1
Farmacologia il succo di pompelmo modifica la cinetica di numerosi farmaci Scompenso cardiaco le potenzialità terapeutiche dei micronutrienti Dermatologia il prurito cutaneo ricorrente nel paziente anziano World cancer day 2013 i falsi miti e le verità sul tumore
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CLINICA
DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico
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Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico
>s Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci
TERAPIA
Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci
>s Domenico D’Amico
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2
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Medico e paziente n. 1
in questo numero
sommario
1
FARMACOLOGIA il succo di pompelmo modifica la cinetica di numerosi farmaci SCOMPENSO CARDIACO le potenzialità terapeutiche dei micronutrienti DERMATOLOGIA il prurito cutaneo ricorrente nel paziente anziano WORLD CANCER DAY 2013 i falsi miti e le verità sul tumore
MP
Immagine tratta da www.who.int. Credit: WHO/HM. Dias
p 6
letti per voi
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Redazione Anastasia Zahova
Lo studio dello scompenso cardiaco sotto l’aspetto metabolico è un campo di ricerca emergente che potrebbe aprire nuove prospettive di terapia per una patologia caratterizzata da un enorme impatto sanitario e sociale
Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino Hanno collaborato a questo numero: Carlo Bertana Ovidio Brignoli Folco Claudi Davide Gatti Giuseppe Mancia Piera Parpaglioni Elisabetta Vantaggiato
p 10 ricerca
scompenso cardiaco Quale ruolo per i micronutrienti in terapia
p 18 terapia
IPERTENSIONE ARTERIOSA Quale ruolo per le associazioni a dosi fisse
L’attenzione è oggi rivolta all’identificazione e all’impiego di combinazioni di farmaci razionali ed efficaci, più che alla ricerca dell’agente “migliore”. La maggioranza dei pazienti richiede due o più principi attivi per controllare la pressione arteriosa
Piera Parpaglioni
25
GESTIONE DEL DOLORE MUSCOLO-SCHELETRICO Quale ruolo per l'etoricoxib in terapia
Gestione del dolore muscolo-scheletrico
Davide Gatti Elisabetta Vantaggiato Unità di Reumatologia, Università di Verona
Quale ruolo per l’etoricoxib in terapia Davide Gatti - Elisabetta Vantaggiato
Medico e Paziente
>>>> 1 .2013
3
Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG)
>>>>>>
sommario
p 34 terapia
IPERTENSIONE ARTERIOSA Il parere degli esperti
LO SPECIALISTA CLINICO Giuseppe Mancia IL Medico di Medicina Generale Ovidio Brignoli
p 37 dermatologia
Prurito cutaneo nell’anziano Cause e consigli di trattamento
Testata volontariamente sottoposta a certificazione di tiratura e diffusione in conformità al Regolamento CSST Certificazione Editoria Specializzata e Tecnica Per il periodo 01/01/2012 - 31/12/2012 Periodicità: mensile (sei uscite) Tiratura media: 40.500 Diffusione Media: 40.400 Certificazione CSST n° 2012-2333 del 27/02/2013 Società di revisione: REFIMI
Medico e paziente aderisce a FARMAMEDIA e può essere oggetto di pianificazione pubblicitaria I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.
p 39 farmaci
xibornolo per il trattamento del mal di gola Un’efficace opzione di terapia locale
p 40 farmaci
Terapia consolidata nel trattamento del diabete di tipo 2 Metformina da sola o in associazione precostituita nella progressione della patologia
Comitato scientifico Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli
p 42
Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia)
p 45 World Cancer Day 2013
Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM
Come abbonarsi a medico e paziente
Medico e paziente
p 46 iniziative
Campagna mondiale STOP TB L’attenzione resta puntata sulle “multi-farmacoresistenze”
p 48 Notizie dal web
Abbonamento annuale sostenitore Medico e paziente € 30,00 Abbonarsi è facile: w basta una telefonata 024390952 w un fax 024390952 w o una e-mail abbonamenti@medicoepaziente.it
1.2013
Farminforma
Le quattro “verità” sulla malattia tumore
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Numeri arretrati € 10,00
4
La secchezza cutanea è una delle cause principali di prurito ricorrente in età avanzata, specie negli “over 65”. Abbiamo chiesto al dottor Carlo Bertana, specialista dermatologo e presidente della SIDEC (Società italiana di dermatologia estetica e correttiva) di inquadrare la problematica e di indicare alcuni consigli di trattamento
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letti per voi Farmacologia
Interazione tra farmaci e succo di pompelmo: un articolo riassume i risultati degli studi, elencando molecole e rischi potenziali
Tabella 1. Rischio d’interazione con il succo di pompelmo per diverse classi di farmaci Rischio di interazione Classe
Anestetici
Farmaco
Molto alto
chetamina
+++
alfentanyl
++
fentanyl
++
dronedarone Antiaritmici
Alto
+++
amiodarone
++
chinidina
£
Il succo di pompelmo può alterare la farmacocinetica di un’ampia gamma di farmaci: i medici ne devono tenere conto aggiornandosi costantemente sulle interazioni accertate negli studi clinici e informando adeguatamente i pazienti. È questa la conclusione di uno studio pubblicato sul British Journal of Medical Practitioners che riassume i dati finora disponibili sull’argomento. L’interazione del pompelmo con i farmaci è stata riferita per la prima volta da Bailey DG e coll. nel 1991, in seguito a un’osservazione casuale: l’assunzione contestuale del succo di frutto aumentava la concentrazione ematica di felodipina fino a quattro volte. In seguito a questa segnalazione, sono stati condotti ulteriori studi che hanno dimostrato l’interazione con più di un’ottantina di farmaci. Il presente lavoro ne riporta 42 e comprende molte molecole salvavita o per la cura di malattie gravi: si tratta di antitumorali, antidepressivi, antiretrovirali, immunosoppressori, statine e anestetici, solo per citare alcune classi (Tabella 1). Dagli studi finora condotti è emerso che il succo di pompelmo inibisce la famiglia enzimatica del citocromo P450, e in particolare l’enzima CYP3A4, presente sia nel fegato sia nella mucosa intestinale (gli effetti osservati sono principalmente dovuti all’inibizione dell’attività in questo secondo sito). Non è peraltro chiaro quale dei componenti del pompelmo sia responsabile dell’interazione, anche se è stato ipotizzato che si tratti delle furanocumarine, oppure dei flavononi come la naringenina o come la naringina (la sostanza che conferisce al pompelmo il caratteristico sapore amaro). Neppure è noto con certezza se il processo d’inibizione abbia luogo in virtù della rapida degradazione dell’enzima o della diminuita produzione da parte dell’RNA messaggero. L’effetto complessivo che si evidenzia, in ogni caso, è quello di una diminuzione del metabolismo di primo passaggio dei farmaci, con un conseguente incremento della loro biodisponibilità. Gli eventi avversi di una certa gravità descritti in letteratura sono numerosi, in particolare per i farmaci caratterizzati da una ristretta finestra terapeutica: torsione di punta, rabdomiolisi, mielotossicità, depressione respiratoria, sanguinamenti gastrointestinali, nefrotossicità e morte cardiaca im-
6
Medico e paziente
1.2013
Antitumorali
Antidepressivi
+
dasatinib
++
everolimus
++
nilotinib
++
pazopanib
++
sunitinib
++
vanetanib
++
buspirone
++
sertralina
+
clomipramina Antiemetici Antiepilettici Anti-HIV
Antinfettivi Anticoagulanti Antipsicotici
Benzodiazepine
Calcioantagonisti
Immunosoppressori
Oppioidi Statine
Tratto urinario
domperidone
+ +++
carbamazepina maraviroc
Moderato
++ +++
rilpivirina
++
eritromicina
++
chinina
++
primachina
++
clopidogrel
++
pimozide
++
quetiapina
++
ziprasidone
++
midazolam
+
diazepam
+
triazolam
+
felodipina
+
nifedipina
+
ciclosporina
++
tacrolimus
++
sirolimus
++
ossicodone
++
metadone simvastatina atorvastatina
++ +++ ++
solifenacina
+
fesoterodina
+
darifenacina
+
tamsulosina
+
02_praticaclinica_01
2-04-2010
16:41
Pagina 10
letti per voi provvisa. Un altro dato degno di nota è che l’interazione del succo di pompelmo con i farmaci ha una notevole variabilità individuale: risultano più colpiti i soggetti con un basso contenuto di CYP3A4 a livello intestinale. Altrettanto variabile è la durata degli effetti, che possono permanere per 4-24 ore, e sono più evidenti con il regolare consumo del frutto prima dell’assunzione dei farmaci. Inoltre, si può verificare un incremento cumulativo nelle concentrazioni dei farmaci con un’assunzione continuativa del frutto. Nella pratica clinica oltre ai dati sul rischio di interazione per i vari farmaci – che risulta maggiore per le molecole con una
finestra terapeutica molto ristretta, una bassa biodisponibilità orale innata e un metabolismo di primo passaggio dipendente in gran parte dal CYP3A4 – sono rilevanti anche le modalità e le abitudini di assunzione da parte del paziente: per osservare gli effetti dell’interazione, infatti, sono sufficienti 200-250 ml. In via cautelativa, pertanto, è raccomandato di sospendere l’eventuale consumo di succo di pompelmo almeno 72 ore prima dell’assunzione di qualunque farmaco con una potenziale interazione. Mazi-Kotwal N, Seshadri M. BJMP 2012; 5(4): a538
£
L’assunzione di quantità elevate di calcio con la dieta (> 1400 mg/die) si associa con Nelle donne, l’assunzione un aumento del tasso di mortalità per tutte le cause, per malattia cardiovascolare (CVD), per di quantità elevate di calcio cardiopatia ischemica coronarica (CHD), ma non accresce il rischio di morte per ictus. L’aggiunta di un supplemento di calcio a un introito alimentare già elevato aumenta per tutte le cause e per malattie ulteriormente il tasso di mortalità. cardiovascolari Sono i risultati di uno studio longitudinale prospettico su un’ampia popolazione femminile facente parte della Swedish mammography cohort. La correlazione fra introito di calcio a lungo termine e mortalità è stata studiata in oltre sessantamila donne, seguite per una media di 19 anni. Rispetto a introiti di calcio compresi fra 600 e 1.000 mg/die, un’assunzione >1.400 mg/die conferiva un hazard ratio (HR) di 1,40 (95 per cento CI 1,17-1,67) per la mortalità da tutte le cause, di 1,49 (1,09-2,02) per la mortalità per CVD e di 2,14 (1,48-3,09) per la mortalità da CHD. Supplementi di calcio in varie forme (tavolette da 500 mg o integratori multivitaminici a dosaggio inferiore) erano usati da circa un quarto della popolazione esaminata. Tra le donne che assumevano supplementi da 500 mg, coloro che avevano un introito con la dieta >1.400 mg/die presentavano un HR di 2,57 (1,195,55) per la mortalità da tutte le cause rispetto alle donne con un introito da 600 a 1.000 mg/die. Ulteriori analisi dei dati hanno confermato che, nelle donne con una dieta già ricca di calcio, l’aggiunta di supplementi aumentava il rischio di morte in modo dose dipendente. L’assunzione di vitamina D invece non modificava in modo significativo l’associazione riscontrata fra introito di calcio e tassi di mortalità. L’ipotesi allo studio era che sia un alto, sia un basso introito di calcio aumentassero il rischio di mortalità cardiovascolare, tuttavia nella maggior parte delle donne che assumevano poco calcio sono state riscontrate solo modeste differenze nel rischio. Secondo gli Autori il rischio di mortalità associato a una bassa assunzione di calcio, emerso in alcuni studi precedenti, appariva legato a fattori confondenti. Due i concetti sottolineati in conclusione: la mortalità non risulta aumentata per introiti complessivi di calcio compresi tra 600 e 1.400 mg/die; un recente studio, anch’esso pubblicato sul BMJ (2011; 342: d1473), ha dimostrato che un’assunzione di calcio >700 mg/die non riduce ulteriormente il rischio di fratture da osteoporosi. Qualche spiegazione infine sui rischi evidenziati. Diete molto ricche di calcio possono oltrepassare i meccanismi omeostatici che tengono sotto stretto controllo i livelli di calcio nel siero. Questo comporta una serie di alterazioni, tra le quali l’aumento nel siero del fattore di crescita dei fibroblasti, i cui alti livelli sono associati con un accresciuto rischio di eventi CV e di mortalità, e la diminuzione del calcitriolo, metabolita attivo della vitamina D. Quest’ultima alterazione ne comporta altre: sovraregolazione del sistema renina-angiotensina, ipertensione, aumento delle citochine pro-infiammatorie coinvolte nell’aterogenesi, aumento dello spessore dell’intima carotidea, disfunzione endoteliale, ipertrofia delle cellule muscolari cardiache e vasali. Alti livelli di calcio possono inoltre indurre uno stato di ipercoagulabilità. (P.P.)
