

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Fonte: Marseille (Marsiglia), di Angela Schanelec, 2004.

Figura 17.40 Doppi spettrali e immagini da film horror: nell’evocare i traumi del dopoguerra in Germania, Petzold in Il segreto del suo volto fa rivivere quelli di Hollywood in L’uomo invisibile di James Whale del 1933.

Figura 17.41 In Marseille Sophie, assistita da un traduttore, viene interrogata da un poliziotto che rimane fuori campo. La messa in scena di questa inquadratura di settanta secondi nasconde quasi tutte le informazioni relative al racconto ma non la sua testimonianza. L’inquadratura successiva, che conclude la scena, la mostra in primo piano per più di sei minuti mentre scoppia in lacrime.

La tecnica di Schanelec è secca ed ellittica. Le sue inquadrature mantengono le reazioni dei personaggi fuori campo, e si affidano a elementi frammentari e ravvicinati, quasi bressoniani; i suoi campi lunghi possono essere opachi e fanno sorgere negli spettatori domande sui collegamenti tra personaggi e sul significato delle vicende (Figura 17.41). A cavallo del nuovo millennio è emerso il lavoro di registi immigrati come Fatih Akin, tedesco di origini turche, che nella sua opera esplora ripetutamente il tema della ricerca identitaria e delle proprie origini da parte di personaggi trapiantati in Germania da una o due generazioni. La sposa turca (Gegen die Wand, 2004) lo segnala all’attenzione internazionale. Il film ha un seguito ideale in Ai confini del paradiso (Auf der anderen Seite, 2006) e Il padre (The Cut, 2014), sul genocidio armeno, che formano la trilogia “sull’amore, la morte e il demonio”. Il dolore per la violenza, questa volta di matrice neonazista, viene esplorato in Oltre la notte (Aus dem Nichts, 2017), mentre toni più lievi sono presenti nella fortunata commedia Soul kitchen (2009). Il cinema diasporico attraversa sempre più l’Europa, divenuta crogiolo di culture differenti.

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Regno Unito: problemi sociali e cinema d’arte Pur allontanandosi dagli estremismi del cinema politico, molti registi cercarono di raccontare i conflitti sociali in maniera realistica. All’inizio degli anni Settanta il British Film Institute Production Board, che era nato nel 1966 e si era occupato di cortometraggi indipendenti, cominciò a finanziare anche i lungometraggi. Nello stesso periodo Ken Loach iniziò a utilizzare attori non professionisti e uno stile (1969), amquasi documentaristico nelle riprese di Kes bientato in una città industriale nel nord del Regno Unito. Il film ha come protagonista un ragazzino della classe operaia che va male a scuola e il cui unico interesse nella vita è l’addestramento di un falco (Figura 17.42). Nei quarant’anni successivi Loach è rimasto fedele alla tradizione britannica del realismo vicina alla classe operaia, distinguendosi soprattutto con Riff Raff - Meglio perderli che trovarli (Riff-Raff, 1991), Piovono pietre (Raining Stones, 1993), Terra e libertà (Land and Freedom, 1995), Il vento che accarezza l’erba (The Wind that Shakes the Barley, 2006), Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake, 2016) e Sorry, We Missed you (2019). Il British Film Institute (BFI) finanziò anche il primo film del regista teatrale Mike Leigh, Bleak Moments (Momenti tristi, 1971), storia di un’impiegata che vive con la sorella affetta da disabilità mentale. Incidenti tristi e divertenti si mescolano in un modo che sarebbe poi diventato tipico delle opere di Leigh. Nelle successive rappresentazioni della classe operaia, prodotte dalla BBC e in seguito da Channel 4, il dialogo riveste una grande importanza e i problemi sociali vengono affrontati dal regista dosando umorismo e pathos – come in Dolce è la vita (Life is Sweet, 1990). Naked - Nudo (Naked, 1993) offre uno sguardo ancora più triste sulla povertà nel Regno Unito di oggi, attraverso gli occhi di un uomo intelligente, ma violento e insoddisfatto. Nel 1999 Leigh sorprese il suo pubblico con Topsy-Turvy - Sottosopra (Topsy-Turvy): un ritratto della Londra di fine Ottocento, nel periodo in cui William

Fonte: Kes, di Ken Loach, 1969.

Fonte: Il segreto del suo volto (Phoenix, di Christian Petzold, 2014)

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Figura 17.42 Il protagonista di Kes mostra un barlume di interesse a scuola: quando gli viene chiesto di parlare del suo falchetto, scrive sulla lavagna termini appartenenti al linguaggio della falconeria.

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Capitolo 17

S. Gilbert e Arthur Sullivan preparavano la loro operetta più celebre, Mikado (Tavola a colori 17.14). Nonostante la presenza di numeri musicali e di una ricca scenografia, Leigh restò fedele all’approccio realistico, ricostruendo con grande fedeltà l’ambiente teatrale vittoriano e inserendo riferimenti critici all’imperialismo britannico, alla vita nei bassifondi e alla condizione delle donne. L’approccio “dal basso” alla storia ritorna in Peterloo (2018) che ricostruisce una rivolta sedata nel sangue dall’esercito. In seguito tornò a raccontare la vita della classe operaia in film come Il segreto di Vera Drake (Vera Drake, 2004), storia di una donna gentile che pratica aborti illegali nel Regno Unito degli anni Cinquanta, mentre in Another Year (2010) ricostruì la vita quotidiana di una famiglia borghese e di mezza età nell’arco di un anno. Per altro verso, nel Regno Unito si segnalarono alcuni autori che contribuirono sensibilmente alla rinascita di un cinema d’arte europeo. Stanley Kubrick nel 1975 realizzò un freddo e distaccato adattamento di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray, approfittandone per sperimentare un obiettivo in grado di catturare le immagini a lume di candela; il film, accanto alle importanti coproduzioni 2001: Odissea nello spazio (1968), Shining (1980), Eyes Wide Shut (1999) e a opere radicali come Arancia meccanica (1971), contribuì a fare di Kubrick un autore di culto, fortemente attento a ogni aspetto della sua produzione filmica (Paragrafo 16.3). Un contributo significativo fu indubbiamente offerto anche da Peter Greenaway, che in passato aveva proposto con un certo umorismo racconti ambigui e a più strati, nascosti all’interno di un’organizzazione strutturale ispirata ai numeri, ai colori, agli alfabeti. I suoi film, che si basano su strutture rigide, traboccano di aneddoti bizzarri e di riferimenti arcani. In A Walk Through H (Un viaggio attraverso H, 1978), una mostra d’arte si trasforma in un viaggio fantastico attraverso i paesaggi labirintici dei quadri. In The Falls (1980) Greenaway ricorre all’ordine alfabetico per organizzare un’indagine di tre ore su una misteriosa mutazione fisica che ha colpito novantadue persone il cui cognome comincia con Fall. Mentre lo spettatore si sforza di individuare dei nessi fra i dossier dei Fall, Greenaway fa la parodia dei cliché del cinema sperimentale impiegando il negativo, la ripetizione, inquadrature virate e immagini rifotografate dell’acqua che si increspa. Il regista inglese si rivolse a un pubblico più vasto con I misteri del giardino di Compton House, coprodotto da Channel 4 e dal British Film Institute. Il film (Tavola a colori 17.15) è un lussuoso dramma in costume, ambientato nel diciassettesimo secolo, in cui Greenaway ricorre ai giochi labirintici dei suoi primi film per svelare i segreti di un’agiata famiglia, scoperti da un pittore. Le opere successive di Greenaway si basano su concetti elaborati: in ogni sequenza della sensuale dark comedy Giochi nell’acqua (Drowning by Numbers, 1988) vi è un uso sistematico dei numeri; in L’ultima tempesta (Pro-

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spero’s Books, 1991), ispirato a La tempesta di Shakespeare, l’autore dà vita ai ventiquattro libri di Prospero. Un omaggio a Fellini è presente in 8 donne e 1/2 (8 ½ Women, 1999), che recupera il simbolismo dell’autore e il ricorso a inquadrature classiche, mentre in Nightwatching (2007) Greenaway fa rivivere la storia immortalata dal grande quadro di Rembrandt del 1642 La ronda di notte del 1642. Altri registi inclini al “ritorno all’immagine” si ispirarono più alla pittura che al teatro. È il caso di Derek Jarman, pittore e scenografo inglese, i cui cortometraggi in Super8 ricordano le opere di Brakhage nell’uso nervoso della macchina da presa e di Warhol nel trattamento impassibile dei corpi maschili. Sebastiane (1976), il suo primo lungometraggio, è ambientato all’epoca dell’impero romano e tutti i dialoghi sono in latino (sottotitolato). La trama sconnessa segue le fortune di un soldato cristiano che alla fine viene martirizzato non solo per aver rifiutato di combattere per motivi pacifisti, ma soprattutto per avere resistito alle proposte sessuali di un ufficiale (Figura 17.43). Jarman influenzò molto il nuovo cinema omosessuale che emerse in numerosi Paesi e che scelse come luogo di incontro internazionale il New York Lesbian and Gay Experimental Film Festival, fondato nel 1987. Caravaggio (1986), il primo lungometraggio di Jarman destinato al grande pubblico, non soltanto mostra l’artista mentre crea i suoi quadri (Tavola a colori 17.16), ma usa uno stile pittorico anche nelle scene drammatiche. Blue (1993) è un film minimalista che presenta uno schermo dal colore blu intenso accompagnato dalla voice over del regista quasi cieco. Infine un regista che si è occupato dei rapporti familiari nell’ambito del cinema d’arte è Terence Davies. Nei suoi film, fortemente autobiografici, l’idea post-sessantottina delle implicazioni politiche insita nelle esperienze personali si combina a un impiego delle convenzioni del cinema d’arte. Grazie al BFI, Davies ha conquistato il mercato internazio-

Fonte: Sebastiane, di Derek Jarman, 1976.

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Figura 17.43 Sebastiane crea una versione omo-erotica del martirio del santo.

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Spagna: trasgressione e gusto pittorico In Spagna Carlos Saura – che in passato aveva diretto film quali La caccia (La caza, 1965), un attacco all’etica maschilista spagnola, e El jardín de las delicias (Il giardino delle delizie, 1970), incentrato su una classe dirigente perversa che vive fra realtà e fantasia – realizzò opere prestigiose, profondamente legate alla cultura spagnola: in Bodas de sangre - Nozze di sangue (Bodas de sangre, 1981), Carmen Story (Carmen, 1983), L’amore stregone (El amor brujo, 1986) e Tango (Tango, no me dejes nunca, 1998) la danza riveste un ruolo importante; mentre in A peso d’oro (El Dorado, 1988), una grandiosa coproduzione con l’Italia, il regista presenta il colonialismo spagnolo come un brutale gioco politico. Il progressivo avvicinamento al cinema “per tutti” è ravvisabile nella carriera di Pedro Almodóvar, che esordì nel lungometraggio con un film aboveground in 16 mm, Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, 1980), ma poi si dedicò a produzioni più tradizionali in cui si fondono il melodramma, il kitsch e la commedia sexy. Nel suo mondo le suore diventano eroinomani (L’indiscreto fascino del peccato, Entre tinieblas, 1983), una moglie ammazza con un osso di prosciutto il marito che la maltratta (Che cosa ho fatto io per meritare questo?, ¿Qué

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he hecho yo para merecer esto!!!, 1984), una conduttrice di telegiornali confessa in diretta televisiva di essere un’assassina (Tacchi a spillo, Tacones lejanos, 1991); le donne sono attratte da uomini che ammazzano tori (Matador, 1986) e che le rapiscono (Legami!, ¡Atame!, 1989). Quasi come in alcune opere messicane di Buñuel, situazioni e immagini scandalose sono trattate con una leggerezza casuale e suadente. Almodóvar si è anche cimentato nella parodia, spesso usando l’espediente del film nel film, come nel delirante pastiche ispirato al cinema muto in Parla con lei (Hable con ella, 2002). Almodóvar raggiunse il successo internazionale con Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988; Figura 17.44), una farsa a sfondo sessuale, ma i suoi film successivi virarono verso il melodramma. Come Fassbinder, egli presenta intrecci che ricordano Douglas Sirk, con rivalità amorose – sia gay sia eterosessuali – e morti improvvise. Il fiore del mio segreto (La flor de mi secreto, 1995) racconta di un’intellettuale che in segreto scrive romanzi rosa. In Carne tremula (Carne trémula, 1997) la protagonista è attratta sessualmente dal criminale che ha reso paraplegico suo marito. Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) rappresenta una famiglia alquanto improbabile composta da una madre single, una suora incinta, un transessuale che si prostituisce e un bambino affetto dall’HIV. Situazioni scandalose sono gestite con una leggerezza che le fa apparire casuali: La pelle che abito (La piel que habito, 2011) ha una premessa adatta a un horror, ma è ambientato in eleganti set e si diverte a giocare con sinistri cambiamenti di tempo. Il mondo del cinema è costantemente evocato, non solo nel riferimento al muto di Parla con lei (Hable con ella, 2002), ma anche come passione profonda e scopo della vita in Dolor y gloria (2019), parzialmente autobiografico. Come Sirk e Fassbinder, Almodóvar arricchisce le scene con colori carichi come nel film La mala educación (2004; Tavola a colori 17.19). Nel nuovo millennio Almodóvar è diventato un emblema della creatività del cinema europeo, grazie all’estro visivo e alla capacità di valorizzare le interpreti femminili dei suoi film. I pochi film realizzati dallo spagnolo Víctor Erice hanno colpito il pubblico per la loro pacata bellezza e per l’esplorazione dell’infanzia come momento privilegiato della Fonte: Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios), di Pedro Almodóvar, 1988.

nale con Voci lontane... sempre presenti (Distant Voices, Still Lives, 1988), in cui l’angoscia della vita familiare – a causa di un padre psicopatico e prepotente – è mitigata dall’amore tra la madre e i figli. La profonda tristezza del tema è resa ancora più intensa da uno stile rigoroso e lineare, simile a quello di Jeanne Dielman (di Chantal Akerman, 1975). Davies si sofferma su soglie e corridoi vuoti e descrive gli incontri familiari e i cori come fossero pose per un ritratto (Tavola a colori 17.17). Ne Il lungo giorno finisce (The Long Day Closes, 1992) fa appello a uno stile più ricco per ricreare l’atmosfera agrodolce di una famiglia dopo la morte del padre: movimenti di macchina lenti, dissolvenze in corrispondenza dei cambi di luce e canzoni con la funzione di raccordo fanno scivolare impercettibilmente l’azione da un tempo all’altro, tra la fantasia e la realtà. Dopo aver debuttato con un sanguinoso thriller comico, Piccoli omicidi tra amici (Shallow Grave, 1994), Danny Boyle è divenuto popolare con Trainspotting (1996), in cui – rifiutando ogni moralismo – ha unito il suo umorismo grottesco e uno stile “heroin chic” a scene iperrealiste e dal grande impatto visivo, quasi scioccanti. I suoi film, se paragonati al realismo di Loach e Leigh (Tavola a colori 17.18) sembrano come graffiti di designer per l’impiego di obiettivi grandangolari, di set alla moda ma dall’apparenza trasandata, di un linguaggio ricco di insulti. Il film The Millionaire (Slumdog Millionaire, 2008), che ha vinto numerosi premi, ha fatto di Doyle un regista mainstream.

