Anno 37 - 30 Marzo 2013 - Numero 13
Settimanale indipendente di informazione
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Tra tradizione e modernità, una festa sempre molto sentita con spettacoli suggestivi di paese in paese, di vicolo in vicolo C’È PASQUA E PASQUA
Vellamja il rito perduto arberesh di Oreste Parise
Dalle drammatizzazioni del patriota Skanderbeg ai balli in costume
LA PASQUA DEI VICOLETTI
Dimmi di che rito sei di Francesco Cirillo
Sacro e paganesimo nella tradizione calabrese
MEMORIE
La festa del santo bestemmiatore di Giuseppe Italiano
Una vita dedita alle imprecazioni. Ma poi...
II
sabato 30 marzo 2013
L’elogio della restanza
Rimanga chi può Con fiducia
L’appello del Rotary club “Telesio” di Cosenza ai giovanissimi
di Francesco Fotia
Si è tenuto presso l’auditorium del liceo classico “B. Telesio” di Cosenza l’incontro dal titolo “L’elogio della restanza” organizzato, lo scorso sabato, dal club Rotary Telesio di Cosenza, presieduto dal dottor Carlo Zanolini. L’incontro, moderato dallo stesso Zanolini, ha voluto porre l’accento sulle opportunità lavorative che la nostra regione può offrire ai giovanissimi ormai prossimi al diploma. Restare in Calabria è possibile: il messaggio che il Rotary cosentino ha voluto lanciare è stato trasmesso attraverso l’intervento di diversi uomini e donne, appartenenti al mondo imprenditoriale, della cultura e delle associazioni. Una continua alternanza di voci, un continuum di storie, fatte di sacrifici, rinunce, intuizioni e infine successo, hanno testimoniato altrettante storie di aziende e persone che hanno trovato la propria forza nel legame indissolubile con le proprie radici calabresi. Storie di innovazione e di grande coraggio, come quella che ha raccontato Gloria Tenuta di Gias Industria: un fiore all’occhiello dell’industria alimentare calabrese. Con sede a Mongrassano, Gias Industria è una spa in continua crescita. Col sudore e la perseveranza, con la voglia di lavorare e di valorizzare le possibilità della terra, è nata anche l’azienda di Maria Antonietta Policastri, dislocata sulla costa ionica. La Policastri ha aperto il suo intervento ricordando la sua laurea conseguita all’Università di Bologna; ha poi raccontato della sua ambizione, inizialmente non legata all’agricoltura, alla quale si è invece legata e appassionata in seguito alla scomparsa del padre. «Il merito è di mia madre - ha affermato l’imprenditrice - che aveva intravisto in un pezzo di terra di nostra proprietà la possibilità di andare avanti [...] io credo ha concluso lanciando un forte grido di orgoglio e speranza- che lo sviluppo delle terre del meridione d’Europa debba essere la locomotiva dell’intera economia continentale. Se non ci mettiamo mani noi, a questa nostra terra, lo farà qualcun altro».
Restare in Calabria è possibile: il messaggio che il club cosentino ha voluto lanciare è stato trasmesso attraverso l’intervento di diversi uomini e donne appartenenti al mondo imprenditoriale, della cultura e delle associazioni
Dall’alto: i giovani dell’auditorium; Carlo Zanolini e Sergio Mazzuca; Maria Antonietta Policastri
Il tour dei testimonial della restanza fa poi qualche salto indietro nel tempo, ancorandosi contemporaneamente a un prodotto tipicamente riconoscibile con l’idea stessa di cosentinità, quando sul palco sale Emilio Aiello, in rappresentanza dell’omonima azienda del caffé. La testimonianza di Aiello è un elogio allo spirito di suo padre Gaetano, che prima di dare vita all’azienda di famiglia, negli anni 60, faceva il rappresentante. «Mio padre - ha ricordato Emilio Aiello - si trovò a vendere caffé quasi per caso, per salvaguardare la propria indipendenza. Una scelta di coraggio che si rivelò vincente e che io e mio fratello Guerino abbiamo avuto solo il merito di continuare e adeguare ai tempi». È poi stato il turno di un altro cosentino doc, Sergio Mazzuca, che ha narrato, visibilmente emozionato, di tutto quanto ha preceduto la nascita di Scintille: «una storia di nottate trascorse in macchina, di intuizioni vincenti, e di fiducia nel futuro» che ha gettato le basi di quella che è oggi tra le più solide imprese del Sud. Dai beni di lusso a quelli del mare: a tracciare la rotta è la testimonianza di Pippo Callipo, con un intervento preceduto da un audiovisivo illustrativo del lavoro svolto all’interno degli stabilimenti per lavorazione del tonno. «Non mi sono mai laureato; - ha spiegato Callipo esortando i giovani a fare quante più esperienze possono prima di arricchire con il proprio contributo il valore dell’azienda Calabria - avevo incominciato gli studi alla facoltà di Messina quando sono stato chiamato a seguire da vicino i lavori nell’azienda di mio padre. Inizialmente lo vedevo come un sacrificio, ma poi ho incominciato ad appassionarmi alle procedure di lavorazione, a prestare attenzione alle specificità del capitale umano, che ancora oggi è il nostro punto di forza». L’elogio della restanza è proseguito con le brevi performance della cantante Rosa Martirano e dell’attrice Federica Montanelli, che hanno inoltre svelato le ragioni della propria restanza incitando i giovani a fare lo stesso. Altre storie di orgoglio e speranza, come quelle di Paola Granata e del liutaio Francesco Pignataro, hanno accompagnato l’incontro verso l’epilogo di una giornata all’insegna dell’ottimismo e della freschezza, dedicata alla Calabria e, soprattutto, ai suoi più giovani figli.
sabato 30 marzo 2013
III
Calabresi illustri rise a cura di Oreste Pa
Certo: mentre tanti mediocri correvano, come sempre corrono, bramosi per ogni via alla potenza, alla ricchezza, a quel che si dice levarsi di be’ gusti, esser dovea spettacolo maraviglioso vedere quell’altissimo ingegno adattarsi all’umile, e sgradevole sua condizione, pago nelle consolazioni della mente, e lieto nella coscienza di adempiere i suoi doveri sostentando pure una crescente famiglia: come mentre s’incendia una splendida e romorosa macchina di fuochi artifiziali è piacevole cosa veder tremolare in un canto del cupo azzurro celeste una limpida stella, la quale non manda certo faville e non romoreggia, ma qual si vede ora, tale si vedrà fino alla fine de’ secoli.
Galluppi che non staccava mai
La città di Tropea Sotto, il ritratto di Galluppi
Seconda parte Appena poteva riprendere le care occupazioni sue, vi si gettava di nuovo Appena però poteva il Galluppi riprendere le care occupazioni sue vi si gettava di nuovo; e tanto era intenso il concentramento delle mentali sue facoltà, ch’ei rimaneva ore ed ore assorto, senza essere per nulla distratto in Tropea dal chiasso romorosissimo di tutti que’ suoi figliuoli, né poi, in Napoli, dal frastuono di una strada popolosissima. Poiché aveva egli già sessant’anni, quando, per ciò che mi fu detto, mentre il monarca delle due Sicilie, visitava un giorno a Parigi una raccolta di ritratti illustri viventi, gli fu da chi lo scortava mostrato quello del grand’uomo, dicendo: Ecco un suddito di Vostra Maestà che onora altamente l’Italia. - Tacque il re attonito a quelle parole, ma appena tornato in patria, volendo riparare al torto, di che per eccessiva umiltà il filosofo di Tropea, lo veniva, con suo rincrescimento, ad aggravare, gli conferì spontaneamente e senza esame, per mezzo del suo ministro Pietracatella, la cattedra di Logica e di Metafisica nella regia Università. Allora sì che fa dato all’egregio uomo di immergersi tutto nei prediletti suoi studi, allora gode’senza mistura alcuna le gioie del pensiero. Tutto per la filosofia, tutto per i suoi discepoli, era bello vederlo in quelle sue lezioni non obbligatori e pur sempre affollate, abbandonarsi alla eloquenza delle idee, e trattenersi poi coi suoi scolari in amichevoli schiarimenti; ai quali, se le esigenze della vita non avessero posto un limite, la inesauribile sua sapienza, e l’amore ardentissimo avrebbe dato alimento senza fine. O le ore passate in quiete discussioni, in profonde indagini, quando l’anima, dimentica affatto dei legami che la incatenano alla terra, sentesi quasi innalzata a Dio: oh luce possente dell’intelletto dinanzi al quale … cotal si diventa che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta! E qui vorrebbe il tema che io parlassi, almeno per sommi capi, delle grandi opere del Galluppi; mostrandovi come a ragione fu chiamato iniziatore sapientissimo d’una nuova era filosofica nella nostra bella penisola: ma né io sarei da tanto, né quand’anco fossi, voi giovanetti, ai quali vogliono essere dirette le mie parole, potreste per avventura intendere e valutare debitamente ciò che Galluppi fece a pro delle filosofiche discipline fra noi; onde mi contenterò di accennarvi cosa che nel corso nostro, ancora incipiente, i razionale filosofia ci verrà fatto di costatare, che cioè; «il filosofo di Tropea, ritraendo gli uomini al vero col retto senso avvalorato da profonda analisi, ma senza uscire dai termini della osservazione e degli esperimenti, sconfisse gloriosamente il sensismo de’ suoi predecessori, combattendolo colle sue proprie armi; e assuefece nuovamente i nostri pensanti a quella sagace riserva sperimentale e induttiva, onde nascono le utili scoperte nel giro de’fatti interni, e che è l’applicazione psicologica del metodo di Galileo». Per quattordici anni, procedendo con quel suo fido drappello di verità in verità, ei pote’ godere, quasi senza turbamento, le gioie dell’intelletto, a guisa di astronomo che fisso il telescopio, ora in uno ora in altro dei corpi celesti, ritrova e comprende l’ordine dell’universo, sente coll’udito dell’anima l’armonia delle sfere; e per nulla si avvede di ciò che in più bassa regione accade intorno a lui.
Rimanvea ore assorto, senza essere mai per nulla distratto dal frastuono di Tropea e di Napoli
Felice, quindi poteva chiamarsi il Galluppi nella sua vecchiezza. Salutato in Italia e fuori come vigorosissimo atleta della sana e diritta filosofia, come novello argomento di quell’antico vanto italiano, che i solenni traviamenti in fatto di filosofia furono sempre merce forestiera fra noi, e se ci vennero d’altronde velati, degl’intelletti italiani fu la gloria di averli scoperti; beato ne’ propri studi, nell’amore della famiglia, degli alunni, dei concittadini, maturava l’ultima e più poderosa delle sue opere, la storia della filosofia, per la quale aveva raccolto numerosissimi materiali. Ma se tutto immerso nelle sue meditazioni, colle quali, notate bene, compensava esuberantemente all’impiego, e pagava alla patria ed alla famiglia il suo debito, poteva rimanere inaccessibile all’invidia, all’ambizione, ad ogni basso effetto, se poteva per avventura allentare o rompere moltissimi dei legami che lo tenevano avvinto al mondo circostante, tutti no poteva però: egli era padre! Voi qui presenti che sentite nell’anima la forza soave e terribile di questo nome, sappiatemi dire se v’è cosa al mondo che possa farne dimenticare i doveri. Vincenzo suo figlio, giovane di alte speranze, militava, già capitano, nelle Calabrie, quando nell’anno 1844 in un infelice scontro perse la vita. Si sparse la sera questa funestissima nuova per Napoli, e gli amici che non pochi erano e caldissimi dell’infelice genitore, determinarono di soprassedere a dirglielo per tutta quella notte, l’ultima forse di sonno tranquillo per lui. Ed ei non lo seppe: ma uscito per tempo la mattina a far colazione ad un caffè, sedutosi appena, prese un giornale da leggere; e fosse forza d’istinto paterno, fosse quella specie di divinazione che ci fa scuoprire agevolmente quasi scopo della umana vita, il dolore, trovò di subito fra i nome de’ morti in un’avvisaglia il capitano suo figlio. Povero vecchio! No, io non tenterò parlare di quel fierissimo colpo; né a me, padre, darebbe animo di trattenermi in tale argomento senza che la voce divenisse fioca di pianto; né voi giovanetti, potreste intendere le mie parole; né voi, padri e madri, avete di parole bisogno. Povero vecchio! Ei cadde come morto a terra, e portato a casa da alcuni pietosi, molto ci volle perché riacquistasse le forze. Oh ma le gioie del pensiero non gli sorrisero più! Quella cima dalla quale per tanti anni aveva contemplato un ampio, svariato, sereno orizzonte, ei non ci pote’ più arrivare; e se pur vi giunse e ci si fermò, altro no vide che una distesa di nebbia morta, uguale, incresciosa; mai più fu udita la voce sua dalla cattedra; il leggere gli fu noioso, lo scrivere impossibile; e la vita sua ne’ pochi mesi che sopravvisse altro no fu che una preparazione alla tomba. Nella quale ei discese colla tranquillità del filosofo, e colla speranza del cristiano il 12 dicembre del 1846. Grande fu il compianto, non solo della famiglia e de’ discepoli, ma di tutta Napoli; solennissime le esequie, e l’accompagnatura al sepolcro tale, che pura a quel modo di ogni codarda simulazione, non si era in quella città a memoria d’uomo mai più veduta. I giornali di tutta Europa parlarono di lui, e de’ suoi scritti, e molti valenti ne scrissero biografie che voi, avendone vaghezza, potrete a suo tempo leggere”.
IV
sabato 30 marzo 2013
Passeggiata nella storia Castrovillari, tana libera tutti per i riti dei Longobardi
La grotta delle sorprese sto di Leonardo Di Va
La conoscenza di un territorio presuppone la sua frequentazione assidua e attenta, che permette la ricognizione e la individuazione di peculiarità non solo socio-culturali, ma pure, ovviamente, geomorfologiche, storiche, botaniche. Pertanto, un tale sapere dovrebbe essere stimolato e promosso dagli enti locali con continuità, mobilitando persone motivate e competenti: il risultato, positivo, non potrebbe che essere un’acquisizione puntuale dell’assetto del territorio nei suoi diversi aspetti, nelle sue dotazioni da tutelare, conservare e valorizzare nei progetti di sviluppo turistico e, quindi, economico. In tale contesto si colloca l’attività che, a Castrovillari, diverse associazioni culturali e ambientalistiche stanno, da alcuni mesi, sviluppando. Il loro intento è quello di riappropriarsi, a fini conoscitivi, dei beni comuni esistenti per salvaguardarli, farne partecipi le comunità, soprattutto i giovani, e trasmetterli alle generazioni future, senza che siano deturpati, possibilmente nella loro integrità e bellezza. Di recente, si è costituito, nella città del Pollino, un “Comitato cittadino bene comune”, che, facendo proprie le idee e le istanze politico-culturali elaborate e sostenute dal grande archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, intende, sulla base dell’iniziativa popolare, dell’azione popolare, promossa dai cittadini che vogliono essere protagonisti di un cambiamento progressivo, rendendo, in tal modo, concreti i principi della democrazia, non semplicemente proclamata, ma attuata, impedire il degrado ambientale e contribuire alla difesa e alla riscoperta dei beni culturali. Tutto questo, oltre ad essere, certo, culturalmente e socialmente significativo, è produttivo di acquisizioni, in senso lato, culturali importanti e preziose, e, non di rado, inedite. Infatti, durante una escursione sul tratto ferroviario CastrovillariMorano, in alcuni punti impercorribile, della linea ferroviaria, ormai dismessa da decenni, il pittore Saverio Santandrea, cultore appassionato di archeologia, insieme con esponenti di associazioni culturali e ambientali, si è soffermato, nei pressi di quello che era il casello in località Crocifisso, adibito attualmente ad abitazione privata, ad osservare una grotta gigantesca che, pur con i suoi crolli secolari preclusivi a una ‘lettura’ storica precisa, dà l’impressione, con le nicchie superstiti, di essere un antico luogo di culto. Santandrea ipotizza che possa trattarsi di una sede del culto di San Michele, la cui celebrazione in grotte trova riscontro in altre località. Del resto, il culto dell’Arcangelo è ben attestato nel nostro territorio. Si tenga presente che, nel XVII secolo, don Domenico Casalinuovo parlava del «famoso Monte S. Angelo per esserci nella sommità una chiesa sub titulo di S. Michele Arcangelo»; che «alle pendici del monte, - come scrive Vincenzo Perrone nella sua ricerca Catalogo dei toponimi castrovillaresi -, in un documento del 1597, è indicato un San Michele, monastero d’epoca bizantina, al quale doveva essere annessa una chiesa di S. Michele Arcangelo, detta Abbazia del Castello dell’Abate Marco»; infine, che una cappella ottocentesca dedicata a San Michele Arcangelo si trova in contrada Lacco. Inoltre, si può ricordare il dato statistico evidenziato dall’archeologo Giuseppe Roma, nel suo studio Culto micaelico e insediamenti fortificati sul territorio della Calabria settentrionale, pubblicato nell’anno 2005, relativo alla estesa attestazione toponomastica, in particolare, nella Calabria settentrionale: su 97 località, in Calabria, con il toponimo S. Angelo e S. Michele, 62 si trovano nella provincia di Cosenza. Il dato statistico trova conforto nelle fonti storiche: per fare qualche esempio, in un atto di donazione del 1060-1061, registrato in una pergamena greca del monastero di S. Nicola di Donnoso, si fa riferimento a un monastero S. Angelo nei pressi di Orsomarso; nel testamento dell’anno 1454, restituitoci da una pergamena latina di Castrovillari, il cappellano della chiesa di San Pietro la Cattolica, chiede di essere sepolto “in cappella Sancti Michaelis Arcangeli”. Tale culto si era affermato in Occidente sin dal V secolo. I Longobardi, convertitisi al cristianesimo, fecero di S. Michele il loro santo. Pertanto, la presenza di tale culto è spia della influenza longobarda sul territorio e, di conseguenza, del limes su cui quel popolo era attestato e che da esso era difeso nei confronti dei Bizantini. Questi, tra il 730 e il 741, ampliano la loro area di influenza, assestandosi sul limes Valle del Crati-Mercurion-Cassano, all’interno
L’incisione (evidenziata dal tratteggio) della Madonna sedente con lo sguardo rivolto verso sinistra
Il pittore Saverio Santandrea insieme con esponenti di associazioni culturali e ambientali si è soffermato ad osservare una caverna che dà l’impressione con le nicchie superstiti di essere un antico luogo di culto. L’ipotesi è che possa trattarsi di una sede del culto di San Michele, la cui celebrazione in antri del genere trova riscontro in altre località
del quale si trovavano le città e le diocesi di Cosenza, Bisignano e Cassano. Ritornando alla grotta del Crocifisso, sulla sua volta si scorge, incisa, una figura di Madonna sedente: è probabile, nota Santandrea, che il luogo abbia conosciuto pure una frequentazione bizantina. Degno di nota è che proprio davanti alla grotta si stende il tracciato viario che collegava le alture moranesi con la pianura castrovillarese: esso agevolava e invogliava l’istituzione di ‘naturali’ sedi cultuali o la costruzione di edifici di culto che, nel corso dei secoli, svolgevano, unitamente a una funzione religiosa, pure un ruolo sociale, come attesta la presenza, a pochissima distanza dall’antico percorso, dell’ospizio del Ss. Crocifisso, che, costruito dal 1666 al 1673, accoglieva ammalati o viandanti bisognosi di soccorso, soprattutto nel periodo invernale: la sua chiesa, ora in stato di abbandono e di degrado, ha un altare suggestivo, pur nel suo stato di disfacimento, in stile barocco. Le iniziative di queste associazioni e di questi cittadini, che portano avanti, per scelta volontaria, un’attività culturale proficua e che sono espressione, con le loro azioni popolari, del mutamento culturale e politico che si avverte, in generale, nella società, è auspicabile che siano caldeggiate e sostenute dalle istituzioni responsabili della buona gestione del territorio.