PREVENZIONE
Michaëlsson K, Melhus H, Lemming EW et al. BMJ 2013; 346: f228
8
Medico e paziente
1.2013
Scompenso cardiaco acuto
LA SOMMINISTRAZIONE PRECOCE DI SERELAXIN, FORMA RICOMBINANTE DELLA RELAXINA-2 UMANA, RIDUCE I MARKER DI DANNO D’ORGANO NEI PRIMI GIORNI DAL RICOVERO E DIMINUISCE LA MORTALITÀ A SEI MESI £ Il Pre-RELAX-AHF e il RELAX-AHF sono due studi multicentrici, randomizzati e controllati in doppio cieco, rispettivamente di fase II e III, nei quali i pazienti ospedalizzati per scompenso cardiaco acuto (AHF) hanno ricevuto entro 16 ore dal ricovero la somministrazione endovenosa di serelaxin o di placebo. Ogni partecipante è stato seguito giornalmente fino al 5° giorno o alla dimissione, e controllato a 5, 14 e 60 giorni dall’arruolamento. La somministrazione precoce di serelaxin ha ridotto la mortalità da tutte le cause a 180 giorni (endpoint di sicurezza) del
38 per cento (dati relativi ai due trial combinati: N = 1.395; HR 0,62; 95 per cento CI 0,43-0,88; p =0,0076). Nel RELAX-AHF sono stati misurati i livelli plasmatici di marker di danno cardiaco (troponina T cardiaca ad alta sensibilità), renale (creatinina e cistatina-C), epatico (AST e ALT) e di decongestione (pro-peptide natriuretico cerebrale Nterminale) al basale e ai giorni 2, 5 e 14. I cambiamenti di questi marker al giorno 2 e il peggioramento dello scompenso durante l’ammissione in ospedale risultavano correlati con la mortalità a 180 giorni. La somministrazione di
Farmacovigilanza
serelaxin ha migliorato i marker, e il dato è consistente con la prevenzione del danno d’organo e una decongestione più rapida. Serelaxin è una forma ricombinante della relaxina-2 umana, un ormone peptidico che aumenta nel corso della gravidanza e media gli adattamenti fisiologici a livello CV e renale della madre, con un’azione protettiva potenziale nei confronti del danno d’organo. I trial in questione ne stanno valutando gli effetti nell’AHF, che è la più comune causa di ospedalizzazione nei soggetti “over 65”, ed è gravato da un tasso di mortalità a 1 anno fra il 30 e il 40 per cento. Secondo studi recenti, il danno d’organo e la congestione persistente o ricorrente nei primi giorni contribuiscono alla prognosi sfavorevole. In particolare, il danno o la disfunzione a livello miocardico, renale o epatico, sono predittori indipendenti di aumento della mortalità in questi pazienti. (P.P.) Metra M, Cotter G, Davison BA et al. J Am Coll Cardiol 2013; 61: 196-206
£
Osservazioni di farmacovigilanza hanno evidenziato che l’uso concomitante di diuretici e/o di ACE-inibitori o di USO CONCOMITANTE DI FANS antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (ARB o sartani) e di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) può E DI ANTIPERTENSIVI: IL RISCHIO aumentare il rischio di insufficienza renale acuta, e che tale DI INSUFFICIENZA RENALE ACUTA rischio è correlato con il numero di farmaci antipertensivi AUMENTA PASSANDO DA DUE assunti in contemporanea con i FANS. Un ampio studio di popolazione è stato condotto nel Regno A TRE FARMACI ASSOCIATI Unito sui registri della medicina ambulatoriale e dei ricoveri (Clinical Practice Research Datalink e Hospital Episodes Statistics Database) esaminando in modo retrospettivo una coorte di 487.372 pazienti utilizzatori di farmaci antipertensivi. Nel corso di un follow-up medio di 5,9 anni, l’incidenza di insufficienza renale acuta è stata di 7/10 mila persone per anno. L’analisi dei dati ha mostrato che una doppia terapia composta dall’aggiunta di un FANS a un diuretico o a un ACE-inibitore o a un sartano in generale non aumentava il rischio di nefrotossicità. Invece una tripla terapia composta dall’aggiunta di un FANS a un diuretico più un ACE-inibitore o un ARB era associata con un rischio aumentato di insufficienza renale acuta (rate ratio 1,31, 95 per cento CI 1,12-1,53). Il rischio maggiore è stato osservato nei primi 30 giorni di trattamento (RR 1,82, 1,35-2,46). L’associazione di queste classi di farmaci può aumentare il rischio di insufficienza renale acuta poiché ciascuna classe ha il potenziale per colpire la funzione del rene attraverso meccanismi differenti: i diuretici possono comportare ipovolemia, gli ACE-inibitori e gli ARB causano una riduzione emodinamica del tasso di filtrazione glomerulare dovuta alla vasodilatazione delle arteriole efferenti, i FANS inibiscono la sintesi di prostacicline, portando a vasocostrizione delle arteriole renali afferenti. Un’attenta vigilanza è pertanto necessaria durante l’uso cronico o acuto di FANS in concomitanza con la terapia antipertensiva. L’attenzione deve essere alta soprattutto all’inizio del trattamento e dovrebbe essere rivolta anche alla scelta dell’antinfiammatorio e/o analgesico più indicato e al suo corretto impiego. (P.P.) Lapi F, Azoulay L, Yin H et al. BMJ 2013; 346: e8525
Medico e Paziente
1.2013
9
Ricerca
Scompenso cardiaco Quale ruolo per i micronutrienti in terapia Un indirizzo di ricerca emergente è rappresentato dallo studio del metabolismo cardiaco come target terapeutico nello scompenso. Esistono già diverse pubblicazioni al riguardo e l’argomento sta riscuotendo un ampio interesse da parte della comunità scientifica internazionale. La tematica è stata anche oggetto di una presentazione che è stata fatta in occasione del 73° Congresso della Società Italiana di Cardiologia (Roma 15-17 dicembre 2012), in cui il professor Mihai Gheorghiade, della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago, uno dei più autorevoli specialisti in questo campo, ha cercato di fare il punto sulla complessa relazione tra scompenso, metabolismo cardiaco e ruolo dei micronutrienti in terapia, presentando una sintesi dei dati attuali. In queste pagine, cercheremo di illustrare i risultati più interessanti circa il potenziale ruolo dei micronutrienti in aggiunta al trattamento standard nella terapia dello scompenso, partendo dal razionale metabolico a cura della Redazione
10
MEDICO E PAZIENTE
1.2013
L
o scompenso cardiaco (SC) si colloca tuttora come una delle patologie croniche a più elevato impatto sanitario, economico e sociale. E questo nonostante vi siano stati importanti progressi nella terapia e vi siano percorsi di trattamento ben codificati. Si tratta, come noto, di una condizione a eziologia multipla, in cui si ha una riduzione della funzione di pompa del cuore; il risultato finale è che il cuore comunque continua a lavorare, ma in maniera meno efficace rispetto alle condizioni fisiologiche. All’origine dello scompenso cardiaco ci sono diverse patologie cardiovascolari e non, tra cui coronaropatie, ipertensione, patologie infiltranti, patologie valvolari, patologie metaboliche come il diabete e deficit di micro e macronutrienti. Dati italiani ottenuti su oltre 6.200 pazienti (Baldasseroni et al., 2002) scompensati non ospedalizzati indicano come la cardiopatia ischemica sia il più importante fattore di rischio (40 per cento dei casi) per SC, seguita da cardiomiopatia dilatativa (32 per cento), valvulopatia primaria (12 per cento) e ipertensione (11 per cento). Negli Stati Uniti, la prevalenza dello SC oscilla tra il 6 e il 10 per cento, con un’incidenza annuale dell’1 per cento negli over 65enni (i dati europei sono del tutto sovrapponibili). Dal punto di vista sanitario-economico, le stime riferiscono come negli Stati Uniti lo scompenso rappresenti una delle prime cause di ospedalizzazione tra i pazienti di età superiore ai 65 anni, comportando una degenza annuale complessiva dell’ordine dei 6,5 milioni di giornate di ricovero. Il costo annuale sembra aggirarsi intorno ai 38 miliardi di dollari, che
Figura 1
Ospedalizzazione per scompenso cardiaco negli USA: trend per mortalità (A) e tasso di nuovo ricovero (B) A.
B.
Mortalità: 30-giorni dopo dimissione in ospedale
Tasso (non aggiustato) di nuovo ricovero per tutte le cause a 30 giorni
Percentuale
Percentuale
Tasso di mortalità (non aggiustato)
Anno
Anno
Fonte: Gheorghiade M et al. J Am Coll Cardiol 2013; 61(4): 391-403
corrisponde al 5,4 per cento circa della spesa sanitaria complessiva. Dati altrettanto poco confortanti sono anche quelli relativi alla mortalità: il tasso di decesso è del 20 per cento a 1 anno, e addirittura del 50 per cento dopo 5 anni; valori questi ultimi ben superiori a quelli associati a diverse forme di cancro. Il peso dei “numeri” diventa ancora più incisivo se si pensa al fatto che lo scompenso cardiaco è una patologia in aumento, con un trend positivo per i prossimi anni.
L’ospedalizzazione per scompenso cardiaco Nei pazienti affetti da SC cronico gestiti in ambito extra-ospedaliero, il ricovero è il maggiore fattore predittivo di aumento della mortalità. Il peggioramento dello scompenso che necessita l’ospedalizzazione in genere si associa a danni cardiaci e/o renali, entrambi responsabili di una progressione della patologia. Va ricordato che l’insufficienza cardiaca più che una patologia, può essere considerata come la manifestazione di diverse anomalie cardiache e non. A questo punto occorre fare una distinzione tra i pazienti scompensati cronici e quelli invece che vengono ospedalizzati
per SC. Si tratta di due categorie che hanno caratteristiche cliniche e prognosi differenti. Innanzitutto nei pazienti cronici non ospedalizzati, la prognosi ha subito un significativo miglioramento nel corso degli ultimi 20 anni. Questo è dovuto all’avvento di trattamenti in grado di controllare l’evoluzione della patologia, quali per esempio ACE-inibitori, ARBs (antagonisti del recettore per l’angiotensina), beta-bloccanti, antagonisti per i recettori dei mineralcorticoidi e impianto di device per la risincronizzazione cardiaca. I soggetti ospedalizzati possono essere definiti come soggetti con sintomi e segni di SC di nuova insorgenza o con peggioramento (graduale o rapido) dei sintomi, che necessitano di una terapia di urgenza e quindi il ricovero ospedaliero. In generale i pazienti presentano un peggioramento dello SC cronico (circa 80 per cento), oppure uno SC di nuova diagnosi (15 per cento), oppure scompenso avanzato o in stadio terminale (5 per cento). La maggioranza delle persone ospedalizzate comunque non presenta forme particolarmente avanzate dal momento che risponde in maniera soddisfacente alle terapie ospedaliere. A differenza dei pazienti non ospedalizzati, questi soggetti presentano anomalie emodinamiche,
neurormonali ed elettrolitiche che spesso si associano a un rilascio di troponina e a un rapido peggioramento della funzione renale. Per quanto riguarda la frazione di eiezione ventricolare (FE), risulta che approssimativamente il 50 per cento dei soggetti ospedalizzati presenta una FE conservata o relativamente conservata. Indipendentemente dalla FE, la maggioranza presenta segni di congestione, come edema, dispnea, distensione giugulare venosa. Il trend positivo in termini di prognosi che si osserva nei pazienti con SC cronico non ospedalizzati non è stato osservato nei pazienti con ricovero, in cui si continua a registrare un tasso di mortalità e di nuovo ricovero dell’ordine del 15 e del 30 per cento nell’arco di 30-60 giorni dalla dimissione, e il rischio di eventi non ha subito cambiamenti nel corso degli ultimi anni. E tutto questo avviene nonostante l’ampia disponibilità di trattamenti (Figure 1A, B). I trial condotti finora con diverse opzioni farmacologiche in questa classe di pazienti non hanno mostrato miglioramenti negli outcome nel periodo dopo la dimissione. In sintesi dunque, va riconosciuto come la maggior parte delle ospedalizzazioni e dei successivi ricoveri avvenga in soggetti con FE relativamente conservata,
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Ricerca per i quali non esiste al momento una terapia evidence-based (Gheorghiade et al. 2013). Da qui emerge come vi sia una forte necessità di riconsiderare l’approccio terapeutico. Due lavori pubblicati su JAMA da M. Gheorghiade e coll. (2011) identificano alcuni step chiave che potrebbero essere considerati nella gestione terapeutica di questi pazienti, e che sono: y trattare non solo la congestione clinica, y trattare le anomalie cardiache sottostanti, y trattare le comorbidità, y impiegare la digossina, y focalizzare le necessità metaboliche, y programmare visite di follow-up nel periodo immediatamente successivo alla dimissione.
Cenni sul metabolismo cardiaco Le terapie attuali hanno come bersaglio l’emodinamica, la modulazione neurormonale e l’elettrofisiologia dello scompenso cardiaco; nessuna di queste opzioni tuttavia, ha come bersaglio il metabolismo nel cuore scompensato.
Diverse pubblicazioni nel corso degli ultimi tempi hanno posto l’attenzione sulle alterazioni metaboliche che caratterizzano lo scompenso, portando a concludere che disfunzioni nel metabolismo cellulare cardiaco potrebbero essere all’origine dello SC. Il cuore di un adulto, che ha un peso relativamente basso (200-425 g), può essere definito come una macchina altamente efficiente nel convertire energia chimica in energia meccanica (contrattile). Il fabbisogno energetico del cuore è superiore rispetto a quello di qualsiasi altro organo, dal momento che esso pompa 5 litri di sangue al minuto, oltre 2,6 milioni di litri/anno. E, per espletare questa funzione si stima che più di 6 kg di ATP vengano idrolizzati ogni giorno (l’ATP è il principale fornitore di energia). Per mantenere l’efficienza, tutti gli elementi strutturali del cuore, enzimi e membrane, vanno incontro a un continuo turnover, e ogni 30 giorni il cuore viene interamente “rinnovato” grazie a un pool di aminoacidi, carboidrati e lipidi. Il trasferimento di energia nel cuore può essere rappresentato come un sistema a
Figura 2
Metabolismo cardiaco: il ruolo dei micronutrienti nel trasferimento energetico Macronutrienti
Micronutrienti Circolazione sistemica (O2) Metabolismo cellulare (ATP)
Contrazione
Fonte: Soukoulis V et al. J Am Coll cardiol 2009; 54: 1660-73
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Legami crociati (Ca2+)
cicli interconnessi (Figura 2), in cui i nutrienti derivano dal circolo sanguigno e trasferiscono l’energia all’ATP, che è il motore energetico finale della contrazione ciclica. Dal punto di vista metabolico, il cuore è una “specie onnivora” in grado di ricavare energia dall’ossidazione sia dei lipidi che dei carboidrati (macronutrienti); i micronutrienti (coenzima Q10, L-carnitina, tiamina, aminoacidi) sono cofattori essenziali per il trasferimento di energia e per il mantenimento delle funzioni biochimiche e fisiologiche del cuore. Partendo da osservazioni sperimentali circa l’associazione tra deficit di alcuni micronutrienti e scompenso cardiaco, e circa il fatto che la correzione di tali deficit possa migliorare la funzionalità cardiaca, è stato ipotizzato che nello scompenso il cuore presenti un livello inadeguato di alcuni cofattori e micronutrienti. La morbidità associata allo SC sembra essere il risultato della compromissione del metabolismo energetico. È stato osservato per esempio, che il turnover dell’ATP può essere ridotto anche del 30 per cento. In condizioni di stress come accade nello SC, il metabolismo cardiaco subisce uno “switch” metabolico, e per contenere i danni, il substrato energetico preferenziale diventano i carboidrati (in condizioni fisiologiche sono gli acidi grassi). È una sorta di meccanismo di adattamento che il cuore utilizza per reagire a una situazione stressante. Tale adattamento con l’evoluzione della patologia si trasforma in realtà in una risposta maladattativa. La progressione avviene in genere in un arco di tempo di diversi anni; in conseguenza solo una piccola frazione di cardiomiociti si trova in condizioni di danno irreversibile, in un determinato momento. Questi miociti presentano una struttura relativamente conservata, e si trovano in una sorta di stato vegetativo, equivalente a un miocardio “vitale, ma funzionalmente alterato”; questo sembra essere il risultato di uno squilibrio metabolico-energetico. Nello SC, il risultato di una risposta maladattativa si manifesta a tutti i livelli di produzione e trasferimento dell’energia (utilizzo di substrati, fosforilazione ossi-
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Ricerca Figura 3
L’alterazione delle funzioni mitocondriali come promotore di diverse condizioni cliniche croniche Scompenso cardiaco cronico, patologie vascolari Scompenso cardiaco cronico
Compromissione della fosforilazione ossidativa Squilibrio nell’omeostasi energetica
Patologie vascolari, insulino-resistenza, diabete, obesità Alterazione nell’espressione dei geni mitocondriali
Insulino-resistenza, patologie vascolari
Aumento della produzione di radicali liberi dell’ossigeno
Diabete, obesità, scompenso cardiaco cronico
Insulino-resistenza, diabete, obesità
Disfunzione mitocondriale Anomalie del metabolismo degli acidi grassi
Aumento della resistenza insulinica
Compromissione della risposta infiammatoria
Diabete, aterosclerosi
Fonte: Gheorghiade M. Presentazione Congresso SIC, 2012
dativa e utilizzo di ATP). Se la conversione di energia risulta compromessa, i cardiomiociti (che comunque si trovano in condizioni di affaticamento e sovraccarico) possono potenzialmente andare incontro a danni irreversibili e morte causati da un eccessivo stress ossidativo e danno mitocondriale. La Figura 3 mostra come le disfunzioni mitocondriali siano alla base di un’ampia serie di anomalie metaboliche (Bayeva et al. 2012) che contribuiscono in maniera significativa all’insorgenza e alla progressione sia dello SC che di diverse altre condizioni croniche correlate e non.