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Figura 17.44 Donne sull’orlo di una crisi di nervi: comicità al limite dell’isteria.

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Capitolo 17

Altri Paesi Altri contributi significativi di rinnovamento del cinema europeo vennero da aree culturali differenti. Il più importante dei registi riconducibili alla tradizione del cinema politico degli anni Settanta e Ottanta fu il greco Theo Anghelopoulos che, dopo Michelangelo Antonioni e Miklós Jancsó, divenne il principale fautore di uno stile caratterizzato dall’uso di piani-sequenza. Egli cominciò la sua carriera alla fine degli anni Sessanta, sotto la dittatura dei colonnelli. Il suo primo film, Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970), mostra un intreccio di presente e passato tipico di quel periodo: la storia delle indagini su un omicidio è continuamente interrotta da flashback. Il dialogo criptico, che fornisce poche informazioni sui rapporti fra i personaggi, e l’indugiare della macchina da presa su composizioni e panorami statici (Figura 17.45) garantiscono al film un alto livello di de-drammatizzazione. Come il primo Jancsó, Anghelopoulos indaga sulla storia della sua nazione per trarne una lezione politica di cui far tesoro nel presente. Nonostante la censura del regime militare, I giorni del ’36 (Meres tou ’36, 1972) racconta l’omicidio del leader di un partito militante sottolineando la connivenza del governo. Il film, girato con lunghi pianisequenza e panoramiche di 360°, si trasformò in un’allegoria della repressione politica. Sempre sotto il regime dei colonnelli, Anghelopoulos diresse La recita (O thiasos, 1975), un excursus di quattro ore sulle lotte politiche avvenute in Grecia fra il 1939 e il 1952, in cui racconta di una compagnia teatrale che per anni continua a mettere in scena sempre la stessa rappresentazione, con la funzione di commentare la situazione politica in evoluzione. Come in Ricostruzione di un delitto, Anghelopoulos rielabora la cronologia degli eventi, ma in La recita diversi periodi storici arrivano addirittura a convivere nella medesima scena. I soliloqui e le interpretazioni degli attori, perlopiù ripresi in lunghi piani-sequenza, producono un aspro senso di straniamento di gusto brechtiano (Figura 17.46).

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Anghelopulos, che gioca con la storia e la memoria introducendo continui salti temporali, rappresentò una versione monumentale della tradizione del cinema moderno post-bellico. Tuttavia egli raccontò anche vicende più personali, con risvolti psicologici e i suoi affreschi lasciarono spazio a drammi intimistici: Taxidi sta Kythira (Viaggio a Citera, 1984) mostra un anziano esule comunista che ritorna in Grecia. Anghelopoulos affrontò inoltre i problemi dell’emigrazione europea e della dissoluzione dei confini nazionali: come in Paesaggio nella nebbia (Topio stin omichli, 1988; Tavola a colori 17.20) dove due bambini lasciano la loro casa per andare alla ricerca del padre, convinti che si trovi in Germania, mentre il protagonista de Il passo sospeso della cicogna (To meteoro vima tou pelargou, 1991) è un famoso romanziere che rinuncia alle comodità derivanti dall’appartenenza alla classe media per una vita precaria da rifugiato. La polvere del tempo (Trilogia II: I skoni tou hronou, 2008) non è solo il titolo del suo ultimo film, seconda parte di una trilogia, ma un tema ricorrente Fonte: Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi), di Theo Anghelopoulos, 1970.

fantasia e del mistero. Lo spirito dell’alveare (El espíritu de la colmena, 1973), ambientato nella Spagna alla conclusione della guerra civile, ha per protagonista una ragazzina convinta che il criminale a cui offre un nascondiglio sia il sosia del mostro del suo film preferito, Frankenstein (di James Whale, 1931); in El Sur (Il Sud, 1983) un’adolescente scopre che suo padre ha un’amante. Attraverso una fotografia dominata dal chiaroscuro, Erice costruisce un mondo crepuscolare in bilico tra l’infanzia e l’età adulta. In El sol del membrillo (Il sole dell’albero della mela cotogna, 1992) il protagonista è il pittore Antonio López Garcia e la trama è subordinata alla pacata osservazione del processo meticoloso attraverso cui nasce un’immagine.

Figura 17.45 L’indagine della polizia in Ricostruzione di un delitto.

Fonte: La recita (O thiasos), di Theo Anghelopoulos, 1975.

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Figura 17.46 Attraverso ricostruzioni storiche e rappresentazioni di opere classiche messe in scena in piccole città di provincia, la compagnia di attori itinerante diventa la coscienza della cultura greca in La recita.

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Fonte: Z - L’orgia del potere, di Costantin Costa-Gavras, 1969.

nella produzione di Angelopoulos. Esso è evocato sia a livello collettivo, come tempo storico, in Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odyssea, 1995), in cui il protagonista compie un itinerario nei Paesi balcanici alla ricerca di tre film, dati per perduti, dei fratelli Manakis, pionieri del cinema, arrivando a Sarajevo durante l’assedio; sia come memoria personale, in L’eternità è un giorno (Mia aiōniotīta kai mia mera, 1998) che si confronta, attraverso il protagonista, un intellettuale greco ormai anziano, con i propri ricordi. Un altro regista nato in Grecia, ma divenuto cittadino francese, fu l’esponente più famoso del thriller politico: Costantin Costa-Gavras. Egli esordì con Vagone letto per assassini (Compartiment tueurs, 1965), prima di girare Z - L’orgia del potere (Z, 1969), la cui didascalia d’apertura, firmata insieme allo sceneggiatore Jorge Semprún, annuncia un chiaro intento politico: «Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone viventi non è casuale. È intenzionale». Il film, ambientato nella Grecia dei primi anni Sessanta, racconta l’assassinio di un popolare leader pacifista da parte degli stessi militari che di lì a poco instaureranno il famigerato regime dei colonnelli. Il magistrato incaricato di indagare, un moderato, svela la cospirazione della destra, ma finirà anch’egli per caderne vittima. Nel 1969 molte tecniche del nuovo cinema – flashback a raffica, ralenti, fermo immagine, riprese con macchina a mano (Figura 17.47) – erano ormai assai diffusi e Costa-Gavras le impiegò per conferire all’azione un ritmo incalzante. La presenza di Yves Montand nel ruolo del protagonista contribuì al successo del film in tutto il mondo. Successivamente Costa-Gavras realizzò La confessione (L’aveu, 1970), messa in scena di un’epurazione politica nella Cecoslovacchia del dopoguerra; L’amerikano (État de siège, 1973), contro i tentativi americani di cacciare i guerriglieri tupamaro dall’Uruguay; L’affare della sezione speciale (Section spéciale, 1975), denuncia del collaborazionismo francese durante la seconda guerra mondiale. Questi film si basavano in buona parte su un’accurata documentazione, ma i critici spesso li biasimarono per l’eccesso di azione e per il

Figura 17.47 Una ripresa realizzata con macchina a mano mostra il protagonista che va incontro al suo assassino, in Z - L’orgia del potere.

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manicheismo dei personaggi. Tuttavia Costa-Gavras amava lavorare all’interno delle convenzioni, in modo da potersi rivolgere a un pubblico vasto; egli, infatti, rifiutava il ritmo lento e le pretese intellettuali del cinema politico, e così per due decenni rimase il decano del thriller politico con film quali Missing (1982), Betrayed (1988) e Music Box (1989). Più di recente, con tonalità inquietanti, il regista greco Yorgos Lanthimos si è imposto al grande pubblico con vicende ambientate in mondi chiusi governati da rituali bizzarri e scenari fantastici. Un poliziotto, una cameriera d’albergo e un impiegato rimettono in scena gli omicidi commessi da un serial killer locale (Kinetta, 2005). All’interno di una villa isolata, due genitori sottopongono i loro figli adulti a sanguinosi giochi di dominio (Dogtooth, Kynodontas, 2009). Quattro persone si offrono, dietro compenso, per interpretare altrettanti defunti in modo da facilitare ai familiari l’elaborazione del lutto (Alps, Álpeis, 2011). Girati con un crudo distacco, i film propongono giochi di ruolo sia comici che grotteschi, finché le cose non vanno fuori controllo e la violenza si scatena (Tavola a colori 17.21). Le satire oscure di Lanthimos, che fanno eco al tardo Buñuel e alle commedie europee del Teatro dell’Assurdo, gli hanno aperto le porte del cinema internazionale. In The Lobster (2015), i single entrano in un hotel nel quale devono trovare un partner: se falliscono, vengono trasformati in animali o si danno alla macchia. Il sacrificio del bosco sacro (The Killing of a Sacred Deer, 2017), è un racconto soprannaturale del sacrificio umano, ispirato al mito greco di Ifigenia, mentre La favorita (The Favourite, 2018), basato su intrighi reali alla corte della regina Anna d’Inghilterra, è il più storicamente realistico. Lanthimos mostra come un modernismo provocatorio, presentato in una confezione vivace, possa ancora attrarre il pubblico mainstream. Allo spettacolo hollywoodiano ipercinetico, a base di inseguimenti, esplosioni ed effetti speciali, i registi europei hanno spesso opposto la bellezza delle immagini, inducendo lo spettatore a una rapita contemplazione del film. In ogni caso, sia i registi europei sia quelli della Nuova Hollywood sono riusciti a creare immagini di un’intensità irraggiungibile in televisione. Il nuovo pittorialismo del cinema d’arte, inoltre, attingeva a fonti locali. Significative manifestazioni di questa tendenza vennero dal portoghese Manoel de Oliveira. Nato nel 1908, de Oliveira, dopo la sua “sinfonia della città” Douro, faina fluvial (Douro ansa fluviale, 1931), diresse film solo sporadicamente. Il suo secondo lungometraggio, Acto da primavera (Atto di primavera, 1963) è quasi un documentario sulla rappresentazione della Passione di Cristo che viene messa in scena in un villaggio. De Oliveira proseguì realizzando una serie di film la cui bellezza visiva spesso nasce dalla voluta teatralità e abbracciando le convenzioni narrative del cinema d’arte: Acto da primavera, per esempio, svela l’atto del filmare secondo le convenzioni dell’autoreferenzialità