Il messaggio di monsignor Nunnari
Dalla Pasqua sgorga speranza L'arcivescovo di Cosenza-Bisignano Salvatore Nunnari, rivolge il suo messaggio d'augurio alla diocesi intera augurando che dalla Pasqua che ci apprestiamo a vivere "sgorga la Speranza". Riportiamo il testo del messaggio dell'arcivescovo Nunnari. "La Pasqua di Cristo è ormai alle porte. Dopo il lungo cammino della Quaresima, scandito dalla preghiera, dalla carità, dal digiuno, ed illuminato dalla Parola di Dio, si avvicina il giorno in cui celebriamo la nostra salvezza. Vorrei, quest'anno, far riecheggiare quanto Paolo VI scriveva quasi mezzo secolo fa: siate lieti, siate felici di questa fede, di questa fortuna! Alla vita che non muore e risorge! Alla vita che anche nella sfera temporale, è illuminata da speranza nuova, capace di farle osare le più ardue imprese e di risolvere i più intricati problemi. I credenti sanno quanto la Pasqua di Gesù è annuncio di resurrezione in tutte le situazioni della vita. Vorrei perciò prestare ancora la voce ad un altro papa, all'attuale pontefice, papa Francesco per ricordare a sacerdoti, religiosi e laici: non fatevi rubare il dono della Pasqua, la speranza. Chi ha incontrato Cristo è un uomo nuovo, è risorto dentro e contribuisce a far risorgere l'intera società. Mentre auguro una santa Pasqua a tutti, un pensiero particolare va a chi è nel dolore, nella prova, nella malattia, in carcere, è senza lavoro o in situazioni di povertà".
sabato 30 marzo 2013
V
Vaticano chiama Calabria La lunga storia dei papi venuti dalla “nostra” terra
Dalla Calabria al Soglio di Pietro
eco di Pierfrancesco Gr
Diverse sono state, soprattutto nei primi secoli dell’era cristiana, le personalità calabresi ascese alla funzione di Romano pontefice
Quelle appena trascorse, sull’onda degli storici accadimenti consumatisi all’ombra della Cupola di San Pietro, sono state settimane intense: intense per chi è baciato dal dono della fede, ma anche per coloro i quali limitano il loro orizzonte esistenziale all’immanente. Quell’immanente, che, in pochi giorni ha visto succedersi l’abdicazione di un pontefice, Benedetto XVI, risultato capace di dare una vigorosa scrollata alle umane sovrastrutture dell’istituzione ecclesiastica con un gesto coraggioso e rivoluzionario, lo svolgimento di un Conclave e, quindi, l’ascesa alla Cattedra di Pietro di un papa venuto dalla «fine del mondo». Un papa che, nella scelta del proprio nome, Francesco, ha inteso manifestare a tutta la cristianità, la sua concezione, anch’essa rivoluzionaria, di Chiesa povera, amorevole, nuova, insomma; una Chiesa, la quale, guidata, nella carità, da un papa che mostra di rifiutare gli orpelli sovrastrutturali zavorranti la realtà umana, ponendo in primo piano, come palesato dal Bergoglio fin dalla sera della sua elezione, la sua funzione di vescovo, ergo, di pastore del popolo di Dio, possa, nel contempo, custodire e promanare quella tenerezza, quella misericordia, quell’amore, quella verità testimoniate dal poverello d’Assisi e trovanti fonte nel messaggio evangelico di Cristo, in cui deve attingere linfa il proficuo ministero, o meglio, il fruttuoso «cammino di amore e di fiducia» del vescovo di Roma, depositario di un potere traente senso nella sua funzione di «servizio», soprattutto «dei più deboli e dei più poveri». «Il servizio», ovvero «il vero potere», un «servizio, che ha il suo vertice luminoso nella Croce», come esplicitato dal nuovo papa gesuita nell’omelia declamata durante la santa messa di inizio pontificato, significativamente celebrata nel giorno di San Giuseppe, altro alfiere di quella custodia del cuore, di quella «tenerezza», di quella generosità, di quel «servizio umile e sincero» in cui si estrinseca la nostra autentica umanità. Un’umanità solidale, unita, protesa alla ricerca del dialogo e della pace, quella a cui fa riferimento, rivolgendosi al cuore delle donne e degli uomini di buona volontà, l’umiltà di Papa Francesco; un’umanità, in cui dominante deve essere la «custodia», la «cura» dell’altro, dell’ambiente, del creato, il medesimo contestualmente a cui «non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza: il prendersi cura chiede bontà», ha infatti spiegato Francesco, guardando alle criticità e alle contraddizioni in cui si dibatte l’umanità; quelle criticità presentanti particolare L’attuale pontefice Francesco I virulenza nelle zone più emarginate della ter- al secolo Jorge Mario Bergoglio
ra, in quella «fine del mondo» di cui ha parlato Francesco, volgendo il pensiero alla sua terra, all’Argentina, e a tutte quelle regioni del globo dimenticate dall’opulenza consumistica occidentale, messa a dura prova da una crisi, spirituale, prima ancora che economica, il cui superamento troverà strada proprio in quella tenerezza, in quel amore, in quella vocazione a donare posta a prodromo del suo pontificato da Francesco, nella sua prospettata rivoluzione della tenerezza e della semplicità, nel suo affettuoso afflato servizievole, da papà, più che da Papa, verso le realtà più disagiate; quelle realtà da cui, si spera, inizierà la rinascita dell’umanità; quelle realtà, in cui forte è la sete di tenerezza, di speranza, di fede; realtà che hanno da sempre accolto e custodito la fede. Realtà come la già citata Argentina, o, per focalizzare la riflessione, nell’ambito nostrano, come la Calabria, terra abbracciata dal Verbo fin dai primordi del cristianesimo, come ebbe cura di sottolineare, nel 1984, Giovanni Paolo II, durante la sua visita nella nostra regione, parlando dell’apostolo Paolo che, affermò l’allora Santo padre, in Calabria «accese la fiaccola della fede cristiana...», richiamandosi, in questo, agli Atti degli apostoli, in cui è attestato che «...costeggiando, giungemmo a Reggio». «...Da qui il cristianesimo ha iniziato il suo cammino in terra calabra, espandendosi in ogni direzione, sia verso la costa jonica sia verso la costa tirrenica», affermò Wojtyla, omaggiando così la Calabria, «una terra di fede che ha avuto la sua rappresentanza nell’elenco dei Romani pontefici, avendo dato alcuni suoi figli alla sede di Pietro». In effetti, diverse sono state, soprattutto nei primi secoli dell’era cristiana, le personalità calabresi ascese alla funzione di Romano pontefice; Papi indicati, nei documenti antichi - tra cui il Liber pontificalis, che è una raccolta di biografie dei pontefici da San Pietro a Pio II (1458 - 1464) -, come provenienti dalla Magna Grecia o “oriundi” o greci di nascita, quando si usava indicare come greco il calabrese; un elemento, questo, che è all’origine della confusione spesso riscontrabile negli scritti relativi ai Pontefici calabresi; in ogni caso, alla luce delle varie fonti, tra esse confrontate, possiamo, con poche incertezze, ritenere che i calabresi investiti, quali Successori di Pietro, del ruolo di Guida della Chiesa universale siano stati almeno dieci in oltre duemila secoli di storia. Papi per larghissima parte degni, che non furono mere ombre sul trono di Pietro; Guide il più delle volte solide, che seppero fronteggiare continua alla pagina seguente cruciali avversità in tempi difficili; Pastori sovente coraggiosi, che seppero custodire nel servizio il popolo cristiano, anche a costo della vita.
VI
sabato 30 marzo 2013
Vaticano chiama Calabria Iniziamo, dunque, il vostro viaggio nella grande storia dei Papi di Calabria
Ilfu primo Papa nativo della Calabria San Telesforo. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, fu l’ottavo vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica tra il 127/128 e il 137/138. Sarebbe nato a Terranuova di Calabria attuale Terranova da Sibari, nella Diocesi di Cassano Ionio e, prima di giungere a Roma, avrebbe vissuto da anacoreta, per un lungo periodo in Palestina ed in Egitto. Forse fu tra gli eremiti del Monte Carmelo, motivo per cui i carmelitani lo annoverano tra i loro santi. Il suo pontificato iniziò durante il regno di Adriano, e terminò durante il regno di Antonino Pio. Poiché la capitale dell’impero romano era un luogo che permetteva una ampia diffusione di idee, durante il suo pontificato si trasferirono a Roma molti eretici. In questo periodo la principale dottrina eretica fu la gnosi che Telesforo combatté vigorosamente poiché riteneva che potesse indirizzare la religione verso un misticismo lontano dalla realtà in quanto per gli gnostici Dio era completamente separato dall’uomo. Il principale esponente di questa dottrina fu il filosofo Valentino che proprio in questo periodo si trasferì dall’Egitto a Roma riuscendo ad avere anche un gran numero di seguaci nella capitale dell’impero per più di vent’anni. In base a quanto riportato dal Liber Pontificalis, si devono a Telesforo l’istituzione della “messa di mezzanotte”, della “liturgia dell’aurora” e della “liturgia della terza ora” a Natale, della celebrazione della Pasqua di domenica, del digiuno durante la Quaresima, e del canto del Gloria in excelsis Deo, secondo alcuni composto proprio da Telesforo. Tra i vescovi di Roma citati nella sua lista, Ireneo di Lione ricorda solo di Telesforo, che “rese gloriosamente la testimonianza”, cioè che morì martire. Eusebio di Cesarea pone nel 128 gli inizi del suo episcopato, durato undici anni e che si sarebbe concluso nel 138. Al seguito di Ireneo, Eusebio ricorda il suo martirio, e anche che T. fu uno dei predecessori di Vittore nella Sede romana che, pur non celebrando la Pasqua secondo il calendario giudaico il 14 di nis¯an, mantenne la pace con le comunità che si attenevano a quella tradizione senza imporre la propria. La durata di undici anni per il suo episcopato è attestata anche nel Catalogo Liberiano (undici anni, tre mesi e tre giorni), dal 127 al 137. Il Liber pontificalis, nr. 9, aggiunge una serie di notizie, come al solito non accertabili e verosimilmente fantasiose: Telesforo sarebbe stato precedentemente un anacoreta, avrebbe proceduto a quattro ordinazioni per un totale di dodici presbiteri, otto diaconi e tredici vescovi, sarebbe morto martire e sarebbe stato sepolto nella necropoli vaticana presso San Pietro il 2 gennaio, e alla sua morte sarebbe seguito un periodo di sede vacante di sette giorni. In particolare a Telesforo sono attribuite alcune disposizioni disciplinari e liturgiche relative al digiuno prepasquale di sette settimane, alla messa notturna del Natale e alla introduzione del canto del Gloria nella messa. La notizia sul martirio di Telesforo lo accomuna a quanto il Liber pontificalis afferma di molti papi anteriori a Silvestro I, ma di fatto si trova a coincidere con la testimonianza di Ireneo, più antica e da prendersi in considerazione per la sua eccezionalità nella lista del vescovo di Lione. Relativamente al digiuno prepasquale di sette settimane, una pratica di tale estensione non è attestata prima del sec. IV in Oriente, mentre si sa che a Roma tra i secc. V e VI si osservava un digiuno prepasquale di sei settimane. È dunque probabile che il provvedimento attribuito a Telesforo sia da intendere come il tentativo di imporre, all’epoca della composizione del Liber pontificalis, una disciplina più austera in proposito. Quanto alla celebrazione della messa notturna del Natale, benché quella del Liber pontificalis costituisca la testimonianza più antica di questo uso, tale provvedimento risulta anacronistico per quest’epoca, perché l’introduzione della festa del Natale non è anteriore al sec. IV. Per quel che concerne l’introduzione del canto del Gloria durante la messa, conviene osservare che nella prima redazione del Liber pontificalis, come si ricostruisce dai compendi feliciano e cononiano, la disposizione era limitata alla sola messa del Natale, evidentemente a differenza dall’uso di cantarlo la domenica e nelle feste dei martiri introdotto da papa Simmaco. In ogni caso non si hanno testimonianze del Gloria anteriori al IV secolo, e un intervento in proposito di Telesforo non può corrispondere a un dato reale. A T. è poi attribuita una delle decretali pseudoisidoriane. L’antica tradizione car-
In particolare, alla luce delle varie fonti, tra esse confrontate, possiamo, con poche incertezze, ritenere che i calabresi investiti, quali successori di Pietro, del ruolo di Guida della Chiesa universale siano stati almeno dieci in oltre duemila secoli di storia
melitana, che pretendeva di far risalire le origini dell’Ordine al profeta Elia, annoverava tra i suoi adepti Telesforo, per la fama di anacoreta che gli veniva dalla notizia del Liber pontificalis. La Chiesa Cattolica celebra la sua memoria liturgica il 5 gennaio; le Chiese ortodosse, invece, lo ricordano il 22 febbraio. Il suo emblema è la Palma e di Lui nel Martirologio Romano si legge: «A Roma, deposizione di san Telesforo, papa, che, come attesta sant’Ireneo, nominato settimo vescovo dopo l’Apostolo, subì un glorioso martirio».
La seconda personalità che, partendo dalla Calabria riuscì a sedersi sul trono Petrino, fu Antero, in greco Anteros, nato (la data è ignota) a Petelia, una antica città del Bruzio, da alcuni studiosi la identificata con l’odierna Strongoli. Fu il diciannovesimo vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 21 novembre 235 al 3 gennaio 236. Di questo Papa, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, sappiamo con sicurezza solamente che, dopo essere succeduto a Ponzano, in seguito alla rinuncia di quest’ultimo, regnò circa quaranta giorni, venendo sepolto nella famosa “cripta papale” del cimitero di San Callisto a Roma (come riporta il Martirologio romano: «3 gennaio - A Roma nel cimitero di Callisto sulla via Appia, deposizione di sant’Antero, papa, che, dopo il martire Ponziano, fu per breve tempo vescovo»). Il Liber pontificalis riporta che fu martirizzato sotto l’imperatore Massimino Trace per aver fatto raccogliere gli Atti dei martiri da alcuni notai e poi averli fatti depositare negli archivi della Chiesa di Roma. Questa tradizione sembra molto antica e piuttosto veritiera; ciononostante alcuni illustri studiosi, sostengono che non è sufficientemente provata dal solo fatto di essere riportata sul Liber Pontificalis, considerando, fra l’alPapa Antero pontefice dal 21 novembre 235 al 3 gennaio 236 tro, la sua tarda data di compilazione. Già Lenain de Tillemont, osservando che lo stesso Catalogo usa il termine “dormitio” per papa Cornelio, ritenuto martire, e che l’espressione “addormentarsi” è impiegata da Eusebio per Alessandro di Gerusalemme, morto in prigione durante la persecuzione di Decio, ipotizzava che Antero potesse non essere morto per mano del carnefice, ma in carcere o comunque per qualche altra pena che lo avrebbe fatto considerare martire; e anche L. Duchesne, per cui l’espressione del testo era, al contrario, inequivocabile, non escludeva che il redattore del Liber pontificalis potesse aver consapevolmente sostituito il “dormit” del Catalogo liberiano con la più precisa informazione “martyrio coronatur” sulla base di documenti o tradizioni relativi alla persecuzione di Massimino il Trace successivamente perduti. Il luogo del suo sepolcro fu scoperto da Giovanni Battista de Rossi nel 1854, grazie ad alcuni frammenti deteriorati dell’epitaffio in greco inciso sulla stretta lastra oblunga che chiudeva la sua tomba, indice sia della sua probabile origine che dell’uso generalizzato del greco nella Chiesa di Roma di quel periodo. La Chiesa Cattolica celebra la sua memoria liturgica il 3 gennaio; le Chiese ortodosse, invece, lo ricordano il 5 agosto.