Quale ruolo per la supplementazione con micronutrienti I micronutrienti svolgono dunque un ruolo essenziale nel metabolismo ener-
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getico del cuore, e da un loro squilibrio e/o deficit potrebbero dipendere anche i danni metabolici e le alterazioni mitocondriali associate allo scompenso. È interessante sottolineare anche come alcune terapie prescritte a pazienti scompensati possano incrementare ulteriormente il deficit di micronutrienti come per esempio, gli ipocolesterolemizzanti (inibitori dell’HMG-CoA reduttasi) inducono una diminuzione dei livelli serici di CoQ10, e i diuretici dell’ansa riducono i livelli di tiamina nei pazienti scompensati. In questi casi è stato osservato che oltre ad accentuare il deficit di micronutrienti, si ha anche una compromissione degli effetti del trattamento. L’ipotesi che la supplementazione con micronutrienti affiancando la terapia standard dello scompenso possa correggere i difetti metabolici e potenzialmente prevenire la morte dei miociti,
ripristinandone la funzione, si sta facendo sempre più concreta. Si tratta di una nuova visione della terapia dello SC, che seppure molto affascinante, resta da valutare più approfonditamente, soprattutto in studi clinici di ampie dimensioni, al momento assenti. Una tale strategia si sta delineando con tratti molto promettenti, che meritano indubbiamente di essere approfonditi. Al momento esistono in letteratura pochi studi e di piccole dimensioni che però gettano le fondamenta per il futuro. La supplementazione con micronutrienti offre l’opportunità di correggere i deficit in alcuni pathway critici per il corretto funzionamento dei miociti per esempio, quelli legati all’approvvigionamento di ATP (CoQ10, L-carnitina, tiamina, aminoacidi), alla sintesi proteica (aminoacidi), all’equilibrio intracellulare di calcio, e alla riduzione dello stress ossidativo
(CoQ10 e taurina). Di seguito presentiamo una sintesi dei dati disponibili attualmente in letteratura, focalizzando l’attenzione su alcuni micronutrienti che sono stati scelti perché: y sono componenti essenziali dei processi metabolici che riguardano la produzione di energia, l’equilibrio del calcio a livello miocardico, e lo stress ossidativo; y vi sono dati certi sulla loro carenza nello SC; y esistono evidenze che il deficit di ciascuno di essi porti all’insorgenza di patologie a carico dei muscoli cardiaci o scheletrici. Coenzima Q10. Questa molecola è componente fondamentale della catena respiratoria mitocondriale, e oltre al ruolo centrale nel trasferimento di energia, il CoQ10 svolge un’azione antiossidante e protettiva nei confronti delle particelle lipoproteiche a bassa densità circolanti. Il primo studio sul ruolo del CoQ10 nello scompenso cardiaco risale al lontano 1976, ed evidenzia come rispetto ai controlli i pazienti con SC presentano ridotti livelli serici e tissutali di questa molecola. Studi successivi dimostravano una correlazione tra il grado di deficit e la classe funzionale dello scompenso (NYHA, New York Heart Association), la funzione del ventricolo sinistro e la mortalità. Sulla scia di queste osservazioni sono stati condotti alcuni studi mirati a valutare l’efficacia della supplementazione con CoQ10 in pazienti con SC di diversa eziologia. Nel complesso i risultati sono stati positivi, dimostrando un significativo miglioramento in numerosi parametri funzionali, strutturali ed emodinamici, compresa la FE. Inoltre è stata documentata una riduzione della classe funzionale NYHA, dei ricoveri ospedalieri, e di sintomi quali la dispnea e la fatica. Questi dati sono stati confermati anche da alcune metanalisi. La supplementazione con CoQ10 sembra in grado di apportare benefici nei pazienti con scompenso, anche se per dimostrare un effetto in termini di mortalità e morbilità occorrono studi più ampi, eventualmente che valutino anche il CoQ10 in associazione con altri micronutrienti.
L-carnitina. È un derivato aminoacidico della lisina e della metionina, e ha un ruolo importante nel trasporto degli acidi grassi a livello dei mitocondri. Nelle condizioni caratterizzate da disfunzione cardiaca è stato spesso documentato un deficit di L-carnitina. Alcuni studi hanno anche evidenziato come i livelli plasmatici non riflettono i livelli tissutali di L-carnitina dal momento che le pompe sodio-dipendenti mantengono un gradiente intra-extracellulare. Alcuni studi sugli effetti dell’integrazione con L-carnitina sono molto promettenti. Tuttavia, i risultati sono poco conclusivi. Il trial CEDIM (L-Carnitine Ecocardiografia Digitalizzata Infarto Miocardico) ha dimostrato benefici di questo micronutriente sul rimodellamento cardiaco dopo infarto miocardico. Poco noti invece sono gli effetti della L-carnitina nel trattamento dello scompenso di natura non ischemica. In uno studio (Rizos I., 2000) sono emersi benefici sulla mortalità: a tre anni si è registrato un miglioramento della sopravvivenza in pazienti con cardiomiopatia dilatativa e scompenso in classe NYHA III-IV. Tiamina e vitamine del gruppo B. La tiamina (vitamina B1) svolge la funzione di coenzima nel metabolismo dei carboidrati. Nella sua forma attivata, tiamina pirofosfato, è un cofattore essenziale nel metabolismo del substrato energetico. Gli effetti cardiaci del deficit grave di tiamina sono storicamente e clinicamente ben noti, e portano al beriberi. L’attenzione è stata rivolta alle carenze lievi-moderate di tiamina nei pazienti con SC. Alcuni studi su modelli animali hanno portato a concludere che il deficit di tiamina può causare disfunzioni cardiache, ipertrofia e aritmie, in assenza di beriberi. Inoltre, nei sogggetti con scompenso è stata osservata un’incidenza di deficit di tiamina che oscilla tra il 13 e il 93 per cento, e i pazienti in classe NYHA III/ IV sembrano avere carenze più gravi rispetto a quelli in classe I/II. L’eventuale utilità clinica derivante dalla supplementazione con tiamina è stata indagata in alcuni studi, di cui il più promettente è stato condotto da Shimon e
coll. (1995) su 30 pazienti scompensati. I partecipanti erano in terapia con furosemide (farmaco che potrebbe incrementare ulteriormente il deficit di tiamina) e sono stati assegnati a supplementazione con tiamina (200 mg/die) o placebo. Sorprendentemente, i livelli della vitamina già dopo 1 settimana hanno mostrato un incremento, e in parallelo si è avuto un miglioramento nella diuresi e nella FE; il trend positivo è stato osservato per tutto il corso dello studio, e al termine (dopo 7 settimane) è stato osservato un miglioramento della funzione cardiaca, confermato da un aumento della FE del 22 per cento. Per quel che riguarda le altre vitamine di questo gruppo, uno studio del 2006 (Allard e coll.) riportava una prevalenza del deficit di quasi il 70 per cento nello scompenso.
Nonostante le numerose terapie attualmente disponibili, la mortalità e la morbilità associate allo scompenso cardiaco nei pazienti ospedalizzati restano preoccupanti, con un trend in crescita positiva per il prossimo futuro. Vi è quindi la forte necessità di ampliare le frontiere del trattamento e “ricalibrare” i target terapeutici Anche se i folati e la vitamina B12 sembrano avere un ruolo importante nella regolazione della funzione endoteliale, non esistono al momento studi circa un ruolo dell’integrazione nello scompenso. Aminoacidi. Il ruolo degli aminoacidi (AA) nel metabolismo cardiaco è duplice; da un lato essi sono i mattoni delle proteine, e dall’altro sono intermediari nel metabolismo del substrato energetico. Se consideriamo gli aminoacidi essenziali, questi, come noto, non possono essere sintetizzati e devono essere assunti con
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Ricerca Figura 4
Indicazioni di approccio terapeutico nei pazienti ospedalizzati per SC
VALUTAZIONE COMPLESSIVA
L’uso di aminoacidi dovrebbe essere considerato nei pazienti ospedalizzati per SC
Potenziali target
Metodo diagnostico
Congestione
JVP, peso corporeo, edema periferico
Pressione sanguigna elevata
Misurazione della pressione sanguigna
Funzione VS, valvulopatie, anomalie della motilità parietale, aneurisma
Eco doppler, MRI, imaging nucleare
Ischemia
Test farmacologici o d’esercizio con diagnostica per imaggini
Coronaropatie
Cateterizzazione cardiaca e angiografia
Dissincronia ventricolare
Elettrocardiogramma
Miocardio vitale, ma alterato
Dobutamina a basse dosi (Eco), MRI
RICOSTRUZIONE CARDIACA
Miocardio
Arterie coronariche
Disfunzione VS*
CAD
• ACE-I o ARB • Beta-bloccanti • Antagonisti dell’aldosterone • Idralazina/ISDN* • Digossina* • Macronutrienti** • Micronutrienti** • Modulatori metabolici**
• Anticoagulanti* • Statine* • Rivascolarizzazione* • Altre terapie raccomandate dalle linee guida ESC per la prevenzione secondaria
Sistema elettrico Morte cardiaca improvvisa • ICD • Beta-bloccanti • Antagonisti dell’aldosterone
Dissincronia ventricolare CRT+/-ICD*
Fibrillazione atriale • Controllo della velocità* • Digossina • Beta-bloccanti • Calcioantagonisti non diidropiridinici* • Warfarin* • Controllo del ritmo* • Procedura MAZE
Congestione (riduzione del consumo di sale, diuretici, ultrafiltrazione*, antagonisti vasopressina)** Ipertensione (ACE-inibitori o ARB, beta-bloccanti, diuretici, altri dalle linee guida ESC) Promuovere l’aderenza (educazione, gestione della patologia, sistemi per migliorare la performance)
Note: * pazienti selezionati; **agenti in sperimentazione; JVP, polso giugulare venoso; VS, ventricolo sinistro; MRI, risonanza magnetica nucleare; ACE-I, ACE inibitori; ARB, antagonisti per il recettore dell’angiotensina; ISDN, isosorbide dinitrato; CAD, coronaropatie; ESC, European Society of Cardiology; ICD, defibrillatore impiantabile; CRT, terapia di risincronizzazione cronica; SC, scompenso cardiaco Fonte: modificata da Gheorghiade M et al. J Am Coll Cardiol 2013; 61(4): 391-403
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la dieta o attraverso una supplementazione. Diversi studi su modelli animali di scompenso cardiaco hanno mostrato che l’integrazione con AA è in grado di prevenire il danno cardiaco. Nell’uomo, gli studi condotti finora dimostrano come la supplementazione con aminoacidi essenziali nello scompenso cardiaco contribuisca a migliorare la capacità d’esercizio. Un lavoro sperimentale italiano condotto da un’équipe coordinata da Enzo Nisoli, dell’Università di Milano (D’Antona e coll., 2010), ha messo in evidenza che in topi di laboratorio di mezza età, la supplementazione di una miscela di aminoacidi essenziali, in cui i più presenti risultano i ramificati, esercita effetti positivi sulla sopravvivenza e stimola la biogenesi mitocondriale a livello dei muscoli scheletrici e cardiaco. I dati qui presentati si riferiscono alla supplementazione con singoli micronutrienti, mentre pochi studi, per lo più sperimentali, sono stati condotti per valutare gli effetti di una supplementazione multipla. Possiamo citare un lavoro di Harinstein e coll. (2008), in cui 11 pazienti con sintomi di scompenso cardiaco cronico avanzato hanno ricevuto in aggiunta alla terapia standard una supplementazione con diversi micronutrienti (CoQ10, aminoacidi, acido folico, selenio e zinco). Agli esami strumentali, tutti i pazienti evidenziavano la presenza di tessuto “vitale”. In tutta la coorte, al termine del periodo di osservazione (2 anni) è stato osservato un miglioramento netto della classe funzionale NYHA (da III/IV a I) e della FE (da 17+/-9 per cento a 59+/-5 per cento). Oltre a porre l’attenzione sul fatto che vi è la possibilità di recupero e di normalizzazione della funzione cardiaca, questo studio di casi clinici accentua l’importanza di indagare il ruolo dei micronutrienti in aggiunta alla terapia standard.
Considerazioni conclusive In un’interessante review di qualche anno fa (Taegtmeyer e coll., 2008) viene ripreso il concetto di ”stato dinamico dei costituenti del corpo umano” e adattato
al cuore: in pratica gli Autori del lavoro sottolineano come le proteine dei sarcomeri, i mitocondri, le membrane, il citosol, ma anche i ribosomi e il nucleo cellulare siano continuamente degradati e ricostruiti. E questo accade anche a livello del cuore. Viene quindi proposto il concetto di “nutrizione del cuore” che va ben oltre la supplementazione con substrati energetici, e comprende soprattutto proteine e aminoacidi, micronutrienti e molecole ad attività regolatoria del turnover proteico. È un concetto nuovo in ambito cardiovascolare, ma che forse, alla luce dei dati emergenti, varrebbe la pena di approfondire. In sintesi, le conclusioni che possiamo trarre al momento sono le seguenti: y una supplementazione di lunga durata con micronutrienti può contribuire a migliorare la FE e il volume ventricolare in pazienti con SC e ridotta FE; y nello scompenso cardiaco, gli aminoacidi essenziali possono contribuire alla “ricostruzione” cardiaca e pertanto il loro utilizzo dovrebbe essere considerato in tutti quei pazienti che hanno una prognosi negativa, nonostante le migliori terapie attualmente disponibili (Figura 4).
Bibliografia 1. Ardehali H et al. Targeting myocardial substrate metabolism in heart failure: potential for new therapies. Eur J Heart Failure 2012; 14: 120-9. 2. Baldasseroni S et al. Left bundlebranch block is associated with increased 1-year sudden and total mortality rate in 5517 outpatients with congestive heart failure: a report fron the italian network on congestive heart failure. Am Heart J 2002; 143: 398-405. 3. Gheorghiade M et al. Rehospitalization for heart failure: problems and perspectives. J Am Coll Cardiol 2013; 61(4): 391-403. 4. Gheorghiade M. Il ruolo dei micronutrienti nello scompenso cardiaco. Presentazione al Congresso SIC 2012: Roma 15-17 dicembre. 5. Soukoulis V et al. Micronutrient deficiences: an unmeet need in heart failure. J Am Coll cardiol 2009; 54: 1660-73.
6. Allard ML et al. The management of conditioned nutritional requirements in heart failure. Heart Fail Rev 2006; 11: 75-82. 7. Rizos I. Three-year survival of patients with heart failure caused by cardiomyopathy and L-carnitine administration. Am heart J 2000; 139: S120-3. 8. Shimon I et al. Improved left ventricular function after thiamine supplementation in patients with congestive heart failure receiving long term furosemide therapy. Am J Med 1995; 98: 485-90. 9. D’Antona G et al. Branched-chain amino acid supplementation promotes survival and supports cardiac and skeletal muscle mitochondrial biogenesis in middle-aged mice. Cell Metabolism 2010; 12: 362-72.
Le terapie attuali hanno come bersaglio l’emodinamica, la modulazione neurormonale e l’elettrofisiologia dello scompenso cardiaco; nessuna di queste opzioni tuttavia ha come bersaglio il metabolismo nel cuore scompensato. E proprio questo costituisce il razionale per il potenziale impiego di micronutrienti nei pazienti con scompenso cardiaco e prognosi sfavorevole 10. Harinstein ME et al. Normalization of ejection fraction and resolution of symptoms in chronic severe heart failure is possible with modern medical therapy: clinical observations in 11 patients. Am J Ther 2008; 15: 206-13. 11. Bayeva M et al. Mithocondria as a therapeutic target in heart failure. J Am Coll Cardiol 2012; on line first. 12. Taegtmeyer H et al. More than a bricks and mortar: comments on protein and amino acid metabolism in the heart. Am J Cardiol 2008; 101: S 3E-7E.
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terapia
IPERTENSIONE ARTERIOSA Quale ruolo per le associazioni a dosi fisse l’attenzione è oggi rivolta all’identificazione e all’impiego di combinazioni di farmaci razionali ed efficaci, più che alla ricerca dell’agente “migliore”. La maggioranza dei pazienti richiede due o più principi attivi per controllare la pressione arteriosa
P
ressione arteriosa (PA) non a target, malgrado il trattamento: è quanto accade ad almeno la metà degli individui ipertesi. Un recente studio su Jama (1) basato sui risultati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) del 20072008, stima che il 50,1 per cento degli statunitensi ipertesi abbia la pressione sotto controllo, e che i progressi maggiori si siano verificati nel corso dell’ultimo decennio. Dati della European Society of Hypertension (ESH) (2) riferiti all’incirca allo stesso periodo, mostrano invece che in molti Paesi europei oltre i due terzi dei pazienti non raggiungono i valori raccomandati (Figura 1). Secondo il rapporto Health Search 2010 della SIMG (3), gli ipertesi italiani con PA adeguatamente controllata sono il 55 per cento, mentre il 15 per cento non riceve alcuna terapia e il 26 per cento circa ne segue una inadeguata. L’aderenza al trattamento è migliorata rispetto agli anni precedenti, ma varia a livello regionale, ed è più alta (60-70 per cento) nelle regioni del centro-nord. Le Linee guida internazionali per l’iper-
tensione (4-6) sottolineano che, indipendentemente dal farmaco impiegato, la monoterapia permette di ridurre adeguatamente la PA solo in un numero limitato di soggetti ipertesi, e indicano la terapia basata sull’associazione di due o più farmaci di classi differenti come la strategia più efficace per ottenere un controllo ottimale. Secondo l’aggiornamento delle Linee guida europee pubblicato a fine 2009 (5), la combinazione di due farmaci può essere indicata anche come trattamento di prima scelta, in
particolare negli ipertesi a rischio cardiovascolare (CV) elevato. Inoltre l’impiego delle combinazioni a dosi fisse di due antipertensivi in una singola compressa (fixed-dose combination, FDC) è visto con favore, quando possibile, come metodo per semplificare lo schema terapeutico e migliorare l’aderenza alla terapia. Nelle pagine seguenti ripercorriamo il razionale della terapia di combinazione e prendiamo in esame vantaggi (e limiti) delle associazioni a dosi fisse.