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e del Cinéma Vérité in voga in quel periodo. Quando il dramma della Passione comincia, però, de Oliveira lo tratta come un rituale a sé stante, eliminando il pubblico e soffermandosi sulle tensioni fra la dimensione teatrale e lo spazio aperto, in cui costumi stilizzati e materiale scenico sono collocati alla luce del sole, in mezzo al paesaggio (Tavola a colori 17.22). L’autoriflessività ritorna in Le Soulier de satin (La scarpa di raso, 1985) che comincia in un teatro, incorpora sequenze di film proiettate in scena, e termina in uno studio cinematografico. Nella sua lunga carriera, durata fino a 104 anni, de Oliveira adatta spesso i film da testi teatrali scritti da lui stesso o da altri drammaturghi portoghesi. Ma anche i film che non sono desunti da opere per la scena sfoggiano una messa in scena sontuosa, che spesso svela la propria teatralità attraverso lo sguardo rivolto in macchina o per mezzo di inquadrature che incorporano il proscenio, i fondali e il sipario. Una teatralità simile emerge nelle opere oscure e stravaganti di João César Monteiro, un altro regista portoghese, dal primo lungometraggio (Vederas, 1977), a Lo sposalizio di Dio (As Bodas de Deus,1999). Spesso le immagini di Monteiro, che sfruttano solenni piani-sequenza, risultano più eccentriche e inquietanti di quelle di de Oliveira (Figura 17.48). L’austriaco Michael Haneke è il rappresentante di un cinema che aggredisce lo spettatore. Con calma e precisione clinica, e rifiutandosi di nobilitare la freddezza che riconosce nella vita moderna, segue le persone oltre i limiti del comportamento quotidiano (vedi la scheda La violenza sugli schermi di Michael Haneke pag. 379). Haneke trovò il suo tono distintivo in Der siebente Kontinent (Il settimo continente, 1989), rappresentazione distaccata del suicidio collettivo dei membri di una famiglia. Benny’s Video (Il video di Benny, 1992) mostra un ricco studente che seduce e poi uccide una compagna di scuola, registrando tutto su un nastro; in La pianista (La pianiste, 2001) un’insegnante di pianoforte di mezza età subisce il fascino di uno dei suoi allievi,

che la trascina in una relazione sadomasochistica; in Storie - Racconto incompleto di diversi viaggi (Code inconnu - Récit incomplet de divers voyages, 2000) Haneke mette in gioco una variante della narrazione reticolare, con toni più duri: diversi parigini sono collegati alla guerra di Bosnia attraverso un gesto di crudeltà compiuto con noncuranza (Figura 17.49). Nell’opera del regista coesistono un realismo spesso brutale e una sinistra precisione formale, come se soltanto la freddezza dello sguardo potesse rendere giustizia agli orrori delle relazioni sociali moderne. Spesso i registi recuperavano i salti temporali con accostamenti liberi che erano stati sperimentati da Fellini, Buñuel e altri. L’elemento del crimine ed Europa (1991), entrambi di Lars von Trier, descrivono panorami sinistri, sospesi fra la storia e il sogno. Niente da nascondere (Caché, di Michael Haneke, 2005) torna ai flashback intriganti e alle ambiguità del punto di vista, caratteristici degli autori del dopoguerra; come Antonioni in Blow-Up (1966), Haneke utilizza una traccia visiva (in questo caso una videocassetta) per dar vita a un giallo psicologico, in cui il crimine principale è sepolto nel passato coloniale della Francia. Altri registi attinsero alla cultura popolare per rendere gli artifici formali più accessibili al pubblico. Lola corre (Lola rennt, di Tom Tykwer, 1998) offre alla protagonista tre destini alternativi all’interno di universi paralleli, con uno stile che ricorda i video musicali e una colonna sonora techno (Figura 17.50). Fonte: Storie - Racconto incompleto di diversi viaggi (Code inconnu - Récit incomplet de divers voyages), di Michael Haneke, 2000.

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Figura 17.48 Silvestre, dramma medievale che mescola location realistiche e set stilizzati.

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Fonte: Lola corre (Lola rennt), di Tom Tykwer, 1998.

Fonte: Silvestre, di João César Monteiro, 1981.

Figura 17.49 In Storie - Racconto incompleto di diversi viaggi un ragazzo francese getta in grembo a una mendicante romena un sacchetto accartocciato. A partire da questo gesto si costruisce una ragnatela di relazioni dolorose.

Figura 17.50 In Lola corre i punti di vista inaspettati, uniti da un montaggio rapido, richiamano l’estetica del videogioco.

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LA VIOLENZA SUGLI SCHERMI DI MICHAEL HANEKE La carriera di Michael Haneke è piuttosto singolare. Celebrato come uno dei registi più rigorosi e austeri del panorama europeo contemporaneo, debutta nel cinema tardi, all’età di 47 anni: Il settimo continente (Der siebente Kontinent) esce nelle sale nel 1989 ed è il primo capitolo della cosiddetta “Trilogia della glaciazione”, comprendente Benny’s Video (Id., 1992) e 71 frammenti di una cronologia del caso (71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, 1994). In realtà Haneke ha già alle spalle più di vent’anni di carriera, prima come critico cinematografico, poi come drammaturgo televisivo e regista teatrale, per approdare infine alla regia televisiva nel 1974. Il suo primo film per il piccolo schermo … Und was kommt danach? (… E poi che accade?), è un film a budget ridotto sulle dinamiche oppressive di una coppia della classe media, sulla loro incomunicabilità, scandita da una routine di facciata che cela malesseri profondi. Questi sono tutti elementi che diventeranno costanti nella produzione di Haneke degli anni a venire. Si tratta di temi di per sé non particolarmente innovativi; sono in fondo questioni care al cinema della modernità, affrontate a più riprese fin dagli anni Sessanta. Tuttavia Haneke, pur restando fedele a un’idea tradizionale di film d’arte, riesce a riconfigurare tali questioni non solo grazie a scelte formali radicali, come ad esempio le costruzioni narrative frammentarie e l’uso insistito del long-take, ma anche, e soprattutto, individuando nella violenza e nei suoi regimi rappresentativi il punto focale del fare cinema. «Tutti i miei film sono sulla violenza», aveva affermato in occasione della presentazione al Festival di Cannes del 2009 de Il nastro bianco (Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte), che si aggiudicherà la Palma d’oro, vinta nuovamente tre anni dopo con Amour (Id., 2012), dopo il Grand Prix ricevuto nel 2001 per La pianista (La pianiste). Nei titoli premiati a Cannes la violenza, intesa come il mezzo estremo a disposizione del potere per annientare la volontà dell’altro, trova declinazioni differenti. Nel primo caso diventa lo strumento per indagare le tensioni interne alla rigida società tedesca negli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale, e atte a prefigurare, quasi a livello sottocutaneo, le barbarie compiute dal nazismo. In Amour la violenza con cui lo spettatore deve fare i conti è quella della malattia

Infine il finlandese Aki Kaurismäki si fece notare in tutto il mondo con il film wendersiano Ariel (1989) e il bressoniano La fiammiferaia (Tulitikkutehtaan tyttö, 1990). Seppure

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che paralizza lentamente il corpo di Emanuelle Riva, sotto gli occhi impotenti del compagno di una vita interpretato da Jean-Louis Trintignant. Nel film La pianista, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice austriaca premio Nobel Elfriede Jelinek, invece, la violenza pervade i rapporti che regolano l’universo dell’insegnante di pianoforte Erika, interpretata da Isabelle Huppert (ancora protagonista del dramma post-apocalittico successivo, Il tempo dei lupi, Le temps du loup, 2003) e di un suo allievo, con cui intrattiene una relazione sadomasochistica. Erika, pianista concertista mancata – come peraltro Haneke stesso, che infatti mostra una singolare sensibilità musicale per le colonne sonore dei propri film, tutte costruite solo su brani di repertorio – sfoga le proprie insoddisfazioni, acuite da una madre possessiva, sugli allievi, maltrattandoli e precludendo qualsiasi possibilità di carriera ai più talentuosi. Se nei film appena citati la violenza trova una sua drammatizzazione nelle dinamiche interne ai personaggi, nel resto della produzione Haneke sembra individuare nell’universo mediale in continua espansione la causa principale dell’alienazione sociale che caratterizza la contemporaneità. Già in Benny’s Video il regista austriaco, ancora fresco della decennale esperienza televisiva, aveva rintracciato nel video uno strumento per rappresentare le contraddizioni di una famiglia dell’alta borghesia, il cui figlio adolescente, grande appassionato di televisione e di video amatoriali, decide di replicare l’omicidio di un maiale visto in un programma, uccidendo una coetanea, filmando l’omicidio e infine incastrando i genitori, sempre attraverso una prova video da lui girata. Il potere perturbante della telecamera ritorna in Niente da nascondere (Caché, 2005) e nelle inquietanti videocassette che ricevono Georges (Daniel Auteuil) e la sua famiglia, e nell’ultimo Happy End (Id., 2017), in cui il tema del fallimento pedagogico si sostanzia nella superficie dello smartphone di una ragazzina che scruta la madre e ne riprende gli ultimi istanti di vita dopo averla avvelenata. La spettacolarizzazione della violenza mediata dallo schermo raggiunge il suo vertice nel fortunato Funny Games (Id., 1997) – riadattato successivamente per gli Stati Uniti nel 2007 –, che spiazza lo spettatore interpellandolo esplicitamente dopo la rottura della quarta parete.

contraddistinto da uno stile minimalista, la sua tendenza alla parodia crudele e impassibile, legata in parte all’amore per la musica rock, si può trovare allo stato puro in Lenin-

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grad Cowboys Go America (1989), mentre si stempera in una vena di ironia in Vita da bohème (La vie de Bohème, 1992), L’uomo senza passato (Mies vailla menneisyyttä, 2002) e Le luci della sera (Laitakaupungin valot, 2006). La sua celebrazione di personaggi bizzarri e marginali come in Miracolo a Le Havre (Le Havre, 2011) (Figura 17.51), la vasta gamma di citazioni cinematografiche e la satira dei valori della classe media lo hanno reso un regista di culto nell’Europa degli anni Novanta. Anche la Danimarca ha contribuito al cinema di qualità con Anders Thomas Jensen (Le mele di Adamo, Adams æbler, 2005) e soprattutto con una coppia di registe. Lone Scherfig ha realizzato una tra le più fortunate commedie danesi, Italiano per principianti (Italiensk for begyndere, 2000) seguita da Wilbur Wants to Kill Himself (2002). One Day (2011) e L’ora più bella (Their Finest, 2016) hanno avuto una produzione internazionale. Susanne Bier ha riscosso consensi con i drammi intimi Open Hearts (Elsker dig for evigt, 2002), Non desiderare la donna d’altri (Brødre, 2004) e Dopo il matrimonio (Efter brylluppet, 2006). Ha sondato i sentimenti di colpa e inadeguatezza che allontanano coppie e famiglie, spesso rivelandoli attraverso sguardi e gesti, in film come Noi due sconosciuti (Things We Lost in the Fire, 2007), In un mondo migliore (Hævnen, 2010), Una folle passione (Serena, 2014).

Le registe

Fonte: Le luci della sera (Laitakaupungin valot), di Aki Kaurismäki, 2006.

L’ondata più significativa di film politicamente impegnati venne dalle donne. Quando, negli anni Settanta e Ottanta, l’impegno politico si spostò dalle aspirazioni rivoluzionarie alla micro-politica, le donne registe ottennero un maggiore riconoscimento. Nel cinema popolare riscossero un notevole successo le commedie sull’amicizia femminile e sui rapporti fra uomini della tedesca Doris Dörrie, delle francesi Diane Kurys e Coline Serreau e dell’italiana Lina

Wertmüller, quest’ultima con film quali: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia ovvero: stamattina alle dieci in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza... (1973) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974); mentre Pasqualino Settebellezze (1975), aspra critica del machismo italiano, mostra un imbroglione presuntuoso costretto a umiliarsi per sopravvivere in un campo di prigionia nazista (Figura 17.52). Altre registe espressero preoccupazioni femminili o femministe attraverso alcune convenzioni tipiche del cinema d’autore: Marguerite Duras, Margarethe von Trotta e anche Agnès Varda, vincitrice del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia con Senza tetto né legge (Sans toit ni loi, 1985). Agnès Varda aveva diretto i suoi cortometraggi verso la metà degli anni Cinquanta, ma raggiunse la fama solo con la nascita della Nouvelle Vague (in particolare con La Pointe courte, 1955, e Cleo dalle 5 alle 7, Cléo de 5 à 7, 1962). Si impegnò attivamente come regista militante girando un cortometraggio sulle Pantere Nere e contribuendo alla realizzazione del film collettivo Lontano dal Vietnam. Dopo Lions Love (L’amore del leone, 1969), una distesa celebrazione della controcultura americana, Agnès Varda girò molti cortometraggi prima del suo film successivo, L’une chante, l’autre pas (Una canta, l’altra no, 1977). Questo, come molti film politici della metà degli anni Settanta, propone il bilancio del decennio precedente descrivendo la storia dell’amicizia fra due donne dal 1962 al 1974: affrontando il problema dell’aborto e della maternità da un punto di vista liberal-femminista, intendeva rivolgersi a un vasto pubblico. Mentre invece Senza tetto né legge mostra un’enigmatica giovane donna che, vagabondando senza meta nella campagna, accetta di vivere in maniera non ortodossa. Obbedendo alla norma del cinema d’autore secondo cui dall’indagine sulla morte della giovane si procede a ritroso nella sua vita per scoprire il passato attraverso i flashback, Agnès Varda descrive il crollo della protagonista con una tecnica scarna e distaccata (Figura 17.53), che da una parte suggerisce rispetto per il personaggio e dall’altra restituisce il senso di una vita sprecata. Accanto ai numerosi documentari e progetti

Fonte: Pasqualino Settebellezze, di Lina Wertmüller, 1975.

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Figura 17.51 L’ennesimo “perdente” di Kaurismäki: un guardiano notturno

Figura 17.52 Pasqualino Settebellezze: un ladro di strada rinchiuso in un

si innamora di una donna che lo coinvolge nella rapina di una gioielleria.

campo di prigionia è costretto a elemosinare un po’ di indulgenza.