Ilfu terzo Vescovo di Roma calabrese Dionisio (o Dionigi), il quale fu il venticinquesimo papa della Papa Telesforo pontefice tra il 127-128 e il 137-138
Chiesa cattolica, che lo venera come santo, dal 22 luglio 259 al 26 dicembre 268. Nacque probabilmente a Terranova da Sibari, allora Magna Grecia. Già presbitero della Chiesa romana, durante il pontificato di papa Stefano I (254-257), fu eletto al sommo pontificato nel luglio 259 e regnò fino al 268. In una lettera a lui indirizzata il vescovo Dionigi di Alessandria lo chiama «uomo ammirabile» e rende testimonianza della sua cultura e della sua eloquenza. S. Basilio poi attesta che egli aveva una fede retta e possedeva tutte le virtù. Durante il suo pontificato Dionigi dovette intervenire in una importante questione dottrinale riguardante l’omonimo vescovo di Alessandria. Questi era stato accusato, da alcuni suoi chierici, presso il pontefice, di negare l’eternità del Verbo, la sua consustanzialità con il Padre, e di asserire che era una creatura. L’accusa non era
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VII
Vaticano chiama Calabria L’emblema del Papato
infondata, poiché il vescovo alessandrino, nella foga di combattere l’errore di Sabellio, in alcune sue lettere aveva adoperato delle frasi che veramente sembravano affermare quegli errori; lo stesso s. Atanasio, pur cercando di spiegarle in senso ortodosso, non ne negava il tenore. Per esaminare la questione, Dionigi convocò un sinodo e a nome di tutti scrisse due lettere ad Alessandria: una diretta al vescovo, con la quale chiedeva spiegazioni sulla sua fede; l’altra, alla Chiesa alessandrina, nella quale pur tacendo il nome dell’accusato ne confutava e condannava la dottrina. Questa seconda lettera è un documento dottrinale importantissimo, in cui si trova già condannato avanti tempo quello che poi sarà l’errore degli ariani. Dionigi, pur non discutendo da teologo, ma parlando come custode e difensore della rivelazione aflìdata alla Chiesa, con parole chiare ed energiche, da maestro autorevole, vi condanna sia il modalismo di Sabellio, sia coloro che, per confutare quell’errore, sembrano ammettere in Dio una specie di triteismo; afferma quindi non meno chiaramente l’unità e trinità di Dio; che il Verbo non è una creatura, ma è stato generato dal Padre, dal quale è ab eterno, e quindi non ebbe esistenza col tempo. Il vescovo alessandrino, accettando in semplice umiltà l’esposizione di Dionigi, rispose con una lettera in cui spiegava il suo pensiero e poi più a lungo con una Apologia. Dalla lettera di S. Basilio sopra citata, sappiamo ancora che Dionigi, continuando la tradizione caritatevole della Chiesa romana a favore dei bisognosi, scrisse ai fedeli di Cesarea di Cappadocia per consolarli delle tribolazioni sofferte in occasione di una scorreria di barbari, ed insieme inviò degli aiuti in denaro per la liberazione di quei cristiani che erano stati fatti prigionieri. L’autore del Liber pontificalis afferma, con poca verosimiglianza, che Dionigi era un monaco e che, eletto papa, distribuì ai presbiteri romani la direzione delle chiese e dei cimiteri. Sulla sua morte le indicazioni delle fonti sono alquanto discordi. Nella Depositio episcoporum il suo nome è registrato al 27 dicembre, e il luogo della sepoltura è indicato nel cimitero di Callisto, nel Catalogo liberiano, invece, e nel Martirologio geronimiano, seguiti anche dal Romano, si dice che morì il 26 dicembre e fu sepolto nel cimitero di Priscilla: questa notizia è certamente falsa. Il Catalogo, poi, aggiunge che Dionigi morì martire, ma ciò, oltre al fatto di essere in contrasto con l’indicazione della Depositio, è anche inverisimile, poiché il pontificato di Dionigi coincise con il governo degli imperatori Gallieno e Claudio il Gotico, di cui il primo revocò espressamente la persecuzione scatenata dal padre Valeriano, mentre il secondo non fu persecutore. Ritratto, nel-
Papi per larghissima parte degni, che non furono mere ombre sul trono di Pietro; guide il più delle volte solide, che seppero fronteggiare cruciali avversità in tempi difficili; pastori sovente coraggiosi, che seppero custodire nel servizio il popolo cristiano, anche a costo della vita
Papa Dionisio pontefice dal 22 luglio 259 al 26 dicembre 268
l’iconografia, in abiti papali con un libro, riguardo a Papa Dionisio, nel Martirologio romano, si legge: «26 dicembre - A Roma nel cimitero di Callisto sulla via Appia, san Dionigi, papa, che, colmo di ogni virtù, dopo la persecuzione dell’imperatore Valeriano, consolò con le sue lettere e la sua presenza i fratelli afflitti, riscattò i prigionieri dai supplizi e insegnò i fondamenti della fede a coloro che li ignoravano».
Sarebbe originario di San Giorgio Morgeto (Rc), il quarto Papa di provenienza calabra, ovvero Sant'Eusebio da Casegghiano (anche se alcune fonti lo indicano nativo della Sardegna). Eletto, forse, nel 311 (il 18 aprile) e martire il 17 agosto dello stesso anno, fu il trentunesimo Papa dopo San Pietro. Sommo Pontifice, come già esplicitato, per 4 mesi, sotto Massenzio, si commemora il 17 agosto. Il suo episcopato viene fissato da alcuni studiosi nell'anno 308; altri pensano invece che l'anno fosse il 309 oppure il 310. Il Catalogo Liberiano dice: «Eusebius mense IIII die XVI, a XIII kalendas Maii usque in diem XVI kalendas Septembris», pertanto dal 18 aprile fino al 17 agosto di un anno non precisato. Egli sarebbe succeduto a Marcello dopo una vacanza della sede di tre mesi e otto giorni, e non di venti giorni come vuole il Liber pontificalis. I dettagli del suo pontificato possono essere dedotti dall'epitaffio di otto esametri composto da Papa Damaso I per la sua tomba. «DAMASO VESCOVO FECE - Eraclio non volle che i Lapsi facessero penitenza dei loro peccati. Eusebio insegnò ai miseri a piangere le loro colpe. Si dividono in parte i fedeli col crescere della passione. Ribellioni, uccisioni, guerre, discordia, liti. D'improvviso son tutti e due espulsi dal ferocissimo tiranno [Massenzio], sebbene il papa serbasse interi i vincoli della pace. Lieto soffrì l'esilio per giudizio del Signore, e sui lidi di Sicilia lasciò il mondo e la vita. AD EUSEBIO VESCOVO E MARTIRE». È solo grazie ad antiche trascrizioni che questo epitaffio è giunto fino a noi. Alcuni frammenti dell'originale, insieme ad una copia di marmo del VI secolo costruita per sostituire l'originale distrutto, fu trovata da Giovanni Battista de Rossi nella cappella papale, delle catacombe di Callisto. Da questo scritto si evince che i gravi dissensi interni alla Chiesa romana sulla riammissione degli apostati (i lapsi) nati durante la persecuzione di Diocleziano, che avevano creato problemi già sotto Marcello, continuarono sotto Eusebio. Questi confermò l'atteggiamento adottato dalla Chiesa romana dopo le persecuzioni di Decio (250-251): gli apostati non sarebbero stati esclusi per sempre dalla comunione ecclesiastica, ma avrebbero potuto essere riammessi solamente dopo avere scontato la giusta penitenza (Eusebius miseros docuit sua crimina flere). Questo punto di vista fu osteggiato da una fazione di Cristiani capeggiata da un certo Eraclio. Non si sa se quest'ultimo ed i suoi sostenitori appoggiassero un punto di vista più rigido (Novazianisti) o un'interpretazione più clemente della legge. Comunque la seconda ipotesi è di gran lunga la più probabile: Eraclio doveva essere il capo di una fazione di apostati che esigeva la reintegrazione immediata nel corpo della Chiesa. Damaso tratteggiò con termini molto forti il conflitto che ne conseguì (seditcio, cœdes, bellum, discordia, lites). È probabile che Eraclio ed i suoi sostenitori cercassero di agevolare con la forza la loro riammissione ai sacri riti e che i fedeli raggruppati intorno ad Eusebio se ne risentissero. A causa di questi contrasti, che furono caratterizzati anche da episodi di violenza, sia Eusebio che Eraclio furono esiliati dall'Imperatore Massenzio il quale, incurante di qualsiasi scrupolo religioso, soffocò i tumulti nel sangue al solo fine del mantenimento della pubblica quiete. Eusebio, in particolare, fu deportato in Sicilia il 17 agosto, dove morì poco dopo, il 21 ottobre. Il suo corpo fu riportato in seguito a Roma, probabilmente il 26 settembre del 311 (secondo il Depositio episcoporum contenuto nella Cronografia del 354), e deposto in un cubicolo nelle Catacombe di Callisto, vicino al sepolcro di papa Caio. La sua ferma difesa della disciplina ecclesiastica e l'esilio a cui fu condannato lo fecero venerare come martire, ma non si hanno a proposito notizie certe. Attualmente il suo corpo, secondo il Panciroli, dovrebbe trovarsi nella Basilica di San Sebastiano fuori le mura, mentre secondo il Piazza alcune reliquie sarebbero conservate nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna. La sua memeoria liturgica si celebra il 17 agosto, giorno in cui fu deportato. Nel Martirologio romano si legge: «17 agosto - In Sicilia, anniversario della morte di sant'Eusebio, papa, che, valoroso testimone di Cristo, fu deportato dall'imperatore Massenzio in quest'isola, da dove esule dalla patria terrena, meritò di raggiungere quella celeste; il suo corpo fu traslato a Roma e deposto nel cimitero di Callisto».
Papa Eusebio pontefice tra il 18 aprile e il 17 agosto del 308-311
VIII
sabato 30 marzo 2013
Prima di lasciare il mondo attonito Indimenticabile il ricordo dell’incontro con gli studenti universitari del “Progetto Magellano” dell’Unical
Quel giorno con Benedetto XVI i di Franco Bartucc
Dopo sette anni e dieci mesi Sua santità Benedetto XVI ha abbandonato il trono di Pietro lasciando il mondo attonito e pieno di interrogativi. Ha scelto per il resto della sua vita una presenza, tra le mura vaticane, silenziosa, contemplativa e di preghiera. Essere nascosto al mondo per vincere la deturpazione delle rivalità esistente nella stessa chiesa. C’è la chiesa dei religiosi e dei laici credenti accomunati dall’azione del battesimo e della cresima, chiamati a vivere, durante il percorso della vita, i comandamenti di Dio e le leggi adottate, così i contenuti derivanti dalle parole e dalla testimonianza di nostro Signore Gesù Cristo ampiamente trattati nei quattro Vangeli. È un modo di vivere la vita come servizio verso se stessi e gli altri con amore nel rispetto delle leggi divine che si trasformano nella pratica in azioni, siano esse di umiltà, carità, solidarietà, giustizia e pace. Essere nel mondo per vivere di spirito superando la deturpazione della materia che crea conflitti e guasti di ogni sorta dal punto di vista, sia umano che spirituale, sono ragioni più che sufficienti per mettere ciascuno di noi, sia come laico che come religioso, nelle condizioni di riflettere per assurgere e far parte integrante di quell’ immagine di Gesù crocifisso sul monte Golgota con accanto i due ladroni. Benedetto XVI, pur rimanendo fedele alla figura di Gesù Cristo, nell’immaginario del nostro tempo, scende dalla Croce per scuotere le coscienze di quei ladroni, che fanno parte del quadro del Golgota, richiamandoli ai propri doveri di figli di Dio nell’esercitare in piena libertà la manifestazione di pentimento e godere così, come il buon ladrone pentito, della luce riflessa del Paradiso. Lo spirito che trionfa sulla materia, questo oggi coinvolge noi tutti ed è ragionevole, in piena umiltà, riconoscerne il merito e la voglia di adeguarsi ad un progetto di resurrezione che fa parte della storia della Chiesa, sia nella componente religiosa che in quella laica, che si trasforma nella composizione di una società sana, solidale, equa, pacifica, laboriosa ed umana. È un fatto epocale e storico che dopo 598 anni, con Gregorio XII, un Papa, pur essendo previsto dal codice di diritto canonico, si dimette portando ragioni di salute cagionevole, ma soprattutto motivi di denuncia legati a forme di rivalità nell’esercizio delle proprie funzioni. È un fatto epocale e storico che coinvolge noi tutti fedeli e non, in quanto noi tutti siamo ed apparteniamo a questo periodo storico della vita umana ed è nostro dovere dare a noi stessi regole e comportamenti adeguati nella scelta se dare o meno valore alle parole: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Adesso abbiamo papa Francesco e questo ci mette nelle condizioni di ripensare il nostro futuro. Però la mente ed il cuore ci porta a ricordare ciò che ci ha dato durante gli otto anni circa del Suo papato Benedetto XVI in circostanze d’incontri collettivi pubblici, come la visita nella nostra regione del 2011, con tappe alla certosa di Serra San Bruno, dove ci ha lasciato quel meraviglioso discorso sul valore del silenzio vivente e parlante, come quello di Lamezia Terme, dove ci ha ricordato le condizioni di sismicità della nostra terra e dei nostri cuori, così della politica, che vanno meditati e curati. Ma soprattutto, ci piace ricordare, una udienza privata che si svolse il 2 maggio 2007 in piazza San Pietro, concessa ad una delegazione di studenti dell’Università della Calabria, componenti del gruppo del “Progetto Magellano”, coordinato dal presidente, Salvatore La Porta, chiesta per potergli consegnare il “Libro dei pensieri”, un diario di dediche legate alla pace raccolte tra i giovani in giro per le Università europee quale contributo alla costruzione di un Europa senza confini. Ha detto bene in quella circostanza il presidente La Porta nel presentare i contenuti del libro e le motivazioni: «Vuole essere un messaggio di comunione delle nuove generazioni, giovani che individuano nella comunicazione e nella conoscenza reciproca le strade maestre per un futuro migliore, illuminato nella comunione dei popoli e nella crescita dell’uomo. Ecco perché il libro è stato pensato per essere consegnato a chi nel mondo si fa alfiere di queste idee, a chi predica di costruire ponti al posto delle barricate, a chi, comunque ed ovunque, ha opposto la forza propulsiva della pace all’idea generativa della guerra». Una esperienza bellissima pensata da un gruppo di studenti dell’Università della Calabria, giunta alla seconda edizione, nel-
Una udienza privata che si svolse il 2 maggio 2007 in piazza San Pietro, concessa ad una delegazione di ragazzi della Università della Calabria
l’ambito della programmazione delle associazioni “Erasmus student network e aegee”, e che ha consentito, in occasione della prima edizione, di consegnare l’8 settembre 2004 a Sua Santità Giovanni Paolo II, nella grande aula Paolo VI, la “Bandiera della Pace”, in ricordo anche del decimo anniversario della scomparsa del rettore, Pietro Bucci, ricevendo una particolare benedizione sul plastico delle strutture universitarie portato e consegnato dal Rettore, Giovanni Latorre. Anche questa una storia bellissima ed emozionante che fa parte degli eventi più importanti dell’Università della Calabria. Quel 2 maggio 2007 si è potuto parlare con Benedetto XVI delle specificità del campus universitario di Arcavacata e delle sue prospettive anche in funzione di una sede parrocchiale inserita al suo interno, presentandogli una nutrita raccolta di rassegna stampa incentrata sulla figura del suo primo rettore, Beniamino Andreatta, scomparso nel mese di marzo di quell’anno e che ha dato alla stessa Università, durante il suo mandato, un taglio operativo di modernità ed innovazione in campo nazionale ed internazionale. È ancora vivo il ricordo delle sue parole di incoraggiamento nel proseguire l’opera di promozione e di sviluppo dell’Ateneo nel realizzare una comunità viva secondo un profondo spirito cristiano di servizio. Né si possono dimenticare il suo sguardo ed il suo sorriso, così il tocco di carezza sulla mano a dire: «Siamo con voi tutti nelle vostre speranze e fatiche». Quel giorno, nel suo discorso dedicato a tutti coloro intervenuti in piazza San Pietro per l’udienza del mercoledì, affrontò il tema della carità e giustizia nei rapporti tra popoli e nazioni, come della dignità umana e dell’ambiente per promuovere la persona al centro di un mondo più equo. «Per affrontare le sfide che ci aspettano e per dare una giusta uguaglianza di opportunità solo l’amore per il prossimo - disse in quella circostanza Benedetto XVI e riportato nel comunicato dell’ufficio stampa dell’UniCal del 3 maggio 2007 - può ispirare in noi la giustizia a servizio della vita e della promozione della dignità umana. Solo l’amore all’interno della famiglia, fondata su un uomo e una donna, creati a immagine di Dio, può assicurare quella solidarietà inter - generazionale che trasmette amore e giustizia alle
sabato 30 marzo 2013
Prima di lasciare il mondo attonito
Tra reparti e aule di tribunale
Giulia Montera, un dolore che grida giustizia L’incontro con Benedetto XVI e con il suo predecessore Giovanni Paolo II Sotto, il gruppo del Progetto Magellano in partenza
generazioni future. Solo la carità può incoraggiarci a porre la persona umana ancora una volta al centro della vita nella società e al centro di un mondo globalizzato, governato dalla giustizia». Incontri papali, realizzati grazie ad un caro amico e collega giornalista che preferisce rimanere nell’anonimato, che merita, invece, il rispetto e la stima non solo mia ma di tantissime persone per la sua passione professionale immessa nell’esercizio della sua funzione di comunicatore alla ricerca della verità in un’opera di servizio, rispettoso delle leggi e della dignità della persona. Ma l’esperienza del progetto Magellano, che doveva promuovere una terza edizione guardando ai rapporti con i paesi del Nord Africa e Medio Oriente, dopo aver toccato il cuore della Russia e della Turchia nella seconda edizione, per contrasti interni alla stessa Università ne viene ridimensionata la sua funzione e la sua struttura organizzativa è costretta a lasciare le strutture dell’università scrivendo la parola “fine” ad un programma teso a dare dei contenuti pieni al significato del mondo globalizzato. Il mio pensionamento forzato, ma libero, alla fine del 2008 fa interrompere un percorso di impegni mirati a dare spazio, attraverso le forme migliori dell’informazione istituzionale, agli stimoli e alle promesse scaturite dai due incontri papali con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che vedeva il coinvolgimento degli studenti come anche il personale docente e non docente per una società calabrese a dimensione umana e giusta. Tutto questo ci porta a dire che le dimissioni di Benedetto XVI coinvolgono tutti per un sistema governativo e gestionale del nostro modo di essere nella vita, nella famiglia, nel mondo del lavoro, così nel rapporto interpersonale tra esseri umani nell’affermazione del rispetto della dignità della persona per una promozione della personalità finalizzata a creare una comunità, una società ed un paese vigile ed attento verso la realizzazione di un progresso sociale, economico e culturale corretto ed equo consone all’immagine umana pura dell’uomo teso verso il divino.