RAZIONALE DELLA TERAPIA DI COMBINAZIONE Le ragioni della difficoltà di raggiungere e mantenere nel tempo un controllo ottimale della pressione arteriosa (Tabelle 1 e 2 per i valori raccomandati) sono numerose e includono per esempio la natura multifattoriale dell’ipertensione, la frequente presenza di malattie concomitanti come l’obesità e il diabete, l’eve-
COMPLIANCE: indica l’adeguamento del paziente alle prescrizioni mediche (farmacologiche, di stile di vita). Termine ancora ampiamente usato, anche se in discussione: lo si ritiene centrato solo sul destinatario delle cure e con una connotazione passiva. ADERENZA: definizione oggi preferita perché indica il coinvolgimento attivo, volontario e collaborativo del paziente in un percorso terapeutico mutualmente accettato e condiviso. Include anche la responsabilità e il coinvolgimento del medico. PERSISTENZA: è una parte del concetto di aderenza e indica la volontà di continuare ad assumere un farmaco prescritto per tutta la durata del trattamento. CONCORDANZA: definisce il grado di accordo fra gli obiettivi terapeutici del paziente e del medico.
a cura di Piera Parpaglioni
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nienza di ipertensione resistente. Altri fattori possono essere la scarsa aderenza del paziente al trattamento prescritto, la riluttanza del medico a modificare/ aggiungere un farmaco o ad aumentare il dosaggio anche se l’obiettivo di pressione non è stato raggiunto (inerzia terapeutica) e l’eccessiva fiducia che è ancora riposta nella monoterapia, nonostante sia noto che consente di ottenere un controllo efficace solo nel 25-30 per cento dei soggetti ipertesi. Oltre alla natura multifattoriale dell’ipertensione, un altro ostacolo rende difficile, se non impossibile, raggiungere l’obiettivo terapeutico andando ad agire su uno solo dei meccanismi che regolano la PA, ed è il fatto che qualsiasi agente farmacologico diretto su un singolo meccanismo evoca risposte compensatorie che riducono l’ampiezza del risultato. Ciascuno degli antipertensivi disponibili permette, da solo, riduzioni limitate della PA. Aumentare il dosaggio di un singolo agente per ottenere una risposta adeguata può comportare un aumento degli effetti indesiderati e di conseguenza una minore compliance (7-9). Il razionale della terapia di combinazione, che associa a basso dosaggio due o più farmaci con meccanismi d’azione differenti e complementari, è la possibilità di migliorare il controllo della PA sommando azioni differenti, e riducendo nel contempo il rischio di effetti indesiderati, con l’obiettivo di accrescere sia l’efficacia sia la tollerabilità del trattamento. Una recente metanalisi su circa 11.000 soggetti da 42 trial clinici (10) ha riscontrato in media un effetto antipertensivo additivo per varie associazioni di farmaci di classi differenti (tiazidici, ACE-inibitori, calcioantagonisti e beta-bloccanti). Gli Autori hanno calcolato che la riduzione aggiuntiva della PA prodotta dalla combinazione di due agenti di classi differenti era circa 5 volte più grande di quella ottenibile con il raddoppio del dosaggio di ciascun principio attivo. Un beneficio ulteriore si può ottenere quando gli effetti collaterali di un agente sono neutralizzati dall’azione farmacologica di un secondo composto, come avviene associando un calcioantagonista
Figura 1
Percentuale di pazienti che raggiungono gli obiettivi di pressione raccomandati (< 140/90 mmHg) nell’area europea
Francia
Germania
Grecia
12%
28% Italia
Polonia
21% Svezia
21,5%
33,3%
30%
33%
Inghilterra
17%
35,7%
Repubblica Ceca
20,7% Turchia
Spagna
27,8% Ungheria
Fonte: Erdine S. European Society of Hypertension scientific newsletter 2007; 8: No 3
Tabella 1
Classificazione ESH/ESC dei valori di pressione arteriosa (mmHg) Categoria
Sistolica
Diastolica
Ottimale
< 120
e
< 80
Normale
120-129
e/o
80-84
Normale-alta
130-139
e/o
85-89
Ipertensione di grado 1
140-159
e/o
90-99
Ipertensione di grado 2
160-179
e/o
100-109
Ipertensione di grado 3
≥ 180
e/o
≥ 110
Ipertensione sistolica isolata
≥ 140
e
< 90
Nota: I gradi 1, 2 e 3 corrispondono alla classificazione in ipertensione lieve, moderata e severa (qui omessa per evitare confusione con la quantificazione del rischio cardiovascolare totale). L’ipertensione sistolica isolata dovrebbe a sua volta essere suddivisa in 3 gradi in base ai valori della sistolica (i valori della diastolica rimangono < 90 mmHg). Fonte: Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
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terapia Tabella 2
Obiettivi di pressione secondo le raccomandazioni europee In tutti i pazienti ipertesi, la pressione arteriosa dovrebbe essere ridotta almeno al di sotto di 140/90 mmHg, e a valori ancora più bassi se tollerati. Nei pazienti diabetici e in quelli a rischio CV elevato o molto elevato, come coloro che presentano condizioni cliniche associate (ictus, infarto miocardico, malattia renale, proteinuria) la pressione arteriosa dovrebbe essere ridotta a valori inferiori a 130/80 mmHg. Nonostante l’impiego di una terapia di associazione, può essere difficile raggiungere valori inferiori a 140/90, e a maggior ragione a 130/80, soprattutto nei pazienti anziani, diabetici e, in generale, in quelli con danno d’organo. Fonte: Modificata da Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
(CCB) diidropiridinico con un ACE-inibitore o con un antagonista recettoriale dell’angiotensina II (ARB). L’edema periferico è un effetto collaterale comune di CCB come l’amlodipina, poiché la dilatazione arteriolare indotta da questi farmaci può determinare un aumento della pressione capillare nei tessuti periferici. La co-somministrazione di un inibitore del RAAS aiuta a contrastare
questo fenomeno mediante una diminuzione delle resistenze nelle venule post-capillari (11-12).
ASSOCIAZIONI PREFERIBILI Date 7 classi maggiori di farmaci antipertensivi disponibili, il numero di combinazioni possibili è abbastanza ampio (Figura 2) e vari grandi trial condotti
Figura 2
Associazioni possibili tra alcune classi di farmaci antipertensivi Diuretici tiazidici
Beta-bloccanti
Antagonisti recettoriali dell’angiotensina
Alfa-bloccanti
Calcioantagonisti
ACE-inibitori Legenda: Linee piene: associazione raccomandata. Linee tratteggiate: associazione non raccomandata Nei riquadri le classi di farmaci per le quali vi sono benefici dimostrati in studi clinici controllati Fonte: Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
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negli ultimi anni hanno indagato i pro e contro di ciascuna (4-5). Le Linee guida europee indicano sei combinazioni preferibili (identificate dalle linee piene nella figura 2). L’American Society of Hypertension (ASH) in un documento del 2010 (7) suddivide invece le combinazioni in: preferibili, accettabili e meno efficaci, e restringe a quattro quelle preferibili (Tabella 3). Si individuano così due gruppi principali: le associazioni di un inibitore del RAAS con un diuretico, e quelle di un inibitore del RAAS con un calcioantagonista. ACE-inibitori e sartani, per i quali sono documentati effetti sugli organi bersaglio che vanno oltre la riduzione della PA, rientrano dunque nella maggior parte delle terapie combinate e sono oggi presenti in un ampio numero di associazioni a dosi fisse con un diuretico tiazidico o con un CCB. Sui criteri generali di scelta tra monoterapia e terapia di associazione ci sembra giusto rimandare a quanto stabilito dalle linee guida ESH/ESC (4-5): il riquadro 1 riporta una sintesi dei principi guida e la Figura 3 riprende uno schema del percorso terapeutico.
L’ASSOCIAZIONE DI DUE FARMACI COME TRATTAMENTO INIZIALE Le Linee guida europee raccomandano di considerare la combinazione di due farmaci come primo approccio terapeutico nel caso in cui il paziente iperteso abbia valori pressori elevati, o sia classificato a rischio cardiovascolare elevato/ molto elevato per la presenza di danno d’organo, diabete, malattia renale o storia di malattia CV. Per valori elevati si intende un aumento delle pressioni sistolica (PAS) e diastolica (PAD) rispettivamente di 20/10 mmHg rispetto ai target raccomandati (quindi valori >160/100 mmHg in pazienti con ipertensione non complicata o >150/90 mmHg negli ipertesi diabetici o con altre patologie associate). Tale raccomandazione non è basata su evidenze da trial di morbilità/mortalità, poiché nessuno studio ha ancora confermato in modo prospettico il vantaggio
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terapia MONOTERAPIA versus TERAPIA DI ASSOCIAZIONE secondo le Linee guida ESH/ESC 2007 ❱❱ Qualunque sia il farmaco scelto, la monoterapia permette di ridurre i valori pressori solo in un numero limitato di soggetti ipertesi. ❱❱ Nella maggior parte dei pazienti per raggiungere l’obiettivo pressorio è necessario impiegare una terapia di associazione tra due o più farmaci. Sono disponibili molte associazioni farmacologiche efficaci e ben tollerate. ❱❱ Il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato con un solo farmaco o con una terapia di associazione tra due farmaci a basso dosaggio, con la possibilità di incrementare la dose o il numero di farmaci a seconda delle necessità cliniche (Figure 2 e 3). ❱❱ La monoterapia rappresenta la scelta terapeutica iniziale in presenza di valori pressori moderatamente aumentati con un profilo di rischio CV totale basso o moderato. Una terapia di associazione tra due farmaci a basso dosaggio dovrebbe rappresentare la scelta terapeutica iniziale in caso di ipertensione di grado 2 o 3 o di rischio CV totale elevato o molto elevato. ❱❱ Le associazioni fisse tra due farmaci facilitano lo schema terapeutico e aumentano la compliance. ❱❱ Nei pazienti nei quali non viene raggiunto un buon controllo pressorio nonostante la terapia con due farmaci, sarà necessario utilizzare una combinazione di tre o più farmaci. ❱❱ Nei pazienti non complicati e negli anziani il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato gradualmente. Nei pazienti a rischio CV elevato si dovrebbe raggiungere il target pressorio più rapidamente, preferendo una terapia di associazione e una più rapida stabilizzazione delle posologie. Fonte: Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
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Tabella 3
Associazioni di due farmaci antipertensivi più e meno consigliate* Preferibili ACE-inibitore + diuretico Sartano + diuretico ACE-inibitore + calcioantagonista Sartano + calcioantagonista Accettabili Beta-bloccante + diuretico Calcioantagonista (diidropiridinico) + beta-bloccante Calcioantagonista + diuretico Inibitore della renina + diuretico Inibitore della renina + sartano Diuretico tiazidico + diuretico risparmiatore di potassio Meno efficaci ACE-inibitore + sartano ACE-inibitore + beta-bloccante Sartano + beta-bloccante Calcioantagonista (non diidropiridinico) + beta-bloccante Alfa-bloccante + beta-bloccante Note: *Classificazione secondo l’American Society of Hypertension Position Paper Fonte: Gradman AH et al. J Clin Hypertens 2011; 13: 146-54
di questo approccio. Gli estensori delle Linee guida la supportano con queste considerazioni: y la terapia di combinazione può raggiungere più prontamente e in modo più efficace il target di pressione; y quando sussiste una condizione ad alto rischio, un evento può sopraggiungere in tempi relativamente brevi e ciò richiede un intervento protettivo; y in diversi trial l’effetto protettivo della riduzione dei valori di PA è risultato evidente poco dopo l’inizio del trattamento; y iniziare con una terapia di combinazione può associarsi a un minor grado di discontinuità terapeutica, dal momento che quest’ultima sarebbe legata al senso di frustrazione provato dal paziente di fronte all’incapacità di raggiungere il controllo pressorio; anche il lavoro minuzioso spesso necessario per ricercare la monoterapia più efficace nel singolo soggetto può influire negativamente sulla compliance.
COMBINAZIONI A DOSI FISSE E ADERENZA TERAPEUTICA Una FDC di due principi attivi in una singola compressa può essere impiegata in sostituzione dell’associazione libera dei farmaci corrispondenti una volta messo a punto il dosaggio, oppure in seconda battuta in un paziente che non raggiunge il controllo ottimale con la monoterapia, o come trattamento iniziale in un soggetto nel quale risulta indicata la terapia di associazione. Vari trial clinici e alcune metanalisi hanno dimostrato che l’assunzione di FDC si associa con percentuali più elevate di compliance, di persistenza e di aderenza al regime terapeutico (13-15). Una metanalisi pubblicata su Hypertension (16), condotta su 15 studi per un totale di oltre 32.000 soggetti, ha valutato la compliance, la persistenza, il controllo della PA e la sicurezza legate all’assunzione di FDC, nel confronto con le associazioni
Figura 3
Criteri di scelta tra monoterapia e terapia combinata Scegliere tra Lieve incremento pressorio Rischio CV basso/moderato Obiettivo pressorio convenzionale
Marcato incremento pressorio Rischio CV elevato o molto elevato Obiettivo pressorio più ambizioso
Monoterapia a basso dosaggio
Associazione di 2 farmaci a basso dosaggio Se non si riesce a ottenere l’obiettivo pressorio
Raggiungere il dosaggio pieno
Modifica del farmaco iniziando a basso dosaggio
Raggiungere il dosaggio pieno dell’associazione
Aggiungere un terzo farmaco a basso dosaggio
Se non si riesce a ottenere l’obiettivo pressorio Associare tra loro 2-3 farmaci a dosaggio pieno
Monoterapia a dosaggio pieno
Associare tra loro 2-3 farmaci a dosaggio pieno
Fonte: Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
libere corrispondenti. L’impiego di FDC si accompagnava a un miglioramento significativo della compliance (OR 1,21, p =0,02), a un beneficio tendenziale, ma senza significatività statistica, per la persistenza nella terapia (OR 1,54, p =0,08) e per la riduzione degli effetti collaterali (OR 0,80, p =0,19), e a vantaggi minimi nella riduzione della PAS e della PAD. Gli Autori sottolineano che solo dati ulteriori provenienti da studi omogenei potranno chiarire se l’impiego delle FDC offra benefici potenziali anche nella prevenzione degli outcome legati all’ipertensione (riquadro 2 per i consigli generali sulla compliance).