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Fonte: Senza tetto né legge (Sans toit ni loi), di Agnès Varda, 1985.

artistici, realizza Garage Demy (Jacquot de Nantes, 1991), un atto d’amore nei confronti del marito, il regista Jacques Demy, di cui ricostruisce la biografia dopo la morte, mentre per Cento e una notte (Les cent et une nuits de Simon Cinéma, 1995) raduna un cast di grandi attori per una metaforica celebrazione del centenario del cinema. In linea con la tendenza a realizzare un cinema più accessibile, la regista belga Chantal Akerman, dopo l’impegnativo Jeanne Dielman (1975), realizzò film più tradizionali. Les rendez-vous d’Anna (Gli appuntamenti di Anna, 1978), versione femminile di un road movie, segue una regista attraverso l’Europa (Figura 17.54). Tutta una notte (Toute une nuit, 1982) incrocia le storie di una trentina di coppie che, nel corso di una notte, si incontrano, aspettano, litigano, fanno l’amore e si separano (Tavola a colori 17.23). Les années 80 (Gli anni 80, 1983) è un musical sofisticato alla maniera di Demy, con intrighi romantici che si intrecciano in un centro commerciale, numeri musicali spumeggianti e amare riflessioni sugli stratagemmi e i fallimenti d’amore. Nuit et jour (Notte e giorno, 1991) è una sorta di ripensamento femminista della Nouvelle Vague, come se il triangolo di Jules e Jim fosse raccontato da un punto di vista femminile. In tutti questi film la narrazione frammentata del cinema del dopoguerra offre a Chantal Akerman la pos-

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sibilità di soffermarsi su incontri casuali ed epifanie accidentali, oltre all’opportunità di approfondire il suo costante interesse per il lavoro delle donne e per il loro desiderio d’amore e il bisogno di appagamento fisico. Marguerite Duras e Margarethe von Trotta sono l’emblema di tendenze diverse, tipiche degli anni Settanta e Ottanta. Marguerite Duras, che si era affermata negli anni Cinquanta come scrittrice, fu anche l’autrice di alcune sceneggiature, tra cui quella di Hiroshima, mon amour; la sua carriera di regista iniziò nel 1966 e si consolidò con Détruire dit-elle (Distruggere, lei disse, 1969), Nathalie Granger (1972), La ragazza di passaggio (La femme du Gange, 1974), Le camion (Il camion, 1977) e soprattutto India Song (1975). La scrittura di Marguerite Duras, legata all’avanguardia del Nouveau Roman, offre una personale declinazione dello stile cinematografico moderno, soprattutto attraverso un andamento lento, caratterizzato da immagini statiche e da dialoghi scarniche esplorano l’utilizzo della lingua da parte delle donne. Duras, inoltre, dà vita a un mondo privato collocato nel Vietnam degli anni Trenta. India Song rimane una pietra miliare del cinema degli anni Settanta. Ambientato quasi interamente nell’ambasciata francese in Vietnam, si svolge durante un lungo ricevimento serale. Le coppie ballano languide il tango, spostandosi lentamente da una parte all’altra dell’inquadratura o scivolando dal buio nel grande specchio che domina il salone (Figura 17.55). Nel film non vi è sincronizzazione tra immagini e dialoghi: sentiamo voci anonime che sembrano commentare ciò che vediamo, ma le voci appartengono al presente, mentre la vicenda avviene nel passato. Inoltre, gran parte dell’azione drammatica – le seduzioni, il tradimento e un suicidio – accade fuori campo o è riflessa nello specchio. Margarethe von Trotta appartiene a una generazione più giovane: nata nel 1942, recitò in molti film del

Figura 17.53 In Senza tetto né legge: mentre il ricercatore yuppie si lamen-

Figura 17.54 Il road movie, secondo lo stile asciutto e lineare di Chantal Akerman in Les rendez-vous d’Anna.

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Fonte: India Song, di Marguerite Duras, 1975.

Fonte: Les rendez-vous d’Anna (Gli appuntamenti di Anna), di Chantal Akerman, 1978.

ta con sua moglie, Mona, la protagonista, sviene sullo sfondo.

Figura 17.55 Il salottino con lo specchio in India Song: i rapporti di classe sono raddoppiati.

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giovane cinema tedesco; nel 1971 sposò il regista Volker Schlöndorff e collaborò con lui in diversi film. Attirò l’attenzione internazionale co-dirigendo insieme al marito Il caso Katharina Blum (Die verlorene Ehre der Katharina Blum, oder: Wie Gewaltentstehen und wohin sie führen kann, 1975). È la storia di una donna, Katharina, braccata dalla polizia e perseguitata dalla stampa scandalistica perché accusata di aver aiutato un terrorista. Per quasi tutta la durata del film, lo spettatore è indotto a pensare che Katharina sia una vittima innocente. Una volta conquistata la simpatia del pubblico, la trama svela che per amore la donna ha davvero aiutato il giovane. Il film utilizza procedimenti narrativi tipici del cinema classico per convincere gli spettatori ad approvare l’atto sovversivo della protagonista. Dopo aver realizzato un altro film con Schlöndorff, Margarethe von Trotta cominciò a dirigere da sola. Il secondo risveglio di Christa Klages (Das zweite Erwachen der Christa Klages, 1978) segue la strategia narrativa de Il caso Katharina Blum, inducendo il pubblico a schierarsi dalla parte di una ladra femminista in fuga. In un periodo in cui il terrorismo, i dirottamenti aerei e gli assassini occupavano le prime pagine dei giornali, attribuire una tale attenzione a una criminale donna era un gesto dotato di forte valenza politica. In seguito realizzò Anni di piombo (Die bleierne Zeit, 1981), Lucida follia (Heller Wahn, 1982), Rosa L. (Rosa Luxemburg, 1986) e Paura e amore (Fürchten und Lieben, 1988). Ha contribuito al cinema europeo di qualità con La promessa (Das Versprechen, 1995), un racconto epico della vita in Germania nel secondo dopoguerra, Rosenstrasse (Rosenstraße, 2003) sulla protesta delle donne ariane per la deportazione dei loro mariti ebrei, e con Hannah Arendt (2012) sulla filosofa e teorica tedesca, le cui idee hanno influenzato il dibattito sull’Olocausto. Regista meno sperimentale di Marguerite Duras e Chantal Akerman, Margarethe von Trotta sfruttò alcune convenzioni ricorrenti nel cinema d’autore più accessibile. Come Agnès Varda, nei suoi film si occupa dei problemi delle donne all’interno della società. Mentre le prime opere hanno protagoniste che evadono dal ruolo domestico e diventano figure pubbliche scandalose (Katharina Blum aiuta un terrorista a fuggire, mentre Christa Klages diventa una rapinatrice di banche), i film successivi si concentrano sulle forze contrastanti del lavoro, dei legami familiari e del sesso, e dimostrano un forte interesse per il modo in cui madri, figlie e sorelle, condividendo momenti chiave della storia familiare, scivolano in situazioni in cui esercitano il proprio potere l’una sull’altra. Sorelle - L’equilibrio della felicità (Schwestern oder die Balance des Glücks, 1979), per esempio, mette a confronto due sorelle: Maria, la decisa ed efficiente segretaria di direzione in carriera, e la più giovane Anna che, con grande incertezza, cerca di laurearsi in biologia e vive in un mondo fanta-

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stico, soffermandosi spesso sui ricordi dell’infanzia. Anna si suicida, in parte a causa dell’insistenza di Maria perché riesca a terminare gli studi. Maria reagisce trovando una sorella sostitutiva, una dattilografa che tenta di trasformare in una professionista. Alla fine, comunque, Maria realizza di essere stata troppo rigida. Margarethe von Trotta, manipolando i punti di vista, favorisce un’identificazione graduale da parte del pubblico: all’inizio gli spettatori entrano nei ricordi e nei sogni di Anna (Figura 17.56) e rimangono a una certa distanza rispetto a Maria ma, dopo il suicidio di Anna, la regista si concentra sulla mente della sorella maggiore, tormentata dai sensi di colpa (Figura 17.57). Alla fine, l’amalgama di ricordi, fantasie e immagini ambigue suggerisce che Maria è stata contagiata dall’immaginazione della sorella. Il diverso significato che assume l’uso degli specchi rende evidente l’atteggiamento differente di Margarethe von Trotta rispetto a Marguerite Duras. La ricca geometria del salottino di India Song si concentra sulla forma, con lo specchio che a volte perde la riflessività della superficie per assomigliare a una finestra su un altro regno (Figura 17.58). Gli specchi di Margarethe von Trotta, al contrario,

Fonte: Sorelle - L’equilibrio della felicità (Schwestern oder die Balance des Glücks), di Margarethe von Trotta, 1979.

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Figure 17.56 (in alto) e 17.57 (in basso) Gli specchi definiscono il mondo fantastico di Sorelle - L’equilibrio della felicità: qui Anna ricorda quando era bambina e, insieme a Maria, si metteva il rossetto. (17.57) Con una visione allucinatoria allo specchio, Margarethe von Trotta descrive l’ossessione di Maria per la morte di Anna.

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Fonte: India Song, di Marguerite Duras, 1975.

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Figura 17.58 Lo specchio come una finestra che crea inganni percettivi in India Song.

uniscono e mettono in contrapposizione i personaggi, intensificando i problemi della storia. Negli anni Novanta il cinema femminile fu caratterizzato da una svolta post-femminista, soprattutto in Francia. Spesso i temi rappresentati erano dedicati alle fantasie dell’infanzia, ai tormenti dell’adolescenza e agli amori della gioventù; altre volte le registe affrontarono in maniera schietta e audace argomenti quali il desiderio sessuale femminile – come Catherine Breillat, attiva sin dagli anni Settanta, in Romance (1999) e A mia sorella! (À Ma Soeur!,

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2001). Claire Denis, dopo aver approfondito i rapporti tra fratelli e sorelle in Nénette e Boni (Nénette et Boni, 1996), ha trattato l’eroismo maschile nel sontuoso Beau Travail (1999; Tavola a colori 17.5) e l’eredità del colonialismo francese in Africa nel film Chocolat, 1988 e White Material, 2009. Lavorando in una varietà di generi, è diventata una delle più importanti registe francesi. La giovane regista Céline Sciamma si è dedicata a film sull’esplorazione dell’identità in via di sviluppo di ragazze adolescenti (Tomboy, 2011; Diamante nero, Bande de filles, 2014). Il suo Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019) incentrato sull’amore tra una giovane donna benestante e la sua insegnante di pittura, ha introdotto il tema dell’attrazione lesbica nel genere storico. Nel 1970, c’erano pochissime registe donne in Europa occidentale; nel 2017, circa il 20% delle pellicole distribuite era diretto da donne. Era una percentuale ancora modesta, ma significativa rispetto ad altre regioni del mondo. Gli anni Duemila hanno visto le donne occupare alcune posizioni di vertice nelle aziende dei media, nell’organizzazione dei festival e nella promozione cinematografica: una crescita che si deve a decenni di sforzi per affermare l’importanza delle donne artiste e creatrici per la cultura cinematografica europea.

17.3 L’Europa orientale e l’URSS: una difficile transizione Nel 1989 Germania Orientale, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania cacciarono i capi comunisti per ottenere democrazia e riforme economiche in senso liberista; folle esultanti da tutta Europa abbatterono il muro di Berlino. La libertà politica, tuttavia, non giovò alla produzione cinematografica. Il cinema dell’Europa orientale, galvanizzato dal crescente dissenso popolare dopo la metà degli anni Settanta, fu poi danneggiato dalle crisi economiche e dai sollevamenti sociali alla fine degli anni Ottanta. Con la creazione di Serbia, Croazia, Bosnia e degli altri stati indipendenti il cinema iugoslavo scomparve. Emir Kusturica ne riportò in vita le tradizioni con la tragicommedia felliniana Underground (1995) che ripercorre la storia della Iugoslavia dal 1941 alla guerra di Bosnia.

Slovacchia e Repubblica Ceca Dopo la Primavera di Praga (1968) il governo mise in atto severe restrizioni e controlli nei confronti dell’industria cinematografica. Molti registi emigrarono negli Stati Uniti, in Canada e in Europa occidentale: fra gli autori della Nová

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vlna che restarono in patria, Jiří Menzel non diresse film fino al 1976, dopodiché realizzò alcune commedie agrodolci, come Vesničko má, středisková (Il mio dolce paesino, 1985). Vêra Chytilová, dopo aver lottato per anni contro il sessismo della politica di regime, tornò alla regia con Il gioco della mela (Hra o jablko, 1976), una commedia dissacrante sui rapporti tra i sessi che suscitò la disapprovazione degli organi ufficiali, ma che fu comunque distribuita all’estero. Nei suoi film successivi, la regista accostò forme narrative tradizionali, erotismo e satira sociale. Politicamente, in molti di questi Paesi alla liberalizzazione del 1989 e allo scioglimento del patto di Varsavia nel 1991 seguì un avvicinamento all’Unione Europea, al cui interno vennero accolte diverse nazioni. Tuttavia all’apertura dei primi anni fece seguito negli anni 2010 una controreazione con la salita al potere di diversi governi populisti di destra. La produzione cinematografica rimase contenuta, talvolta assistita da finanziamenti UE e da coproduzioni, con la maggior parte dei governi che assegnavano sussidi e incentivi fiscali per aiutare l’industria e fronteggiare l’invasione del cinema americano. Mentre gli studi cinematografici lasciati

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in eredità dai regimi comunisti, insieme al basso costo del lavoro e agli incentivi fiscali attiravano nei Paesi dell’Est molte produzioni straniere, ci furono segni incoraggianti di ripresa. In Polonia, nella Repubblica Ceca e in Romania, i film locali guadagnarono un mercato considerevole. Inoltre registi e produttori si impegnarono per realizzare film capaci di parlare a vaste audience e per assicurare una distribuzione ai loro film anche all’esterno del Paese di produzione. In Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Romania sono evidenti i progressi compiuti negli anni recenti. In seguito alla rivoluzione del 1989, vennero proposte le opere più importanti che erano state bandite dai circuiti cinematografici. Il pubblico di tutto il mondo poté vedere quello che i censori avevano proibito e riassaporare la vitalità della Primavera di Praga. Allodole sul filo (di Jiří Menzel, 1969) tornò in circolazione solo nel 1990 e vinse l’Orso d’oro a Berlino vent’anni dopo essere stato girato. Anche film censurati in tempi più recenti, come Ja milujem, ty miluješ (Io amo, tu ami di Dušan Hanák, 1980), poterono circolare. Nel 1993 la Cecoslovacchia si divise pacificamente in Repubblica Ceca e Slovacchia. Dopo un periodo di assestamento, il cinema ceco si rafforzò; in Slovacchia, invece, la produzione restò ferma. Menzel, Juraj Jakubisko, Jan Švankmajer e altri registi della vecchia guardia si dedicarono a nuovi progetti; Praga, dotata di studi di registrazione e attrezzature di qualità elevata, iniziò a ospitare produzioni straniere.

dello stalinismo e del post-stalinismo, il regista evidenzia la possibilità di esprimere un articolato discorso ideologico attraverso il cinema (Figura 17.59). All’inizio del film Agnieszka si affida alla macchina da presa come strumento documentaristico (Figura 17.60), ma alla fine deve scoprire la verità direttamente, con il contatto umano con il figlio di Birkut. Krzysztof Zanussi – che in precedenza aveva diretto La struttura del cristallo (Struktura krysztalu, 1969), Illuminazione (Iluminacja, 1972) e Bilancio trimestrale (Bilans kwartalny, 1974) – realizzò Barwy ochronne (Colori mimetici, 1976), una descrizione del conformismo e dell’idealismo in un campo estivo per studenti universitari. Insieme a L’uomo di marmo, questo film di Zanussi fu il segnale del nuovo scontento nei confronti del regime; e quando salì al potere un vice-ministro della cultura intenzionato ad adottare una linea più dura, la comunità cinematografica protestò. I registi sottolinearono che il pubblico vedeva nel cinema la coscienza della Polonia. Wodzirej (Il conduttore delle danze, di Feliks Falk, 1977), La spirale (Spirala, di Zanussi, 1978) e altri film di “interesse morale” accusavano il regime di aver costretto i polacchi a sacrificare il loro onore e la loro coscienza.