La ricerca disperata ed affannata di giustizia va ad incanalarsi verso strade che si presentano certamente difficili per papà Gabriele. Lui, voleva e vuole, insieme a mamma Maria, avere giustizia per la propria figlia; ma la strada tortuosa di per sé, figuriamoci come si presenta se poi si ricorre ad artifici. Tra perizie medico legali ed avvocati papà Gabriele si è dovuto “armare” consapevole di dover affrontare un qualcosa più grande di lui, ma il bene di un padre non conosce barriere o steccati inespugnabili ed insormontabili. Seppur per la giustizia combatti, quando dall’altra parte ti trovi una casta in camice bianco, il tutto diventa più difficile perché - spesso e volentieri - ci si scontra con macigni intoccabili e talvolta con una giustizia sbrigativa. Ne è prova, il tentativo datato 27 luglio 2012 di archiviare il “caso Giulia”, per fortuna sventato grazie alla capacità e professionalità dei periti medico legali coordinati dal legale avvocato Massimo Micaletti, tutti protesi a sostegno di papà Gabriele e della piccola Giulia, che con prove documentate sono riusciti ad ottenere uno spiraglio di luce. È giunta infatti la lieta novella, nel giorno della manifestazione realizzata a Vibo Valentia dall’associazione onlus “unasperanzaxgiulia”, il giudice preposto ha deciso di sentire le parti in camera di Consiglio per poi deliberare se archiviare o proseguire. Non è certo una vittoria, ma oggi i Montera sono nuovamente in gioco e sono riusciti a sventare il primo immediato tentativo di archiviare il “caso Giulia”. Un tassello importante dunque in quelle che spesso sono cause perse in partenza, ma papà Gabriele firmatario della denuncia penale presentata in data 10-06-2011 a difesa della sua piccola Giulia era già consapevole della difficoltà di un procedimento penale, ma imperterrito non ha deciso di avviare un tutelato e facile procedimento civile che forse ad oggi si sarebbe concluso in suo favore. Purtroppo oggi le cose sono diverse e tentano di prendere una piega Gabriele non certamente bella. “Chi ne ha Montera facoltà” e le risorse finanziare, sta cercando di attaccare papà Gabriele con altri sistemi. Gabriele Montera, voleva e vuole con tutte le forze difendere Giulia, ma stanno tentando di tappargli la bocca con una sfilza di querele per “minacce” e “diffamazione”. Gabriele, che sta dedicando ogni risorsa finanziaria - anche con la solidarietà di tante persone di buona volontà - per tentare soprattutto di salvare Giulia ed al tempo stesso di rendere a lei giustizia; certamente non ha soldi per potersi difendersi affrontando le spese legali di uno o più legali in questi neo procedimenti, e come è ben noto seppur esiste il gratuito patrocinio, le cose si complicano e l’attenzione verso la causa principale, quella che tende a dimostrare che vi è stata negligenza medica sulla piccola Giulia e l’attenzione verso la corsa contro il tempo per organizzare manifestazioni a raccolta fondi per i viaggi della speranza ma anche verso la realizzazione del film “Giulia Montera una vita spezzata” non può che rallentare la marcia. E questo sicuramente non giova a Giulia. In queste ore è stata presa la decisione da parte di papà Gabriele al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica che le sue pagine face book, nonché quelle dell’associazione “unalottaxlavita” (insieme superano i 5000 amici univoci) restino in assordante dirompente silenzio. La speranza è che le coscienze si smuovano e gli oltre 18.000 e più amici scendano in campo e si mobilitino al fianco di papà Gabriele. L’associazione “unalottaxlavita” ha già avviato la ricerca di aziende pronte a sponsorizzare unitamente a quelle già offertasi direttamente - l’arrivo in città di svariate centinaia di persone mettendo a loro disposizione pullman che da varie località italiane possano giungere nella città natia della piccola Giulia, per far si che i veri amici che credono nell’operato di papà Gabriele e nella magistratura, unitamente ai cittadini di Corigliano, possano gridare uniti: «Giustizia».
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sabato 30 marzo 2013
Sulla scìa degli ultimi fatti... Il nuovo libro di don Enzo Gabrieli, direttore del settimanale diocesano cosentino “Parola di vita”
Le lacrime di Pietro Don Enzo Gabrieli
di Lucia De Cicco
“Le lacrime di Pietro”, edizioni Tau è il nuovo libro del vicario don Enzo Gabrieli, direttore del settimanale Parola di Vita e direttore dell’ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Cosenza-Bisignano. Presentato lo scorso 21 marzo presso la libreria San Paolo di Cosenza e il 24 marzo nella chiesa di San Pietro in Mendicino nel Cosentino. Un libro ultimato in fretta con gli avvenimenti, che hanno sconcertato la Chiesa cattolica negli ultimi tempi con le dimissioni di un Papa. Accadimento, che non si verificava da molti secoli e questa volta fatto per scelta ponderata e razionale. Lo stesso è riportato nel testo di Enzo Gabrieli, alla pagina quattordici dell’introduzione, ultimo capoverso, in cui l’autore scrive «gli eventi storici di questi ultimi giorni (...) segnati dalla rinuncia al governo della chiesa da parte dell’amato papa Benedetto XVI, collocano queste pagine nell’ambito di una riflessione più alta che come credenti ci è chiesto di fare (...) La decisione presa dal Santo padre (...) il suo consegnarsi a Lui per amore, per il bene della Chiesa stessa». Ed è proprio questa consegna finale al martirio e alla croce di Cristo che nel testo e prima nel Vangelo, che in queste pagine di don Enzo è romanzato, prestando attenzione alla verità della storia, si pone la sofferenza di Pietro e l’adesione alla Parola di Dio. Pietro è secondo solo a Gesù Cristo per menzione nei Vangeli, il suo nome ora come Simone, Pietro e Kefa (che in aramaico significa pietra) è citato diverse volte, fu l’unico degli apostoli che divenne beato, nominato direttamente da Gesù, già in vita, inoltre nel Vangelo di Marco sono riportati interi discorsi dello stesso Pietro al discepolo, tutto ciò a sottolineare l’importanza che questo personaggio assume per l’intera narrazione della vita di Cristo e di come fra coloro, che ignorano fu scelto da Gesù per fondare la sua Chiesa. Questo testo, come afferma lo stesso don Enzo Gabrieli nella presentazione, è un lavoro di cucitura di ciò che si trova nel testo biblico attorno all’Apostolo. Una finzione letteraria aderente ai testi, ma che mischia le carte in dialoghi e pensieri, che danno corpo al personaggio. Nelle vibrazioni dell’animo, nei pensieri sconcertati e di colpa e nei discorsi, che, a volte, emergono nella narrazione a Marco, in carcere, dove è condotto e che lo stesso cerca di fissare nei passaggi più importanti nella memoria, al di là di ciò che Pietro gli consegna nella scrittura. L’Apostolo nel libro si trova, difatti, dietro le sbarre, ma prima che il suo corpo finisca, vuole dare memoria a ciò che Cristo ha rappresentato nella sua vita, tra il non capire, lo scappare, e la consegna finale a Lui. Ripercorsi, sono nel testo le tre richieste di amore che Cristo fa all’Apostolo, spiegate attraverso la realtà del religioso, il primo ti voglio bene ha significato nella chiamata, nella gioia di lasciare il tutto e seguire un “Uomo affascinante”, un folle per i più, un Dio vero in terra, il secondo ti voglio bene è l’aderenza alla missione, all’apostolato, l’ultimo, il più
«Gli eventi di questi ultimi giorni (...) segnati dalla rinuncia al governo della Chiesa da parte di Benedetto XVI collocano queste pagine nell’ambito di una riflessione più alta che come credenti ci è chiesto di fare (...) La decisione presa dal Santo padre (...) il suo consegnarsi a Lui per amore, per il bene della Chiesa stessa»
importante è il chiedere l’amore, che è la consegna alla Croce. In questo scappare e non capire e rinnegare di Pietro alla fine la consapevolezza del potere restare e di accettare ciò che per Dio è stato facile, e che per un uomo si trasforma in orrore e paura. Alcune volte Pietro, in questo suo non capire, cerca di riportare Cristo alla dimensione del ragionamento umano fatto di paura. Alla pagina 30 del testo, infatti, Pietro nella sua narrazione a Marco, racconta di come Cristo manifestava apertamente l’aspetto, ancora oggi difficile da credere, della sua Resurrezione. Presolo in disparte, Pietro si arroga il diritto di rimproverarlo ed è qui in questi passaggi del testo che l’infedeltà dell’Apostolo emerge, qui che la Chiesa si avverte fatta solo di uomini e il suo capo è Cristo. Infatti, Cristo si volta, dando le spalle all’Apostolo e, lo chiama Satana, perché egli ha un cedimento, non vuole la Croce, ma cerca di ridimensionare il tutto a un discorso umano, alla cautela delle parole, egli stesso ne avverte tutta la sua limitatezza. Il testo è pieno di esortazioni verso i giovani; ecco che allora il Ministero petrino, diviene comprensibile nella missione che tutti i Papa fanno verso la Gioventù, nell’ultimo capoverso di pag. 31. In queste righe Pietro esorta i giovani all’ascolto degli Anziani (probabilmente inteso come saggi, cultori, coloro che sanno in esperienza e ricerca) al compenetrare delle relazioni, poiché l’umiltà è la base del tutto e Dio resiste ai superbi. Una lezione, che lo stesso apostolo aveva imparato nel corso della sua vita, tra paura, abbandoni e sonni continui. Fu, infatti, il primo ad addormentarsi nelle ore che precedettero la morte di Cristo, il primo a non vegliare ed il primo a cedere alla guerra, sfoderando una spada quando vennero a prendere il Maestro. La figura di Pietro nella storia della santità della Chiesa è piena di simbolismi, le chiavi, l’abito vescovile sono elementi che caratterizzano il soglio Petrino, le chiavi in particolare una autorità conferita, ma di insegnamento, nel senso dell’apertura alla formazione dei fedeli. Mentre la figura dell’Apostolo nel suo percorso di ricerca, viene dal cardinale Gianfranco Ravasi, nell’Introduzione del testo, scandita da tre fotogrammi del giorno calendarizzato, in alba, pieno giorno, notte e nuova alba. In concreto dalla chiamata alla fondazione della Chiesa, al centro, l’adesione alla chiamata, ma non l’accettazione della sofferenza segnata dalla notte, che rileva l’infedeltà. Un uomo deciso questo Pietro nei Vangeli e nel testo, che vuole far valere il suo pensiero nella piena adesione alla comprensione di ciò che Cristo gli chiedeva, ma fondamentalmente umano e a volte pauroso, incoerente, fino al pentimento sincero nell’incontrare gli occhi di Gesù nel perdono, in quell’attimo finale in cui il Messia e suo Maestro è condotto al luogo detto Cranio per la crocefissione.
sabato 30 marzo 2013
XI
Ricordi indelebili...
“I diari di mio padre” Il Premio “Metauros” 2013 al libro di Gregorio Corigliano di Lucia De Cicco
Gregorio Corigliano è stato capo ufficio stampa dell’ente provinciale per il turismo di Reggio Calabria. Nel 1982 arriva in Rai e con il tempo diventa caporedattore della sede regionale. Si è occupato di cronaca e politica registrando anche numerosi servizi radiofonici e televisivi per la sede nazionale. È stato dirigente nazionale organizzativo dell’Usigrai, sindacato dei giornalisti. Ha ricevuto vari premi per la sua carriera, tra cui il “Premio cultura” della Presidenza dei ministri. Presidente del Circolo della stampa di Cosenza. Dal gennaio 2012 è commissario del CoreCom regionale. Vincitore del premio Metauros 2013 per il libro romanzo I diari di mio padre, 1943-1946, edito Pellegrini. Ha presentato di recente lo stesso libro, presso il Museo del Presente a Rende, lo scorso 20 marzo, giorno in cui è entrata meteorologicamente la primavera. I diari di mio padre 1938-1946 - un libro che per tanti anni è rimasto nel cassetto di recente la pubblicazione. Come mai ha aspettato così tanto per dargli la luce? Vero ho aspettato moltissimo, questo lo scrivo anche nell’introduzione del testo, perché ero indeciso se rendere pubblici dei fatti, che ritenevo molto privati. Rileggendoli, dopo il mio impegno in Rai, diretto e molto impegnativo, a distanza di tempo, ho deciso di renderli noti. Una volta istituita la Giornata della memoria, ho pensato che volevo far sapere alla gente che cosa ha patito e come ha vissuto un giovane Italiano, come dice Vittorio Zucconi nella prefazione. Questa giornata della memoria mi ha dato la spinta necessaria a pubblicare al più presto, coadiuvante nella decisione di fare conoscere la testimonianza di vita realmente vissuta da un giovane ventenne e che potessero infondere nel lettore varie emozioni, le stesse che sono nel libro. Vincitore del Premio Metauros 2013. Di certo è uno dei tanti premi che nel corso della sua carriera avrà ricevuto. Ma questo dedicato alle memorie scritte di suo padre che effetto le procura? Il fatto che sia venuto da una località, Gioia Tauro, che è attaccata al mio paese di origine, San Ferdinando, mi ha emozionato molto. È vero in tanti anni di attività professionale ho ricevuto dei premi, ma questo mi ha riempito di particolare soddisfazione, perché proviene da quella terra, dal mio mondo, dal paese di mio padre, perché, per citare Pavese, esso è il luogo della vita, dove tutti ci si conosce, e vi sono le radici. Presidente del Circolo della stampa di Cosenza, associazione “Maria Rosaria Sessa” dedicata a una donna vittima di violenza. Che cosa ne pensa di questo fenomeno che vede un vero e proprio Olocausto della donna negli ultimi anni? Non si comprende il motivo perché la donna negli ultimi tempi debba essere sottoposta a violenza, ed è cosa assolutamente da respingere e da non condividere. Occorre un impegno particolare della classe politica e della società in genere, la stessa donna deve porsi in maniera diversa, ma le istituzioni non possono non preoccuparsi di questo fenomeno, che riguarda, non solo la Calabria, ma l’Italia. Il paese deve porsi in maniera diversa per trovare rimedio nei limiti del possibile. Sono tante le donne oggi che si avvicinano alla professione di giornalista. La trova d’accordo l’affermazione, che questo avviene perché è un lavoro poco tutelato dal punto di vista economico ed è precario? Le donne si avvicinano a questa professione non perché sia un lavoro mal retribuito e precario. Le donne si avvicinano alla professione giornalistica, perché è una delle professioni che premia, che dona modo di contribuire alla crescita civile e sociale del territorio. La Calabria ha necessità di donne impegnate nelle arti e nei mestieri e anche nella carriera giornalistica. Anche se rispetto al passato è più difficile, oggi, accedere al giornalismo, anche nella possibilità di muovere i primi passi e non solo di fare carriera. Di recente presso la Confindustria di Cosenza, l’incontro aperto ai giornalisti con i vertici nazionali dell’Ordine per fare il punto sul precariato della condizione giornalistica, proprio nella giornata dell’8 marzo scorso. Come ne è uscita la Calabria? Abbiamo sperimentato con il Presidente Nazionale Iacopino, i membri del Circolo della Stampa, e le redazioni della Città che la Calabria ne esce male. Primo, perché si legge pochissimo, da ciò, in secon-
«Una volta istituita la Giornata della memoria ho pensato che volevo far sapere alla gente cosa ha patito e come ha vissuto un giovane ventenne italiano»
Gregorio Corigliano con la giornalista Giulia Fresca nell’ultima presentazione rendese del suo libro
do, il fatto che i giornalisti sono pagati poco e non si fanno nuove assunzioni. L’invito è quello di leggere i mezzi d’ informazione. Ha senso, quindi, oggi, avere un albo dei giornalisti e dei pubblicisti? Certo, perché, esiste un organismo a tutela della professione giornalistica e dei giornalisti stessi, ma forse andrebbe riveduto e corretto, adeguato ai tempi, poiché sono passati più di cinquant’anni dall’istituzione dell’Ordine. Qual è, a suo parere, il profilo del vero giornalista? Un vero giornalista non guarda mai l’orologio. È quello che mette anche dei limiti al suo direttore o diretto superiore. È chi si da, alla sua professione totalmente, non solo nel tempo libero. La cultura è spesso sottovalutata in ambito giornalistico eppure è un aspetto che riguarda tutti e fin dagli anni della scuola? Purtroppo non è sottovalutata solo nel giornalismo, ma un poco ovunque. Si deve investire in innovazione. La scuola deve essere un momento per convincere, che la sfida al futuro del Paese, si può vincere, soltanto, sul piano culturale. Un giornalista, che conosce, fa meglio il proprio mestiere, perché deve avere una cultura dei vari ambiti, come economia e diritto. L’esame di giornalismo serve a valutare proprio questa conoscenza, anche se rimango convinto che si misura sul campo la professionalità ed è sulla base della lettura del pezzo che si comprende subito se la persona ha studiato oppure poco. Che cosa manca, oggi, all’informazione televisiva e in particolare al Tg3 regione? L’informazione televisiva e del servizio pubblico, deve essere sempre più dotata di uomini e mezzi, perché è ciò che contraddistingue il servizio pubblico dall’informazione privata e garantisce un lavoro ottimale, con il quale i giornalisti meglio possono svolgere la professione, che deve tuttavia, tenere conto delle varie istanze della società, dare voce a chi voce non ha e le varie posizioni debbono essere portate fuori a conoscenza della platea televisiva. Sulle elezioni di Papa Francesco... Penso tutto il bene possibile di questo Papa e con tutto il rispetto a Benedetto XVI, teologo puro, Papa Francesco sembra un giornalista di strada, che poi è quello che fa meglio il mestiere. Il giornalista che non deve stare seduto difronte al computer o dietro, un tempo, la macchina per scrivere. Questo Papa, viene dal contatto con la gente povera del suo mondo. Il fatto che abbia posto in evidenza il problema della tenerezza e dell’umiltà e lo stare accanto ai deboli me lo fa crescere dentro, ammirare e semplificare, perché era anche atteso in questi anni di difficoltà, che vive la Chiesa.