ASSOCIAZIONI FISSE, VANTAGGI E LIMITI Vantaggi
y La semplificazione dello schema terapeutico: la somministrazione di due (o tre) farmaci antipertensivi può essere ri-
MIGLIORARE LA COMPLIANCE ALLA TERAPIA I consigli delle Linee guida europee 2007 ❱❱ Informare il paziente sui rischi legati all’ipertensione e sui benefici di una terapia efficace. ❱❱ Fornire informazioni chiare e prescrizioni leggibili. ❱❱ Adattare il piano terapeutico alle necessità e al regime di vita del paziente. ❱❱ Semplificare il trattamento, riducendo, per quanto possibile, il numero di assunzioni di farmaci. ❱❱ Coinvolgere il partner o la famiglia informandoli sulla malattia e sulle strategie terapeutiche che si vogliono attuare. ❱❱ Promuovere l’auto-misurazione della pressione domiciliare e favorire strategie di corretta condotta. ❱❱ Riservare attenzione ai possibili effetti collaterali (anche poco appariscenti) modificando di conseguenza lo schema terapeutico. ❱❱ Informare il paziente sull’importanza del controllo pressorio, di un’adeguata compliance terapeutica e sulla possibile comparsa di effetti collaterali. ❱❱ Prevedere una rete di supporto realizzabile ed economica. Fonte: Mancia G et al. J Hypertens 2007; 25: 1105-87
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terapia Associazione a dosi fisse di antipertensivi ritirata dalle farmacie italiane per motivi “finanziari” Da decenni sono in commercio in Italia come in tutto il mondo associazioni a dosi fisse di farmaci di diverse classi con un diuretico. Da qualche tempo la scadenza del brevetto per un noto calcioantagonista (amlodipina), una delle molecole in assoluto più efficace per l’ipertensione, ha reso possibile la realizzazione di nuove associazioni a dosi fisse anche con questa molecola. Tali formulazioni sono in commercio in quasi tutti i Paesi europei, negli USA e in tutti i Paesi sviluppati. In Italia, l’Aifa ha fin dall’inizio opposto molte resistenze ad ammettere al rimborso associazioni di questo tipo, che indubbiamente avevano come effetto di far tornare sotto copertura brevettuale farmaci ormai “off patent”, ma che semplificavano di molto la vita ai medici e ai pazienti, raccogliendo in un’unica pillola 2 o 3 principi attivi, senza esporre chi era in cura a rischi aggiuntivi. Nel 2012 l’azienda Daiichi-Sankyo ha messo in commercio l’associazione olmesartan/amlodipina, farmaci molto utilizzati nell’ipertensione arteriosa, con la possibilità di una triplice terapia che includeva anche il diuretico. Da quando questa terapia è stata ammessa alla rimborsabilità da parte del nostro SSN, oltre 180.000 pazienti con ipertensione arteriosa sono stati posti in trattamento. Agli inizi di quest’anno l’azienda produttrice ha comunicato il ritiro dal commercio del farmaco (Sevikar, il nome commerciale dell’associazione), sottolineando che tale decisione non ha motivi di carattere clinico inerenti la tollerabilità e/o la sicurezza del farmaco, che resta in commercio in tutto il mondo. “Tale decisione – ha spiegato Antonino Reale, managing director in Italia della
segue a pag. 33 ❱❱
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condotta a una sola compressa al giorno. y Ridurre il numero delle pillole e delle assunzioni giornaliere può essere utile soprattutto nei soggetti anziani o con altre patologie (es. diabete, dislipidemia). y Possono aumentare l’aderenza e la persistenza nel trattamento, come riscontrato nel corso di vari studi e metanalisi. y Alcune combinazioni fisse offrono un rapporto costo-efficacia favorevole rispetto alle corrispondenti associazioni di farmaci liberi, consentendo quindi una riduzione dei costi delle terapie. y La maggiore continuità nella terapia facilita il raggiungimento e il mantenimento nel tempo del controllo pressorio. y Ne consegue (per ora è un auspicio, in attesa di evidenze cliniche) che anche le complicanze a lungo termine dell’ipertensione, la morbilità e la mortalità CV, potrebbero beneficiare di un controllo pressorio adeguato. Limiti
y La minore flessibilità: meno libertà di dosaggio dei singoli componenti (anche se esistono preparati con dosaggi diversi per una determinata combinazione) e meno opzioni, dal momento che solo alcune associazioni sono disponibili come FDC. y Non tutte le categorie di pazienti possono ricevere la prescrizione di una FDC. y Possono rendere più difficoltosa la valutazione delle cause di un evento avverso, soprattutto se poco conosciuto. y La mancata assunzione di una compressa pesa di più sullo schema terapeutico: due o tre farmaci non vengono assunti, non uno solo. y La prescrizione di una sola pastiglia potrebbe sminuire la gravità della malattia agli occhi del paziente (secondo il detto anglosassone: more pills = more serious disease). QUANDO SERVE IL TERZO FARMACO Studi su ampia scala hanno evidenziato quanto sia frequente la necessità di ricorrere all’associazione di tre farmaci per raggiungere i valori target di PA.
Citiamo a titolo di esempio il trial SCOPE (Study on Cognition and Prognosis in the Elderly) su circa 5.000 soggetti anziani con ipertensione di 2° livello, il 49 per cento dei quali riceveva ≥ 3 farmaci antipertensivi alla fine dello studio (17); l’ACCOMPLISH, nel quale il 32 per cento su oltre 11.000 pazienti ipertesi ad alto rischio per malattia CV, riceveva a fine studio almeno un terzo agente in aggiunta alla combinazione iniziale di due farmaci (19); lo studio canadese STITCH (Simplified Therapeutic Intervention To Control Hypertension) al termine del quale circa il 30 per cento dei pazienti necessitava di 3 farmaci, pur avendo un’ipertensione non complicata e non severa (20). Le Linee guida europee sottolineano che almeno il 15-20 per cento dei pazienti ipertesi non ottiene il controllo della pressione arteriosa con una combinazione di due farmaci. Quando sono necessari tre agenti, l’associazione che a oggi risulta la più razionale è quella costituita da un bloccante del sistema renina-angiotensina, un calcioantagonista e un diuretico (5).
CONCLUSIONI Nella terapia antipertensiva l’attenzione è oggi rivolta all’identificazione e all’impiego di combinazioni di farmaci razionali ed efficaci, più che alla ricerca dell’agente “migliore”. La maggioranza dei pazienti richiede l’associazione di due o più principi attivi per controllare la pressione arteriosa. La strategia di combinazione a basso dosaggio spesso migliora la tollerabilità e la compliance. Le combinazioni a dosi fisse, riducendo il numero delle pillole e delle assunzioni giornaliere e semplificando lo schema di trattamento, in particolare per i pazienti con patologie multiple, favoriscono l’aderenza e la continuità terapeutica, come riscontrato da diversi studi e metanalisi.
BIBLIOGRAFIA 1) Egan BM, Zhao Y, Axon RN. US trends in prevalence, awareness, treatment
Le Linee guida internazionali sottolineano che, indipendentemente dal farmaco impiegato, la monoterapia permette di ridurre adeguatamente la PA solo in un numero limitato di soggetti ipertesi and control of hypertension, 1988-2008. Jama 2010; 303: 2043-50. 2) Erdine S. How well is hypertension controlled in Europe? European Society of Hypertension scientific newsletter: Update on hypertension management 2007; 8:No 3. 3) Istituto di Ricerca della Società Italiana di Medicina Generale. VI Report Health Search (2009-2010). 4) Mancia G, De Backer G, Dominiczak A et al. for the Task Force for the management of arterial hypertension of the European Society of Hypertension (ESH) and the European Society of Cardiolgy (ESC). 2007 Guidelines for the management of arterial hypertension. Eur Heart J 2007; 28: 1462-1536. 5) Mancia G, Laurent S, Agabiti-Rosei E et al. Reappraisal of european guidelines on hypertension management: a European Society of Hypertension Task Force document. J Hypertens 2009; 27: 2121-58. 6) Chobanian AV, Bakris GL, Black HR et al. Seventh report of the Joint National Committee on prevention, detection, evaluation, and treatment of high blood pressure. Hypertension 2003; 42: 1206-52. 7) Gradman AH, Basile JN, Carter BL, Bakris GL. Combination therapy in hypertension. ASH Position Paper. J Clin Hypertens 2011;13:146-54. 8) Erdine S. Compliance with the treatment of hypertension: the potential of combination therapy. J Cin Hypertens 2010; 12: 40-6.
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❱❱ segue da pag. 24 multinazionale giapponese – si è resa necessaria poiché il Servizio sanitario nazionale intenderebbe rimborsare, di fatto, meno di un quarto del totale delle confezioni prescritte, lasciando quindi l’onere restante delle confezioni in capo all’azienda. Daiichi-Sankyo precisa inoltre che il farmaco sarà ancora pienamente disponibile su tutto il territorio nazionale per almeno 60 giorni. Questa decisione ha stimolato una presa di posizione del prof. Massimo Volpe, presidente della Società italiana dell’ipertensione arteriosa (SIIA), che aveva avuto un ruolo di primo piano negli studi clinici di registrazione della nuova associazione. La SIIA, in forma assolutamente spontanea, lancia “un allarme nei confronti di un episodio che non ha precedenti nella storia del trattamento dell’ipertensione arteriosa e della prevenzione delle malattie cardiovascolari nel nostro Paese, ed esprime profonda preoccupazione per la mancanza di un’adeguata informazione dei pazienti”. Questa vicenda si presta a riflessioni non proprio lusinghiere nei confronti dell’Aifa, le cui decisioni cliniche spesso sembrano improntate a uno scopo di contenimento dei costi che dovrebbe esulare dagli obiettivi di tale istituzione. La vicenda dell’associazione che sta per essere cancellata dal Prontuario farmaceutico italiano, inoltre, sembra porre una pietra tombale sull’ingresso in Italia di qualsiasi altra associazione a dosi fisse di antipertensivi. Viene da chiedersi se si sta chiudendo la porta a quella strategia di semplificare le terapie per migliorare la compliance, che nel caso delle malattie vascolari è tutt’altro che soddisfacente, e che comporta un grave onere in termini di salute e di costi sanitari quando il mancato controllo dell’ipertensione genera eventi acuti quali, infarto miocardico e ictus. Una decisione di risparmio immediato che potrebbe portare in futuro meno opportunità di cura per i pazienti e maggiori costi per il SSN.
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terapia
Il parere degli esperti LO SPECIALISTA CLINICO Giuseppe Mancia direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica dell’Università Milano-Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza
dosi fisse. Lo svantaggio delle combinazioni a dosi fisse, cioè quello di offrire meno flessibilità nella fase di titolazione alle dosi di farmaci efficaci, è oggi parzialmente superato dalla disponibilità di combinazioni fisse a diverso dosaggio dei componenti. ❱❱ MeP. Ritiene che le associazioni a dosi fisse possano offrire qualche vantaggio
❱❱ Medico e Paziente. Il mancato raggiungimento dei target di pressione nella maggior parte dei pazienti ipertesi è un problema da affrontare con urgenza. Ritiene che il ricorso alle combinazioni a dosi fisse possa aiutare in questa sfida? Giuseppe Mancia. Senz’altro perché, semplificando la terapia, le combinazioni a dosi fisse migliorano l’aderenza del paziente alla prescrizione del medico, e con essa il controllo pressorio e l’incidenza di eventi cardiovascolari. Vi sono dati, compresi quelli sui grandi numeri derivati dal data-base amministrativo della Regione Lombardia, che mostrano una relazione stretta fra mancata aderenza alla terapia antipertensiva e rischio di ictus o cardiopatia ischemica. ❱❱ MeP. Quali consigli darebbe al MMG in relazione alla prescrizione di una combinazione a dosi fisse? G.M. Innanzitutto di impiegare più spesso una terapia di combinazione tra 2 o, se necessario, 3 farmaci. La pressione arteriosa è una variabile multiregolata e più sono i meccanismi messi in atto per contrastarne l’elevazione, più è probabile la loro efficacia. Nei grandi trial dai 2/3 ai 3/4 dei pazienti hanno dovuto ricorrere a più di un farmaco per raggiungere un buon controllo pressorio, mentre nella pratica clinica la terapia di combinazione è usata in poco più di 1/3 dei pazienti. Una volta stabilita la necessità di usare due farmaci, allora il medico può considerare una combinazione a
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nell’ottimizzazione della spesa sanitaria per i farmaci? G.M. Credo di sì perché il loro costo è di rado superiore e, in vari casi, addirittura inferiore al costo dei farmaci che le costituiscono, dati singolarmente. Non bisogna mai dimenticare che raggiungere un controllo pressorio adeguato è assai vantaggioso ai fini della spesa sanitaria perché riduce l’incidenza di costosissime complicanze quali infarto, scompenso cardiaco, ictus e insufficienza renale. Certo, per apprezzare questo vantaggio bisogna saper guardare avanti nel tempo. Un minore (o peggiore) uso di farmaci antipertensivi può dare l’illusione di un risparmio immediato a prezzo però di un peggioramento del controllo pressorio i cui effetti nefasti (maggior numero di ospedalizzazioni, eventi patologici, sequele invalidanti, necessità di assistenza cronica ecc.) si possono sentire a distanza di qualche anno. ❱❱ MeP. Nelle nuove Linee guida in preparazione si prevedono alcune modifiche, per esempio nell’approccio ai pazienti ipertesi a rischio più elevato. Può darci qualche anticipazione? G.M. Credo che vi saranno diverse novità, a cominciare da un ripensamento sui valori pressori da raggiungere con la terapia nei pazienti ad alto rischio, alla luce delle evidenze (o mancate evidenze) scientifiche disponibili. La raccomandazione di impiegare più spesso combinazioni di farmaci penso sarà confermata, incluso il loro impiego come primo
gradino terapeutico. Accanto alle considerazioni di buon senso che nei pazienti ad alto rischio un controllo tempestivo della pressione (più facilmente raggiungibile con 2 farmaci) sembra essere desiderabile, vi è il dato che iniziare con 2 farmaci, e quindi raggiungere più rapidamente il successo terapeutico, sembra migliorare le motivazioni del paziente e la sua compliance terapeutica. Le nuove Linee guida europee saranno presentate al Meeting della Società Europea dell’Ipertensione arteriosa che si terrà a Milano dal 14 al 17 giugno 2013.
IL MEDICO DI MEDICINA GENERALE Ovidio Brignoli
vicepresidente della Società Italiana di Medicina Generale
farmaci sicuri, solo al terzo posto viene il problema della difficoltà di assunzione dei farmaci quando sono numerosi. Il compito del medico è anche quello di fornire al paziente schemi posologici scritti che devono essere spiegati dal medico e compresi dal paziente. ❱❱ MeP. Quando sceglie di prescrivere una combinazione a dosi fisse, quali sono i motivi che la guidano? E quali benefici ha riscontrato realmente con il paziente? O.B. L’obiettivo principale è di facilitare e semplificare l’assunzione delle terapie croniche in un soggetto spesso anziano trattato con più farmaci. Non ho riscontrato reali benefici nell’uso delle combinazioni a dosi fisse rispetto alla somministrazione dei singoli farmaci, anzi spesso le dosi fisse possono creare qualche problema. Ho già citato l’esempio dei diuretici nei farmaci per il trattamento dell’ipertensione e la necessità di monitorare i parametri pressori e di laboratorio.
❱❱ Medico e Paziente. Nella sua esperienza, quale ruolo hanno in terapia antipertensiva
❱❱ MeP. Le recenti disposizioni varate dal Governo
le combinazioni a dosi fisse di due principi attivi
stabiliscono per il MMG l’obbligo di indicare
in una singola compressa?
sulla ricetta il principio attivo (con alcune
Ha riscontrato in particolare che determinate
eccezioni). Con riferimento alla prescrizione
combinazioni siano più utili di altre?
della terapia antipertensiva, ritiene che il nuovo
Ovidio Brignoli. Le combinazioni a dose fisse hanno il vantaggio di facilitare la compliance del paziente politrattato riducendo il numero dei farmaci da assumere che spesso supera i 5/6 al giorno. Ci sono associazioni che per la loro natura determinano nel tempo la necessità di monitoraggio attento (penso ai diuretici nelle associazioni con altri farmaci per ridurre la pressione) e altre che invece non hanno bisogno di particolare attenzione come per esempio l’uso di calcioantagonisti associati ai sartani di recente introduzione in commercio. È però essenziale che il medico nella scelta della terapia rispetti alcuni passaggi tenendo conto del soggetto, sempre diverso, che ha di fronte. L’efficacia del farmaco deve essere l’obiettivo primario, il secondo deve essere quello di usare
provvedimento influirà in qualche modo sulle sue scelte, e sull’accettazione e/o sull’aderenza al trattamento da parte del paziente? O.B. I pazienti ipertesi in trattamento continueranno a ricevere la medesima terapia che assumevano prima del decreto Balduzzi. In medicina generale i nuovi casi di ipertensione in un anno si possono contare sulle dita della mano e inoltre questi pazienti possono essere adeguatamente trattati con farmaci equivalenti che sono presenti in tutte le classi comunemente usate per la terapia dell’ipertensione. Credo sia importante ed educativo per il medico e per il paziente usare farmaci che sono efficaci e hanno un costo ridotto rispetto ad altri della stessa classe.