Negli anni Settanta e Ottanta, il cinema più vitale dell’Europa dell’Est era quello polacco. La Polonia offriva ai registi un certo spazio per la critica sociale. Le unità produttive dell’industria cinematografica, sciolte dopo le manifestazioni del 1968, vennero subito ricostituite e i registi ottennero maggiore libertà. Ogni unità produttiva era composta da un direttore artistico (in genere un regista importante) e da un direttore letterario (uno sceneggiatore). All’inizio degli anni Settanta i registi privilegiavano soggetti poco rischiosi, di carattere storico o letterario; a metà del decennio, mentre cresceva lo scontento popolare nei confronti della politica economica, emerse il “cinema di interesse morale”. Un tipico esempio è L’uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1977) diretto da Andrzej Wajda, già autore di opere di spicco come Paesaggio dopo la battaglia (Krajobraz po bitwie, 1970), Le nozze (Wesele, 1973) e La terra della grande promessa (Ziernia obiecana, 1975). In L’uomo di marmo, la regista Agnieszka indaga su un “eroe del lavoro” degli anni Cinquanta, cancellato dalla storia: l’onesto muratore Birkut. Come in Quarto potere, le interviste di Agnieszka alle persone che lo conoscevano fanno da cornice a lunghi flashback. Svelando gli intrighi politici

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Fonte: L’uomo di marmo (Czĺowiek z marmuru), di Andrzej Wajda, 1977.

Polonia: da Solidarność a Krzysztof Kieślowski

Figure 17.59 (in alto) e 17.60 (in basso) I trionfi del muratore Birkut messi in scena per una ripresa “documentaristica” in L’uomo di marmo. Nell’immagine sottostante Agniezska scopre la statua che celebra Birkut a dimostrare la diversa considerazione dell’eroe stakanovista Birkut nel corso del tempo.

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Nel 1980, quando una serie di scioperi infervorò il Paese, l’ambiente cinematografico si strinse intorno alla causa, e dopo che Solidarność ebbe ottenuto le prime concessioni dal governo, il Festival annuale di Danzica annunciò la nascita di un nuovo cinema di critica sociale. Le unità produttive supervisionate da Wajda e Zanussi realizzarono opere che riflettevano un nuovo realismo. Il film più celebrato fu L’uomo di ferro (Człowiek z żelaza, di Wajda, 1981), seguito di L’uomo di marmo, in cui Agnieszka e il figlio di Birkut estendono la loro indagine agli anni Sessanta e Settanta; girato durante lo sciopero di Solidarność, il film contiene materiale documentaristico di eventi contemporanei. L’uomo di ferro, attaccando il governo con un’audacia senza precedenti, divenne presto il film polacco più visto della storia. Quando il governo vanificò le conquiste di Solidarność, i registi che si erano esposti ne avvertirono i contraccolpi. Ma la nuova politica di Gorbačëv nei confronti dell’Europa orientale portò alla riapertura dei negoziati fra il governo e il sindacato, e i registi polacchi tornarono al cinema di impegno morale. L’autore più significativo fu Krzysztof Kieślowski, che si fece conoscere negli anni Settanta con pungenti documentari televisivi e con Blizna (La cicatrice, 1976), una severa analisi sull’inefficienza del capo di una fabbrica. In Amator (Il cineamatore, 1979), un operaio cerca di girare un film amatoriale sulla sua fabbrica, ma si scontra con la burocrazia. Lo scetticismo di Kieślowski sulle risposte della politica lo spinse a interrogarsi su questioni davvero essenziali. Destino cieco (Przypadek, 1981) presenta tre trame alternative, evidenziando le scelte di vita che un uomo ha a sua disposizione: diventare un leader di partito, un oppositore o uno spettatore apolitico. Senza fine (Bez Konca, 1985) è il suo film più coraggioso contro la legge marziale. Mescolando con sagacia sacro e profano, Kieślowski realizza Decalogo (Dekalog, 1987-1989; Figura 17.61), una serie televisiva che prevede una storia per ognuno dei dieci comandamenti; due di questi cupi racconti sono diventati lungometraggi (Breve film sull’uccidere, Krótki film o zabijaniu; e Non desiderare la donna d’altri, Krótki film o miłości, 1988). Kieślowski diventa il regista più noto dell’Europa dell’Est. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique, 1991), che presenta due donne apparentemente identiche le quali vivono in Paesi diversi (Tavola a colori 17.24), è stato un successo internazionale, girato in Polonia e Francia e finanziato da una società di produzione francese e da StudioCanal. Ancora più celebre è stata la sua trilogia dei tre colori sull’Europa contemporanea, che comprende il malinconico Tre colori – Film blue (Trois couleurs: Bleu, 1993), il satirico Tre colori – Film bianco (Trois couleurs: Blanc, 1994), e lo spirituale e misterioso Tre colori – Film rosso (Trois couleurs: Rouge, 1994), che nel finale ricollega i protagonisti della trilogia. Questi film che esplorano la condizione umana e coinvolgono lo spettatore con paralle-

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Fonte: Decalogo (Dekalog), di Krzysztof Kieślowski, 1987-1989.

L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Figura 17.61 In Decalogo Uno (Dekalog, jeden) il giovane Pawel va alla ricerca della propria anima – di cui il padre nega l’esistenza – fino a incontrare una morte tragica.

lismi nascosti e coincidenze dettate dal fato, sulle note delle coinvolgenti colonne sonore di Zbigniew Preisner, hanno mostrato la vitalità del modernismo del dopoguerra: dopo la scomparsa di Kieślowski nel 1996 nessun regista polacco ha eguagliato la sua fama.

UNGHERIA:

VECCHI E NUOVI AUTORI In Ungheria la transizione dal comunismo alla democrazia comportò per il cinema cambiamenti meno radicali. Negli anni Settanta, grazie alle riforme legate al “nuovo meccanismo economico” statale, gli standard di vita migliorarono. Il Partito Comunista, pur mantenendo uno stretto controllo, accettò le elezioni libere e la censura si dimostrò relativamente tollerante. Dopo il crollo del comunismo, l’Ungheria riuscì a risollevarsi in tempi più brevi rispetto alle nazioni vicine. Tuttavia, come nella maggior parte dei Paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico, il mercato fu conquistato dai film americani. La Fondazione Pubblica per il Sostegno del Cinema Ungherese (Magyar Mozgókép Közalapítvány, MMK), creata nel 1991 per facilitare il passaggio al libero mercato, continuò a sovvenzionare gran parte della produzione nazionale, che si aggirava intorno a un paio di decine di film all’anno, per tutto il decennio successivo. In campo internazionale il regista di maggior successo fu István Szabó, già autore di Via dei pompieri 25 (Tűzoltó utca 25, 1973): il suo Bizalom (Fiducia, 1979) gli permise di realizzare nella Germania occidentale Mephisto (1981) e Il colonnello Redl (Redl ezredes/Oberst Redl, 1985), due opere ambiziose ad alto budget. Fra i registi della “vecchia generazione”, Márta Mészarós rimase forse la più coerente: aveva girato parecchi cortometraggi durante gli anni Sessanta e, dopo il suo primo film, Eltávozott nap (La ragazza, 1968), ne realizzò molti altri, in particolare Senza legami (Szabad léleglzet, 1973), Örökbefogadás (Adozione, 1975) e Kilenc hónap (Nove mesi, 1976). L’opera della Mészáros bilancia

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Capitolo 17

Fonte: Diario per i miei figli (Napló gyermekeimnek), di Márta Mészarós, 1984.

l’intimismo con l’analisi del rapporto delle donne, le forze sociali e la struttura classista. I suoi film mettono in scena una vasta gamma di esperienze femminili – la scuola, il primo appuntamento, il matrimonio, il lavoro, i figli, la vita familiare – e dedicano particolare attenzione al rapporto fra madri e figlie. Lo stile punta sul realismo senza però rinunciare al commento d’autore, entrambi espressi attraverso dettagli dei corpi delle protagoniste; in Örökbefogadás, per esempio, un’intera sequenza è dedicata alle mani di donne al lavoro in una fabbrica. Márta Mészarós espresse l’esigenza della ricerca della madre e del padre nel film Anna (1991) e nella serie basata sui ricordi del suo passato sotto il regime stalinista: Diario per i miei figli (Napló gyermekeimnek, 1984; Figura 17.62), Diario per i miei amori (Napló szerelmeimnek, 1987) e Diario per mio padre e mia madre (Napló apámnak anyámnak, 1990). Miklós Jancsó, ex marito di Márta Mészarós, continuò a fare film, ma nessuno di essi fu applaudito con lo stesso entusiasmo con cui erano state accolte le sue opere degli anni Sessanta. Alla fine riuscì a riconquistare i connazionali con alcune commedie paradossali (tra cui Anyád! A szúnyogok, Accidenti! Le zanzare, 1999). Negli anni Novanta un gruppo di giovani registi ungheresi si distinse realizzando film in bianco e nero, aspri nel tono, enigmatici nel contenuto e audaci nello stile. Un esempio è Szenvedély (Passione di György Fehér, 1998), la storia cruda di un adulterio ambientata in campagna e girata affidandosi ai piani-sequenza. L’esponente di spicco del gruppo era però Béla Tarr, che conquistò la fama internazionale con Sátántangó (1994), adattamento di un romanzo ungherese di successo. In un villaggio tetro e fangoso ha luogo una losca tratta di bestiame e si dipanano con dolorosa lentezza relazioni disperate: il tutto sotto gli occhi di un dottore che siede alla finestra e cerca di mettere per iscritto ciò che vede. Questo film, della durata di oltre sette

Figura 17.62 In un’autobiografia caratterizzata dal profondo amore per il cinema tipico della Nouvelle Vague, Márta Mészarós ricorda i momenti condivisi con la madre durante la proiezione di un film in un paese.

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ore, rese Tarr il regista più celebre della sua generazione e il capostipite dello “slow cinema”. Ammiratore del primo Jancsó, Tarr si affida al rigore coreografico di lunghi piani-sequenza, che procedono però con passo lugubre, come se i personaggi camminassero sott’acqua (Figura 17.63), nella convinzione che un’inquadratura dovesse mostrare non solo il volto dei protagonisti, ma anche quello del paesaggio, dei luoghi, del tempo atmosferico e di quello cronologico. In Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000), una misera cittadina ospita un circo che espone una balena impagliata, e la macchina da presa di Tarr studia l’occhio gigantesco della creatura con la stessa riverenza con cui avrebbe osservato un volto umano. Nell’inquadratura iniziale, lunga dodici minuti, di A londoni férfi (L’uomo di Londra, 2007), la macchina da presa scruta un vaporetto nel porto accanto a una stazione ferroviaria e assiste in lontananza allo svolgersi di un dramma misterioso; poi si ritrae per rivelare un uomo solitario in una torre che riflette sulla scena. Le immagini fotograficamente perfette di Tarr restituiscono vigore alla tradizione del cinema contemplativo. La cinematografia ungherese è rimasta una delle più innovative dell’Europa orientale, nonostante il continuo calo di incassi. Ne sono testimonianza i film di Nimród Antal (Kontroll, 2003, ambientato nella metropolitana di Budapest), di Kornél Mundruczó (White God – Sinfonia per Hagen, Fehér isten, 2014, un apologo che racconta la rivolta degli animali ai sistemi repressivi messi in atto dagli uomini) e di György Pálfi (Taxidermia, 2006, una satira grottesca che suggerisce come il comunismo abbia attaccato i corpi stessi dei suoi seguaci). Benedek Fliegauf ha presentato in Rengetec (2003) una stuzzicante narrazione reticolare, ma anche, in Tejút (La via Lattea, 2007), un film di dieci inquadrature che scruta sobriamente le persone in situazioni enigmatiche. Lo spirito di innovazione contraddistingue anche un film come Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes,

Fonte: Sátántangó, di Béla Tarr, 1994.

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Figura 17.63 Una raffica di vento, cartacce che si sollevano da terra, due uomini di spalle che camminano seguiti dalla macchina da presa: in un piano-sequenza di quasi due minuti, Tarr ci nasconde l’identità dei personaggi e ci costringe a seguire il ritmo dei loro passi.