XII
sabato 30 marzo 2013
Le sfumature del “rosa” È stata inaugurata ad Acri la mostra itinerante “Seidonnepersei”
Sentimenti a “pennello”
Musical di Pasqua a Simeri Crichi
Un messaggio di fede ne di Alessandro Cofo
In una società portate allo sfascio dal governo degli uomini e nella comunione delle donne la speranza del futuro? È questo l’interrogativo che si pone Giuseppe Salerno, organizzatore della Mostra itinerante “seidonnepersei” arrivata ad Acri sabato 23 marzo e che resterà aperta al pubblico fino al 7 aprile 2013. Presentata nella splendida cornice di palazzo Falcone, la mostra vuole offrire uno spunto di riflessione sul mondo declinato al femminile. Sei donne, sei artiste per altrettante tele su cui infondono con giochi di colori e di immagini una visione intima e personale della vita. Elena Finestauri, Luigia Granata, Lughia, Mirna Manni, Anna Massinissa e Lucia Paese sono le artiste protagoniste di questa iniziativa. «Acri, città aperta al dialogo - dice Vigliaturo assessore alla Cultura del Comune presilano - pone da sempre un’attenzione particolare all’arte e alla cultura, accogliendo con particolare interesse questo progetto». Sei donne si interrogano sul loro ruolo nella società e attraverso l’espressione artistica cercano di esplorare e recuperare le potenzialità racchiuse nell’universo femminile: dalla donna madre, alla donna manager, la femminilità viene fuori con colori accesi come nelle Radici di Lucia Paese o nelle parole della Poesia di Prevet che accompagnano l’istallazione di Luigia Granata. «Ogni artista ha portato in mostra il proprio mondo interiore - dice Salerno - ed ognuna di loro rappresenta la tessera di un mosaico che vuole ridisegnare un futuro migliore per le donne. Non bisogna definire l’arte come un mercato perché l’arte è conoscenza, è una visione di ciò che ci circonda! E questa mostra ne è un esempio». La giornata di apertura ha visto coinvolta, oltre alle sei artiste, anche l’amministrazione comunale che ha fortemente voluto l’esposizione. «Questa mostra - dice il sindaco Maiorano - partendo dalla città di Acri toccherà importanti location del territorio nazionale e regalerà emozioni fornendo spunti di un forte dibattito artistico e culturale». A curare la sezione di Acri, l’artista Lucia Paese, da sempre legata al territorio d’origine e che in questa occasione ha dato “dignità artistica” alle radici delle terre silane. «In questa rappresentazione - dice Paese - ho messo la terra in croce perché troppe volte è vittima della furia e dall’ira dell’uomo, che la maltratta, che le dà fuoco e ne distrugge la vita. L’abuso che spesso si fa della terra lascia scoperte delle radici che rappresentano la voglia di rinascere di combattere così come solo le donne riescono a fare». Seidonnepersei è un viaggio, che ha unito e ha messo a confronto esperienze di vita diverse ma accomunate dall’amore per l’arte come espressione dei sentimenti.
Presentata nella splendida cornice di Palazzo Falcone la mostra vuole offrire uno spunto di riflessione sul mondo declinato al femminile Sei donne, sei artiste per altrettante tele
Sabato 23 marzo nella splendida cornice dei ruderi della chiesa “Collegiata” di Simeri, comune di Simeri Crichi alle ore 20,30, i bambini, i giovani, i membri del consiglio pastorale parrocchiale, i catechisti, gli aderenti al Movimento apostolico, famiglie interi e semplici fedeli della parrocchia Santa Maria Assunta metteranno in scena il musical di Pasqua, “Ai piedi della croce”. Uno spettacolo coinvolgente che vuole dare un messaggio concreto ad ogni uomo a partire dall’evento della croce di Cristo. “Ai piedi della croce” avviene il miracolo più grande, l’incontro con Cristo Redentore dell’umanità. Ai piedi della croce tutto può avvenire se con fede e umiltà l’uomo si accosta a Gesù. Dall’ansia alla speranza, dalla tristezza alla gioia, dal pianto al sorriso. L’uomo peccatore ritorna a sperare e vivere e quando sceglie di convertirsi diventa il più grande missionario del vangelo perché, per primo, sulla sua persona ha sperimentato la misericordia e l’amore del Signore. Questo è il messaggio che gli oltre cento protagonisti del musical, guidati dal parroco don Francesco Cristofaro, il quale ne ha anche scritto il testo dell’opera, vogliono dire con semplicità e convinzione: «Caro amico, ricorda… tutto può la Grazia di Dio… mettiti anche tu ai piedi della croce, prega e apri il tuo cuore alla speranza e alla fede».
sabato 30 marzo 2013
Affrontare le discriminazioni parlando...
La parità passa anche dalla lingua Incontro organizzato dal comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Cosenza presieduto da Rosa Masi nelli di Federica Monta
“Lingua di genere e linguaggio giuridico, una simbiosi possibile” è quanto afferma, già dall’omonimo titolo, l’incontro organizzato dal comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Cosenza, presieduto da Rosa Masi, che si è svolto la settimana passata presso la biblioteca dell’Ordine “M. Arnoni”. Un dibattito, condotto da sole donne, che ha illustrato quanto importante sia l’uso della lingua nell’affermazione di una categoria sociale e delle donne stesse. Attraverso esempi, slide e aneddoti, membri del mondo giuridico e universitario hanno spiegato ai presenti perché è necessario prestare attenzione all’uso della terminologia tanto nella vita privata quanto in quella lavorativa, e come sia indispensabile agire al suo stesso interno per modificarla, spingendola verso il riconoscimento della parità di genere; i mutamenti della lingua e del costume, infatti, camminano su circuiti paralleli. L’incontro, promosso da Masi e dall’avvocata Ilaria Summa, membro del Cpo e del direttivo della Camera minorile, si è aperto con l’intervento della stessa presidentessa che, citando Calamandrei, ha affermato che «la scuola, a lungo andare, è la più importante delle istituzioni, perché al suo interno si formano i cittadini del domani, depositari del cambiamento e di una società più civile. La scuola, che forma ed educa, è la prima a doversi fare carico della distinzione del genere femminile da quello maschile, perché da questa differenziazione si arriva al pieno riconoscimento della parità del diritto. La nostra idea, come Cpo, è nata da un’intuizione del Parlamento europeo, che già ha legiferato riguardo l’importanza di distinguere il genere maschile/femminile». A seguire, ha preso la parola Ilaria Summa, la quale ha sottolineato quanto «nel linguaggio si annida il pregiudizio» e come «l’uso errato del linguaggio amplifica l’errore. Usare una certa terminologia è fondamentale, - quindi - perché la violenza di genere è all’ordine del giorno e va combattuta in tutte le sue forme. Sono felice - ha proseguito - che l’incontro di oggi cada in corrispondenza con la Giornata mondiale contro le discriminazioni, perché, come comitato, abbiamo il dovere anche noi di sensibilizzare, di fare riflettere. E vogliamo farlo anche riferendoci specificatamente alla lingua perché essa è l’agente che da forma al nostro pensiero e al nostro rapportarci col mondo. Per questo è indispensabile affrontare la discriminazione di genere proprio a partire dal nostro modo di parlare». Proprio sulla lingua, e sul linguaggio, poggia l’intervento di Stefania Cavagnoli, professoressa associata di Linguistica e Glottologia all’Università di Roma2. «Ci si potrebbe domandare se questo del-
Un dibattito condotto da sole donne che ha illustrato quanto importante sia l’uso della lingua nella affermazione di una categoria sociale e delle donne stesse, attraverso esempi e aneddoti
la lingua di genere non sia un problema di poco conto in questo momento; - ha esordito la docente - la risposta è no, perché gli errori più grandi sono conseguenze dell’uso della lingua, che crea la realtà. La lingua italiana - ha osservato - evoca in continuazione immagini maschili, anche perché non ha un genere neutro a differenza di altre lingue». Cavagnoli ha proseguito il suo intervento anche con l’ausilio di alcuni power point che hanno inquadrato alcuni degli orrori di genere cui porta la lingua italiana, troppo spesso vittima del genere maschile inclusivo, a partire dalla Costituzione. Se l’appellativo dottore si usa quasi indistintamente nel rapporto professionale tra uomini, alle donne - nota Cavagnoli - ci si riferisce genericamente con il termine Signora. Ci sono poi differenze di genere ancora più profonde se legate al significato, basti pensare ai termini “buon uomo” e “buona donna”.
Nelle foto, dall’alto: Di Nicola, Cavagnoli, Masi e Summa; la professoressa Stefania Cavagnoli; le avvocate Summa e Masi
A seguire, collegandosi direttamente alla sfera del linguaggio giuridico, è intervenuta Paola Di Nicola, giudice del Tribunale penale di Roma e autrice del volume La giudice, all’interno del quale è ampiamente trattato e documentato l’errore di genere anche nel linguaggio giuridico, e dove si testimonia in prima persona quanto difficile sia per una donna fare carriera. «Mi domando perché per una donna è necessario assumere caratteri maschili per svolgere le mansioni più “alte,” - è stato l’interrogativo della giudice - è ora di dire basta».
XIII
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sabato 30 marzo 2013
C’è Pasqua e Pasqua
Vellamja, il rito perduto arberesh I paesi albanesi della Calabria hanno quasi tutti dei riti per festeggiare che presentano degli elementi peculiari di Oreste Parise
I numerosi paesi albanesi della Calabria hanno quasi tutti dei riti per festeggiare la Pasqua che in qualche modo presentano degli elementi peculiari, in particolare quelli appartenenti all’Eparchia di Lungro che conservano il rito greco-bizantino. La Settimana santa costituisce il periodo più importante dell’anno liturgico bizantino, tanto che viene chiamata “Java e Madhe”, la “Settimana grande” e le manifestazioni religiose raggiungono il loro apice con numerosi riti che si rincorrono per tutta la settimana ed anche oltre. Nei paesi albanesi del Pollino, ad esempio, ancora oggi dopo la resurrezione si festeggia con la vallja, un ballo in costume tradizionale che viene eseguito per tutte le vie dei paesi. La Pasqua degli italo-albanesi, nei borghi del Parco nazionale del Pollino, vive, tra l’altro, uno dei momenti più esaltanti il martedì dopo Pasqua. A Frascineto si ripercorre, con canti, balli e, quest’anno, anche una drammatizzazione teatrale, la storia del condottiero e patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405 -1468), l’eroe che resistette per 25 anni ai tentativi di conquista dell’Impero turco ottomano, e della diaspora albanese, avvenuta tra il XV e il XVIII secolo in seguito alla morte dell’eroe nazionale e alla conquista dell’Albania da parte dei turchi ottomani. Vincenzo Dorsa, nel 1847, scriveva che «secondo la tradizione queste feste sono la ricordanza di una vittoria ottenuta da Scanderbek sul Musulmano nel giorno di Pasqua e della celebrazione del trionfo per tre giorni succecutivi. ... Il costume de’tre giorni si conserva solamente ne’ tre paesi di Frascineto, Civita e Porcile (ora Eianina) in Calabria, e tali sono gli apparati e le scene che danno la immagine più viva e pittoresca dell’età eroica della nazione». Il Dorsa descrive molto vivacemente questa esplosione di gioia. «La parte principale delle feste la rappresentano compagnie di giovani vestiti alla maniera d’oriente, con turbanti turchi, pennacchi, bandiere e spade sfoderate in alto, i quali si avanzano schierati in ordine e guidati dalla voce de’ vecchi, e a doppio coro e a canto alternativo e modulato secondo l’impeto de’ passi guerrieri intuonano i canti che ricordano le imprese di Scanderbek. Queste compagnie nel linguaggio patrio vengono contraddistinte col nome di Piesit o Piecksit (vecchi), e le popolazioni vicine che a folla concorrono a deliziarsi al brillante spettacolo le appellano vecchiarelli, volendo indicare che esse ricordano ormai gli antichi avi commilitoni del gran guerriero di Croia. Le donne dall’altra parte abbigliate delle vesti più splendide e col capo coperto si uniscono in vale e intonano egualmente i canti guerrieri della nazione e piene d’insolito brio che sfavilla ne’ maschi loro volti van danzando e percorrendo le vie del paese. A queste parti essenziali della festa soglionsi aggiungere delle maschere, le quali variano secondo le circostanze e sono come fatti accidentali che non contribuiscono se non a variare ed accrescere gli spettacoli dei rumori. E tanto van oltre ne’ fomiti d’entusiasmo che le compagnie sì dei giovani che delle donne di un paese vanno a scambiarsi e confondersi con quelle dell’altro vicino, e allora in questa varia confusione e nel numero accresciuto della gente la festa prende più risaltante e pittorico». Tra i suggestivi riti della Pasqua lo stesso Dorsa ricorda la vlamia. Cosa sia questa usanza è ben spiegato da Francesco Tajani nelle sue Istorie albanesi del 1886. «La Vlamia fratellanza, da Vli scelta del fratello, a cui più volte abbiamo fatto allusione, consiste nel togliere fra gli amici un fratello di adozione, impegnandosi scambievolmente di prestarsi aiuto in
Sul Pollino ad esempio ancora oggi dopo la Resurrezione si festeggia con la vallja, un ballo in costume tradizionale che viene eseguito per le vie di tutti i centri
Skanderbeg
ogni occasione, sia pure a costo della propria vita. Le donne scelgono una sorella, dapprima anche un giovanotto poteva adottare una fanciulla. I fratelli di adozione si chiamano Probatim per dirsi difensori, garante l’uno dell’altro; il padre adottivo Pootschin, la madre Pomayka». Il rito della fratellanza è molto antico e ne viene attestato l’uso già presso gli egiziani, con la formula dell’aiuto reciproco, e in seguito presso arabi, persiani, armeni, ebrei, e i popoli slavi. Di particolare interesse è che la vlamia - fratellanza adottiva, presso gli albanesi è sempre associata alla móterma - la sorellanza, perché anch’esse hanno la facoltà di scegliersi una compagna da legare con un vincolo familiare. Nella sua Storia della rigenerazione della Grecia dal 1740 al 1824, François Pouqueville, che era stato Console generale di Francia presso Ali pascià di Giannina, dedica molte pagine agli albanesi. Per quanto riguarda la condizione delle donne così si esprime. «Le femmine che danno la vita a questi nomini feroci partecipano del vigore della loro organizzazione. Non vivono già nella mollezza degli harem, e lungi dal commercio della vita; travagliano, bagnano la terra coi loro sudori, ed entrano sovente a parte dei pericoli de’ loro sposi o figliuoli; e sanno sagrificare se stesse, ed esortare gli uomini a perire per la comune difesa. Sono gli Albanesi delle montagne pieni d’entusiasmo per la loro patria e mai non ne parlano che innalzandola al di sopra d’ogni altro paese; e sebbene talvolta si stabiliscono in più fortunate regioni, mai non levano lo sguardo dalle montagne dell’Epiro». Tuttavia, uomini e donne per l’occorrenza festeggiavano separatamente in due distinti convivi. Secondo il Tajani il rito richiama esplicitamente l’adelphopoiesis (dal greco αδελφοποιεσισ, ‘affratellamento’, ‘assorellamento’ tradotto in latino come “adoptio in fratem”) utilizzato dalla Chiesa ortodossa quale forma di “fratellanza spirituale” in sostituzione della “fratellanza di sangue”, un rito considerato molto cruento. Secondo quanto scrive lo stesso Tajani, «In ebraico l’appellativo di fratello comprende la parentela e la consanguineità; e pare così intendevano anche gli albanesi, dappoichè quando i probatim si prestano il giuramento innanzi al capo spirituale, mesciono una stilla del loro sangue in un bicchiere di vino poi lo tracannano, scambionsi le armi per difendersi a vicenda, la quale formola risponde a quello del giuramento scitico nobile e fiero in se stesso. Fra gli Sciti la cerimonia consisteva nel farsi una incisione in qualche parte del corpo, e nel lasciar colare il sangue in un vaso pieno di vino; indi v’immergevano la punta della scimitarra e ne bevevano un sorso, dopo di che pronunciavano il giuramento e chiamavano in testimonio tutti gli spettatori della solenne loro promessa». L’istituto era anche utilizzato per disporre liberamente del patrimonio tanto che il codice giustiniano proibisce la pratica del “fratem sibi per adoptionem facere”, avente il fine di costituirlo erede dei propri beni.