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dermatologia
Prurito cutaneo nell’anziano Cause e consigli di trattamento Medico e Paziente. Nella fascia di età “over 65”, spesso si manifesta prurito cutaneo ricorrente. Quali sono le cause di questo disturbo? Carlo Bertana. È sempre più noto, e non solo ai dermatologi, che il prurito delle persone in età avanzata è per lo più legato alla secchezza cutanea. Noi dermatologi chiamiamo questa condizione xerosi senile quando l’invecchiamento comporta un’evidente e visibile distrofia della cute. A questo livello se si osserva la superficie, o la si percorre con un dito, si può constatare un tessuto ruvido, poco elastico, assottigliato e dal colorito grigiastro. Sempre più persone soffrono di questo inconveniente con diversi gradi di intensità e le ragioni sono varie. Certo non tutti quelli che hanno un determinato grado di secchezza cutanea accusano prurito, ma c’è una buona corrispondenza. La pelle cambia nel corso degli anni e oltre i 65, il cambiamento viene percepito spesso proprio a causa del prurito. La classe di anziani coinvolti è in costante crescita anche per l’aumento dell’età media. MeP. Quali sono le alterazioni anatomiche dell’invecchiamento cutaneo responsabili del prurito? C.B. Lo spessore complessivo diminuisce e la cute si assottiglia, diminuisce la quantità di fibre e soprattutto di acido ialuronico, che ha una grande capacità di legare acqua consentendo quindi una idratazione normale. Diminuisce anche il numero e il trofismo delle ghiandole sebacee che creano quel famoso film
La secchezza cutanea è una delle cause principali di prurito ricorrente in età avanzata, specie negli “over 65”. Abbiamo chiesto al dottor carlo bertana, specialista dermatologo e presidente della sidec (società italiana di dermatologia estetica e correttiva) di inquadrare la problematica e di indicare alcuni consigli di trattamento
idrolipidico che vernicia e protegge la cute sul suo versante esterno. Complessivamente la capacità di mantenere un grado sufficiente di idratazione all’interno dell’organo cute diminuisce, l’acqua attraversa in maniera impercepibile derma ed epidermide evaporando silenziosamente. La cute non è più in grado di trattenere acqua al suo interno. Lo strato corneo e cioè lo strato cutaneo più esterno, si modifica presentandosi come una superficie di vaste squame secche e ruvide che concorrono alla stimolazione pruriginosa anche per l’attrito a contatto con alcuni tessuti, quali la lana o altre fibre sintetiche. MeP. La comparsa del disturbo è legata a una stagione particolare o a condizioni climatiche o ambientali? C.B. Sicuramente la stagione invernale è quella critica: i mesi invernali sono caratterizzati da una processione di anziani verso l’ambulatorio dermatologico a causa di questi disturbi.
Il riscaldamento delle case con ambienti caratterizzati da eccesso di aria secca, la maggiore frequenza dei lavaggi rispetto a qualche decennio fa, magari con saponi troppo aggressivi o con pH non corretto sono fattori che scatenano il sintomo. Anche una maggiore cura del corpo o attenzione nei confronti di disturbi non gravi contribuisce al maggiore afflusso negli ambulatori. Per alcuni pazienti poi, il prurito può assumere entità e frequenza tali da interferire in maniera importante con le attività quotidiane o con il sonno. La secchezza o xerosi senile dipende anche dalle modifiche ormonali proprie dell’invecchiamento. In particolare nella donna, in cui le manifestazioni sono complessivamente più frequenti e più precoci che nell’uomo, ha importanza il decremento degli estrogeni proprio di tutta l’epoca postmenopausale.
a cura della Redazione
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dermatologia Tabella 1
Il decalogo per l’anziano affetto da xerosi con prurito
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Usare detergenti delicati con pH fisiologico
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Utilizzare acqua tiepida per lavarsi
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Dopo il bagno o la doccia, tamponare delicatamente la pelle per asciugarsi, senza strofinarsi
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Utilizzare una crema idratante ed emolliente almeno 1-2 volte al giorno
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Subito dopo il bagno o la doccia, applicare la crema sulla pelle leggermente umida
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Utilizzare la crema su tutte le zone interessate, secondo le seguenti semplici regole: ❙ Erogare un’adeguata quantità di crema sul palmo della mano ❙ Applicare con movimenti circolari leggeri senza esercitare eccessiva pressione ❙ Massaggiare fino al completo assorbimento
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Utilizzare indumenti comodi, preferibilmente in cotone (evitare lana e sintetici)
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Limitare il numero e la durata di bagni e docce
Utilizzare un umidificatore negli ambienti dove si vive Non coprirsi troppo durante la notte e non eccedere nel riscaldamento degli ambienti chiusi in inverno
MeP. Un disturbo di questo tipo potrebbe in qualche caso essere il segnale di patologie importanti? Quali? C.B. Il prurito senza una corrispondente dermatite può essere espressione di varie patologie sistemiche, da quelle di tipo epatico all’insufficienza renale ecc. Prima di concludere che il prurito è espressione di xerosi cutanea il medico deve effettuare un’anamnesi accurata e richiedere, laddove opportuno, analisi generali oltre a valutare ovviamente lo stato cutaneo. Purtroppo, anche se non è molto frequente, il prurito diffuso specie se accompagnato da dimagrimento e sudorazione notturna può essere il primo sintomo di malattie neoplastiche quali i linfomi, evento tristemente portato alla notorietà da Nanni Moretti nel film Caro Diario. Ricordo però, che il prurito è genericamente uno dei motivi più frequenti di ricorso al dermatologo e solo una minima percentuale di casi è di tipo neoplastico. Esistono anche casi di prurito psicogeno
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con lesioni autoescoriate perché questo tipo di pazienti tende al grattamento compulsivo. In alcuni casi, questo è più evidente in aree a particolare valore simbolico quali quelle genitali. Anche vari farmaci sistemici o topici possono avere come effetto collaterale il prurito. Infine anche alcune parassitosi possono avere una responsabilità. MeP. Con quali metodi pratici si può “misurare” la gravità del disturbo per un eventuale intervento terapeutico? C.B. Un gruppo di dermatologi italiani dell’AIDA (Associazione Italiana Dermatologi Ambulatoriali) ha partecipato allo studio clinico Dexeld dedicato al problema; hanno intervistato circa 2.600 pazienti concludendo che il prurito è più presente nelle donne, nelle ore serali o notturne, in autunnoinverno, nelle persone più anziane o che hanno prurito da molto tempo e che si grattano in 4 o più parti del corpo. Nella pratica clinica un buon dialogo nel corso della visita è sufficiente a valutare la gravità del disturbo e il tipo
di trattamento. Avere indicazioni sulla qualità del sonno, sulla capacità di svolgere le normali attività quotidiane e sullo stato di insofferenza o agitazione sono buoni indicatori della gravità della situazione. MeP. Quando occorre una terapia, a quali presidi ricorrere? Per quanto tempo e con quale frequenza? C.B. In tutti i casi di xerosi senile con prurito è opportuno prescrivere terapie di attacco e successivamente di mantenimento che potremmo forse meglio descrivere quali forme di manutenzione della cute, mirate a correggere o compensare la secchezza. Nella fase di attacco si prescrive sempre un emolliente spesso in combinazione con un cortisonico topico e secondo la circostanza antistaminici per os, talvolta con effetto sedativo per consentire al paziente di dormire più facilmente, perché molto spesso il prurito è più forte la sera o la notte. Nel mantenimento è conveniente continuare ad applicare emollienti con regolarità quotidiana; di provata efficacia sono quelli a base di glicerolo. Anche una corretta idratazione complessiva può avere valore e quindi un corretto apporto di liquidi, ma difficilmente la sola assunzione di acqua per os può compensare la perdita cutanea dovuta alla distrofia senile. MeP. È possibile un trattamento preventivo? C.B. Un trattamento preventivo ha le stesse caratteristiche di quello già descritto come mantenimento e cioè una specie di manutenzione quotidiana per correggere la secchezza. Il gruppo di dermatologi che hanno partecipato allo studio clinico Dexeld ha stilato una specie di decalogo (Tabella 1) dedicato al paziente anziano affetto da xerosi con prurito indicando una serie di accorgimenti che possono contribuire all’efficacia del trattamento. Tra i consigli, l’uso di detergenti idonei e non aggressivi, l’umidificazione dell’ambiente domestico, l’adozione di tessuti naturali a contatto della pelle.
FARMACI
xibornolo per il trattamento del mal di gola Un’efficace opzione di terapia locale
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a mucosa rino-oro-faringea rappresenta un linea di difesa importante per le vie respiratorie profonde come anche per l’intero organismo. Essa è continuamente sottoposta all’azione di agenti potenzialmente dannosi, veicolati dall’aria inspirata o dagli alimenti ingeriti, e costituisce il sito di prima replicazione di diversi patogeni, virus e batteri, che possono poi diffondere ad altre parti dell’organismo. Le infezioni delle vie aeree superiori sono molto comuni: accanto alle faringiti, alle tonsilliti e alle faringo-tonsilliti, che sono tra le più frequenti cause di patologia acuta e di ricorso al Medico di medicina generale, compaiono le laringiti e, nel bambino, l’adenoidite acuta (a carico delle tonsille faringee), che può estendersi alle tonsille palatine e può cronicizzare, così come nell’adulto avviene per altre affezioni a carico del tratto respiratorio superiore. Si tratta di condizioni con un significativo impatto sociale ed epidemiologico, per la grande rapidità di diffusione all’interno delle comunità.
Lo xibornolo per un’azione mirata La terapia delle infezioni del cavo oro-faringeo si basa spesso sull’impiego di antibiotici in associazione ad antinfiammatori e antisettici. Nelle fasi iniziali è importante anche l’uso di farmaci efficaci a livello locale che contrastano l’insorgenza e il prolungamento di uno stato infiammatorio che può favorire la diffusione dell’infezione o la comparsa di sovrainfezioni costringendo a terapie antibiotiche prolungate. Un ruolo consolidato da tempo in questo ambito è attribuito a xibornolo, un monoterpene presente nelle piante. Xibornolo ha documentate proprietà batteriostatiche e battericide verso batteri Gram positivi (S. aureus, S. pyogenes o beta-emolitico, S. faecalis e S. pneumoniae) e alcuni Gram negativi, come l’H. influenzae. Si tratta dei microrganismi più frequentemente associati alle infezioni del tratto respiratorio. Xibornolo è efficace anche sugli stafilococchi penicillino-resistenti, perché la sua azione non è contrastata dalla produzione batterica di penicillinasi. Nei confronti dei virus, pur non avendo effetto protettivo se l’agente patogeno è già all’interno della
cellula, xibornolo ha mostrato un effetto virulicida da contatto verso il virus influenzale e il Myxovirus multiformis. Xibornolo ha inoltre un’attività fungistatica nei confronti di Candida albicans, e ne inibisce la crescita. Queste proprietà, insieme alla sua spiccata affinità per la mucosa del tratto respiratorio costituiscono il razionale del suo impiego nelle infezioni delle prime vie respiratorie sia nell’adulto che nel bambino. Diversi studi sono stati condotti nel trattamento delle infezioni delle alte vie respiratorie dell’adulto, dimostrando nel complesso efficacia e un buon profilo di tollerabilità. In pazienti con faringite, tonsillite e faringo-laringite, xibornolo ha mostrato, per 4-6 nebulizzazioni/die efficace azione batteriostatica e sul dolore; nella formulazione in collutorio ha diminuito il dolore e prevenuto episodi di sovrainfezione della loggia tonsillare nel decorso post-operatorio di tonsillectomia. Le caratteristiche di xibornolo sono state abbinate a una sostanza ad azione antidolorifica topica, il clorobutanolo, e sfruttate in una formulazione in sospensione spray per la mucosa orale a dosaggio controllato, il Bornilene. Un aspetto rilevante della formulazione è relativo alle proprietà fisico-chimiche della sospensione spray. Questa ha infatti una spiccata tissotropia, caratteristica che consente una migliore nebulizzazione del prodotto, che può così distribuirsi uniformemente sulla mucosa, e favorisce la mucoadesività: in questo modo aumenta l’assorbimento di xibornolo e l’azione antalgica del clorobutanolo è prolungata. La confezione munita di beccuccio erogatore permette inoltre di indirizzare il getto nebulizzato proprio dove serve. Bornilene è indicato come coadiuvante nel trattamento delle infezioni e degli stati infiammatori della sfera faringea (faringiti, laringiti, rinofaringiti, tonsilliti acute e croniche) causate da germi sensibili allo xibornolo, per l’igiene locale pre- e post-operatoria, e come adiuvante e antisettico nella pratica dentistica. La quantità di sospensione erogata è controllata da una valvola metrica pre-dosata; la dose consigliata è di 4-6 nebulizzazioni faringee al giorno a intervalli regolari. Il farmaco è in fascia C e necessita di prescrizione medica.
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FARMACI
Terapia consolidata nel trattamento del diabete di tipo 2 Metformina da sola o in associazione precostituita nella progressione della patologia
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a ricerca nel campo della terapia del diabete di tipo 2 (DT2) è molto vivace, come dimostrano le numerose nuove opzioni di trattamento che sono state rese disponibili al medico nel corso di questi ultimi anni. In uno scenario così dinamico tuttavia, trovano un ampio spazio di utilizzo farmaci dalla “storia” affermata, tra cui senz’altro la metformina si colloca ai primi posti. Questa molecola infatti, disponibile da molti anni, vanta una consolidata esperienza di utilizzo ed è ancora oggi un farmaco di prima scelta per il trattamento di questa patologia. Un’indicazione quest’ultima che peraltro accomuna tutte le Linee guida delle principali società scientifiche internazionali e italiane. La metformina evidenzia un profilo di efficacia e sicurezza vantaggioso, soprattutto perché in grado di determinare un buon controllo della glicemia, obiettivo prioritario del trattamento antidiabetico, senza però provocare episodi ipoglicemici e aumento ponderale, che rappresentano i punti critici di una terapia finalizzata al controllo glicemico. La sua efficacia nel corso del tempo è stata più volte oggetto di rivalutazione, specie nel confronto con le molecole di nuova generazione. Un’importante revisione sistematica (Bolen et al. Ann Intern Med, 2007; 147: 386) ha valutato l’efficacia comparativa e la sicurezza dei farmaci orali per il trattamento del DT2, riscontrando un profilo migliore per i farmaci meno recenti: metformina e sulfaniluree di seconda generazione hanno mostrato infatti effetti simili o superiori sul controllo glicemico e sugli altri fattori di rischio cardiovascolare (pressione arteriosa, profilo lipidico, peso corporeo). Per metformina, in particolare, è stata evidenziata la capacità di ridurre i livelli di C-LDL (media di 10 mg/dl), di non aumentare il rischio di ipoglicemia e di avere un effetto neutro sul peso corporeo, mentre quasi tutti gli altri agenti comportano un incremento di circa 1-5 kg. Oltre che nel primo livello della terapia farmacologica, metformina è raccomandata anche successivamente, quando il controllo della glicemia in monoterapia non è soddisfacente ed è necessario associare due o più farmaci. Tra i vantaggi della metformina occorre ricordare anche l’espe-
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rienza accumulata negli anni nell’ambito delle controindicazioni. In particolare, tra le condizioni che ne controindicano l’assunzione compaiono l’età avanzata, l’insufficienza renale cronica anche lieve, l’insufficienza cardiaca e l’insufficienza respiratoria. L’analisi degli studi nei quali l’uso di metformina è stato subordinato al rispetto rigoroso delle controindicazioni, tuttavia, non ha evidenziato casi di acidosi.