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

Fonte: La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lazarescu, di Cristi Puiu, 2005)

ROMANIA: IL NUOVO CINEMA Alcuni registi come Mircea Daneliuc e Lucian Pintilie, che hanno intrapreso delle carriere significative a partire dagli anni Settanta, sono i rappresentanti più emblematici del cinema romeno che però non era conosciuto al di fuori del Paese. A metà degli anni Duemila sono emersi film di registi più giovani che hanno vinto riconoscimenti importanti ai festival internazionali, dando modo alla critica di parlare di una nuova ondata (“Noul Val”). La Romania, che aveva conosciuto una crisi severa durante il governo dispotico di Ceausescu, dopo aver dato vita a istituzioni democratiche si era unita all’Unione Europea nel 2007. La transizione aveva visto un vertiginoso crollo dell’industria cinematografica, prima sostenuta dallo stato; successivamente alcuni interventi – tra cui un concorso di sceneggiature amministrato dal Centro nazionale di cinematografia, l’ammodernamento degli studi, che avevano attratto produzioni straniere, e lo sviluppo dei multiplex dal 2000 – avevano favorito una ripresa. Alcuni giovani autori, segnalatisi con i loro cortometraggi nei festival internazionali, erano riusciti a trovare finanziamenti per i loro film di esordio. La svolta si è avuta con il film di Cristi Puiu La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lazarescu, 2005) che racconta con dettagli assurdi e patetici le ultime ore di un vecchio trasportato da un ospedale all’altro (Figura 17.64). Nonostante la durata di oltre due ore, il film

aveva affascinato la critica per il suo umorismo cupo e la critica all’indifferenza delle istituzioni. Nel 2006 alcuni film raccontavano la rivolta rumena del 1989: la commedia A Est di Bucarest (A Fost sau n-a fost?, di Corneliu Porumboiu), il dramma Hîrtia va fi albastră (La carta sarà blu, di Radu Muntean) e il racconto di formazione Cum mi-am petrecut sfârșitul lumii (Come ho festeggiato la fine del mondo, di Cătălin Mitulescu) su un’adolescente che cresce in una baraccopoli. Tutti hanno vinto premi a festival importanti. Ogni anno uscivano più di una dozzina di film romeni, e il Centro Nazionale di Cinematografia metteva a disposizione più di sette milioni di euro a sostegno del cinema. La strategia sembrava confermata dal successo mondiale di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 săptămâni și 2 zile, 2007) di Cristian Mungiu, un racconto che – in modo simile a Cléo dalle 5 alle 7 – segue una coppia di studentesse (di cui una è incinta) che cercano un modo per abortire illegalmente. Nonostante il tema scottante, il film è diventato assai popolare in Romania, e lo stesso Mungiu l’ha portato in giro per il Paese con un cinema ambulante. Per un decennio, i film romeni hanno continuato a segnalarsi nei festival e nei mercati internazionali. Dal punto di vista stilistico, il “nuovo cinema romeno” si è basato in gran parte sull’uso della camera libera, anche se con tempi eccezionalmente lunghi. Un padre, una figlia (Bacalaureat, 2016), sempre di Mungiu, è incentrato su di un medico che si destreggia tra problemi familiari, una relazione extraconiugale, e la necessità di aiutare sua figlia a entrare nel college. In Sieranevada di Puiu (2016), una famiglia si riunisce in un appartamento per onorare il padre defunto: girato sia in un vero appartamento che in un set, assegna alla macchina da presa un ruolo sia claustrofobico che testimoniale. Polițist, Adjectiv (Poliziotto, aggettivo di Corneliu Porumboiu, 2009) contiene tre inquadrature di dieci minuti. Per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni Mungiu ha cercato di sostenere la tensione emotiva tipica del thriller, senza ricorrere al montaggio veloce, ma con lunghe inquadrature che durano per un’intera scena (Figura 17.65).

Fonte: 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (4 luni, 3 săptămâni s‚i 2 zile, di Cristian Mungiu, 2007)

storia di un prigioniero che lavora in un campo di sterminio nazista, segnalatosi per il suo stile audace. Il regista utilizza la macchina a mano ma solo a una distanza ravvicinata dal protagonista che reagisce all’azione fuori campo o sullo sfondo, come quando le guardie chiudono una porta in lontananza (Tavola a colori 17.25). Ciò rappresenta per Nemes un esercizio di immersione. I tempi precisi dell’esecuzione e dei movimenti di macchina ricordano, ma in un senso più claustrofobico, i lunghi piani-sequenza di Jancsó degli anni Sessanta. Nemes ha ampliato i suoi esperimenti stilistici nell’intrigo storico di Tramonto (Napszállta, 2018), che segue una donna nella ricerca del fratello anarchico.

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Figura 17.64 Il signor Lazarescu, mentre cerca di riposarsi vicino al suo

Figura 17.65 In un’inquadratura girata con la camera a mano la protago-

gatto apparentemente morto, nota un sintomo.

nista del film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, portando il suo ingombrante fardello si sente in pericolo per strada.

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Capitolo 17

Man mano che il cinema cresceva di prestigio, il pubblico si espandeva: tra il 2008 e il 2016 il numero di schermi era quasi triplicato (arrivando a quasi 400), mentre le presenze erano aumentate da 3,4 milioni a 13 milioni, una crescita che non aveva paragone con i Paesi dell’Europa orientale. Nello stesso periodo, la Romania aveva attirato produzioni straniere e ospitato festival cinematografici: i nuovi film hanno stimolato la crescita della cultura cinematografica nazionale, mettendo un piccolo Paese al centro del mondo.

L’URSS: IL DISGELO FINALE Fra il 1964 e il 1982 Leonid Brežnev fu il segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Il suo regime, contrario alle riforme e propenso ad affidare il governo agli ufficiali più anziani, assicurava al Paese un’immagine di solidità e di crescita apparente. Nonostante l’aumento dei beni di consumo a disposizione dei cittadini, la cultura attraversò un’altra fase di “congelamento”. La società Goskino, l’ente statale che supervisionava l’intera attività cinematografica, era diventata un tronfio sistema burocratico che incoraggiava l’intrattenimento popolare, in sintonia con il nuovo “consumismo socialista”. Siberiade (Sibiriada, 1979), epopea di Andrej Mikhalkov Končalovskij, dimostrò che seguire la strada delle megaproduzioni americane poteva portare a un buon successo di pubblico. Un’altra opera d’intrattenimento, Mosca non crede alle lacrime (Moskva slezam ne verit, di Vladimir Menšov, 1980), fu il primo film sovietico a vincere un premio Oscar. Nonostante il conservatorismo dell’era di Brežnev, alcuni film riuscirono a lasciare spazio ai problemi dell’esistenza quotidiana, soprattutto quelli dei giovani. Dinara Asanova (Beda, 1977), Lana Gogoberidze (Ramdenime interviu pirad sakitkhebze, Alcune interviste su problemi personali, 1978) e altre donne registe realizzarono originali studi psicologici. La corrente poetica continuò invece nell’opera del regista georgiano Tengiz Abuladze (si pensi, per esempio, al film messo al bando Pentimento, Pokayaniye, 1984).

ciò nei primi anni Sessanta e che venne proiettato per la prima volta a Parigi nel 1969. Dopo aver ottenuto vasto favore all’estero, venne distribuito in URSS. A quel tempo Tarkovskij aveva già terminato il suo terzo film, Solaris (Soljaris, 1972; vedi la scheda Bach e la materia elettronica di Solaris a pag. 389). Il riflesso del mondo dell’artista è (Zerkalo, 1974), un portato all’estremo in Lo specchio poetico insieme di ricordi infantili, brani documentaristici e immagini fantastiche. Mentre la voce over di Tarkovskij recita poesie del padre, la macchina da presa scivola attraverso una stanza, inquadrando prima un gatto che lecca una pozza di latte e poi la madre in lacrime, alla finestra, mentre guarda la pioggia. Un granaio brucia durante un acquazzone; un uomo viene quasi spazzato via in un paesaggio ventoso; una donna levita verso l’alto (Figura 17.67). Le autorità sovietiche dichiararono Lo specchio incomprensibile e ne penalizzarono gravemente la distribuzione. Considerato un “reazionario”, Tarkovskij riteneva che la famiglia, la poesia e la religione fossero le forze centrali della vita sociale. Schieratosi contro il cinema politico, sosteneva

Fonte: Voschoždenie (L’ascesa), di Larisa Šepit’ko, 1977.

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Figura 17.66 In Voschoždenie Sotnikov è paragonato a Cristo per la sua pron-

TARKOVSKIJ E L’ETICA DELL’ARTE Diversi registi realizzarono opere originali, influenzate sia dal cinema d’autore europeo sia dalla tradizione russa. I film di Larisa Šepit’ko pongono l’accento sulla coscienza individuale e sulle scelte morali, in linea con Dostoevskij e con la letteratura antistalinista dell’epoca. Il suo film Voschoždenie (L’ascesa, 1977), ambientato durante la seconda guerra mondiale, mostra due soldati partigiani catturati dai tedeschi e costretti a scegliere tra la collaborazione e la morte. L’intellettuale Sotnikov, avendo sconfitto la paura della morte in uno scontro precedente, resisterà alla tortura e accetterà la morte con una mitezza quasi soprannaturale, simile a quella di Cristo (Figura 17.66). Un regista di rilievo, emerso come una figura centrale del nuovo cinema sovietico, era Andrej Tarkovskij, segnalatosi con Andrej Rubliov, la cui vicenda produttiva comin-

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Fonte: Lo specchio (Zerkalo), di Andrej Tarkovskij, 1974.

tezza a sacrificarsi nel tentativo di salvare altri russi catturati dai tedeschi.

Figura 17.67 L’enigma della memoria e della fantasia in Lo specchio.

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L’Europa e l’URSS dagli anni Settanta in poi

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BACH E LA MATERIA ELETTRONICA DI SOLARIS

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anima l’oceano e, in particolare, il personaggio di Hari. Il suono di sintesi mette tra parentesi la propria origine tecnologica e acquista una nuova vitalità grazie al continuo mutamento timbrico. Tarkovskij dichiara che «la musica elettronica deve sbarazzarsi della sua origine “di laboratorio” per poter essere percepita come una sonorità organica del mondo». Artemjev dà forma a una componente sonora attiva, in accordo con le trasformazioni cromatiche e materiche della superficie di Solaris. Se Hari, infatti, oggettiva una traccia mnestica del vissuto del protagonista, il brano di Bach costituisce un segno dell’eredità artistica della storia terrestre. Il preludio al corale Ich rufe zu Dir, Herr Jesu Christ non è il solo “oggetto culturale” presente nella base spaziale, poiché come si vede nelle sequenze ambientate nella biblioteca, nel film abbondano anche quadri d’autore, busti di filosofi, porcellane e libri. Tuttavia, il preludio bachiano riveste uno statuto particolare, in quanto rappresenta una testimonianza sonora ricorrente lungo tutto l’asse del film e in qualche modo unica. Il preludio scandisce quattro momenti chiave della narrazione secondo una logica del ritornello in poesia, teorizzata da Tarkovskij: i titoli di testa, la visione del filmino dell’infanzia di Kris, la sequenza della levitazione e infine il ritorno dell’uomo a casa. Ogni occorrenza appare uguale e, al contempo, diversa dalle altre, se posta a confronto con l’apparizione primigenia: progressivamente si aggiungono nuovi elementi musicali (vibrafono, cori, archi) che contribuiscono a integrare in maniera armonica la musica originale di Bach all’interno di nuovi contesti. Inoltre, la scelta di questo pezzo nel vasto corpus del compositore non è casuale, ma da rintracciare nel testo sotteso: un profondo sentimento di supplica da parte del credente che traspare dalla trama strumentale e suggella la ricerca di un principio regolatore dell’universo, vero e proprio cuore di Solaris. Grazie allo stile elegiaco che lo contraddistingue, in tal modo Bach diviene il simbolo di un ordine divino in grado di racchiudere ed evocare la totalità cosmica. Fonte: Solaris (Soljaris), di Andrej Tarkovskij, 1972.

Uno degli elementi ricorrenti nel cinema fantascientifico – trasversale ai filoni o agli autori riconducibili a questo genere cinematografico – è il tema dell’incontro con il diverso, che si presenta con le sembianze dell’alieno o dell’inumano. Su questo aspetto verte anche il quarto lungometraggio di Andrej Tarkovskij, Solaris. Tratto dal romanzo dello scrittore polacco Stanisław Lem, il film trascende in realtà la cornice di genere per spingersi a tematizzare il complesso rapporto tra progresso tecnico e dimensione etica, interrogandosi sui limiti e sulla responsabilità sociale della scienza. Nel contesto dell’opera i pericoli connessi a una deriva del sapere scientifico superano il mero dato tecnologico e problematizzano il rapporto dell’uomo con la sua coscienza. Nel film il socio-psicologo Kris Kelvin viene inviato sul pianeta Solaris per stabilire se continuare o meno gli esperimenti avviati nel corso di una precedente missione. Ben presto si rende conto che la superficie del pianeta è ricoperta da un oceano pensante in grado di dare forma ai ricordi e alle ossessioni più recondite degli scienziati presenti nella stazione orbitale. Il protagonista entra così in contatto con quella che gli appare come la reincarnazione della moglie morta suicida, Hari, e nonostante questa sia un essere alieno, l’affetto che Kris inizia a provare nei suoi confronti innesca un processo di umanizzazione irreversibile. L’uomo decide di rimanere nello spazio con lei, ma la donna si annienta per salvaguardare l’esito della missione e per liberarlo dai vincoli dei suoi sentimenti. Nella dialettica temporale di un film apparentemente proiettato verso il futuro, Tarkovskij mostra un profondo attaccamento a un passato in cui è ancora possibile trovare il senso dell’esistenza. L’instabilità tra questi due poli viene sostanziata da una colonna sonora che affianca alla musica elettronica, scritta da Edward Artemjev nel suo laboratorio di Mosca, una composizione organistica di Johann Sebastian Bach. L’elettronica risponde solo in parte alla funzione straniante tipica del cinema di fantascienza, e paradossalmente adempie questo compito soprattutto nel prologo, la sola sezione ambientata sulla Terra. Dopo l’immersione nei suoni della natura che circonda la casa di campagna dei genitori di Kris (Figura 17.68), il paesaggio sonoro artificiale prende il sopravvento durante il viaggio in automobile. Le strade della città sono dominate dal traffico che, con le sue luci, assume l’aspetto di un insieme di navicelle spaziali, di fronte alle quali l’uomo è un semplice spettatore impotente. Tuttavia, nel resto del film la musica curata da Artemjev si muove in un’altra direzione: diventa l’indice stesso della materia pensante che

Figura 17.68 Un’inquadratura di Solaris: il protagonista si inginocchia davanti a suo padre mentre la macchina da presa indietreggia per suggerire l’idea di uno sguardo trascendente.