sabato 30 marzo 2013
C’è Pasqua e Pasqua
Il rito bizantino, tratto da un Eucologio sinaitico dell’XI-XII secolo, ed è rivolto ad unire in forma liturgica delle coppie dello stesso sesso, tanto che John Boswell ipotizza che l’adelphopoiesis è qualcosa di simile a un “matrimonio omosessuale” per legittimare le unioni che si creavano nelle comunità. Una interpretazione fortemente contestata in favore dell’ipotesi che si tratti piuttosto di un un vincolo d’amore spirituale. Non lo si deve confondere con una sorta di attuale, anche se ha delle forti analogie. La peculiarità di questo rito è da tempo conosciuta presso il mondo degli studiosi e se ne hanno altre versioni presenti in altri manoscritti. È certo che presso gli albanesi esso era un istituto importante per la coesione sociale di un gruppo etnico che nel corso dei millenni aveva dovuto adattarsi a migrazioni, spostamenti e continue guerre per difendere la propria identità. Scrive il Tajani: «Nei rivolgimenti della loro fortuna, allorchè i massacri delle guerre, e le perdite subite nelle dispersioni avevano smembrate le famiglie, allora gli albanesi giunti dalla Grecia ricorsero alla fratellanza per acquistare dei parenti con altri vincoli di sangue, né quei nuovi legami fra i cristiani furon mai rotti o traditi; in Italia li osservarono di fatti senza alcuna formalità. La fratellanza mentre leniva la esasperazione degli animi, ispirava forze ed ardore nelle guerre; esponendosi ai pericoli sicuro di essere ciascuno affiancato dal fratello di armi e di adozione, diventava, se non lo era, emule e coraggioso, pugnava talvolta col duplice impulso e di abbattere il nemico di fronte, e di vendicare il fratello estinto sul campo. Le prove di energia, i prodigî di valore fatti dai seguaci di Scanderbeg, dai Botzari, e da tanti strenui combattenti non traevano meno dallo spirito della fratellanza nazionale, le voci di fratello mio, quella di sangue mio, agivano come balestre; furon desse, che li spinsero non poco in tante audaci fazioni rimaste indelebili nella storia». «These people live in a state of ‘ gyak ‘ (blood) or ‘ bessa ‘ (peace)», afferma Adolf Berger e il legame di sangue assume un importanza decisiva per la sopravvivenza, tanto che ancora oggi gli appartenenti all’etnia si riconoscono nell’espressione «gjaku ynë i shprishur» (il nostro sangue sparso). Secondo quanto riferisce il Tajani, il rito era molto semplice. «Con un banchetto parimenti si celebra la vlamia altro rito eroico che tende a cessar le discordie e unire gli animi de’ cittadini. In forza di tale rito i giovani e le giovani dopo l’intrattenimento fratellevole e festivo di una intera giornata, nell’ora vespertina si recano danzando e cantando nella Chiesa, dove raccolti in atto devoto e sommesso a pie’ di un altare preganti Iddio che benedica e serbi perpetua la loro unione, si sollevano poscia dal suolo e poggiate le loro destre sopra l’altare, giurano di rimaner concordi come fratelli e le giovani come sorelle. E per fermo, fratello (vlaa), sorella (motyχ) si appellano tra loro». Vincenzo Dorsa lo descrive in forma molto simile: «Con un banchetto parimenti si celebra la vlamia altro rito eroico che tende a cessar le discordie e unire gli animi de’ cittadini. In forza di tale rito i giovani e le giovani dopo l’intrattenimento fratellevole e festivo di una intera giornata, nell’ora vespertina si recano danzando e cantando nella Chiesa, dove raccolti in atto devoto e sommesso a pie’ di un altare preganti Iddio che benedica e serbi perpetua la loro unione, si sollevano poscia dal suolo e poggiate le loro destre sopra l’altare, giurano di rimaner concordi come fratelli e le giovani come sorelle. E per fermo, fratello (vlaa), sorella (motyχ) si appellano tra loro».
Il papas Antonio Bellusci testimonia che fino agli Anni ottanta del secolo scorso «Le cerimonie pasquali della vellamja e della moterma si celebrano nella parrocchia di rito bizantino di Cosenza. Sono riti molto antichi e sempre più rari, che si compiono il lunedì ed il martedì di Pasqua. Le persone, che vogliono contrarre un legame di parentela (fratellanza o sorellanza), fanno, alla presenza del sacerdote, un giuramento sul Vangelo e bevono nello stesso bicchiere. Il vincolo spirituale, che si crea n tal modo, è così forte che tra i contraenti diventa impossibile il matrimonio». «La mia vita è la tua vita, la mia anima è la tua anima (jeta ime është jeta jote, shpirti im është shpirti yt) è la formula, riportata da Pouqueville, con la quale per l’affratellamento dei 600 albanesi che si preparavano ad assediare Missolungi».
A Frascineto si ripercorre con canti, balli e, quest’anno, anche con una drammatizzazione teatrale, la storia del condottiero e patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg
La vellamja è scomparsa nelle comunità albanesi in Italia; essa viene tuttora praticata in America laddove vi sono comunità arberesh, in forma laicizzata avendo perso qualsiasi connotato religioso. Ad esempio a Cedarhurst, una cittadina vicino New York dove vi sono due associazioni (Vellamja Club), i cui associati sono legati dal vincolo della vellamja, che hanno eletto il sindaco Andrew Parise. Scriveva Frank Parise, presidente di uno delle due associazioni, qualche giorno fa. «Oggi è la Domenica delle Palme e ci stiamo preparando per il nostro incontro della vellamja. Ci incontriamo e prepariamo la cena per la prima Domenica dopo Pasqua. Nella riunione proponiamo i nuovi membri da associare, che debbono essere Arbresh. L’ammissione avviene all’unanimità con il sistema di votazione a palline nere: ne basta una per respingerla. Il rito è stato portato qui da Cerzeto e ci teniamo molto a conservarlo poiché dà alla nostra comunità un forte elemento identitario».
Bibliografia 1 Adolf Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, The Lawbook Exchange, Ltd, Clark, New Jersey 2004 2 Antonio Bellusci, Le cerimonie pasquali della fratellanza (vellamja) e della sorellanza (moterma) (Lidhja anno I, 1980) 3 John Boswell, Same-Sex Unions in Premodern Europe, Villard Publication, 1994. 4 Remo Bussotti, Pasque albanesi, Calabria Settentrionale, Corona cinematografica, 1962 5 Vincenzo Dorsa, Su gli albanesi, ricerche e pensieri, Napoli, 1847Francesco Tajani, Le istorie albanesi, Salerno, 1886 6 Mary Edith Durham, The burden of the Balkans, London 1905 7 Francesco Faeta, Antonello Ricci, La Settimana Santa in Calabria, studi e materiali, Squilibri 2007 Vincenzo Giura, Note sugli albanesi d’Italia nel Mezzogiorno, 8 Rajko Nahtigal, Euchologium Sinaiticum, Starocerkvenoslovanski Glagolski Spomenik, Slovenska Akademija Znanosti in Umetnosti v Ljubljani. Filosofsko-Filolosko-Historicni Razred, 1 (Ljubljana, 1941, 9b-11b), 2 (Ljubljana, 1942, 20-26). 9 François Pouqueville, Storia della rigenerazione della Grecia dal 1740 al 1824, traduzione di Stefano Picozzi, tomo I, Roma 1825 10 Francesco Tajani, Le istorie albanesi, Salerno 1886 (Ristampa anastatica Editrice Casa del Libro, Cosenza 1969).
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sabato 30 marzo 2013
Dimmi di che rito sei Sacro e paganesimo nella tradizione calabrese
La Pasqua dei vicoletti lo di Francesco Ciril
Riti pagani, folcloristici, magici e profani, durante la settimana santa, resistono ancora nella nostra terra. L’antropologo Ernesto De Martino ne ha fatto motivi di studio per una vita intera. La Chiesa cattolica se ne è impossessata nei secoli passati, per mantenere potere sulle popolazioni, senza rompere con le loro secolari tradizioni, inglobando ogni genere di rito, da quelli greci a quelli bizantini. Simbolo di tutto questo lo è senz’altro il rito della Domenica delle Palme che si svolge a Bova. Durante la processione domenicale, in questo stupendo paesino dell’Aspromonte, abbarbicato su una montagna, è uso portare a spalla delle grandi figure femminili costruite con foglie di ulivo intrecciate, dalle quali fuoriescono fiori freschi, primizie,frutta fresca, tutto avvolto in nastri colorati. Queste figure, vere e proprie statue vegetali sono conosciute sotto vari nomi. Nomi di origine greca-calabra come “papazze”, che significa bambole, o “persefoni” in riferimento alla dea greca che aveva il suo tempio a Locri, e che si trova oggi nel Museo di Berlino,e che insieme alla dea Demetra proteggeva il lavoro agricolo. Una volta costruite, le statue vengono portate in processione, in un lungo e colorato corteo dalla chiesa di San Leo, dove vengono benedette fino alla chiesa di Santa Caterina. Alla fine della processione le statue vengono portate in piazza e lì avviene lo smembramento delle stesse, da parte della popolazione che così ne porta un pezzo in ogni casa a mò di protezione dai malaguri e dai malanni. I contadini mettono pezzi delle statue su un albero del loro podere, i cittadini all’ingresso delle loro case o nelle camere da letto a protezione mentre si dorme. Le più anziane donne bovesi terminano il rito della “papazze” ponendo su una brace ardente,tre grani di sale più quattro foglioline disposte a forma di croce. Mentre il fumo delle braci riempie la casa, le donne recitano nella stanza questa preghiera: “A menza a quattru cantuneri nci fu l’Arcangelu Gabrieli, dui occhi ti docchiaru, tri ti sanaru, lu Patri, lu Figghiu, lu Spiritu Santu. Tutti li mali mi vannu a mari e lu beni mi veni ccani. Lu nomu di San Petru e lu nomu di San Pascali, lu mali mi vai a mari lu beni mi veni ccani”.
Riti pagani, folkloristici, magici e profani durante la settimana santa resistono ancora nella nostra terra La Chiesa cattolica se ne è impossessata per non rompere con le loro secolari tradizioni, inglobando ogni genere di rito, da quelli greci a quelli bizantini
Nel resto della Calabria, in processione si portano statue di madonne e di Gesù morti. A Caulonia, la sera del venerdì santo si tiene la ‘Chiamata’, mentre a Bagnara, l’appuntamento è con il rito secolare dell’ ‘Affruntata’. A Mammola la processione del venerdì santo è molto suggestiva e toccante. Durante il pomeriggio tutti i fedeli del paese seguono la processione della Madonna addolorata e del Cristo morto portati dalle confraternite, lungo la strada in salita che porta al monte Calvario, posizionato sulla parte più alta del paese. A Stilo i riti della Pasqua si svolgono in un affascinante scenario del centro storico ed hanno una forte impronta catalana. Un ruolo centrale hanno i ‘fratelli’ (confraternita dell’Immacolata e di San Pietro), che da 400 anni organizzano le sacre rappresentazioni della Passione. La settimana santa stilese è un susseguirsi di cerimonie liturgiche al chiuso delle chiese o all’aperto sui sagrati e di processioni nella suggestiva oscurità della sera e della notte per le piccole vie del centro storico del paese. A Mesoraca, in provincia di Crotone, ricca di suggestione è la processione del Cristo morto che avviene il venerdì santo. A Cassano allo Ionio, il venerdì santo è dedicato alla processione dei misteri che prende il via alle nove di mattina per concludersi alle sette del mattino. Figura centrale dell’Imitatio Christi è la disciplina. Qui il fedele, dovutamente nascosto da un cappuccio, si percuote con flagelli di ferro battuto a cinque lingue. A Diamante la processione è contraddistinta da una lunga corda che rappresenta il lavoro dei pescatori. A questa corda si “legano” coloro,che prima delle statue dell’Addolorata e del Gesù morto, con la testa coperta da una corona di spine, cantano la “passione del Cristo”. Vicino a loro ragazzi e adulti suonano le “tocca tocca”, fatte in legno e dal rumore insopportabile. A Nocera Terinese, il sabato mattina, parte il secolare rito dei “vattienti”, un rito dove persone partecipanti alla processione si battono con pezzi di vetro sulle gambe fino a farle sanguinare. Il rito è tutto interno alla processione ufficiale e si svolge in contemporanea a quella che esce dalla chiesa. Diverso il rito dei vattienti a Verbicaro. Qui il rito si svolge nella notte tarda del giovedì di Pasqua. Un rito che conta più di trecento anni e che è nato come testimonianza di un popolo contadino, legato ai valori della terra e, quindi, alle sofferenze che essa produce. Una terra che ha sempre dato buoni risultati, un ottimo vino principalmente, conosciuto oramai in tutto il mondo, attraverso una cantina sociale ma anche e soprattutto attraverso la grande ospitalità che
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Dimmi di che rito sei pata nelle piazze, nei vicoletti, sulle scalette strette, sulle vecchie logge degli antichi palazzi. Ma prima di iniziare la corsa ecco che cominciano a battersi con tappi di sughero coperti da pezzi di vetro di bottiglie. Gli altri uomini attorno a loro cominciano a buttargli addosso il vino, come disinfettante e come augurio propiziatorio di una nuova buona annata. E il sangue ora esce a fiotti mischiandosi al vino. Ora escono e vanno verso le chiese. Prima la chiesa di San Giuseppe (1897) nella piazza principale del paese, poi al Calvario nella parte più alta e periferica, poi alla Chiesa Madre di Santa Maria del Piano, edificata nel 1464, nel centro storico. E’ un giro di corsa fra la gente che gli butta il vino e chi glielo fa bere, mentre le strade si riempiono di schizzi di sangue. I “vattienti” tentano di entrare nelle chiese; vorrebbero portare il sangue del popolo a Cristo, direttamente, richiamando la sua attenzione sul popolo che soffre. Ma il potere ecclesiastico non ha mai voluto accettare questa manifestazione del popolo ed ha sempre impedito loro l’ingresso nella chiesa. I carabinieri ora sostano sul sagrato. Ora è tutto un gioco, o quasi. Il folklore ha seppellito tutto, e tutto diventa quasi un teatro, dove tutti sanno quello che fa l’altro. E appena i “vattienti” arrivano sul sagrato della Chiesa i carabinieri si fanno avanti; ed ecco i “vattienti” inginocchiarsi al potere clericale e nel frattempo mostrare la propria sofferenza lasciando le loro impronte delle mani intrise del proprio sangue sul sagrato. Un giro che si ripete per tre volte, fra un silenzio incredibile, rotto solo dal canto grecanico che le vecchie ancora cantano quasi urlando nelle chiese. Alla fine dei giri, i “vattienti”, esausti e sporchi di sangue si dirigono al lavatoio. Un luogo dove tutti i poveri del paese, sprovvisti di acqua corrente, si riunivano per lavare le proprie misere cose e parlare dei propri guai. Qui il sangue è lavato dai corpi dei “vattienti”, con l’acqua tutto si purifica e tutto ritorna come prima. Il rito qui finisce. Domani ritorneranno a zappare la vigna. È l’una di notte. È già venerdì santo e la Chiesa, quindi, esce con la propria processione. Una processione classica, della Pasqua cristiana, cattolica e romana, che finirà dopo un lungo giro del paese alle cinque del mattino. Il rito dei “vattienti” resta per la Calabria intera uno dei più antichi riti rimasti ancora intatti. Un’occasione, quindi, per visitare un paese dell’interno dove ancora vive la buona e vecchia Calabria intaccata dalle feroci speculazioni delle coste e dalle trasformazioni culturali che si sono verificate dagli Anni settanta in poi. Ancora, qui, girando per i vicoletti del paese è possibile vedere le chiavi attaccate alle porte delle case e trovare sempre una persona che ti offre un buon bicchiere di vino.