L’opzione italiana che migliora l’aderenza terapeutica Metfonorm è una metformina interamente prodotta in Italia (Abiogen Pharma) disponibile nei tre dosaggi di 1.000 mg, divisibile, 850 mg e 500 mg. La prossimità della filiera produttiva deve costituire per il medico una garanzia di qualità del prodotto e può rappresentare un criterio di scelta nella prescrizione. Medesime garanzie sono offerte da Gliconorm, un’associazione tra metformina e glibenclamide, sulfanilurea di seconda generazione. Anche questa associazione trova spazio nel trattamento della progressione del diabete. Metformina e sulfaniluree di seconda generazione, grazie a meccanismi d’azione complementari (le sulfaniluree stimolano la secrezione d’insulina), svolgono un’azione sinergica che permette di ridurre le dosi dei singoli farmaci, offrendo una maggiore sicurezza d’impiego e minore incidenza di effetti collaterali. Il vantaggio di un’associazione precostituita si realizza soprattutto in termini di aderenza: la letteratura scientifica e la pratica clinica testimoniano di quanto migliori la compliance del paziente tanto più sia ridotta la frequenza di assunzione giornaliera di una terapia, e come un’unica assunzione al giorno rappresenti la possibilità che, in generale, ottiene la migliore aderenza. A questo aspetto, Gliconorm aggiunge la maneggevolezza, grazie alla divisibilità delle sue compresse che permette di modulare il dosaggio in funzione delle necessità terapeutiche individuali, rendendo più facili le associazioni multiple di antidiabetici orali.
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novartis
Terapia della BPCO: approvato in Europa glicopirronio bromuro
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na patologia che “toglie il fiato” e costringe i pazienti a vivere senza respiro. Questo è il ben noto ritratto della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), che secondo i dati dell’OMS è destinata a diventare la terza causa di decesso a livello mondiale, entro il 2030. Le sfide per il futuro legate alla diagnosi e alla terapia della BPCO sono state al centro di un incontro che si è tenuto a Roma il 4 dicembre 2012, e che è stato promosso e organizzato dall’Academy of health care management and economics, da SDA Bocconi e Novartis. Si conferma ancora per la BPCO una grande difficoltà nella diagnosi precoce: i pazienti non ne riconoscono i sintomi e quando sperimentano le prime difficoltà respiratorie, tendono a ridurre l’attività fisica. Se poi andiamo a vedere il “rapporto” con le terapie, dal database Health Search della SIMG emerge come quasi la metà dei pazienti con diagnosi confer-
mata non segue alcuna terapia. C’è poi da dire, come ha sottolineato all’incontro romano il prof. Mario Cazzola, dell’Università di Roma “Tor Vergata”, che anche quando il paziente riceve una terapia, molto spesso non è quella appropriata. In uno studio del 2012, pubblicato su Respiratory Medicine, è risultato che su oltre 4mila soggetti, il 62 per cento di questi ritiene il trattamento in corso non adatto; in particolare emerge il ricorso ai cortisonici inalatori, anche quando non necessario e cioè nei pazienti con BPCO lieve e moderata, o con BPCO da moderata a molto grave, ma senza frequenti riacutizzazioni. In parte questo è dovuto al fatto che si tratta di una patologia di relativamente recente introduzione (2002), e che spesso viene confusa con l’asma. Le Linee guida GOLD indicano come prima scelta l’impiego di broncodilatatori a lunga durata d’azione nella terapia di fondo, che andrebbero eventualmente associati,
nei pazienti gravi e con frequenti riacutizzazioni, ai cortisonici inalatori o agli inibitori della fosfodiesterasi-4. Tra i broncodilatatori a lunga durata oltre ai beta2agonisti (LABA), vi sono i LAMA, cioè gli antimuscarinici a lunga durata, tra cui la molecola di riferimento è rappresentata oggi dal tiotropio. L’Agenzia europea per i farmaci ha recentemente approvato un nuovo LAMA, il glicopirronio bromuro. Pur essendo in grado di indurre una broncodilatazione di almeno 24 ore come il tiotropio, rispetto a quest’ultimo il nuovo farmaco presenta una maggiore rapidità d’azione che si manifesta entro i primi 5 minuti dall’assunzione. La rapidità d’azione in una patologia come la BPCO è fondamentale, perché il paziente lamenta al mattino, al risveglio, una maggiore costrizione bronchiale con importanti sintomi clinici associati per i quali è necessario avere un sollievo nel minore tempo possibile.
St. Jude Medical
La Denervazione renale si rivela promettente nella terapia dell’ipertensione farmacoresistente
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uove speranze arrivano per le persone affette da ipertensione resistente ai farmaci. Ai primi di febbraio, a Milano sono stati presentati i risultati ottenuti con una tecnica, la denervazione renale, che potrebbero allargare le frontiere nel trattamento di questa particolare forma di ipertensione. La denervazione renale è un intervento innovativo e poco invasivo, e consiste nell’ablazione delle fibre simpatiche che collegano il rene con il sistema nervoso centrale. Si effettua con l’inserimento di un catetere nell’arteria renale e la disattivazione selettiva delle
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terminazioni del nervo simpatico, che influisce sul funzionamento e sulla risposta degli organi implicati nella regolazione della pressione. I dati clinici ottenuti sono incoraggianti, e in Europa sono già stati eseguiti più di 5mila interventi. Di prossima pubblicazione è anche il primo studio italiano sulla denervazione renale applicata all’ipertensione resistente complicata da insufficienza renale, diabete, apnea del sonno: in una popolazione di 24 pazienti, il controllo dell’ipertensione resistente è stato confermato nell’84 per cento dei casi. Inoltre, è stato recente-
mente trattato a Milano il primo caso in assoluto di ipertensione complicata in un paziente con trapianto di rene, con un nuovo sistema messo a punto da St. Jude Medical: EnligHTN si basa su una tecnologia ablativa multi-elettrodo e permette di effettuare 4 ablazioni in intervalli di 90 secondi con un solo posizionamento del catetere. Rispetto alla tecnologia che eroga una singola ablazione, questo sistema presenta alcuni vantaggi tra cui maggiore affidabilità procedurale, riduzione del tempo di trattamento, minor impiego di mezzi di contrasto e di raggi X.
Nathura
novartis
Ranibizumab ottiene la rimborsabilità del SSN per l’edema maculare diabetico
I
pazienti italiani affetti da diminuzione visiva causata da edema maculare diabetico possono avvalersi della terapia con ranibizumab (Lucentis®) che ha recentemente ottenuto la rimborsabilità a carico del Servizio Sanitario Nazionale anche per questa patologia (GU n. 285 del 6 dicembre 2012). Ranibizumab è l’unico anti-VEGF (fattore di crescita vascolare endoteliale) approvato con tre indicazioni: degenerazione maculare neovascolare legata all’età (wet-AMD), diminuzione visiva causata da edema maculare diabetico e da occlusione venosa retinica. Ha inoltre ricevuto recentemente l’estensione del rimborso anche nei pazienti con wet-AMD e acuità visiva <2/10 e/o patologia del secondo occhio. Nell’edema maculare diabetico, ranibizumab ha dimostrato un’efficacia significativamente superiore rispetto alla laser terapia, attuale standard di riferimento. Nello studio RESTORE i pazienti trattati solo con ranibizumab hanno guadagnato a 12 mesi rispetto al basale in media 6,8 lettere, mentre i pazienti trattati con ranibizumab in associazione al laser hanno guadagnato rispetto al basale 6,4 lettere, e quelli del gruppo trattato con il laser solo 0,9 lettere in media. Nell’estensione a tre anni del RESTORE si è osservato che i pazienti trattati con ranibizumab hanno mantenuto l’acuità visiva guadagnata nel primo anno, con una media di 3,7 iniezioni nel secondo anno e 2,7 iniezioni nel terzo anno. Per circa 40 anni, il laser ha rappresentato la terapia di riferimento nell’edema maculare diabetico, in grado di arrestare la progressione della malattia, ma non di rigenerare la retina malata e di migliorare la visione. Ranibizumab rappresenta dunque una svolta, in quanto è la prima terapia in grado di migliorare la visione con marcati vantaggi sia anatomici che funzionali. Ulteriori benefici dell’impiego di ranibizumab derivano dalla possibilità di personalizzare la terapia, adattando il numero di iniezioni intravitreali alle necessità del paziente e massimizzando in questo modo il rapporto beneficio/rischio.
In un unico integratore tre principi naturali che tengono sotto controllo il rischio CV
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e patologie cardiovascolari (CV) rappresentano la causa più importante di invalidità e mortalità tra la popolazione dei Paesi occidentali. Esiste un cluster di fattori di rischio, ben noti, legati all’eziopatogenesi di queste malattie tra i quali rientrano stile di vita, alimentazione, tabagismo, ipertensione, obesità, diabete, ecc. Un’alimentazione corretta, la costante attività fisica e un adeguato stile di vita sono i primi provvedimenti da adottare per prevenire le malattie CV. Tuttavia non sempre è facile adottare comportamenti virtuosi, e per questo un aiuto potrebbe derivare da un nuovo integratore alimentare a base di berberina, tocotrienoli e caffè verde decaffeinato (Trixy®, Nathura) che favorisce il controllo del colesterolo e dei trigliceridi plasmatici. Questi tre particolari componenti agiscono in modo sinergico nell’abbassamento del colesterolo LDL poiché, da un lato, si ha la diminuzione della sintesi di colesterolo, mediata soprattutto dai tocotrienoli; dall’altro, grazie alla berberina, viene aumentata la degradazione di quello circolante. Il caffè verde, inoltre, agisce sia sul metabolismo lipidico, diminuendo la produzione di trigliceridi, che su quello glucidico, modulando la produzione e l’assorbimento intestinale del glucosio. Pertanto l’utilizzo continuativo di Trixy®, in associazione a una terapia nutrizionale adeguata, è in grado di prevenire i fattori di rischio cardiovascolari e della sindrome metabolica.
Chiesi Farmaceutici
La “via italiana” per combattere l’asma
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’approccio terapeutico all’asma allergico si rinnova: i farmaci sono gli stessi, già ampiamente in uso, ma cambia lo schema di terapia. Il regime finora considerato di mantenimento, e che prevede l’impiego di un cortisonico associato a un broncodilatatore, ora diventa anche terapia al bisogno. Questi sono i risultati di uno studio condotto su oltre 1.700 pazienti e coordinato da un gruppo di ricerca italiano (Papi A et al. Lancet Resp Med 2013; 1: 23-31). Lo studio dimostra che l’associazione fissa beclometasone+formoterolo in formulazione spray extrafine può essere somministrata con successo anche ai primi sintomi di una crisi asmatica, evitando il peggioramento di tali sintomi. Con questo approccio è possibile ridurre le riacutizzazioni dell’ordine del 36 per cento e i ricoveri ospedalieri di un terzo. Le riacutizzazioni di asma, soprattutto con l’arrivo della primavera, costituiscono un importante problema sociale e sanitario; l’impatto sulla qualità di vita dei pazienti è significativo. Ma è altrettanto incisivo il riflesso economico: ogni episodio di riacutizzazione ha un costo di circa 1.500 euro, mentre un ricovero della durata di 5 giorni, di 2.000 euro. La “via italiana” per combattere l’asma si rivela quindi un approccio razionale che risponde sia alle esigenze dei pazienti, che alle attuali necessità di contenimento della spesa sanitaria.
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MSD
novartis
Estensione delle indicazioni per etoricoxib
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uone notizie arrivano per i milioni di italiani che soffrono di sintomi dolorosi. Recentemente infatti etoricoxib (Arcoxia®), molecola con provata efficacia antalgica e antinfiammatoria nel trattamento a lungo termine delle più comuni patologie osteoarticolari, ha ricevuto l’indicazione anche per il trattamento a breve termine del dolore associato a chirurgia dentale. A oggi, si tratta dell’unico coxib ad aver ottenuto tale estensione delle indicazioni, diventando quindi un vero alleato contro il dolore cronico e acuto. Quello del dolore, come noto, è un “pianeta” dai grandi numeri. Secondo l’indagine “Pain in Europe”, in Italia sono almeno 15 milioni le persone, il 50 per cento donne, che soffrono per dolori cronicizzati nel tempo (in pratica 1 cittadino su 4, che corrisponde a circa il 27 per cento della popolazione). Un’altra più recente indagine europea “The Painful Truth Survey” inoltre, evidenzia che oltre un terzo delle persone colpite da dolore ha difficoltà a svolgere le normali attività quotidiane. Le conseguenze sono incisive anche sul piano economico e sociale: per 3 pazienti su 10 il reddito cala di circa un terzo, e il 27 per cento degli italiani affetti da dolore lamenta problemi sul posto di lavoro con una media di 12,5 giorni di assenza l’anno. Il dolore necessita dunque di una terapia appropriata, in grado di ridurre l’incidenza di complicanze e l’impatto negativo sulla qualità di vita. Etoricoxib risponde bene a questa esigenza, garantendo un rapido e prolungato sollievo dal dolore, con una singola dose giornaliera.
Nuovo vaccino contro la forma più temibile di meningite
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l 22 gennaio le Autorità europee hanno autorizzato l’immissione in commercio di un nuovo vaccino contro il meningococco B, messo a punto da Novartis e indicato per l’impiego nei bambini a partire dai due mesi di età. L’azienda si è impegnata a rendere il vaccino disponibile nel più breve tempo possibile. La infezione da meningococco B (MenB) rappresenta la causa principale di meningite in Europa, soprattutto nei lattanti. È un’evenienza rara, ma uno dei motivi che la rendono particolarmente temuta è che compare all’improvviso, in soggetti sani, e peggiora con rapidità. Segni e sintomi iniziali sono spesso non diversi da quelli di una banale influenza, e ciò rende difficile la diagnosi nelle sue fasi iniziali. In molti casi, infatti, non si riesce a debellare l’infezione in tempo: circa il 10 per cento di chi contrae la malattia meningococcica muore nonostante un trattamento adeguato; fino a uno su cinque di coloro che sopravvivono soffrirà di disabilità permanenti quali danni cerebrali, perdita dell’udito o degli arti. Pertanto, la prevenzione attraverso la vaccinazione può rappresentare un mezzo molto efficace per contrastare questa forma di meningite. A seguito dell’autorizzazione della Commissione Europea, ogni singolo Paese deciderà autonomamente il regime di classificazione e di rimborso, e determinerà l’eventuale inclusione del vaccino nei programmi di vaccinazione nazionale.
Zambon
Un approccio razionale alle riacutizzazioni di bronchite cronica nei pazienti con BPCO
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e riacutizzazioni di bronchite cronica (AECB) rientrano tra le espressioni cliniche con cui si manifesta la BPCO, e rappresentano la principale causa di visite mediche, ospedalizzazione e morte in questa classe di pazienti. Questi episodi acuti comportano costi sociali enormi: si calcola per esempio che il costo di gestione della BPCO è da ricondurre per l’80 per cento alle riacutizzazioni e al fallimento della terapia delle AECB. In circa la metà dei casi, le AECB sono causate da infezioni batteriche (S. pneu-
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moniae, H. influenzae e M. catarrhalis), che come tali richiedono un’appropriata terapia antibiotica. Nella scelta, un ruolo primario è attribuito alle cefalosporine orali di III generazione; tra queste, possiamo segnalare cefditoren pivoxil (Giasion®) che si contraddistingue per la particolare efficacia bilanciata sia sui germi Gram positivi sia su quelli Gram negativi. Il trattamento con questo farmaco nelle AECB è stato al centro di uno studio di confronto con levofloxacina, condotto dal prof. Francesco Blasi, dell’Università
di Milano, su un gruppo di 40 pazienti. I risultati dimostrano che cefditoren è equivalente alla levofloxacina: 5 giorni di cefalosporina sono equivalenti a 7 giorni di levofloxacina in termini di efficienza e di efficacia clinica, di microbiologia e di eradicazione di batteri. Inoltre, e questo è un dato significativo, sia cefditoren sia levofloxacina sono in grado di ridurre rapidamente, entro la terza giornata, il processo infiammatorio sostenuto dall’infezione. Cefditoren si è inoltre dimostrato ben tollerato.