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Fonte: Va’ e vedi (Idi i smotri), di Elem Klimov, 1985.

invece un cinema evocativo che lo avvicinava ai tedeschi Herzog e Wenders – rispetto ai quali, tuttavia, i suoi film cupi cercavano di coinvolgere maggiormente lo spettatore sul piano filosofico. Stalker (1978) narra di una spedizione allegorica in un desolato paesaggio post-industriale verso “la zona”, una regione in cui la vita umana può essere cambiata radicalmente. Dominato dal blu scuro, il film utilizza i movimenti ipnotici della macchina da presa per suggerire ciò che il regista definì la «pressione del tempo», che corre attraverso le inquadrature (Tavola a colori 17.26). Tarkovskij girò in Italia Nostalghìa (1983), una meditazione malinconica e anti-narrativa sulla memoria e sull’esilio e decise di non tornare in URSS. Diresse alcune produzioni teatrali e in Svezia realizzò Sacrificio (Offret, 1986), un film di ispirazione bergmaniana che vinse il premio speciale della giuria al Festival di Cannes. Al momento della morte, nel 1986, Tarkovskij era diventato un esponente di spicco del cinema d’autore; grazie alla fama raggiunta, i suoi film rimasero prodotti vendibili all’estero. Negli anni Settanta e Ottanta Tarkovskij influenzò la ricerca pittorica di alcuni cineasti europei e, con la sua resistenza alla politica ufficiale, fu per i compatrioti un modello di coraggio. Autore di un cinema autoriflessivo, Tarkovskij considerava l’arte una forma di ricerca morale. Nel periodo dell’esilio e del silenzio di Tarkovskij il cinema sovietico attraversò una fase di cambiamento. Moj drug Ivan Lapšsin (Il mio amico Ivan Lapšsin di Aleksej German, 1983, messo al bando) accosta in maniera eclettica cinegiornali e scene astratte riprese in studio, al fine di criticare la concezione stalinista dei crimini politici. I film ambientati durante la seconda guerra mondiale divennero ancora più crudeli con Va’ e vedi (Idi i smotri, di Elem Klimov, 1985), un ritratto straziante dell’occupazione della Bielorussia da parte della Germania (Figura 17.69). Basato su un’idea della moglie di Klimov, la defunta Larisa Šepit’ko,

Figura 17.69 Lo sguardo in macchina intensifica la durezza di Va’ e vedi. Qui il giovane protagonista ritorna al suo paese e viene a sapere che la sua famiglia è stata massacrata.

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Va’ e vedi mostra un giovane e ingenuo protagonista lontano dall’ideale del realismo socialista. Nelle varie repubbliche dell’URSS, gli intensi nazionalismi antirussi avevano dato vita a un “cinema poetico”. Il lirismo contadino di Dovženko offriva ai registi un precedente lontano e Sergej Paradžanov riaprì la strada a una trattazione personale delle tradizioni popolari. Dopo aver ottenuto grande successo in tutto il mondo con il suo film ucraino Teni zabytych predkov (Le ombre degli avi dimenticati, 1964), Paradžanov usò la fama acquisita per protestare contro il trattamento dei dissidenti. Arrestato nel 1968, fu accusato di “nazionalismo ucraino”; al suo rilascio venne trasferito in Armenia dove, nel 1969, girò Il colore del melograno (SayatNova). Anche se la sceneggiatura è basata sulla vita del poeta armeno Sayat-Nova, un prologo informa che il film non è una biografia convenzionale. Campi lunghi e totali presentano personaggi, animali e oggetti in severi quadri frontali (Tavola a colori 17.27). Il montaggio serve principalmente a legare queste inquadrature o a interrompere gli statici ritratti con tagli stridenti. La messa in scena del film presenta l’immaginario poetico di Sayat-Nova: libri infradiciati aperti ad asciugarsi sui tetti, tappeti che sanguinano mentre vengono lavati, piume di pollo che cadono sul poeta morente. Sebbene lo stile di Paradžanov sia molto diverso da quello di Tarkovskij, entrambi contemplano le mutevoli caratteristiche degli oggetti nel lento scorrere del tempo. Il colore del melograno fu probabilmente il film sperimentale più scioccante realizzato in URSS dalla fine degli anni Venti. Venne immediatamente insabbiato, anche se nel 1971 ne fu distribuita, in misura limitata, una versione più corta e riveduta. Essendogli stato proibito di dirigere, il regista contrattaccò scrivendo un pamphlet sulle sue vicissitudini e sui problemi del cinema sovietico. Nel gennaio del 1974 venne accusato di omosessualità, traffico di opere d’arte rubate e “istigazione al suicidio”, e poi condannato a molti anni di lavori forzati. Il suo cinema poetico scaturiva dalla visione di un artista indipendente dai bisogni della collettività e sfidava apertamente l’ortodossia sovietica, ricordando alcune correnti occidentali che cercavano la liberazione politica attraverso la libera immaginazione dell’individuo. Uscito dal carcere, Paradžanov tornò a realizzare lungometraggi. La leggenda della fortezza di Suram (Ambavi Suramis cixisa, 1984; Tavola a colori 17.28) ricorda, nella sua semplicità stilizzata e nelle immagini vibranti, Il colore del melograno; prima di morire, nel 1990, diresse Ashik Kerib (Ashugi Qaribi, 1989), adattamento letterario in cui trovano spazio le tradizioni popolari georgiane.

La glasnost e la perestroika nel cinema In principio Gorbačëv cercò di attuare le riforme rispettando l’autorità del partito, ma nel 1987 cominciò a sentire la necessità di cambiamenti più radicali: glasnost (“trasparenza”)

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esportare in URSS film nuovi finché non fossero state prese misure antipirateria, ma il mercato era comunque dominato dai film hollywoodiani meno recenti o a basso costo, che catturavano il settanta per cento degli spettatori. Nonostante tutto, gli ultimi anni del cinema sovietico sono stati ricchi di opere importanti. I registi collaboravano con gli scrittori e i compositori in nome di una cultura innovativa ed eclettica. Era dagli anni Sessanta che un numero così elevato di film sovietici non veniva apprezzato in Occidente. Taxi Blues (Taksi-Blyuz, di Pavel Lungin, 1990; Tavola a colori 17.29), una coproduzione franco-russa, descrive personaggi immorali e alla deriva in un mondo urbano decadente. Il film “nero” Sta’ fermo, muori e risuscita (Zamri, oumri, voskreni, di Vitali Kanevskij, 1990) presenta la cattiveria e il rancore che pervadono la vita sovietica contemporanea attraverso una storia sulla corruzione dei bambini in un villaggio durante la seconda guerra mondiale (Figura 17.70). Lebedyne ozero - Zona (Il lago dei cigni La zona, 1990), una coproduzione ucraino-canadese diretta dal veterano Yuri Ilyenko e ispirata a una storia scritta da Paradžanov, mette in scena con ascetismo bressoniano una favola politica in cui il protagonista, evaso da un campo di prigionia, si nasconde in una gigantesca struttura vuota a forma di falce e martello: la forte carica evocativa di questo emblema imponente e arrugginito è accompagnata da una ricca colonna sonora e da un’accurata descrizione del nascondiglio buio e angusto.

LA FINE DEL SISTEMA SOVIETICO Il fallito colpo di stato dell’agosto del 1991 contro Gorbačëv portò allo scioglimento del Partito Comunista. Al potere salì Boris Eltsin e l’URSS si trasformò nella CSI (Comunità di Stati Indipendenti): la Russia, l’Ucraina, l’Armenia e altre ex repubbliche sovietiche diventarono così nazioni distinte. Il modello bipolare che aveva dominato la strategia politica mondiale a partire dalla seconda guerra mondiale non esisteva più.

Fonte: Sta’ fermo, muori e risuscita (Zamri, oumri, voskreni), di Vitali Kanevskij, 1990.

significava anche confrontarsi con gli errori del passato. Il regime stalinista fu demolito e i cittadini ebbero la possibilità di esprimersi in merito agli errori della politica economica del passato, alla crescita della criminalità e all’aumento del consumo di droga. Molti erano convinti che fosse proprio il sistema sovietico a rendere la popolazione crudele ed egoista. I registi poterono contribuire alla perestroika (“ricostruzione”). I film sul mondo dei giovani si concentravano sul tema della ribellione, spesso legata alla musica rock e a un senso di straniamento post-punk. A livello internazionale il titolo più rappresentativo del cinema della glasnost fu La piccola Vera (Malen’kaja Vera, di Vasilij Pičul, 1988): l’egoismo cinico e l’amoralità della protagonista smitizzano la figura dell’eroina piena di virtù pronta a sacrificarsi per gli altri. La maggior parte di questi film non sarebbe mai stata realizzata se la perestroika non avesse affrancato l’industria cinematografica. Nel maggio del 1986, al Congresso dei registi sovietici, Elem Klimov, regista di Va’ e vedi e amico di Gorbačëv, fu eletto capo del sindacato. Lo stesso Congresso mise in moto la ristrutturazione della Goskino che, con questa nuova politica, diventò il canale principale attraverso cui accedere a sovvenzioni e servizi. Il cinema venne affidato a unità produttive libere e la morsa della censura fu notevolmente allentata. Una delle principali riforme di Klimov fu la creazione di una “commissione per i conflitti” che aveva il compito di revisionare e distribuire i film censurati. Così rividero la luce opere critiche come i drammi di guerra Moj drug Ivan Lapšsin e Kommissar (La commissaria, di Aleksandr Askoldov, 1967), nonché la satira surreale Pentimento (di Tengiz Abuladze). A un anno dalla sua morte, Tarkovskij venne celebrato nel suo paese natale con una retrospettiva completa. La glasnost e la perestroika concessero alle repubbliche una discreta autonomia. Nel 1989 il governo spinse gli studi cinematografici verso una maggiore redditività e incoraggiò i registi a formare società private e cooperative indipendenti. In questo modo i produttori poterono accedere alla distribuzione che fino a quel momento era stata appannaggio della Goskino.

IL CINEMA E IL “BOLSCEVISMO DI MERCATO” Il mercato libero era dominato dall’anarchia: nessuna legislazione regolava l’attività cinematografica e la pirateria era in continuo aumento; la pornografia dilagava come forma di riciclaggio di denaro sporco a opera di compagnie clandestine. Prima della glasnost la produzione nazionale si aggirava intorno ai centocinquanta titoli l’anno; nel 1991 ne furono realizzati quattrocento; un anno dopo il numero era sceso a meno di cento. Tra i film portati a termine, pochissimi riuscivano ad arrivare nelle sale. Il pubblico si ridusse a un decimo della capacità dei cinema e la svalutazione del rublo fece lievitare i costi di produzione; nemmeno le opere dei registi più importanti venivano più distribuite. Le major si rifiutarono di

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Figura 17.70 Costruzioni fatiscenti e un mare di fango fanno da sfondo alla vita quotidiana in Unione Sovietica in Sta’ fermo, muori e resuscita.

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Le sorti delle industrie cinematografiche della CSI seguivano l’andamento generale dell’economia, tra alti e bassi. Le case di produzione inglesi, francesi e italiane lanciarono film “internazionali” che avevano come protagonisti famosi attori occidentali ed erano ambientati negli stati della CSI; il Mosfilm, il Lenfilm e altri teatri di posa iniziarono a ospitare numerose produzioni straniere, attirando capitali. Lo Stato era restio a privatizzarli, ma favorì gli investimenti nel cinema concedendo agevolazioni fiscali. Regnava il cosiddetto “capitalismo cow-boy”. Alcune opere, però, si fecero notare all’estero, ottenendo anche diverse nomination all’Oscar, e una, Il sole ingannatore (Utomlyonnye solntsem, di Nikita Mikhalkov, 1994), risultò vincitrice. Nel circuito dei festival ebbe successo Khrustalyov, mashinu! (Khrustalyov, la mia auto! di Aleksej German, 1998) che ha come protagonista un dottore; la macchina da presa si muove all’interno di cucine e salotti stipati, mostrando attraverso una fantasmagoria di immagini il ritratto di una società tronfia e decadente.