questo popolo offre ai suoi visitatori. E il vino è il simbolo di questo rito. II vino legato alla terra e quindi alla sofferenza e ancora al sangue, al sacrificio di Cristo. E alle ventitré, questi uomini, da quattro a sei, ma una volta si arrivava a punte di trenta persone, s’incontrano in un “catuio”. Una piccola cantinola, luogo dove tutti i verbicaresi mantengono le proprie provviste invernali: le salsicce, i capicolli, le olive sott’olio, i formaggi, il vino. Qui, coperti solo da una magliettina e da uno slip, cominciano a battersi con le palme delle mani sulle proprie cosce. Colpo su colpo, per ore fino a quando le vene delle cosce non saranno bene in superficie e gonfie. Da quel momento sono pronti a uscire fra la folla che li aspetta assie-
Qui a destra la Madonna “corre” nel rito dell’Affruntata a Sant’Onofrio (www.melissandra.it) Sopra, le pupazze di Bova Nelle altre foto, il rito dei vattienti
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Evento che raccoglie tutti Nei paesi calabresi resta viva la tradizione di questa festa, con un tocco sempre di modernità
La Pasqua dei ricordi di Bianca Talia
Nei paesi della Calabria restano vive le tradizioni festive di due ricorrenze decisamente particolari: la Pasqua ed il Natale. Nelle edizioni moderne dei due eventi sono state inserite la recitazione teatrale di “Passione e morte di Gesù Cristo” e il Presepe vivente. Ora siamo alla vigilia della S.Pasqua ed è di questo evento che intendiamo occuparci. Come per tutte le altre questioni religiose, l’evento si caratterizza per due aspetti. Quello squisitamente religioso e quello cosiddetto civile. Sono due tipi di festeggiamenti che entrambi costituiscono la ricorrenza come punto di riferimento popolare che coinvolge sia i paesi della madrepatria, sia gli emigranti che stanno profondamente legati alla tradizione del popolo che, anticamente, faceva di questi eventi una ragione di fondo per la propria vita, per il resto piena di lavoro e di sacrifici, e priva di divertimenti e di celebrazioni umane, sociali e religiose. Fino a diversi anni addietro non c’era grande rilevanza nella differenza tra i due momenti. Col passare degli anni, avendo preso il sopravvento la parte riguardante i divertimenti, il passatempo, la celebrazione dei piaceri umani e sociali ed essendosi persa un pochino la tradizione squisitamente religiosa che tanto sta a cuore ai sacerdoti e al personale di Chiesa, si stava quasi dimenticando la ragione fondamentale delle ricorrenze e stava emergendo il valore civile e sociale degli avvenimenti stessi. È avvenuta una sorta di richiamo alla sensibilità popolare circa l’esigenza di ricordare che il fatto civile fosse da tenere in secondo ordine rispetto a quello religioso. Anche gli stessi manifesti annuncianti le festività, che una volta venivano fatti sinceramente tenendo conto del programma e delle ricchezze di manifestazioni in esso contenute, ora sono diventati sotto il controllo diretto delle forze ecclesiastiche che ritengono necessario ritagliare i veri confini tra programma civile e programma religioso. È sorta una specie di concorrenza tra i due aspetti della ricorrenza. C’è quello squisitamente cattolico, spirituale, mistico fatto di orazioni in chiesa e manifestazioni squisitamente religiose, della processione, delle attività decisamente di contemplazione e di preghiera, come lo definiscono i sacerdoti, e quello delle attività cosiddette civili, fatte di giochi in piazza, manifestazioni sportive, tradizioni decisamente popolari nel senso che attengono ad attività proprie del divertimento, della festa vera e propria che, decisamente, con il momento mistico e religioso ha ben poco a che vedere. Ma la santa Pasqua, a differenza delle festività del santo patrono che si celebra una volta all’anno in tutti i paesi, si presta di meno a tutti agli aspetti della gioiosità civile. Anche i suoni hanno l’aspetto maggiormente da chiesa; lontani dalle attitudini sociali. Ecco, infatti, l’organo che esegue sonorità nel senso della celebrazione sonora dei fatti squisitamente spirituali e religiosi, la vecchia trocca, che percorre le vie del paese scrosciando e creando un clima decisamente lugubre, come si conviene alla fase in cui si piange il Gesù deposto e nel santo sepolcro; gli stessi canti dei cori nelle chiese attinenti al clima drammatico della morte di Gesù di Nazaret. Il fatto assolutamente inspiegabile è il sentire comune di questa ricorrenza dove non c’è distinguo tra ragione e torto ed ognuno si adegua convinto che al di sopra di tutto e di tutti c’è questo avvenimento che riguarda il salvatore del mondo, divenuto poi obiettivo delle furiose attività repressive e mortali di chi pensa al proprio trono, al suo esclusivo potere. In occasione della santa Pasqua tornano gli emigranti dalla propria nuova terra di residenza. Così come a Natale, a Pasqua si ricompone l’unità famigliare, trionfa il paesanismo flagellati dall’emigrazione dovuta al bisogno di pane e di lavoro per la gente. Tutti si ve-
Tornano gli emigranti dalla propria terra di residenza, tutti si vestono a nuovo e si ricompone l’unità familiare
stono di nuovo, incravattati, sfoggiando vestiti nuovi se uomini, vesti appariscenti e magliette ricamate se donne. Tutti poi pieni di gioia dalla domenica in poi, quando si sentono sicuri della resurrezione e della vittoria di Gesù, diventato Cristo in seguito alla resurrezione oramai immortale dote conosciuta dall’essere umano, Come per tutte le altre cose delle antichità non va nascosto che anche per Pasqua si registrano flessioni di indietreggiamento. Prima era molto più sentita ed i paesi pullulavano di manifestazioni ricorrenti. Ora c’è una certa ritrosia al rinnovo delle tradizioni; un po’ in tutti i canti, maggiormente per le festività. Le manifestazioni particolari si svolgono nell’arco quasi di una settimana, detta settimana santa. A parte, ovviamente, della parte preparatoria durante la quale nella chiesa di svolgono le prediche. Nell’ultima predica della settimana propriamente pasquale, in alcuni paesi, il sacerdote, dal pulpito, dopo avere predicato definitivamente il compiersi delle attività proprie dei personaggi che sono il Cristo, la Madonna e San Giovanni, chiama la Madonna dal pulpito e realizza la famosa “chiamata della madonna” perché le consegna il suo figliolo morto deponendolo tra le sue braccia. Al suo invocare “Vieni o Maria, vieni a prenderti il tuo figliolo” entra la statua in velocità, portata in corsa dai suoi specifici portatori, ed accostatasi al pulpito della predica, tra le braccia adeguatamente protese per accogliere il figlio ammazzato, le viene consegnato il corpo del figlio ammazzato e sanguinante. Con questa cerimonia tradizionale, nella chiesa gremita all’inverosimile, hanno inizio le manifestazioni pasquali perché da lì sempre girando nella chiesa fin dietro una navata dove era stato costruito il Santo sepolcro, si forma un corteo di fedeli che intonano i canti della tradizione. “O voi tutti che innanzi passate/ de venite al Calvario vi aspetto, il mio caro Gesù benedetto/ rende l’alma all’eterno fattor” è quello più sentito e caratteristico. Questo avviene sera del giovedì santo, nel mentre la mattina del venerdì, nelle ore mattutine, si parte tutti in processione, verso il monte calvario, dove un sacerdote preposto, predica i significati profondi e tristi dell’avvenimento. La cerimonia dell’andata al Calvario è sentita particolarmente. È il momento in cui la gente maggiormente si immedesima nella tragedia della morte di Gesù e partono pianti con lacrime di notevole gittata. La gente ci crede e vive intensamente queste giornate. Da giovedì sera alla mezzanotte tra sabato e la domenica si venera il cor-
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Evento che raccoglie tutti
Un ritratto della memoria
Il santo bestemmiatore
La Ffruntata a Bovalino Superiore (foto G. Italiano)
no di Giuseppe Italia
po di Gesù flagellalo nel Santo sepolcro. Ma non finisce qui. A mezzanotte tra sabato e domenica, Gesù risorge ed è la Resurrezione. Per questo rinasce la gioia di tutti e nella mattinata della domenica, con Giovanni che informa la incredula Madonna della Resurrezione, per tre viaggi continui, si svolge in tanti paesi la famosa Affruntata. In tanti paesi ancora di svolge il rito dell’Affruntata. Addirittuira la cosa si ripete in diverse piazze delle zone a maggiore emigrazione italiana. Dalle parti di Reggio l’Affruntata è decisamente più solenne e richiama miglia e migliaia di fedeli. All’incontro tra la Madonna e Gesù risorto, tutti applaudono contenti “come una pasqua” come si dice oramai rievocando la gioia per la resurrezione, e si parte, poi, in processione al suono della banda musicale e con i canti dei componenti dell’Azione cattolica in processione solenne e piena di letizia, ma con la “trocca”, simbolo di annunci morte, oramai deposta e la gioia dei fedeli e di tutti i paesani che si esprime tra le via del paese in processione garbata e santa Fin qui, però, non si esprime ancora tutta la gioia della Resurrezione. C’è l’esplosione nel cuore di ognuno, ma la tradizione popolare ha creato un apposito momento che simboleggia e mette in pratica quello che c’è nel cuore della gente tutta. Il lunedì, infatti, è il giorno della Pasquetta. Giornata di scampagnate di comitive d’ogni luogo che con balli, suoni e canti, ma sopratutto con salsiccia, soppressate, formaggi, olive e pane di grano, con protagonista indiscusso il buon vino per tutti, si passa la giornata in cui si esprime fisicamente e chiaramente la gioia della Resurrezione. Il mondo che aveva perso Gesù ora ritrova Cristo risorto a cui si accompagna per tutto il resto della vita. È questa la Pasqua dei credenti ed anche di tanti che credono poco alla religione. La partecipazione popolare a tutti questi avvenimenti è comunque di notevole valore e significato storico per l’umanità intera; è segno che pure per tanti che non ci credono, esiste la fase della ricerca perché si sveli definitivamente il mistero di questa vita dove la morte segna l’invincibile sacrificio di tutti indistintamente. E resta denso di significato il mistero che regna attorno alla questione della vita e della morte che dipenderebbero, ove ci fosse, da un creatore che si chiama, per cattolici e credenti d’ogni sorta, Dio. Per chi non ci crede, tutto come prima. Il mondo è bello anche perchè vario e libero.
La sua parlata era sostanziata dalla bestemmia: sonora, rotonda nella pronuncia, necessaria alla sua poetica del dire. Bestemmiava con calma, anche nei discorsi più pacati. Ma il passaggio dal peccato delle imprecazioni alla normalità dell’eloquio si verificava ogni anno durante la Quaresima, col picco di assoluta astinenza durante la settimana santa. Era quella la sua personalissima Pasqua. Doveva adoperare tutta la sua volontà, giacché era difficile per lui non bestemmiare quando apriva bocca. La catarsi si concludeva alla fine del periodo pasquale. Cantava e suonava l’organo in chiesa, nei funerali: la sua voce era robusta e misteriosa, evocava tempi antichi. E mi viene ancora in mente ogni qualvolta mi trovo a rileggere il racconto di Corrado Alvaro, Vocesana e Primante in Gente in Aspromonte. Scrive Alvaro: «Vocesana e Primante erano nemici. Nel coro della chiesa, Vocesana era il tenore e Primante lo incalzava col controcanto. Le loro voci si levavano al Kirie come colombe che prendono il volo nello stesso istante. Il canto di Vocesana toccava altezze vertiginose e pareva si dovesse spezzare contro le vetrate; la voce di Primante si dibatteva sperduta e bassa». Filippo (questo il nome del personaggio) aveva l’esclusiva di un compito che veniva identificato nella sua persona: quello di svelare la Madonna nella processione della Ffruntata (incontro tra Maria e Gesù risorto) nel giorno di Pasqua. Lo compiva con devota puntualità, per espiare le bestemmie dell’intero anno. Per decenni, domenica di Pasqua, lo si era visto, al solito angolo della chiesa, preparare meticolosamente il velo nero alla madonna di cartapesta leccese: lo appuntava appena, con precisione, mettendo a frutto l’esperienza degli anni precedenti. Doveva essere aggiustato in modo da staccarsi senza alcun ostacolo dal volto della statua, quando, al sopraggiungere del Cristo risorto, Filippo avrebbe tirato la cordicella a portata di mano; il tocco doveva essere rapido e preciso. Era quello l’episodio centrale, il culmine di tutta la Ffruntata. Filippo vi partecipava con tutto il suo essere; ansimava in crescendo, man mano che si avvicinava il momento. E una volta, nel tirare, con gesto ampio della mano, la cordicella legata al lembo del velo, gli uscì di bocca: “Viva Maria, mannaja ‘a...” e bestemmiò sonoramente proprio la Madonna. Lo trovarono morto, in chiesa, al tramonto di un giorno; pendulo il rosario nelle sue mani.
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Il racconto Terza parte
L’abitudine di andare per campi faceva miracoli
La raccolta delle olive: una grande scampagnata di famiglia di Giuseppe Aprile
Ogni anno, negli stessi mesi, ci si ritrovava sempre negli uliveti e tutti eravamo pieni di felicità. Il paese si svuotava perché l’olio era la ricchezza principale per quasi di tutte le famiglie. La quantità di olio di cui disponevano nel corso dell’anno era pure misura classica della condizione di una famiglia che si intendeva come benestante. Nelle case v’era sempre un locale, il catoio, ripostiglio di beni di servizio, luogo dove si conservavano i beni alimentari che duravano per l’intero anno per il fabbisogno della famiglia. Vi si conservano le ulive in giara, le patate che duravano abbondantemente fino a diventare le ultime rimanenze, nella parte finale dell’anno, con tanti virgulti che sembrava potessero crescere senza che venissero piantate nella terra, sacchi di fagioli d’ogni tipo, ceste grandi di ceci, casse di fichi sia bianchi che neri (essiccati al sole o infornate), arance sparse su un piano o coperte dalla paglia perché si conservassero a lungo e nel miglior modo possibile, limoni e piante aromatiche come i mazzi di origano, alloro indurito e tante corone di peperoni oltre che i peperoni sotto olio o sotto aceto. Altre pietanze, che si conservavano quasi con periodicità precisa, erano le melanzane o le zucchine sott’olio o sott’aceto, le grandi zucche (quelle bianche -le baffe- e quelle tendenti al giallo olivastro-le spagnole) che si utilizzavano pure per dar da mangiare ai maiali per ingrassarli di più, ed ogni genere di legumi che costituivano la delizia delle più belle serate d’inverno, quando la famiglia si raccoglieva attorno al focolare e, sotto la pioggia che scrosciava sopra il tetto coperto di tegole, spesso sfiorato da forte e fischiante vento, passava lunghe serate a consumare cibi e raccontare di ogni avvenimento del presente o del passato con protagonisti paesani la cui conoscenza veniva così diffusa anche da un paese all’altro.Le famiglie che avevano abbondanza di queste ricchezze alimentari conservate, erano considerate non proprio ricche, ma sicuramente benestanti, con i loro capi che venivano chiamati con un don prima del nome di battesimo ai quali si riservava rispetto maggiore, quasi fossero più importanti. Si ritenevano fortunati i giovani che sposavano una ragazza di queste famiglie. Si riteneva un buon partito un tale matrimonio. Di fronte ad un mondo di fame, coloro che disponevano di beni provenienti dalla terra, erano ritenuti invidiabili ed anche buoni partiti, appunto, per fortunati matrimoni. in presenza, al loro interno, di ragazze da in età di fidanzamento. Poi c’erano i ricchi veri e propri che disponevano di immensi fondi di uliveto e di agrumeto, campagne con cicli di attività contadina da arricchire e fornire di ogni bene per l’immediato presente e per i mesi invernali quando la terra si poteva frequentare più raramente, quando le giornate venivano risparmiate dalle piogge torrenziali che solitamente cadevano durante l’inverno, tempo in cui e le famiglie restavano riparate nelle mura domestiche. Ma le giornate più interessanti e belle erano quando il tempo non impediva di andare in campagna. Sulla terra si compiva il meglio della vita. Il paese con la sua piazza, i suoi bar, le sue botteghe di vino ed i bar, era ritenuto per gli scansafatiche che solitamente producevano solamente noia e passatempi. Nel paese la giornata non passava mai. In campagna, invece, dove si produceva, si lavorava, si accudivano gli animali, il tempo invece non bastava mai. «Arrivava la sera e sembrava che la giornata cominciava quando invece finiva» diceva Peppe del mulino. E aggiungeva «È tanto il lavoro da fare che vorresti il perdurare delle ore senza mai fine». Effettivamente, quando si ha da fare, ci si impegna per fare cose utili, il tempo passa troppo felicemente e, quando te ne accorgi, vedi che avresti ancora bisogno che non arrivasse la sera, tardassero al massimo le ombre calanti per finire con il buio tra gli alberi e le soprastanti colline.