World Cancer Day 2013
Le quattro “verità” sulla malattia tumore
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a UICC (Union for International Cancer Control) e la IARC (International Agency for Research on Cancer), in occasione del 4 febbraio, Giornata mondiale dedicata a questa malattia, hanno reso noto che ogni anno un milione e mezzo di decessi prematuri potranno essere evitati, se i Paesi aderenti all’OMS s’impegneranno nel raggiungere gli obiettivi del programma “25 per 25”, che è volto a ridurre del 25 per cento entro il 2025 la mortalità per patologie non infettive. Attualmente, ogni anno nel mondo 7,6 milioni muoiono per cancro; di questi, 4 milioni sono considerate morti “premature”, che interessano cioè soggetti tra i 30 e i 69 anni. Se non si sviluppano iniziative per accrescere la consapevolezza su questo problema, e non si mettono in atto iniziative concrete, gli esperti stimano che il numero di morti premature per neoplasia crescerà nei prossimi dodici anni da 4 a 6 milioni. Tanto le cifre allarmanti come gli obiettivi sono stati elaborati dall’OMS sulla base dei numeri reali della mortalità
I falsi miti
Le verità della scienza
Il cancro è soltanto un problema sanitario
Il cancro non è solo un problema di salute; ha un ampio spettro di implicazioni sociali ed economiche che condizionano lo sviluppo e i diritti umani
Il cancro è un problema delle popolazioni benestanti e anziane dei Paesi sviluppati
Il cancro è una “epidemia” globale che interessa tutte le classi di età e i gruppi sociali, di cui i Paesi in via di sviluppo sopportano un fardello sproporzionato
Il cancro è una condanna a morte
Molte forme di tumore che in passato erano considerate una condanna a morte, oggi possono essere guarite, e per sempre più persone la malattia tumore può essere trattata efficacemente
Ammalarsi di cancro è un destino
In base alle conoscenze attuali, con le giuste strategie almeno il 30 per cento dei casi di cancro può essere prevenuto
negli ultimi anni, proiettata nel futuro, tenendo conto dell’invecchiamento della popolazione. In occasione del World Cancer Day 2013 la UICC e la IARC invitano medici, operatori sanitari e istituzioni a diffondere la campagna informativa che ha come slogan principale “Cancro… Lo conosci?”, che si pone l’obiettivo di smantellare quattro falsi
miti a proposito della malattia tumore, e di affermare al loro posto quattro verità (Tabella). Tutte le informazioni e i materiali sulla Campagna informativa del World Cancer Day 2013 si trovano sul sito www.worldcancerday. org. È stata inoltre predisposta una App scaricabile allo https://apps.facebook. com/world_cancer_day.
Il decalogo della vita anti-cancro l Per prevenire una temibile malattia come il cancro non sempre è necessario sottoporsi a esami diagnostici, spesso costosi e invasivi. Adottando uno stile di vita sano si potrebbero prevenire molti decessi prematuri, circa un terzo. Ecco le “dieci regole d’oro” nemiche del tumore, redatte dal World Cancer Research Fund, e pubblicate anche sul sito dell’AIRC (www.airc.it). Il decalogo non comprende la cessazione dell’abitudine al fumo, anche perché i danni sono ben noti e il fumo è il primo nemico da battere. 1. Mantenersi snelli per tutta la vita. 2. Mantenersi fisicamente attivi tutti i giorni: basta una camminata veloce per almeno mezz’ora al giorno. 3. Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed evitare il consumo di bevande zuccherate (cibi altamente calorici sono quelli raffinati, precotti, preconfezionati). 4. Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di origine vegetale, cereali non industrialmente raffinati, legumi e un’ampia varietà di verdure non amidacee e frutta.
5. Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni conservate. Per chi è abituato ad assumere carni rosse (ovine, bovine compreso il vitello, suino), si raccomanda di non superare i 500 g alla settimana. Tra le carni conservate rientrano le carni in scatola, salumi, prosciutti e würstel). 6. Limitare il consumo di bevande alcoliche. 7. Limitare il consumo di sale (la quantità giornaliera non dovrebbe superare i 5 g) e di cibi conservati sotto sale. Evitare cibi contaminati da muffe (in particolare cereali e legumi). 8. Assicurarsi un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali attraverso il cibo: l’alimentazione deve essere varia ed è sconsigliata la supplementazione con integratori alimentari nella prevenzione del cancro. 9. Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi. 10. Analoghe raccomandazioni, seppure derivanti da dati limitati, valgono anche in prevenzione secondaria.
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iniziative
Campagna mondiale STOP TB L’attenzione resta puntata sulle “multi-farmacoresistenze”
LA
Giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi (TB) è l’occasione per mettere a fuoco le necessità economiche, le strategie e gli obiettivi da raggiungere nella lotta globale alla malattia dopo il 2015 (termine del primo biennio della Campagna STOP TB). La scadenza per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio infatti, si avvicina rapidamente e l’OMS in collaborazione con Stop TB, ha avviato il processo di sviluppo di questo programma analizzando i fattori determinanti dell’epidemia di TB a livello mondiale, formulando i possibili nuovi obiettivi, elaborando le prime bozze della nuova strategia e dei traguardi da raggiungere.
l l l I progressi ottenuti non bastano… In questi ultimi anni sono stati compiuti enormi passi avanti nella lotta alla TB. Ne è testimonianza concreta il crollo del 40 per cento nel tasso di mortalità a livello mondiale, a partire dal 1990. In parallelo abbiamo assistito a una riduzione progressiva dell’incidenza. Tuttavia, non basta: secondo l’OMS l’attenzione deve rimanere alta, perché nonostante un significativo progresso la TB rimane un problema planetario, per il quale servono strategie di politica sanitaria efficaci, e soprattutto fondi. Che la situazione non sia sotto controllo è chiaro; basta dare un rapido sguardo ai dati qui riportati:
Lo scorso 24 marzo si è celebrata la Giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi. All’insegna dello slogan “Stop alla tubercolosi durante la mia vita” siamo entrati nel secondo anno della Campagna internazionale STOP TB. Queste fotografie (tratte dal sito www.who.int) testimoniano il concreto impegno nella lotta alla TB
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l Nel 2011 sono stati registrati circa 8,7 milioni di nuovi casi, e 1,4 milioni di persone sono morte a causa della TB; l Oltre il 95 per cento dei decessi interessa i Paesi a basso-medio sviluppo. I gruppi più vulnerabili restano le comunità povere, ma è bene ricordare che “nessuno è immune”; l La TB è la terza causa di decesso nelle donne di età compresa tra 15 e 44 anni. l Nel 2011, le stime indicano che nei bambini si sono verificati 0,5 milioni di casi e 64mila decessi; l Il numero di persone con coinfezione TB-HIV che riceve la terapia antiretrovirale è ancora lontano dal target
l l l Le forme MDR-TB: un problema aperto L’OMS sottolinea un lento progresso nell’approccio alle forme di TB multifarmacoresistenti (MDR). Alla fine del 2011 i malati entrati in terapia erano 60.000. Purtroppo si tratta solo di un quinto dei pazienti potenzialmente affetti da questa forma di TB. In pratica, l’80 per cento dei pazienti con MDRTB non riceve alcun trattamento; delle persone che ricevono la terapia (circa il 20 per cento), solo la metà viene curata in modo adeguato. Il mondo dunque non sembra essere riuscito a contenere la diffusione della MDR-TB, e questo è il monito lanciato recentemente in un incontro a Ginevra (14 febbraio) da parte dell’OMS e del Fondo mondiale di lotta all’AIDS, alla malaria e alla tubercolosi, gli organismi internazionali impegnati sul campo. Il gruppo di 31 esperti, che si sono riuniti a Ginevra, sottolinea che se i fondi necessari non saranno reperiti in tempi rapidi, il mondo rischia di annullare gli importanti progressi compiuti finora. La diffusione della MDR-TB è la conseguenza di trattamenti errati, e dell’incapacità da parte di molti Paesi di fare una diagnosi precoce di questi casi e di trattarli in modo adeguato. Secondo gli esperti, sui circa nove milioni di nuovi casi di tubercolosi, mezzo milione è farmacoresistente. E questi casi sono localizzati per i due terzi in alcuni grandi Paesi come India, Cina, Russia, Filippine, Pakistan e Sudafrica. Va segnalato, anche per la vicinanza geografica con l’Europa, il fatto che la più alta quota al mondo di soggetti affetti da MDR-TB si trova nel blocco dell’ex Unione Sovietica, dove addirittura un caso su tre può essere multifarmacoresistente. Nell’incontro di Ginevra è stato lanciato un appello a tutta la comunità
FIGURA 1. Aumento
previsto dei pazienti MRD-TB che entrerebbero in terapia nel biennio 2014-2016, se fosse garantita la copertura economica
100
Migliaia di pazienti
fissato dall’OMS. Per essere in linea con gli obiettivi, il numero di persone dovrebbe essere almeno il doppio. l Le regioni africana ed europea sono ben al di sotto dell’obiettivo di ridurre i decessi del 50 per cento, entro il 2015.
80 60 40 20 0
2011 Pazienti notificati e trattati
2014
internazionale per la raccolta di fondi. Nel biennio 2014-2016 è prevista una necessità annuale dell’ordine dei 4,8 miliardi di dollari: di questi, però, 3,2 miliardi sono fondi che, secondo gli esperti, i governi dei Paesi più colpiti continueranno a mettere a disposizione. Rimarrebbe un “buco” di 1,6 miliardi di dollari a carico della comunità internazionale. Se fosse garantita l’intera copertura finanziaria, entro il 2016 oltre il 90 per cento dei pazienti con MDR-TB potrà essere diagnosticato e sottoposto a terapia (Figura 1: i dati presentati si riferiscono a India, Indonesia, Kazakhstan, Pakistan, Filippine, Ucraina e Sudafrica ).
l l l Pensando al futuro A Ginevra gli esperti hanno stabilito gli obiettivi post-2015, condividendo la linea “ zero morti, zero malati e zero sofferenti di TB”. C’è stato un ampio accordo su una serie di traguardi intermedi da raggiungere entro il 2025 o in anni successivi (a seconda di quelle che saranno le scelte dell’ONU per i prossimi obiettivi globali), che sono destinati ad accelerare il processo per raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione della TB, quale problema di salute pubblica globale. Ecco una sintesi di questo incontro (il documento è consultabile sul sito dell’OMS). In primo luogo è stata stabilita una riduzione del tasso di mortalità per
2015
2016
Fonte: World Health Organization 2013
TB del 75 per cento rispetto al 2015, il che significherebbe una contrazione di morti per TB, da 1,2 milioni, previsti nel 2015, a 300.000 nel 2025. Altro obiettivo da perseguire è la riduzione del tasso d’incidenza della TB del 40 per cento rispetto al 2015. Un traguardo di primaria importanza è quello relativo alla copertura sanitaria globale, che tra l’altro potrebbe diventare parte integrante di una più ampia agenda di sviluppo del post-2015. Vi è ampio consenso sul traguardo “zero spese insostenibili” per le famiglie colpite da TB entro il 2025: questo in pratica significa garantire la copertura sanitaria completa e tale da evitare la povertà indotta dalla malattia. Il raggiungimento anche parziale di questi ambiziosi traguardi richiede un investimento economico non indifferente. Un peso economico predominante, dell’ordine dei 2 miliardi di dollari/ anno, è attirbuito alla ricerca e allo sviluppo. Servono investimenti superiori rispetto a quelli finora considerati (nel 2011, l’investimento destinato a questo settore era di 0,6 miliardi di dollari) soprattutto per lo sviluppo di nuovi strumenti di diagnosi e terapia, e per la successiva, tempestiva diffusione nelle aree più colpite. Obiettivi ancora più audaci andrebbero fissati per il 2030 e il 2040, ma l’auspicio è di arrivare a “fermare la tubercolosi nella mia vita” entro il 2025!
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notizie dal web Nei pazienti affetti da HIV, la carenza di vitamina D si associa con un aumento dei parametri dell’infiammazione www.vitaminad.it Sempre più dati evidenziano come l’ipovitaminosi D sia di frequente riscontro nei soggetti con infezione da HIV, in terapia antiretrovirale. Tale stato carenziale sembra chiamato in causa in diverse condizioni cliniche non solo a carico delle ossa (osteomalacia, riassorbimento osseo, aumentato rischio di cadute e di fratture). Bassi livelli di vitamina D infatti possono correlare con un aumento delle infezioni e della mortalità. Inoltre, è stato osservato che i marker dell’infiammazione si associano in modo significativo con la morbidità nei pazienti in terapia antiretrovirale e che l’infiammazione residua possa essere correlabile all’ipovitaminosi D. Il presente studio (Ansemant T et al. BMC Infect Dis 2013) è stato disegnato per valutare l’associazione fra livelli di vitamina D3, infiammazione e catabolismo osseo. Il dosaggio della 25(OH)D3 è stato eseguito in 263 pazienti, in cui è stata effettuata anche la misurazione di marcatori immunologici, infiammatori, endocrini e del turnover osseo. Il 36 per cento dei pazienti presentava valori di 25(OH) D3 inferiori a 10 ng/ml (ipovitaminosi severa). Una significativa e positiva correlazione è stata riscontrata tra l’ipovitaminosi D severa e livelli di interleuchina-6 (p =0,002), della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (p =0,12), aumento dei valori del Ctelopeptide X (p =0,05) e dell’ormone paratiroideo (p<0,0001). Gli Autori sottolineano come l’ipovitaminosi D severa sia una condizione frequente nei pazienti con HIV, dimostrando per la prima volta un suo ruolo sull’infiammazione. Inoltre, stati carenziali della stessa vitamina sono risultati associati ad aumentato catabolismo osseo e rischio di cadute. Lo studio fornisce indicazioni sull’importanza di effettuare dosaggi regolari della vitamina D, di analizzare i determinanti dell’infiammazione residua in corso di terapia antiretrovirale e di valutare un’eventuale supplementazione vitaminica D, laddove necessario.
Un Libro Bianco sul corretto utilizzo degli integratori alimentari www.integratoriebenessere.it www.federfarmamilano.it L’AIIPA (Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari) e Federfarma Milano hanno presentato lo scorso 18 marzo un Libro Bianco sugli integratori alimentari. L’intento è quello di promuovere e diffondere una corretta conoscenza sugli integratori alimentari e sul loro appropriato utilizzo. Gli integratori alimentari infatti sono sempre più diffusi tra le abitudini alimentari degli italiani, accreditandosi, in questi ultimi anni, come uno tra i segmenti di mercato più in crescita, ma anche e soprattutto in costante evoluzione. La stesura del Libro è stata affidata a un Comitato scientifico formato da alcuni tra i più autorevoli specialisti italiani: Anna Arnoldi (Università degli Studi di Milano), Fabio Fiorenzuoli (AOU Careggi), Vitalia Murgia (Università di Padova), Anna Paonessa (Gruppo “Integratori Alimentari e prodotti salutistici” dell’AIIPA), Giovanni Scapagnini (Università del Molise), Paolo Vintani (Federfarma Milano). Il Libro bianco approfondisce il quadro normativo delineato dalla direttiva europea 2002/46/CE e dal suo recepimento in Italia (DGL 169/2004), il tema della pubblicità e della corretta informazione, con un focus sulle indicazioni sulla salute previste dal Regolamento 1924/2006. Il Libro Bianco dunque si pone come uno strumento utile al cittadino affinché possa effettuare una scelta consapevole.
Aprile è il mese della salute delle ossa www.ondaosservatorio.it L’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (O.N.Da) ha presentato a Milano lo scorso 12 marzo, una nuova iniziativa, dedicata alla prevenzione dell’osteoporosi. Il “mese per la salute delle ossa”, questo è il nome del progetto, si svolge per tutto il mese di aprile e coinvolge gli ospedali del network Bollini Rosa. L’iniziativa vuole sensibilizzare la popolazione ancora una volta sull’importanza della prevenzione e dell’adozione di stili di vita corretti. Un’alimentazione sana e una regolare attività fisica sono gli elementi fondamentali per mantenere le ossa in buona salute fin da giovani ed evitare l’osteoporosi, malattia tipicamente femminile che colpisce in Italia il 25 per cento delle donne con età superiore ai 40 anni e che può progredire silenziosa per anni. Ad aprile 109 ospedali Bollini Rosa sono a disposizione delle donne italiane, offrendo servizi informativi, clinici e diagnostici per aiutarle a controllare lo stato di salute delle loro ossa. Per scoprire le strutture aderenti all’iniziativa dal 1 marzo è disponibile una pagina dedicata sul sito www.mesesaluteossa.it. È inoltre possibile telefonare al numero verde 800 58 86 86 o scrivere una e-mail: prevenzione@bollinirosa.it.
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