Sokurov e la tradizione tarkovskijana Con la nascita della CSI gli studi cinematografici dei vari stati furono costretti a seguire la strada della privatizzazione. La situazione era difficile, tranne che in Ucraina: qui prese piede un cinema lirico e critico al tempo stesso, nella tradizione di Aleksandr Dovženko. Kira Muratova, attiva dagli anni Sessanta, vide tornare in circolazione molti dei suoi film e divenne la regista ucraina più nota: il suo Sindrome astenica (Astenicheskij sindrom, 1989) è considerato una pietra miliare del cinema improntato alla critica sociale. Nei vent’anni successivi Kira Muratova ha continuato a realizzare film originali, grazie soprattutto ai finanziamenti dell’Occidente. Anche in Russia il regista di spicco degli anni Novanta era il veterano Aleksandr Sokurov, il cui primo film, Odinokij golos celoveka (La voce solitaria dell’uomo, 1978, accantonato fino al 1987), richiama l’avanguardia degli anni Venti attraverso la narrazione ellittica e il montaggio serrato, ma si affida anche a un’inquietante qualità onirica. All’inizio Sokurov divenne noto per gli adattamenti letterari, ma dopo la glasnost, grazie ai fondi stranieri, poté esprimere il suo versante espressionistico. Krug vtoroj (Il secondo cerchio, 1990), sobrio esercizio in bianco e nero, mostra nei dettagli un rituale arcaico: un figlio prepara il cadavere del padre per la sepoltura. Tikhiye stranitsy (Pagine sommesse, 1993) è una riflessione sulle opere di Gogol e Dostoevskij, con un protagonista spettrale che si muove lentamente lungo torbidi canali e attraverso tunnel simili a caverne. L’azione è visibile in modo indistinto, attraverso la nebbia, e di tanto in tanto attraverso betulle bianche. Il più noto esperimento espressionista di Sokurov è Madre e figlio (Mat’ i syn, 1996) che, riecheggiando Krug vto-

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roj, mostra un giovane che fa visita alla madre sofferente, la porta fuori dalla fattoria in cui vive e legge a voce alta per lei; poi la riporta indietro e vaga in un paesaggio vasto e lugubre. Quando torna dalla madre la trova morta e le appoggia il viso sulla mano. Quasi del tutto privo di dialogo, Madre e figlio ben rappresenta il dolore della perdita attraverso la semplicità della situazione e l’uso audace di filtri e lenti deformanti. Le riprese del paesaggio erano effettuate utilizzando lastre di vetro pitturate, un “effetto speciale” che crea uno spazio innaturale, sospeso fra realismo e astrazione (Tavola a colori 17.30). Sokurov, che aveva in comune con Tarkovskij la spiritualità malinconica, aveva forse pensato di raggiungere un pubblico vasto con i suoi drammi emblematici incentrati su personaggi storici (Hitler in Molokh, 1999; Lenin in Taurus - Il crepuscolo di Lenin, Telets, 2001; l’imperatore Hirohito in Il sole, Solntse, 2005; il mito goethiano nel film Faust del 2011), ma il suo successo più grande fu Arca russa (Russkij kovcheg, 2002), un viaggio allucinatorio nella storia russa durante una visita al museo Hermitage di San Pietroburgo. In un’unica sequenza ininterrotta di oltre novanta minuti, Sokurov segue zar, cortigiani e gente comune attraverso corridoi e gallerie, in una processione che culmina in un ballo spettrale – ultimo atto prima del crollo della Russia zarista (Tavola a colori 17.31). Dopo aver rappresentato le follie e gli eccessi della nazione, la scena si chiude con la visione notturna del vapore che sale dal fiume, svelando la malinconica poesia insita nella storia russa. Nel 2015 il film Francofonia stabilisce un parallelismo tra l’Hermitage e il Louvre e, in generale, tra la cultura russa e quella francese.

La ripresa della società, la repressione politica e il nuovo cinema d’intrattenimento La vittoria di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali del 2000 coincise con un aumento dei prezzi del petrolio, e la Russia, grazie alle sue enormi riserve, visse un boom economico. Tutto questo, però, avvenne a discapito dei diritti civili e della libertà di espressione: il governo tornò a esercitare uno stretto controllo sui mezzi di informazione, chiudendo le stazioni televisive che esprimevano dissenso, creando un canale con una programmazione di ventiquattro ore in linea con la politica ufficiale, e negando ai partiti dell’opposizione l’accesso ai media. Hollywood colse subito l’opportunità di sfruttare il nuovo mercato russo, registrando incassi strepitosi: con il proliferare delle multisale, nel 2010 i botteghini raggiunsero un incasso di oltre un miliardo di dollari. La Russia divenne il settimo mercato cinematografico più grande del mondo. Anche la produzione nazionale crebbe, passando dalla ventina di titoli del 1996 agli oltre cento del 2007. Alcuni film d’arte – come Il ritorno (Vozvrashcheniye, di Andrej

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Fonte: I guardiani della notte (Nochnoy dozor), di Timur Bekmambetov, 2004.

Zvyagintsev, 2003) e 4 (di Ilya Khrzhanovsky, 2005) – si imposero anche all’estero, e Sokurov poté portare avanti la sua ricerca grazie a capitali stranieri. In Russia, infatti, gli investitori privati e le reti televisive preferivano destinare risorse ai prodotti di intrattenimento. Il successo di Brother (Brat, di Aleksej Balabanov, 1997) – la storia cruda di un soldato che torna dalla Cecenia e diventa un killer professionista – inaugurò una serie di film d’azione che avevano come protagonisti poliziotti vendicativi, soldati coraggiosi ed eroici agenti del KGB. Tuttavia, il film più importante di questo periodo fu I guardiani della notte (Nochnoy dozor, 2004), diretto da Timur Bekmambetov. Basato su un romanzo fantasy e pubblicizzato massicciamente in televisione, I guardiani della notte è un miscuglio gotico di videogiochi, musica hard rock, effetti speciali generati al computer ed elementi dell’intreccio ispirati alla serie Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, creata da Joss Whedon, 1997; Figura 17.71). Il film costò quattro milioni di dollari e ne raccolse trenta nei Paesi della CSI: un record. Il sequel, I guardiani del giorno (Dnevnoy dozor, 2006), realizzò un incasso addirittura superiore. La 20th Century Fox li comprò entrambi per distribuirli sul mercato internazionale e finanziò un terzo episodio, mentre Bekmambetov fu chiamato a dirigere Wanted - Scegli il tuo destino (Wanted, 2008) e altri film del genere hollywoodiano. A differenza dei suoi ex satelliti e dei Paesi “indipendenti” della CSI, la Russia aveva un’industria cinematografica che finalmente godeva di buona salute. L’industria cinematografica russa era diventata così importante che fu creata una Fondazione per sostenerla, a opera di miliardari, membri del parlamento e veterani degli organi militari e dei servizi di spionaggio. Nel 2007 la Fondazione cominciò a finanziare film che celebravano la storia della Russia e il regime di Putin – il quale, verso la fine del 2008, assunse il controllo personale dell’intera industria cinematografica. La politica culturale – con Putin al potere – divenne fortemente nazionalista, e i registi, come altri artisti, furono sottoposti alle pressioni del governo. Nel dicembre 2014 Putin

Figura 17.71 Ne I guardiani della notte il cacciatore di vampiri si salva grazie a uno specchio.

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firmò un decreto sulla politica culturale nazionale che proclamava l’unicità della Russia e le sue radici nel cristianesimo ortodosso. Anche se non ci fu una censura ufficiale, i principi di tolleranza e il multiculturalismo vennero abbandonati. I registi si divisero nel sostegno al regime di Putin. Nikita Mikhalkov aveva iniziato la sua carriera nell’epoca di Brežnev con una certa estraneità al regime. In Schiava d’amore (Raba ljubvi, 1976) e Partitura incompiuta per pianola meccanica (Neokončennaja p’esa dlja mechaničeskovo pianino, 1977), condusse esperimenti all’insegna dell’autoreferenzialità, alla maniera di Fellini e di altri registi europei. Oci ciornie (Oči čërnye, 1987) fu una coproduzione italo-russa sul modello di quelle incoraggiate negli anni di Michail Gorbačëv. Il suo Sole ingannatore, una revisione critica degli anni del terrore staliniano, divenne un simbolo dell’influenza della glasnost sulla cultura cinematografica. Quando Putin salì al potere, tuttavia, Mikhalkov ne divenne a suo modo un sostenitore. Il sole ingannatore 2 (Utomlyonnye solntsem 2, 2010) è stato il film più costoso prodotto in Russia fino ad oggi e il suo più grande flop. I critici accusarono Mikhalkov di volere ristabilire un realismo socialista semplicistico ed eroico per compiacere il Cremlino. Altri registi misero in discussione il potere denunciando l’oppressione. Sokurov continuò a fare film eccentrici e provocatori, grazie soprattutto a finanziamenti esteri. Anche se il governo aveva contribuito a finanziare il suo Faust, Sokurov contestava le annessioni ucraine della Russia del 2015 e l’incarcerazione di un regista ucraino. I registi più giovani trasformarono i generi tradizionali capovolgendone il significato: per esempio Andrey Zvyagintsev in Leviathan (Leviafan, 2014) aggiorna il tema della burocrazia all’epoca contemporanea, mettendo in scena un proprietario terriero dalla testa calda che lotta contro un sistema politico e giudiziario corrotto sostenuto dalla chiesa. Serhij Loznycja in Anime nella nebbia (V tumane, 2012) desacralizza la figura del partigiano della seconda guerra mondiale, e in Donbass (2018) problematizza l’invasione russa dell’Ucraina; My Joy (Ščastja moje, 2010) ironicamente porta un camionista – su cui si era incentrato l’ottimismo dei film degli anni Sessanta – in un disperato viaggio su strada (Figura 17.72). Questi e altri film hanno evidenziato gli esiti problematici della “democrazia gestita” di Putin. La critica al potere politico ha assunto un’importanza monumentale, in una forma morbosa, nel progetto DAU. La regista Ilya Khrzhanovsky ha trascorso tre anni a girare 700 ore della biografia di uno scienziato sovietico, Lev Landau, con centinaia di attori non professionisti che vivevano in un set immenso, replica di un istituto di ricerca della Russia sovietica, e che recitavano improvvisando, mettendo in atto una insolita commistione tra vita e finzione. Il girato è stato raccolto in tredici film, due dei quali, Natasha (di Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel, 2020) e Degeneratsia (di Ilya Khrzhanovskiy e Ilya Permyakov, 2020) insieme

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Fonte: My Joy (Ščastja moje, di Serhij Loznycja, 2010)

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Figura 17.72 Durante un blocco del traffico, il camionista di My Joy incontra una prostituta

Fonte: È difficile essere un dio (Trudno byt’ bogom, di Aleksej German, 2013)

durano più di otto ore e pullulano di immagini inquietanti di sesso, violenza, e oppressione. Seguendo le vite di dozzine di personaggi per oltre trent’anni, il progetto DAU è diventato racconto reticolare. L’ultimo film di Aleksej German, È difficile essere un dio (Trudno byt’ bogom, 2013), è stato un’altra pietra miliare distopica. Realizzato nell’arco di quindici anni, fu completato dal figlio e dalla vedova dopo la morte del regista. La sua trama fantascientifica mostra un pianeta impantanato nei pregiudizi e nella tirannia del Medioevo. Le carrellate del film sono spaventosamente coinvolgenti: German stipa le inquadrature di letame e putrefazione, violenza e miseria, sangue e feci, animali che si dimenano e armature sporche (Figura 17.73). Il film è la visione più orribile della decadente Russia mai messa su pellicola. Il rafforzamento dell’unità europea e il crollo del comunismo sovietico hanno accelerato le pressioni verso un cinema meno apertamente politico, con film “paneuropei” più accessibili e commerciali.

Figura 17.73 È difficile essere un Dio: un’amputazione improvvisata su un pianeta medievale. Le inquadrature di German, con l’uso del grandangolo, ricordano Bežin lug (Il prato di Bežin), film incompiuto di Sergej Ėjzenštejn.

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La maggior parte dei registi ha cercato di fondere i principi delle commedie e dei drammi hollywoodiani con una sensibilità locale; alcuni hanno cercato di invogliare il pubblico con varianti del cinema d’arte degli anni precedenti; altri registi ancora sono rimasti legati al cinema più impegnato, attraverso o un realismo disturbante o un cinema sperimentale. La partecipazione dell’UE è comunque aumentata vertiginosamente e nel 2019 l’industria russa ha raggiunto un livello record, diventando la più grande del mercato europeo. A livello generale, si può concludere che l’investimento economico ha giovato poco, dal momento che nei Paesi europei i maggiori incassi arrivano quasi sempre da film hollywoodiani. Eppure proprio il cinema di Hollywood ha dimostrato come la quantità giovi a incrementare la qualità. Un’industria che produce molti film ha la possibilità di produrne alcuni buoni, altri ottimi. I sussidi europei, gli investimenti e il supporto internazionale hanno mantenuto il numero elevato il numero di film distribuiti in sala: sono così emerse centinaia di opere che hanno arricchito immensamente il patrimonio artistico del cinema. Tale patrimonio è stato gravemente minacciato alla fine degli anni 2010, con fenomeni di instabilità, come l’incremento di governi nazionalisti e autoritari (in Turchia e Ungheria), e l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Ma la maggiore minaccia è stata l’epidemia di coronavirus, che ha ucciso più di 300.000 persone in Europa nel 2020: essa ha richiesto massicci investimenti governativi e cambiamenti forzati nelle abitudini sociali delle persone. Il cinema mondiale ha risentito di questa incertezza, mentre le sale sono rimaste chiuse e la produzione cinematografica è stata sospesa. Improvvisamente, il futuro del cinema europeo sembra essere molto diverso dal suo passato, in modi che nessuno poteva prevedere.

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