Nonno Micantoni non aveva mai conosciuto l’oziare nel paese Per questo aveva fatto sempre profitto, fino a dotare i propri figli di casa e terra aiutando il formarsi di una loro condizione di vivibilità decente
Dal mio uliveto di Sannicola è un piacere particolare osservare la fine del giorno, soprattutto in primavera, quando sei tranquillo, magari affaticato, ma contento del lavoro di giornata e ti prepari per il rientro a casa, togliendoti pantaloni e camicia sporchi e indossando i vestiti che avevi prima di iniziare il lavoro. La sera scende piano e tutto intorno è sereno, spesso con nel cielo voli e cinguettii di uccelli che si preparano per la notte di riposo, e una sorta di serenità in natura si accompagna alla serenità dell’animo pago dell’aver compiuto il proprio dovere di campagnoli e di gente di famiglia. Verso le montagne di Ciminà guardi e ti ristori del paesaggio sotto il calare delle tenebre e con lo sguardo spesso rivolto al meraviglioso cielo azzurro ed osservi tutto intorno, scrutando il letto bianco della vicina fiumara di Portigliola o le colline della contrada Mante e porti lo sguardo più in là, verso i cipressi del camposanto e disperdi poi lo sguardo nell’infinito cielo che diventa sempre più inarrivabile ai tuoi occhi, che non tardano a sentirsi stanchi davvero. Stanchezza e felicità spesso si accompagnano nelle meravigliose serate di campagna. La contentezza supera la stanchezza e ti senti appagato da quanto hai fatto, dal fatto che non hai passato la giornata nelle inutili sedie del bar o sui sedili di piazza Garibaldi dove puoi anche trascorrere alcune ore di riposo, a patto che non ti prenda l’abitudine dello scansafatiche per la vigliaccata del gioco che quasi sempre si trasforma in vizio. «L’ozio è il padre dei vizi» ripeteva sempre mio nonno Micantoni, per rilevare quanto bello fosse lavorare e fare il proprio dovere con pala, zappa e scure mano e mai con le carte, come diceva come monito per noi ragazzini che correvamo sempre il rischio di favorire il non far niente, tranne il gioco, nel mentre incombevano le esigenze di fare qualcosa di utile e di produttivo. Lui, invece,
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Il racconto Vallata della fiumara La Verde foto di Bruno Brancatisano
In verità, non ho mai capito se sotto quella che appariva passione per il lavoro e la campagna, che tutti vedevamo come saggezza dei nostri padri, in realtà non fosse altro che l’abitudine maturata con tradizioni di fatica da intere antiche generazioni. Nella notte dei tempi, ogni generazione cresceva avendo come sola conoscenza la propria famiglie e si imparava trasferendo da generazione in generazione quanto si acquisiva con la esperienza dei genitori. Non capivo, a pensarci adesso, se si trattava di amore vero, di morale autentica oppure di cose fatte per non saperne di altre, fatto educativo e produttivo come scelta rispetto ad altro che poteva non essere importante e perseguibile. Fatto sta, comunque, che con quelle regole si andava avanti per tante generazioni e i distinguo tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, la vita produttiva e quella dei vagabondi, seppure potevano non essere valori assoluti, erano regole di vita rimpianta, che era fortuna saperle seguire. Nel mondo antico non c’era la scuola pubblica, non esisteva quella miriade di insegnanti che ora invece trovi ad ogni angolo di via, pronti a farti scuola, a farti imparare quanto oggi costituisce il mondo della formazione. Una volta l’educazione era un fatto di famiglia; il padre che ti diceva cosa e come fare; la mamma che ti accudiva con infinito amore e, per evitarti ogni possibile forma di male, ti dava consigli, ti parlava d’ogni cosa, favoleggiava alle tue orecchie, con dedizione grande come solo una madre può fare; e gli amici, portatori ognuno della medesima forma di educazione, intesa come abitudini positive, buoni usi e buoni costumi in uso con i propri simili, i vicini, i compagni di lavoro, i compaesani, che con te costituivano la società del luogo, il vivere secondo comuni acquisiti principi. Non c’erano quelle che oggi si conoscono come forme e metodi di educazione. Nelle ataviche tradizioni, le cui origini sono perdute nei tempi, le regole erano sempre le stesse, mai trascurabili. Le abitudini di vita non venivano seguite, ma erano insite nella nostra vita stessa. Non erano parte di nostra appartenenza, ma erano la nostra stessa appartenenza.
nonno Micantoni, non aveva mai conosciuto l’oziare nel paese. Per questo aveva fatto sempre profitto, fino a dotare i propri figli di casa e terra, aiutando il formarsi di una loro condizione di vivibilità decente. Peppino Attisani, uno dei tre macellai del paese, parlava sempre delle caratteristiche della sua vita secondo le imposizioni dei suoi genitori. Riferiva che all’età della scuola elementare, suo padre lo mandava sempre a pascolare due capre e qualche pecora. La cosa gli consentiva di evitare di perdere tempo inutilmente e a crearsi l’abitudine al lavoro. Suo padre gli diceva che, impegnando le ore successive alla scuola appresso agli animali da portare al pascolo, otteneva due risultati fondamentali. Imparava a stare attivo, lontano dai luoghi dei perditempo che vivacchiavano per le strade del paese, classico punto di permanenza per nullafacenti, e ricavava il latte per la famiglia, oltre che la carne perché gli animali venivano ogni tanto ammazzati e sostituiti dagli agnelli, che intanto crescevano rinnovando la piccola mandria. Stando invece in paese, si cresceva senza attitudine al lavoro e senza ricavare alcunché. «Ora i nostri figli» diceva, «non ne vogliono sapere del lavoro. Se vanno a scuola, guai a parlargli di lavoro! Si sentono professionisti, professori, maestri di scuola, persone di cultura e si allontanano dal lavoro che invece darebbe loro vantaggi immensi». Poi, fieramente, continuava: «Non mi vergogno di dirlo. La mia vita da giovane l’ho passata in campagna, sotto gli ulivi, con mio padre che pensava al lavoro più pesante come il potare gli alberi, l’uso degli attrezzi per la cura delle piante e lo zappare la terra, e mia madre che veniva risparmiata dal lavoro pesante e faceva quello più leggero che era il classico raccogliere ulivi, fagioli, cereali, cavoli, piselli, ceci, e appassionandosi a tante faccende che non richiedevano di certo la forza dell’uomo». Perché, a modo loro, anche i nostri predecessori avevano nutrito un rispetto per la donna, moglie o figlie che fossero.
La comitiva manifestava gioia immensa sotto quegli alberi rigogliosi e maestosi mentre le olive cadevano a ritmo veloce
Carmela sapeva tutto ciò. La comitiva manifestava gioia immensa sotto quei meravigliosi e rigogliosi alberi, con quel ben di natura che cadeva sotto i colpi della pertica a motore che consentiva di far cadere le olive con un ritmo davvero veloce. Ma la comitiva riusciva benissimo a raccogliere, seguendo i ritmi imposti dal lavorare collegialmente. Quelli che facevano cadere le olive e quelle che le raccoglievano, riempiendo le ceste e portandole nella zona dove venivano raccolte da Luigi che provvedeva, con qualche aiutino, a portarle con l’auto al paese dove avrebbe provveduto a ripulirle del fogliame rimasto e trasferirle al frantoio dove sarebbero diventate olio. Carmela, Luigi, Giovanni, Peppe, Colomba, Cristina, Bruno, Massimiliano, Maria, Beatrice, Francesco, Alessandro, Giusa, Domenico, Tonino, Franco e Katia, Bianca, Rossella e Tita, la grande leader e magistrale organizzatrice di tutto, si sono ritrovati insieme, nell’ultimo giorno della raccolta delle olive, per una comune cena a base di un abbondante consumo di pasta, di carne di capra, di frittate fatte con gli asparagi di Pennia, procurati da Sandro, il bravissimo fratello di Giovanni e di Gigi, colonna inossidabile di vita agricola , di melanzane appositamente conservate, e peperoni di ogni genere, di grandi piatti di olive conservate da Bruno e Cristina (schiacciate, in salamoglia, o infornate), con pane tenero, appositamente informato, e il meraviglioso e mai sufficientemente lodato vino di Guttà, zona presso la mitica fiumara La verde, per la gioia di tutti, ma particolarmente di Giovanni che, per questi periodi smette di essere quel grande medico e politico del Piemonte a Torino, per tornare un semplice uomo del Sud, di campagna, di abitudini locali. Come gli altri. Peppe che, pure per l’occasione la smette di rompere le scatole con i suoi discorsi sindacali e il sentirsi particolarmente vezzeggiato dall’intera famiglia acquisita da parte di Bianca, sua compagna di vita da oltre mezzo secolo, mantiene il piacere di sedersi sempre accanto a Gianni, Gigi e Bruno, oltre che per ragioni affettive, per il comune godere di un bel bicchiere di vino rosso dei noti vigneti di Guttà. Non si può finire senza menzionare la simpatica, quasi irrinunciabile presenza dell’ingegnere Caridi, attivissimo e intelligente cugino di Bruno, pur’egli interessato al meraviglioso bicchiere di vino, e della sua brava ed educatissima moglie, integrata in questa famiglia dove gode di molta stima e di sincero affetto. Tita e Gigi se la godono, ridendo sotto i baffi, come si dice comunemente, sapendo di essere assolutamente indispensabili per tutto quanto avviene di bello e di buono in questa affettuosa compagnia di famiglia. Peppe finisce alzandosi con un bicchiere in mano, colmo di vino rosso, per dire «È stupendo questo essenziale squarcio di vita! Grazie a tutti e per tutto!».
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sabato 30 marzo 2013
Versi di vita vissuta “Rimannu vi cuntu”, Acri nella poesia dialettale di Angelo Canino
Tradizioni in dialetto
Angelo Canino
Rimannu vi cuntu. Poesie di vita vissuta in vernacolo Acrese è il titolo del libro di poesie di Angelo Canino, un poeta di Acri, nel Cosentino, che ha iniziato a vernacolare fin dagli anni delle scuole superiori, ma più per gioco che per vera idea di raccogliere, un giorno la produzione, come oggi avviene e, farne dei libri con lo scopo di conservare, attraverso i versi, le immagini delle tradizioni popolari del suo territorio, dalla cucina alle fotografie di volti e di luoghi. C’è anche altro in questo testo, tanto posto per la religiosità. Ci colpisce, soprattutto, una poesia dedicata a un frate Francescano, Pietro Arcangelo. Ci colpisce perché attuale ed è la riscoperta di questo ordine, grazie anche alla bella figura di Papa, che si è affacciata dalla loggia di san Pietro, le nuove elezioni di Francesco “Mi ricùardu appena appena, a ttant’anni chi mo vena, avìa d’iu sia o sett’anni mamma mia cchi ttiampi tanni! stèava intrà na cheasicellaa nna rèasa e cavarella...”. «Mi ricordo, ci dice il poeta Canino, che noi bambini giocavamo nei vicoli del paese e lui scendeva dal convento e senza parlare ci lasciava delle caramelle - infatti, la traduzione della poesia fa così: Mi ricordo appena appena/ tanti anni sono passati/ avevo io sei o sette anni/ mamma mia! che tempi allora!/ abitavo in una casetta/ ad un angolo di via/ andare in giro non potevo/ e allora me ne andavo/ a poggiarmi al muro/ del palazzo Falcone/ stavo li per ore e ore/ fino a quando il cielo imbrunisce/ stavo li ad aspettare/ quel monaco della viuzza/ padre Arcangelo si chiamava/ tutti i giorni di lì passava/ e a bambini e bambine/ gli riempiva le tasche di caramelle/ la barba bianca e bassino/ quel povero monaco/quanto bene mi voleva/ quanto bene che faceva/ quando è morto poverino/ io poi ero grandicello/ ma se passavo da quell’angolo del palazzo/ del palazzo Falcone/ un pensiero avevo io/ di quel monaco che non c’è più. - Era molto umile e il Papa Francesco me l’ha riportato alla memoria.
Ha iniziato a vernacolare fin dagli anni delle scuole superiori più per gioco che per l’idea di raccoglierne un giorno la produzione, una raccolta di tradizioni popolari, dalla cucina alle fotografie
Egli era come san Francesco da Paola con la barba bianca, sempre sorridente, metteva la mano in tasca e ci lasciava tutti i giorni queste caramelle, senza dire una parola e senza temporeggiare più del necessario». Il testo, tuttavia, è pieno di poesie religiose dedicate al Santo paolano, alla Madonna, alla Celebrazione eucaristica, ai dieci comandamenti, al Beato Angelo e alla chiesa di santa Chiara. Sono poesie in rima molto divertenti e musicali. Già presentato tre volte, l’ultima presso l’associazione Prometeo di Casole Bruzio, promotore, altro poeta, Giuseppe Salvatore e sarà riproposto in data e luogo da stabilirsi e per questa estate entrante. Tuttavia, ci lascia un augurio Pasquale per una persona, Canino, che si definisce un cattolico normale che va in chiesa appena possibile, ma non manca alle funzioni importanti dell’anno come la Pasqua. Una delle sue poesie è dedicata, infatti, al momento eucaristico e al sacerdote della sua parrocchia don Giampiero Fiore che ritroviamo in questi versi tradotti “Oggi è festa... con l’amata/ e iniziato il cammino/ noi a piedi siamo andati/da marullo, in silenzio, muti/ molto lunga è stata la via/ fino in cima a padia/ ma la siamo arrivati/in chiesa siamo entrati/ in mano il crocefisso/don Giampiero dice messa/è una gioia ascoltarlo/è una gioia parlarci/perché lui ha per ognuno/un conforto, un bacio/una parola se è distolto/una preghiera se è malato...”. La prefazione del testo è stata curata dal professore Davide Colace, che ha espresso parole importanti sull’emergenza di riscoprire la dignità della persona nelle contrade rurali dei paesi e per prendere, così scrive lo stesso Colace, «una pausa dalle preoccupazioni, che rischiano di tramutare ogni persona in inediti analisti delle borse di mezzo mondo». Lucia De Cicco
sabato 30 marzo 2013
XXIII
Pillole di fede C’è una notte bianca nel “cuore” di Cosenza
Un uovo per il Kenia di Lucia De Cicco
Ci sono notti bianche che sono piene di musica e di divertimento e di affari commerciali e c’è una notte bianca nel cuore di Cosenza, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, che è dedicata interamente a Gesù all’adorazione del suo corpo mistico. Dal titolo “Notti bianche per Gesù”, la notte del sabato, di ogni sabato, ormai da un anno, recluta a fare guardia e preghiera all’Eucarestia esposta, davvero tanta gente e, non solo del circondario, ma anche dei paesi limitrofi, come Mendicino, da cui proviene la nostra testimone di Pillole di Fede di questa settimana. Il promotore è un sacerdote, da tanto impegnato per la missione e strettamente legato a un altro grande sacerdote, il primo missionario della diocesi cosentina, don Battista Cimino. Il suo nome è don Antonio Abruzzini e sono tante, le persone, che si chiudono a cerchio attorno a questa parrocchia e attorno a questo sacerdote. Entrando, nella piccola chiesetta, si può notare un via vai di poveri, che ricevono qualche cosa da mangiare e per chi vuole, si offre anche un pane più prezioso, che è quello Eucaristico. Tra queste persone abbiamo incontrato, in particolare una giovane donna, che tra una piega e l’altra, nel suo lavoro di acconciatrice, nella Mendicino della periferia più prossima a Cosenza, appena ha del tempo libero lo dedica a questa parrocchia e alla missione che essa porta avanti. Patrizia Fancellu ogni sabato dalle 22 alle 6 della mattina seguente, smesso il lavoro tra spazzole e bigodini, arriva nella chiesetta di via Capoderose per riposarsi, così lei ci riferisce, le mani, che sono state per tutta la settimana, in modo appagante e creativo, intrecciate nelle chiome delle persone, che entrano nel suo salone di bellezza. Qui in Santi Pietro e Paolo, esse, si giungono in preghiera fino alla mattina, proprio lì, dove lo stare in ginocchio non pesa e nonostante una giornata passata in piedi davanti agli specchi e alle energie di vi siede davanti. «Questa è una bella iniziativa, molto partecipata. In realtà è nata per i giovani, che cercano una scelta alternativa alla corsa e ai divertimenti. Iniziativa che riempie l’animo». Ci racconta che sono tanti i giovani, che come lei hanno voglia di riposarsi, in modo differente dal divertimento a ogni costo, senza giudicare, ma giusto è avere una alternativa alla mondanità. «L’episodio che mi ha portato lì credo che non sia accaduto per caso. Ero nel centro di Cosenza, presso una fontana e con un gruppo di amici discutevamo proprio di don Antonio Abruzzini, di ciò che faceva e del desiderio di incontrarlo, del suo fare caritativo per gli altri. Stranamente mi è venuto davanti in quel momento e ci ha comunicato di queste notti bianche. Io credo che nulla sia per caso e ne ho subito preso la possibilità di potere arricchirmi in questa esperienza».
Nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo la notte di ogni sabato si dedica al volontariato e per Pasqua si preparano delle uova il cui ricavato è finalizzato alle missioni in Africa
Questo momento di adorazione dalle parole di Patrizia Fancellu evoca la pace che deriva dallo stretto contatto con Gesù, questo ascoltarsi reciprocamente nel silenzio. Altro significativo momento è la relazione che questa esperienza attuale della Fancellu ha con il passato. Cresciuta nella missione mendicinese dell’allora parroco, don Battista Cimino, le due strade si incrociano. «Don Battista Cimino è stato il mio accompagnatore nella catechesi da ragazzina, poi crescendo ci si allontana dagli ambienti della Chiesa. Sono certa che tutto non accada casualmente, perché, mi sono ritrovata come anello tra due autentici missionari, uno in Africa, l’altro nel cuore di Cosenza. Sono due uomini che rispecchiano l’attuale chiesa con l’umiltà di Papa Francesco». Don Antonio Abruzzini è responsabile di Stella cometa, associazione che fu voluta proprio dai due sacerdoti con don Battista Cimino. «Ogni anno, ci racconta Patrizia, si preparano delle uova pasquali, il cui ricavato è finalizzato alle missioni in Africa. Quest’anno le uova andranno nel ricavato fra le altre cose anche alla casa di accoglienza dedicata alla beata cosentina, madre Elena Aiello e ciascuno di noi collabora alla diffusione delle stesse». Un invito alla donazione, con un’offerta davvero minima, si contribuisce ad aiutare i popoli in via di sviluppo e anche nel salone di bellezza di Via Pasquali è possibile incontrare la missione di don Battista. «Dai racconti di don Battista Cimino ci si rende conto di come il Cattolicesimo in Africa sia indispensabile, si fanno ore e ore di cammino per andare alla messa e a piedi e noi, a volte ci frammentiamo cercando mille scuse. C’è in particolare un luogo in Kenya, una collina, che si chiama della Divina misericordia, in cui si vive una fede giovane alla presenza di una moltitudine di gente».
Patrizia Fancellu Sopra don Battista Cimino durante una delle sue missioni